Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.
(Gen 3,9-15.20)
Genesi 3:9 Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?».
Genesi 3:10 Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
Genesi 3:11 Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».
Genesi 3:12 Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato».
Genesi 3:13 Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Genesi 3:14 Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Genesi 3:15 Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
Genesi 3:20 L'uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi.
«Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: Dove sei?». La voce di Dio oramai passa attraverso un cuore indurito dal peccato, che l'accoglie nel timore. Chi ha rinnegato l'Amore non crede più nell'Amore e ha bisogno di crearsi una difesa, una barriera. E questa barriera è in una coscienza che, apertasi alla conoscenza del bene e del male, filtra attraverso di essa la Parola di Dio. Adamo non accetta un confronto con Dio nella nudità che gli viene dal peccato, a viso aperto e a carte scoperte. Risponde a una certa distanza e, soprattutto, tenendosi ben nascosto in mezzo all'albero della conoscenza del bene e del male.
Bastano poche foglie per celare la propria nudità al proprio simile, ci vuole ben altro per nascondere la propria miseria all'Autore della vita! E perché questo, se non perché teme di essere punito da Dio? Non coglie più l'Amore del Signore. Non c'è ancora il giudizio e la condanna, ma soltanto lo sguardo amoroso di un Padre che ha perso di vista i suoi figli e li chiama a voce alta, per vedere dove sono, se hanno bisogno del suo aiuto. Non chiede loro, in tono minaccioso, che cosa hanno fatto, ma semplicemente dove sono andati a finire.
Ma ormai il cuore di Adamo è lontano dal Signore, non ne ode più distintamente la Parola, ma soltanto la voce, e la sente minacciosa. Risponde a Dio, ma dal suo nascondiglio, non come chi è cercato, ma come chi è ricercato. Si difende prima ancora di essere incolpato.
«Rispose: Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Prima del peccato sentiva la Parola di Dio e non ne aveva paura, era nudo e non si nascondeva. Ora tutto è cambiato: non avverte più l'Amore di Dio e non accetta più la sua realtà di essere nudo, cioè creato dal nulla e rivestito da Dio. Il Signore vorrebbe fargli riconoscere la sua colpa e fargli confessare la propria disobbedienza, per prendersi cura di lui.
Non è stato Dio a far pesare ad Adamo la sua nudità: è stata la sua disobbedienza che gli ha reso insopportabile il proprio essere creato dal nulla e lo ha spinto a nascondersi, nell'illusione di potersi rivestire di un abito proprio, acquistando la conoscenza del bene e del male.
«Rispose l'uomo: La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Adamo, non solo scarica tutta la colpa su Eva, ma, addirittura, rinfaccia a Dio il dono più bello. Adamo non si ravvede e non si pente, ma accusa il Signore di essere responsabile del suo male. Presso Dio le azioni sono sempre della persona. La responsabilità è sempre personale. La tentazione non ci libera dalla nostra personale responsabilità. Nel peccato si è però ciechi anche in ordine alla nostra personale responsabilità e la si vuole far ricadere tutta sugli altri.
«Il Signore Dio disse alla donna: Che hai fatto? Rispose la donna: Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Poteva esserci un atteggiamento diverso in colei che formava con Adamo una sola carne? È questa la differenza tra il peccatore e il santo. Il peccatore scusa sempre i suoi peccati. Allontana sempre da sé ogni responsabilità. Il santo invece sa assumersi la responsabilità anche del più piccolo peccato veniale. Per il santo la colpa di ciò che avviene è sempre sua, mai degli altri.
Chi ha costretto Eva ad ascoltare la voce del serpente? Manca solo che Eva accusi Dio di aver creato il serpente. In questo tragico gioco di Adamo ed Eva che fanno a gara non nel riconoscere la propria colpa, ma nello scaricare la propria colpa, il serpente è l'anello finale, che impedisce all'uomo di rompere il legame con il peccato. Non ci potrà essere riscatto per Adamo, se prima non verrà distrutto il potere che ha il satana di tenere legati a sé tutti gli uomini.
Infatti, Dio non maledice l'uomo, ma chi è padre di ogni peccato (v. 14). Colui che ha innalzato il suo capo di ribelle e di rinnegato per sedurre l'uomo, d'ora in poi striscerà sul suo ventre; colui che ha voluto divorare le creature della terra, d'ora in poi divorerà la terra calpestata dalle sue creature. Ma con la condanna del satana è già l'annuncio della salvezza per l'uomo.
«Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». Sarà spezzato il peccato che lega l’accusatore alla donna, ci sarà inimicizia tra i figli del Diavolo e i figli di Eva. E tutto ciò non in virtù della donna, ma in virtù di una donna, non in virtù dei figli, ma di un Figlio. Secondo il contesto grammaticale immediato ci si riferisce ad Eva, ma il contesto logico e profetico l'impediscono. Infatti, qui si tratta di una inimicizia che culmina con lo schiacciamento del serpente, cioè del satàn e di tutte le potenze del male. E questo non si può dire di Eva, la quale non solo è soggetta alla controparte per ragione del suo peccato, ma è soggetta al suo stesso marito. La profezia si stacca da tutto il contesto immediato, e perciò indica un'altra donna, che è ben nota nella mente di Dio. Qui tutto è rivolto al futuro. Ci si riferisce alla madre di Gesù. L'umanità, la stirpe (il seme) della donna vincerà l'avversario attraverso un suo rappresentante individuale: il Redentore, cioè il “seme” di lei - di Maria - che è il Cristo.
L’atto di “schiacciare la testa” è attribuito, nel testo ebraico, alla stirpe o seme della donna (“hu” = “esso); nella traduzione greca dei “Settanta” viene attribuito a una singola persona (“autòs” = “egli”); e nella versione latina della “Volgata”, alla donna (“ipsa”= “ella”). Pertanto, su queste sfumature, è stato letto il testo ebraico come uno scontro tra il seme del serpente e quel discendente perfetto della donna che sarà il Messia. Costui saprà schiacciare per sempre la testa del male.
Nella ‘lettura cristiana’, poi, si è pensato, che a “schiacciare” la testa del serpente, e della sua discendenza malvagia, sia la “Donna” per eccellenza, cioè la Madre del Messia e quindi la Vergine Maria, Madre di Gesù Cristo.
Come il peccato ha avuto inizio da una donna, così la salvezza avrà il suo inizio con una donna. Colui che ha fatto perdere la testa ad Eva, perderà la sua testa schiacciata dal Figlio di una donna, Maria Santissima. Potrà solo tendere insidie al suo calcagno, ma non al suo cuore a alla sua volontà: potrà intralciare il cammino della salvezza, ma non prevaricare su di esso.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(1 Ts 3,12 - 4,2)
1Tessalonicesi 3:12 Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell'amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi,
1Tessalonicesi 3:13 per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.
«Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell'amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi».
Paolo rivolge una richiesta al Kyrios, parola che si riferisce a Gesù. Il contenuto della preghiera riguarda la crescita piena e abbondante dell’amore sia nei rapporti reciproci all’interno della comunità, e sia al di fuori nei confronti di tutti; solo un amore 'a tutto campo' permette di andare serenamente incontro al Signore. Paolo non prega per un amore appena sufficiente, ma per un amore abbondante, perché poco amore non è ancora amore.
In questa preghiera, in realtà assai semplice, sono contenute diverse verità. Il Signore deve far sì che i tessalonicesi crescano nell’amore. L’amore non è una realtà statica, è dinamica. È come un albero che inizia la sua vita come un piccolissimo fuscello d’erba e poi diviene una pianta alta, robusta, che estende i suoi rami in ogni direzione. Paolo vuole per i tessalonicesi che il loro amore cresca, che non resti piccolo, rachitico, insignificante, quasi invisibile.
Ogni cristiano ha il dovere di crescere nell'amore, perché questa è la sua vocazione. La crescita poi deve essere visibile, non solo presso il Signore, ma anche presso gli uomini. Man mano che l’amore cresce, crescono anche i frutti. Paolo vuole che non ci siano tempi morti nell’amore, sia quanto alla crescita, sia quanto alla fruttificazione. Anche questo è un impegno che il cristiano si deve assumere. Mai si deve stancare nel produrre frutti di amore. Solo così sarà credibile nel suo essere cristiano. Crescere e abbondare nell’amore è il segno distintivo del cristiano. Senza questo segno nessuno crederà nella sua testimonianza.
Altra caratteristica dell’amore cristiano è questa: esso è rivolto verso tutti. L’amore, il cristiano, lo dona non solo a quelli che credono, ma anche a quelli che non credono. Nell’amore non fa distinzione. Tutti sono oggetto del suo amore, perché tutti sono oggetto della salvezza da parte di Dio.
Infine, ed è l’ultima verità contenuta in questa preghiera, Paolo mette davanti ai tessalonicesi il suo proprio amore. Quello loro deve essere come il suo. Come lui ama i tessalonicesi, così loro devono amarsi e devono amare. Il suo è un amore di verità, di giustizia, di affetto, di devozione, di sofferenza, di volontà di salvezza, di dono del vangelo, di pazienza, di misericordia, di sopportazione, e di ogni altra virtù.
«Per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi».
La richiesta riguarda il rafforzamento dei credenti nella loro sfera personale e profonda: «per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità». Irreprensibile significa essere integro, è l’integrità richiesta per «stare davanti a Dio Padre nostro». L’amore salda il nostro cuore con quello di Cristo e lo fa essere un solo cuore. Più si cresce e si abbonda nell’amore, più il cuore di Cristo e il nostro diventano un solo cuore. Ma se si diventa un solo cuore con Cristo, si diventa anche una sola missione, un solo sacrificio, una sola adorazione e glorificazione del Padre. Paolo vede nell’amore la via della santità e della perseveranza. Chi vuole progredire, chi non vuole retrocedere dalla fede in Cristo, deve crescere e abbondare nell’amore, deve fare della sua vita un sacrificio di amore, una oblazione pura e santa per il nostro Dio e Padre.
Chi non ama, cade, si perde, non ha forza, perché il nutrimento della fede è l’amore, come anche della verità, della giustizia, della santità, di ogni altra virtù. Chi ama veramente nutre il suo spirito. Il suo spirito alimentato dall’amore diventa robusto, forte, irreprensibile, invincibile. Nessuno potrà mai vincere un cuore che ama, perché l’amore sarà in lui l’elemento che dona ogni fortezza alla sua volontà perché perseveri sino alla fine.
«Al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi». Qui abbiamo un orientamento escatologico. La venuta del Signore Gesù dobbiamo sempre averla all’orizzonte. «Con tutti i suoi santi» è una frase presa dal profeta Zaccaria (Zc 14,5): «Verrà allora il Signore mio Dio e con lui tutti i suoi santi». Nel testo di Zaccaria, i santi – in ebraico qedoshim – possono essere sia gli angeli che assistono il Signore, oppure i giusti risuscitati. Paolo, quando usa la parola santi nelle sue lettere – hagioi – al plurale, indica i cristiani.
Ci sembra dunque probabile che Paolo intenda parlare degli uni e degli altri, perché gli uni e gli altri formeranno la corte del Giudice divino, e anche i santi giudicheranno il mondo. In altre parole, i cristiani vivono nell’attesa del Signore Gesù, che viene non solo con i suoi angeli, ma anche circondato da tutti i giusti risorti che sono associati alla sua gloria. L'augurio dell'apostolo è che i tessalonicesi siano sempre santi, in modo da poter un giorno dividere con gli altri santi la gloria di accompagnare il Giudice supremo nel giudizio che verrà a pronunciare sul mondo.
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Ap 1,5-8
Apocalisse 1:5 e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue,
Gesù Cristo è presentato con tre titoli che ne evidenziano il suo ruolo salvifico: il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra. Questi tre titoli che gli sono attribuiti, prendono in considerazione i momenti principali della sua vita: la passione (il testimone fedele); la risurrezione (il primogenito dei morti); la glorificazione (principe dei re della terra).
Gesù Cristo è innanzitutto «il testimone fedele» perché ha portato a compimento la missione che gli era stata affidata nella storia degli uomini, condividendo la condizione umana. Egli è il testimone fedele perché ha sostenuto la sua testimonianza fino alla morte. È il testimone fedele della volontà del Padre. È il testimone fedele perché ha compiuto pienamente, in ogni cosa, sempre, le parole e le opere del Padre. È talmente fedele al Padre, che è lo stesso Padre che opera e parla per mezzo di Lui.
Parla Lui ed è come se parlasse il Padre. Opera Lui ed è come se operasse il Padre. Chi vuole conoscere veramente il Padre, lo può solo per mezzo di Gesù Cristo. Nessun altro uomo al mondo potrà dirsi testimone vero di Dio. La suprema testimonianza al Padre, Gesù la rese dinanzi a Ponzio Pilato: testimonianza ufficiale, formale, in un tribunale, durante un interrogatorio, al prezzo della sua stessa vita. Dalla fine del primo secolo verrà denominato "martire" [in greco "testimone" è "màrtys"] il cristiano che si lascia uccidere per non tradire la propria fede in Gesù.
«Il primogenito dei morti». Gesù Cristo è il primogenito dei morti in quanto ha condiviso la sorte mortale degli uomini e ha dato origine alla nuova generazione dei viventi, poiché ha trionfato sulla morte ed è risorto alla vita eterna con il corpo trasfigurato. Egli è anche il primogenito dei morti perché tutti risusciteremo in Lui e per Lui. Egli è il primogenito dei morti perché sarà Lui a chiamarci dal sepolcro e a rivestirci della sua risurrezione. Egli è primogenito dei morti perché ci ha preceduti nella gloria del Padre e ci attende perché dove è Lui siamo anche noi.
«E il principe dei re della terra», cioè sovrano dominatore di tutte le potenze che continuano ad operare nel mondo e nella storia. Con queste parole viene proclamata la regalità universale di Gesù Cristo. Lui non è re e principe in quanto Dio. In quanto Dio è Creatore e Signore di ogni uomo, ogni cosa è stata fatta per mezzo di Lui, ogni cosa è sua. Gesù è il principe dei re della terra, perché nella sua umanità è stato costituito giudice dei vivi e dei morti.
Essendo Lui il Sovrano dei sovrani e il Re di tutti i re, ogni governante un giorno dovrà presentarsi al suo cospetto per rendere ragione di come ha amministrato la giustizia. Ma anche oggi, nel tempo della storia, egli vigila attentamente. Modi e forme di questa vigilanza di Gesù Cristo sono avvolti dal mistero. Solo quando i veli della storia saranno passati e si aprirà il sipario dell'eternità, vedremo ogni azione di Dio e di Cristo a favore della nostra salvezza e della redenzione dell'umanità. Ora però è il tempo della fede e dobbiamo credere che Gesù è il Principe dei re della terra, è il Signore di ogni altro signore, è il Sovrano di ogni altro sovrano.
L'Apocalisse parla della maestà di Gesù glorificato e del suo potere universale non solo per esprimere una realtà di fede, ma anche per trasmettere alla chiesa perseguitata che Cristo è il Re di tutti i re della terra: per questo la chiesa deve rimanere fiduciosa durante le persecuzioni e perseverante nella lode. A Lui sempre dobbiamo rivolgerci perché porti la consolazione del suo amore e della sua grazia contro ogni tirannia e abuso di potere che tanto male arrecano agli uomini.
Chi è ancora Gesù? È «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue». Questa è una dossologia [dal greco doxologia = gloria, esaltazione; è una formula liturgica per glorificare Dio, o Cristo, o la SS. Trinità]. Con queste parole viene annunciato tutto il mistero dell'amore di Cristo per l'uomo. Gesù è definito "Colui che ci ama": in greco "tō agapōnti hēmas". Il verbo "agapaō" significa "aver caro" qualcuno; da qui la parola "carità" (agàpē). L'amore di Gesù per l'uomo è a prezzo del suo sangue. Il suo amore per noi è liberazione dai nostri peccati operata sulla croce, a prezzo di una morte atroce.
Il suo sangue è il prezzo della remissione dei nostri peccati. L'immagine richiama l'agnello il cui sangue steso sugli stipiti delle porte salvò gli ebrei. Dio salva oggi la sua chiesa così come aveva salvato gli ebrei dalla schiavitù: con il sangue dell'agnello. Gesù viene così riportato dall'Apocalisse al Patto del Sinai, al primo gesto di salvezza operato da Dio (la liberazione dalla schiavitù d'Egitto), ma che oggi libera dalla schiavitù del peccato. L'espressione «Colui che ci ama» è al presente. Il tempo presente indica che l'amore di Cristo è perpetuo; è una corrente continua di grande amore che intercorre tra lui e noi. L'Apocalisse è anche il libro che insegna ai discepoli di Gesù questo amore.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Sal 15 (16)
«Miktam. Di Davide. Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio». Miktām è una parola discussa. Deriva da “katam” (incidere, intagliare). La parola indica qualcosa che è stato scolpito e quindi una scrittura permanente, scolpita per la sua importanza. La Bibbia dei LXX traduce “stēlographia”, una scrittura incisa; stēlē era la parola per pietra tombale (per l’iscrizione scolpita su di essa). Perciò “miktām” indica che questo tipo di Salmi sono collegati con la morte, ma vanno verso la speranza della risurrezione. Questo è particolarmente vero del Salmo 15; comunque quello che d’importante è “scolpito” in questi Salmi, va ricavato dalla lettura del Salmo stesso. Il riferimento è al Figlio di Davide; e specialmente alla sua morte e risurrezione; questa è la verità “scolpita” in questo Salmo miktām.
È un salmo di fiducia, la preghiera in cui un giusto esprime la propria fiducia nel Signore. A Dio si chiede protezione. In Dio ci si vuole rifugiare: Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio. Il giusto si rifugia in Dio, e gli chiede protezione.
Notiamo il duplice movimento: a) da una parte Dio protegge il fedele (movimento discendente); b) dall'altra, il fedele si affida totalmente a Dio (movimento ascendente). Questo salmo, potremmo quasi dire, ci descrive il concetto dei Sacramenti: il punto di incontro tra la grazia di Dio che scende (quindi il Signore che opera) e l'uomo che attinge alla grazia e rende culto al Signore.
Il v. 2 è una bellissima professione di fede: “Sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene”. Ecco la fede del giusto, del timorato di Dio. Dio è il Suo Signore. Nessun altro è il suo Signore. Se Dio è il suo Signore, vuol dire che lui camminerà sempre secondo la volontà del suo Dio e Signore. ‘Senza di te non ho alcun bene’. Dio che ci ha dato la vita non è solo la fonte dalla quale proviene il bene, ma è "il bene". Questa è vera professione di fede, non è solo una fede pensata, ma testimoniata anche alla comunità, è una professione pubblica. D’altronde la fede deve essere pubblica, dovrà sempre essere proclamata dinanzi a tutti, sempre.
“Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore” (v. 3). I "santi" e i "nobili" sono le persone con cui si accompagna il giusto. Egli riconosce il valore che si trova nella comunione con i santi, con coloro che Dio ha messo a parte, e in cui si riflette la Sua santità. La nuova traduzione CEI (quella del 2008), traduce: “agli idoli del paese, agli dèi potenti andava tutto il mio favore”, rendendo del tutto incomprensibile il testo che già in ebraico è difficile. È difficile comprendere come l'ebraico “qeḏôšîm” possa essere tradotto “idoli” invece che “santi”. La traduzione dei LXX e della Volgata avevano fatto una scelta ben chiara, ed è quella emersa nella traduzione del 1974: “Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore”.
Nel v. 4 la professione di fede è fatta al contrario. Il pio adoratore si impegna a non favorire il culto idolatrico. “Io non spanderò le loro libazioni di sangue”. Una delle caratteristiche dell'idolatria era la "libazione di sangue", che poteva riferirsi anche al sacrificio umano, soprattutto di bambini. “Né pronuncerò con le mie labbra i loro nomi”. La distanza deve essere netta. Con gli idoli non si deve avere alcuna comunione, di nessun genere. Neanche il loro nome deve essere pronunciato. Sulla bocca del vero adoratore ci deve essere solo il nome del suo Dio. Gli idoli non meritano l'onore di essere nominati. Oggi, potremmo dire, il giusto evita di partecipare a un falso culto.
“Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (v. 5). Qui ci sono dei simboli sacerdotali. Sappiamo che nella spartizione della terra di Canaan, dopo la conquista, la tribù di Levi non ebbe un suo territorio specifico ma solo delle città di residenza. Chi era consacrato al culto non doveva essere impegnato nelle strutture sociali ma doveva fare da intermediario tra Dio e il popolo. La terra dei sacerdoti era Dio stesso e questo concretamente significava il diritto di ricevere le decime offerte dalle tribù per il proprio sostentamento. Il salmista, quindi, attraverso delle immagini esprime questa dedizione del sacerdote al suo Dio.
1. Il Signore è per lui “parte di eredità” cioè “parte di un territorio”.
2. Il Signore è per lui il suo “calice”, cioè il suo ospite, il suo familiare che lo accoglie.
Il "calice" è segno dell'ospitalità di Dio al suo fedele. È Dio che porge il calice, così come - dal punto di vista strettamente umano - è colui che riceve in casa propria che offre all'ospite il calice. Nell'ultima cena chi offre il calice? È Gesù il padrone di casa, è l'ospite inteso alla latina (per i romani, infatti, l'ospite è colui che ospita e non colui che viene ospitato).
Per l'uomo giusto e pio, il Signore è la sua parte di eredità e il suo calice. Non è la terra l’eredità del giusto e neanche le cose di questo mondo. Sua eredità è solo il Signore. Solo il Signore è il suo calice di salvezza, di vita vera. Quest’uomo non si attende nulla dalla terra. È il Signore, nel presente e nel futuro, la sua vita, il suo benessere, la sua prosperità, per questo la pone nelle mani del suo Dio. Questo è abbandono totale. Lui vuole essere solo di Dio, sempre nelle sue mani.
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Mc 12,38-44
Marco 12:38 Diceva loro mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze,
Marco 12:39 avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti.
Marco 12:40 Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave».
Marco 12:41 E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte.
Marco 12:42 Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.
Marco 12:43 Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Marco 12:44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Il v. 38 si apre ricordando al lettore che si è in un contesto di insegnamento, rilevando nel contempo il clima di tensione che lo anima. Un insegnamento che trae spunto dal modo contraddittorio di vivere degli scribi, che amano pavoneggiarsi in pubblico e presentarsi come gente perbene, ma in realtà sono persone prive di scrupoli morali, che si mascherano dietro una vita pubblica religiosa, manifestando in tal modo tutti i danni che può creare la devozione non vissuta nello spirito e nella sincerità del cuore. Un simile comportamento è caratterizzato da una sostanziale amoralità, in cui l'ego vive e si alimenta a spese dell'altro, soprattutto nei confronti di chi non si sa difendere o non ne ha i mezzi per farlo. Per questo, il tutto diventa ancor più deprecabile e condannabile.
Il v. 40 racconta come gli scribi fossero dei divoratori di case delle vedove. Un pensiero questo che serve a Marco per agganciarsi con l'altro racconto (vv. 41-44), dove c'è come protagonista una vedova, la quale saprà impartire, nonostante la sua precaria condizione di vita, una lezione di totale abnegazione di sé in favore del Tempio, in ultima analisi di Dio stesso.
Due comportamenti contrapposti, narrativamente infilati uno dietro l'altro, perché meglio risalti il contrasto tra predatori e prede e tra ricchi e poveri. Un confronto da cui emerge come le offerte fatte dai donatori benestanti non vanno ad intaccare il loro patrimonio e comunque non incidono sulla qualità della loro vita, anzi ne traggono un pubblico vantaggio, perché tutti vengono a sapere della loro “generosa” offerta. Contrariamente, la vedova, dà tutto ciò che ha e nulla trattiene per se stessa.
Il v. 41 apre il racconto sulla vedova presentando Gesù che, seduto di fronte alla tesoreria del Tempio, stava osservando quelli che portavano le loro offerte. Il sedersi di Gesù in questo contesto assume un duplice significato: da un lato, egli sta continuando il suo insegnamento. Il sedersi, infatti, è la caratteristica posizione del maestro che impartisce il suo insegnamento; dall'altro, la posizione di Gesù, seduto davanti alla tesoreria del Tempio, mentre osserva attentamente quelli che compiono la loro offerta, lascia trasparire la postura propria del giudice che si pone di fronte all'imputato o al ricorrente e ne valuta la posizione, per poi emettere la sua sentenza, esposta ai vv. 43-44, ma che nel contempo è anche insegnamento ai suoi discepoli.
Il v. 42 presenta il personaggio principale, una vedova, che Marco definisce povera. Un aggettivo qualificativo che lascia trasparire la condizione sociale di questa vedova, una delle categorie sociali più a rischio in quella società, e più esposte alle angherie e ai soprusi. La sua offerta, solo due spiccioli, testimonia il suo stato di indigenza. Tale offerta è equiparabile a pochi centesimi, ma rappresentava tutto il suo avere, a cui era legata la sua esistenza e poteva costituire la differenza tra il vivere e il morire. Ed è a tal punto che il giudice e maestro convoca attorno a sé i suoi discepoli (v. 43) per impartire il suo insegnamento ed emettere nel contempo la sua sentenza: “questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri”. Una sentenza che vede contrapposte due parti: questa povera vedova, nella parte vincente, contro tutti gli altri offerenti, soccombenti.
Un rovesciamento di valori e di prospettiva, di cui viene data la motivazione: “tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. La valutazione, quindi, non è posta sul valore venale dell'offerta, ma su quanto questa ha a che vedere con la sincerità del proprio cuore e della propria vita. Ciò che assegna valore o disvalore alle cose è ciò che risiede nel cuore dell'uomo e non nelle cose. La sentenza capovolge i parametri di valutazione degli uomini, mostrando tutta la distanza che li separa da quelle di Dio, fino a giungere al paradosso: il niente che questa povera donna ha dato sopravanza di gran lunga le cospicue offerte dei ricchi.
E il motivo di questo paradosso sta nel fatto che “essa invece, nella sua povertà, vi ha meso tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Questa vedova trasse tutto quello che aveva “nella sua povertà”, o meglio “dalla sua povertà” (ek tēs histerēseōs autēs). In altri termini, il suo stato di privazione non le impedì di raschiare il fondo della sua povertà, raccogliendo tutto quello che aveva, due monetine, che definiscono ancor prima che il valore dell'offerta, lo spessore del suo stato di penuria. Non si tratta, dunque, di una indigenza qualsiasi, come tanta ve n'era a quel tempo, ma di un grave stato di povertà, che metteva in discussione la sua stessa sopravvivenza. In ultima analisi, questa vedova, gravemente indigente, tra se stessa e Dio ha anteposto Dio alla sua stessa vita.
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Sal 17 (18)
Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.
Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.
Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.
La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.
Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.
L’arma vincente di Davide è la fede che si trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco cosa fa Davide: nell’angoscia non si perde, non si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.
Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.
Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.
«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.
«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.
«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.
«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.
Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Mc 10,46-52)
Marco 10:46 E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
Marco 10:47 Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Marco 10:48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Marco 10:49 Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».
Marco 10:50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Il v. 46 incornicia la scena dell'incontro tra Gesù e Timeo, un nome contratto che doveva essere “Timoteo”, cioè “colui che onora Dio”. Si tratta di un nome greco dato a un giudeo, che dice quanto profonda sia stata l'ellenizzazione della Palestina.
Lo stesso verso si apre con una nota geografica: la comitiva di Gesù con i suoi discepoli e la folla, entra in Gerico e ne esce subito. Un modo strano di comportarsi, poiché Gerico, in quanto ultima stazione prima della lunga salita a Gerusalemme, era in genere un luogo di soggiorno dove riposarsi e rifocillarsi prima di salire a Gerusalemme. Una città molto affollata e rumorosa se si pensa al via vai di sacerdoti e leviti che salivano e scendevano da Gerusalemme per il servizio al Tempio o che si davano il cambio settimanale nel servizio. Una città dove confluivano i pellegrini che salivano o discendevano da Gerusalemme. Città, quindi, molto trafficata, ricca, sontuosa, benestante e ospitale, ma Marco sottolinea in apertura del suo racconto come Gesù vi entri e vi esca subito, imprimendo in tal modo al cammino di Gesù verso Gerusalemme una forte accelerazione, lasciandosi alle spalle un mondo che non appartiene né a lui né a quanti hanno deciso di seguirlo. Ma è proprio su questa strada che si trova un cieco, Timeo, che “sedeva lungo la strada”.
Il verbo “sedere” è posto all'imperfetto, un tempo che indica la persistenza di quell'essere seduto del cieco, che pur trovandosi sulla stessa strada di Gesù, quella che porta a Gerusalemme, di fatto non lo seguiva, perché “sedeva”. Ma è proprio su questa strada che avviene l'incontro risolutore.
Il v. 47 presenta due titoli di Gesù, il primo dei quali è quello per cui era conosciuto dalla gente: Gesù Nazareno, un Gesù conosciuto per le sue origini storiche e la sua provenienza geografica. Ma in Israele si era venuta a formare una lunga tradizione, che stimolava le attese, le speranze e le fantasie attorno alla mitica figura del Messia davidico. Si trattava però di riconoscerlo e di aderirvi esistenzialmente, ritenendo in tal modo adempiuta in Gesù la promessa, che Dio fece a Davide per mezzo del profeta Natan. Ed è ciò che farà il cieco di Gerico.
Infatti Timeo, saputo di Gesù in cammino sulla strada per Gerusalemme, non esitò a invocarlo come il Messia davidico: “cominciò a gridare e a dire” e, quindi, a dare apertamente la sua testimonianza di fede nel messianismo di Gesù: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”. Un atto di fede nel messianismo di Gesù, contro tutto e contro tutti.
La testimonianza del cieco su Gesù, sotto forma di invocazione, si trasforma in un incontro con Gesù, un'esperienza salvifica, che cambierà radicalmente la vita di questo cieco, poiché Gesù, vista la sua fede, lo chiama a sé. Ci si trova, qui, di fronte ad una chiamata alla sequela. Marco, al v. 49, ripeterà il verbo “chiamare”: “chiamatelo”, lo “chiamarono”, “ti chiama”. Significativo quel sollecito: “Coraggio! Alzati, ti chiama”. Un pressante invito ad alzarsi da quella sua condizione di cieco, metafora del non credente, per rispondere alla chiamata di Gesù. Una sorta di preludio a quello che avverrà al v. 50: “Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. Il mantello, come gli abiti in genere, nel linguaggio degli evangelisti sono la metafora della condizione della propria vita. Questo “gettare il mantello” indica, pertanto, l'aver abbandonato la propria vita di prima, quello che lo aveva reso cieco, per poter accedere a Gesù; e lo fa “balzando in piedi”, quasi una sorta di risurrezione, l'inizio di una nuova vita. Si noti come egli non fu accompagnato a Gesù, come ci si aspetterebbe per un cieco, ma egli andò a Gesù in modo autonomo, perché illuminato dalla fede. Un avvicinarsi a lui, quindi, dettato dalla sua fede, certo, ancora incipiente, poiché vede in Gesù soltanto il figlio di Davide, il realizzarsi in lui di una promessa, un passaggio quindi dal giudaismo al cristianesimo, ma la strada per raggiungere Gesù, quale Messia e Figlio di Dio, è ancora lunga, e bisognerà arrivare sotto la croce per sentirlo proclamare: “Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39).
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Mc 10,35-45)
Marco 10:35 E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo».
Marco 10:36 Egli disse loro: «Cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero:
Marco 10:37 «Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Marco 10:38 Gesù disse loro: «Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo».
Marco 10:39 E Gesù disse: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete.
Marco 10:40 Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
il v. 35 si apre presentando i protagonisti di questo episodio e la loro richiesta, che viene accostata narrativamente all'annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, creando in tal modo uno stridente contrasto tra gli interessi di Gesù, che sta parlando in termini drammatici della sua fine imminente, e quelli dei due fratelli, che pensano, invece, di accaparrarsi i primi posti.
Giacomo e Giovanni, due figure eminenti, chiedono: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È la richiesta di una investitura e di un potere che loro vogliono condividere con Gesù. Quel “sedere nella tua gloria” si riferisce non tanto alla risurrezione, il cui significato era loro sostanzialmente ignoto. La gloria a cui i due pensavano era la costituzione del nuovo Regno di Israele in termini storici da parte di Gesù. Una speranza questa che essi nutrirono fino all'ultimo. Il “sedere” indica la posizione di privilegio rispetto agli altri. Quello che qui viene richiesto, in buona sostanza, è che Gesù riconosca loro due quali eredi del suo potere e, quindi, l'essere suoi successori. Un riconoscimento ufficiale e diretto da parte di Gesù davanti a tutti avrebbe tolto di mezzo ogni discussione su “chi è il più grande”. Da qui lo sdegnarsi degli altri dieci apostoli, che si vedono portar via da sotto il naso l'oggetto dei loro desideri: “All'udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni”.
La risposta di Gesù è scandita in due parti. Essa si apre sottolineando la loro non conoscenza: “Voi non sapete ciò che domandate” (v. 38). La richiesta che i due fratelli avevano fatto a Gesù riguardava il potere temporale. Una richiesta che dà a vedere come essi ancora non avevano capito veramente che cosa significasse che Gesù è “il Cristo”, né che cosa significasse “Figlio di Dio” e che cosa tutto ciò comportasse. Tutto era riparametrato alla loro capacità di comprensione, che non riusciva a trascendere il livello orizzontale della missione di Gesù e della figura stessa di Gesù.
La risposta, quindi, prosegue nella sua seconda parte, riconducendo il tutto alla drammatica realtà che si stava per compiere e che diviene centrale in questa sezione: “Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gesù, dunque, non rifiuta la loro richiesta, ma pone quale “conditio sine qua non” per raggiungere la gloria a cui essi aspirano, la via della croce. Il “bere il calice” e “l'essere battezzati con il battesimo con cui sarò battezzato”, sono due espressioni metaforiche che alludono a degli eventi a cui Gesù deve essere sottoposto per raggiungere quella gloria che lui non si arroga per se stesso, ma che il Padre gli dona, in quanto ha compiuto pienamente la sua volontà.
La risposta dei due fratelli lascia esterrefatti, perché ancora una volta dà a vedere come essi non abbiano capito di che cosa Gesù stia parlando; e quasi come fosse un gioco rispondono: “Lo possiamo” (v. 38).
Anche qui la risposta di Gesù è duplice. Nella prima parte della risposta (v. 39) viene attestato loro che anch'essi verranno associati alla sorte del loro Maestro. Marco riporta le due espressioni del calice e del battesimo, riferite dapprima a Gesù e ora a Giacomo e Giovanni, lasciando intendere che anche i due [ma con loro tutti i Dodici e in comunione con loro tutti i credenti] saranno associati ai medesimi destini di Gesù, poiché “non c'è servo più grande del suo signore”.
La seconda parte della risposta (v. 40) lascia intravvedere come la gloria di Gesù non dipende da Gesù, ma tutto è rimandato al Padre. Una gloria che è destinata “per coloro per i quali è stata preparata”. Sono quelli che hanno scelto la via della croce e sono stati associati alla morte di Gesù e, per questo, anche alla sua risurrezione.
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(Mc 10,17-30)
Marco 10:17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
Marco 10:18 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Marco 10:19 Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre».
Marco 10:20 Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Marco 10:21 Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Marco 10:22 Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
“Mentre usciva per mettersi in viaggio”. Marco ricorda ai suoi lettori che questo è il viaggio che conduce a Gerusalemme. Ed è proprio su questo viaggio che abbiamo la cornice e la chiave di lettura del racconto.
L'evangelista vuole sottolineare l'importanza del fidarsi di Gesù e del confidare in lui e non nelle proprie ricchezze e, quindi, in se stessi. L'incontro di questo personaggio alla ricerca della via perfetta, lo descrive molto bene: egli corre verso Gesù e si inginocchia davanti a lui, esprimendo in tal modo il suo desiderio di incontro con il Maestro (gli corse incontro) e il suo affidarsi a lui (si getta in ginocchio davanti a Gesù). Si tenga presente che qui tutto avviene sulla strada che porta a Gerusalemme e da lì al Golgota. È questa la via perfetta, la strada maestra che porta alla vita eterna, incomprensibile per chi ripone la fiducia in se stesso e nei propri beni: il fare la volontà del Padre. Da qui la necessità di spogliarsi di se stessi e seguire Gesù, perché è lui la Via che porta al Padre, alla vita eterna, e su questa Via è impressa l'impronta della croce.
La questione su cui gira l'intero racconto è data da una domanda: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù è definito “Maestro buono”, in cui il termine “Maestro” definisce il rapporto che intercorre tra Gesù e questo tale, che si pone in un atteggiamento di discepolo e, quindi, ben disposto ad accogliere l'insegnamento di Gesù, che qui, in modo certamente anomalo nel definire un maestro, viene chiamato “buono”. Un maestro lo si può definire saggio, illuminato, dotto, sapiente, tutti attributi che evidenziano la sua posizione di maestro e ne definiscono la qualità. Non ha molto senso che Gesù venga definito “buono” e Gesù lo rileverà subito come a lui inappropriato, poiché, da buon giudeo, Gesù sa che questo attributo va riferito e riconosciuto pubblicamente soltanto a Dio. Gesù, dunque, rimanda la ricerca di questo ricco a Dio stesso. La chiave che apre alla “vita eterna” appartiene al Padre, ma Gesù può indicare la via maestra dei comandamenti, in cui si rispecchia la volontà stessa di Dio e sono posti a sigillo dell'Alleanza, che sta alla base dell'identità stessa del popolo d'Israele.
La questione posta dal ricco è “che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. La questione fa parte del dibattito rabbinico, che va alla continua ricerca di una sofisticata via di perfezione o di un qualche comandamento tale che possa in qualche modo riassumere la foltissima schiera di tutti gli altri comandamenti della Torah, ben 613, che scandivano e tuttora scandiscono il vivere del pio ebreo. La religione ebraica è concepita come una sorta di prassi religiosa, una mera esecuzione di ordini e comandi divini. La Torah, infatti, era colta come espressione della volontà divina, che come tale andava soltanto eseguita e non discussa. A fronte della corretta esecuzione, Dio era tenuto a dare al suo fedele la ricompensa promessa. Si trattava, quindi, di una sorta di rapporto contrattuale, che il pio ebreo aveva stipulato con Dio nell'ambito dell'Alleanza. Entro queste logiche si comprende la richiesta del ricco “cosa devo fare per avere”. Siamo, dunque, ancora nell'ambito di una logica contrattualistica, quella del fare per avere, ma nel contempo lascia intuire il desiderio profondo di aprirsi ad un nuovo rapporto con Dio, capace di superare i vecchi schemi. Ed è proprio questa esigenza di un rinnovamento interiore e di crescita spirituale, che ha indirizzato questo tale verso Gesù.
Con il v. 19 Gesù indica la via maestra, aperta ad ogni pio ebreo e a tutti gli uomini di buona volontà, poiché i comandamenti altro non sono che una legge che è inscritta nella natura stessa dell'uomo e gli indica il cammino da percorre. I comandamenti che Gesù elenca riguardano il solo rapporto con gli altri, omettendo, invece, la prima parte del Decalogo riguardante il rapporto con Dio. Questa scelta di campo operata da Gesù, tuttavia, non esclude i rapporti con Dio, ma li va a completare e ne costituisce la “conditio sine qua non”. Non si può, infatti, amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede. L'amore per Dio passa attraverso quello per il prossimo.
Nell'elencazione dei comandamenti, Marco aggiunge un “Mē aposterēsēs” (non frodare), che di fatto non esiste tra i comandamenti, ma che in realtà sintetizza Es 20,17: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”. Il verbo “aposterēō” (frodare), che qui Marco usa al posto del “Non desiderare”, significa oltre che frodare, anche “privare, spogliare, portar via, defraudare, non dare quello che si deve”. Il senso che Marco qui vuole attribuire a quel “non desiderare” originario, è quello di un sottrarre in modo subdolo e ingannevole un bene che appartiene al prossimo. Il perché di questa scelta da parte di Marco, cioè di sostituire il “non desiderare” con “non frodare”, va capita per la platea di lettori a cui Marco destina il suo vangelo: la comunità di Roma, per la quale “desiderare” è un semplice moto dell'animo, mentre per la mentalità e la cultura ebraica il “desiderare” assume aspetti molto più concreti, che è il mettere in atto un comportamento tale da poter sottrarre all'altro, in modo subdolo e ingannevole, il bene “desiderato”. Un concetto che per i Romani meglio si esprimeva con “frodare”.
Il v. 20 riporta la risposta del ricco, che attesta di osservare tali cose fin dalla sua giovinezza. Il riferimento qui è probabilmente al “bar mitzvah” (figlio del comandamento), una cerimonia che viene celebrata all'età di 13 anni per il maschio. È questo il momento in cui il giovane, ormai alle soglie dell'adolescenza, fa la sua entrata ufficiale nella comunità civile e religiosa, assumendo le sue prime responsabilità, partecipando attivamente alla vita religiosa e sociale. Egli può da questo momento essere conteggiato nel “Minian”, il numero minimo di dieci persone perché la preghiera pubblica in sinagoga abbia valenza comunitaria.
La risposta di Gesù si articola in tre momenti che costituiscono una sorta di graduale cammino verso la perfezione spirituale: a) la constatazione che la semplice osservanza della Torah, per quanto perfetta, non soddisfa adeguatamente il bisogno di spiritualità di questo tale: “Una cosa sola ti manca”. Segno evidente che la Legge mosaica non era in grado di dare quella perfezione spirituale capace di creare un'adeguata comunione tra il credente e Dio. b) Il secondo momento crea la condizione per accedere a questa perfezione: liberarsi da ogni vincolo materiale, che lega chi lo possiede al terrestre, impedendogli ogni elevazione spirituale: “vendi quanto hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo”. Non si tratta di un semplice ripudio dei beni terreni, ma di una “distribuzione” degli stessi a chi ne ha bisogno e, quindi, di una sorta di condivisione, che si fa comunione di vita, trasformando in tal modo questa ricchezza materiale e deperibile in una spirituale ed eterna. c) Il terzo elemento, che costituisce la risposta di Gesù, è la sequela: “poi vieni e seguimi”. Il verbo qui usato è “akolouthei”, ed esprime una sequela che si pone a servizio di Gesù. Un verbo tecnico questo, proprio degli gli evangelisti, per definire il rapporto che intercorre tra il discepolo che ha deciso la propria vita per Gesù e Gesù stesso.
Quello della sequela, pertanto, è un percorso graduale, che nasce dal bisogno di perfezione spirituale, per dare un senso più profondo e più vero alla propria vita; da qui la necessità di liberarsi dai vincoli materiali che possono condizionare il cammino di crescita spirituale; ed infine la sequela di Gesù, quale momento culminante di questo percorso di spiritualità, che ha inizio proprio dalla spoliazione di se stessi.
Il v. 22 chiude il racconto sul ricco alla ricerca della via di perfezione con una nota di tristezza che lascia molto amaro in bocca: “rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto”, perché, commenta l'evangelista, “aveva molti beni”. Una tristezza, dunque, che è legata ai beni, perché sono proprio questi che gli impediscono di accedere a quella perfezione a cui tanto aspirava. Una tristezza che indica la frustrazione di un grande desiderio di Dio. Perché la sequela sia efficace, necessita che il proprio cuore sia completamente libero dalla materialità del vivere, poiché essa non è un percorso di potere e di affermazione personale, ma di spiritualità, che trascendendo la materialità evolve il discepolo verso Dio e lo conduce a lui attraverso il servizio agli altri.
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(Gen 2,18-24)
Genesi 2:18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile».
Genesi 2:19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.
Genesi 2:20 Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Genesi 2:21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.
La vita dell'uomo è segnata da un senso di solitudine, che mal si accorda con la sua natura di essere ad immagine di Dio. La creatura non si sente appagata dal suo Creatore. La vera comunicazione è possibile soltanto tra pari. Dio è ben consapevole di questo limite di Adamo, e subito pensa di mettergli accanto un altro essere, non solo simile al Creatore, ma simile anche alla sua creatura. Adamo doveva trovare e vedere la propria somiglianza con Dio, non solo in se stesso, nella sua dimensione interiore, ma anche fuori di se stesso, in rapporto alla creatura. L'idea della creazione della donna è quella di dare un aiuto all'uomo, un qualcosa di più, per facilitare il cammino verso il Creatore.
Ma prima di creare la donna, Dio conduce ad Adamo gli animali. Essi rappresentano un arricchimento per la vita dell'uomo, sia perché sono oggetto di conoscenza, sia perché ricercano la sua compagnia. È un istinto impresso da Dio, quello che spinge gli animali a cercare l'uomo, per stargli vicino e fargli da corona, come fosse il loro padrone o, meglio, il loro signore e il loro re.
Dio vuol vedere come Adamo chiama gli animali per gioire con lui, far festa insieme a lui per il dono che gli ha fatto. Come quando un padre vuol vedere come il figlio accoglie il suo dono.
Dare il nome significa avere signoria sull’animale. Dio costituisce l’uomo signore del regno animale, e rispetta le sue decisioni di signore. Infatti lascia immutato il nome agli animali. È un passaggio importante questo: Dio non pone l’uomo alla pari degli animali. Lo pone su un piedistallo superiore. Lo pone come loro signore. E come “dio” degli animali, l'uomo non potrà essere un “dio” arbitrario, dispotico, ma un “dio” che deve manifestare nel regno animale la volontà del suo Creatore.
Per relazionarsi agli animali bisogna chiamarli con un nome o un suono. Ecco che l'uomo diventa creatore delle parole. Gli animali che rispondono alla parola non rispondono con la parola. Obbediscono al richiamo dell'uomo in modo automatico, per un istinto creato da Dio. È un'obbedienza priva di intelligenza logica: procede per schemi prestabiliti, incapace di porsi sullo stesso piano di colui che chiama.
Come può Adamo trovare un aiuto nella sua crescita e nel suo cammino spirituale in creature che non sono pari a lui? Il Signore sta per fargli un grande dono, ma vuole farglielo desiderare. L'esperienza del chiamare con la parola crea il desiderio di comunicare con la parola. Nessun animale è simile all’uomo. Tra la natura degli animali e la natura dell’uomo vi è una differenza abissale. Vi è un vero salto ontologico. Trovare nell’animale un aiuto che sia capace di rompere la solitudine dell'essere, significa due cose: che l’uomo ha elevato l’animale ad un livello superiore, oppure che l'uomo ha degradato se stesso e guarda se stesso come un animale.
«Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò». Il modo in cui si regala qualcosa a qualcuno che si ama è commisurato all'importanza del dono. Si dona a volte in modo semplice, senza confezioni, ma per un dono particolare si cerca un modo diverso di donare. Cosa c'è di più bello e di più gioioso per un figlio trovare, al proprio risveglio, proprio quel dono tanto desiderato? Ma c'è un altro significato del sonno dell'uomo: non deve assistere all’opera di Dio, questa deve rimanere mistero per l’uomo. La donna è data da Dio all’uomo e come dono di Dio la si deve accogliere.
Nel dono si deve sempre rispettare la volontà di Colui che dona e Colui che dona ha dato la donna perché fosse per l’uomo un aiuto. Ogni uomo, che si unisce in matrimonio, deve trovare nella donna la sua stessa vita e come tale rispettarla, amarla, onorarla. Onorando la donna, si onora Dio che l’ha data.
Qui però si deve entrare in uno spirito di fede, ed è proprio la fede che manca ai nostri giorni. L’uomo si pensa da se stesso, vede la donna come un oggetto, una cosa. L’uomo si vede senza mistero. Di conseguenza vede la donna senza alcun mistero in sé. È compito del cristiano entrare nel mistero e mostrarne la bellezza.
La sposa di Adamo fu formata da una delle costole che Dio prese all’uomo quando questi si addormentò. Analogamente, la Sposa di Cristo fu tratta dal fianco del Salvatore, allorché Gesù diede la propria vita, e da cui scaturì sangue e acqua.
Questo non è un lavoro fatto per antipatia verso il protestantesimo, o per rancori verso gli evangelici, ma per difendere la vera fede, senza aspirazioni belliche. Ho passato molto tempo della mia vita nel mondo protestante, e in tarda età ho scoperto che non conoscevo affatto quella Chiesa cattolica che criticavo, ed è questa ignoranza che porta molti cattolici a lasciarsi convincere o influenzare dai protestanti.
Questi sono divisi in una miriade di denominazioni, alcune delle quali non gradiscono essere chiamate "protestanti", ma vorrebbero essere indicate solamente come "cristiane". Sappiamo anche che per i protestanti, i cattolici non sono cristiani, ma idolatri e pagani; ne consegue che gli evangelici nel loro voler essere chiamati solamente "cristiani" aspirano all'implicito riconoscimento di essere i soli "veri cristiani".
Il problema è che solo pochissimi protestanti conosco la storia della Chiesa; moltissimi accusano solo per sentito dire, ma non hanno mai aperto un libro riguardante la storia cristiana nei secoli. È sufficiente quello che dice il pastore di turno, qualche opuscolo, e internet per formare la loro "cultura" anti-cattolica.
Moltissimi protestanti e/o evangelici, piuttosto che vergognarsi per la propria ignoranza sul cristianesimo, ne vanno fieri, dicendo la classica frase "a me interessa solo la Bibbia", frase che è già tutto un programma. L'ignoranza storico-biblica delle persone è fondamentale per poterle pilotare. Un protestante serio che si mettesse a studiare la storia del cristianesimo, avrebbe buone probabilità di smettere di essere protestante.
In tutto il protestantesimo vige una fede fai da te! Lo Spirito Santo ci guida a capire bene la Bibbia, è vero, ma nel mondo protestante si usa questo pretesto per coprire una presunzione senza freni e per certi versi arrogante, che porta ogni pastore a diventare una sorta di "papa" infallibile nel dare insegnamenti alle persone.
Presunzione e arroganza non si vedono subito - nessuno mostra questi difetti tanto facilmente. Sembrano tutti timorati di Dio, osservanti della Parola e pieni d'amore per il prossimo. Peccato che il loro prossimo nella maggior parte dei casi è chi ascolta passivamente e non contrasta i loro insegnamenti biblici. Chi si permette di dissentire, allora non viene più amato, spesso non viene più salutato, e alcune volte diffamato.
Per lungo tempo, grazie a Lutero, il papa è stato considerato l'anticristo, quindi odiato e accusato, e così tutti i vescovi e i preti cattolici. In questo clima rientrano anche i singoli cattolici osservanti.
I protestanti criticano l'infallibilità papale, ma di fatto si comportano come infallibili; ognuno nella propria comunità, liberi di inventarsi quello che vogliono, tirando la giacca allo Spirito Santo, a garanzia delle loro dottrine! Il risultato? Una miriade di denominazioni con dottrine che spesso si contrastano pesantemente tra loro.
Il problema sta nella grande ignoranza mista a presunzione, che moltissimi protestanti e/o evangelici hanno. I cattolici sono meno ignoranti? No, la maggior parte dei cattolici, purtroppo, è assai ignorante in materia biblica, ma almeno essi non si mettono a fare i maestri verso chiunque gli capiti a tiro. Il cattolico medio è cosciente della propria ignoranza, il protestante medio invece è assai presuntuoso in campo biblico.
Un protestante che amasse veramente, come dice, la verità, andrebbe a verificare di persona cosa scrivevano e come vivevano i primi cristiani, nostri antenati nella fede, per capire se e come la Chiesa cattolica sbaglia, oppure dove sbagliano i protestanti a interpretare la Bibbia.
Per logica, piuttosto che fidarsi di un pastore che spiega la Bibbia a 2000 anni di distanza, sarebbe meglio fidarsi dei primi padri, che appresero direttamente dalla voce degli apostoli l'insegnamento cristiano. Purtroppo molti protestanti non fanno uso della logica, ma solo di ideologie anti-cattoliche, coltivando un'antipatia viscerale verso tutto ciò che è cattolico, perché scartano a priori le prove di come vivevano i primissimi cristiani, vissuti dopo gli apostoli ma prima di Costantino.
La fede cristiana è una, perché lo Spirito di Dio è uno! Quindi molti sbagliano strada, e abbiamo il dovere di capire chi è in quella giusta e chi in quella sbagliata. L'unità è la coesione degli elementi, delle parti che compongono un ente (per esempio, la coesione tra le parti di un'automobile come la carrozzeria, le ruote, il motore, ecc.) come già diceva Plotino; se viene meno l'unità viene meno anche quell'ente e ne possono risultare altri, ma non più quello di prima [se viene meno la coesione della carrozzeria, ruote e motore, non c’è più l'ente auto, bensì gli enti carrozzeria, ruote, motore]. Ecco, il protestantesimo somiglia tanto al mucchio di lamiere che una volta era una macchina. Si critica tanto la Chiesa cattolica, ma quanti sanno, per esempio, che Bultmann, celebre teologo ed esegeta protestante luterano, ridusse la risurrezione a un simbolo teologico? Non riteneva infatti possibile che fisicamente Gesù fosse risorto. Per confrontare le diverse interpretazioni bibliche bisogna avere il più possibile la mente sgombra da ideologie e preconcetti. Bisogna essere aperti a qualsiasi ipotesi se correttamente motivata e dimostrata. Se ci basiamo su pregiudizi ideologici che ci legano alle nostre convinzioni dottrinali, possiamo fare a meno di leggere o ascoltare qualsiasi testo o persona; tanto è inutile. Il nostro orgoglio ci impedirà di apprendere verità diverse dalla "nostra". Spesso difendiamo il nostro errore biblico con un guscio impenetrabile, ci teniamo la nostra verità, rifiutando qualsiasi altra, che sbatte sul guscio e scivola via. Appena si tocca il piano religioso/spirituale, stranamente è come se molti staccassero l'interruttore dalla propria mente, o almeno ad una parte di essa. Quando i protestanti dialogano con un cattolico, per esempio, non ricevono alcuna informazione, solo suoni che scivolano sui loro timpani, ma non arrivano al cervello. Non ascoltano.
La storia del cristianesimo per loro non conta nulla, non riveste alcuna importanza, se non nelle vicende da rinfacciare - vedi crociate, inquisizioni ecc. - senza conoscere la vera storia di questi fatti, e senza sapere che anche i protestanti hanno avuto le loro guerre, e hanno pure fatto le loro inquisizioni, assai più sanguinose di quelle cattoliche.
Dicono di essere guidati dallo Spirito Santo, ma stranamente ci sono molti gruppi che ricevono informazioni diverse e contraddittorie dal medesimo Spirito Santo, perdendo inesorabilmente di credibilità.
Mi rendo conto che la Chiesa cattolica ha trascurato il problema del proselitismo protestante. Gli evangelici hanno riscosso successo non perché hanno ragione, ma semplicemente perché trovano il popolo cattolico molto ignorante in materia biblica, incapace di difendere in maniera opportuna la propria fede, rifugiandosi dietro al classico "non ho tempo da perdere"; magari poi perdono pure la fede… il tempo però non si tocca.
Molti cattolici dicono di aver fede in Gesù Cristo, ma questa loro fede si vede solo nei momenti di bisogno: quando tutto scorre liscio Gesù viene dimenticato, e la Bibbia non interessa a nessuno leggerla. In contesti come questi gli evangelici trovano un popolo che deve veramente essere evangelizzato, da loro. Molti cattolici non oppongono resistenza a questo proselitismo perché non hanno risposte bibliche da dare, ma solo ignoranza da nascondere. In terreni simili la conquista protestante è facile, ed è come se affrontassero un esercito disarmato.
Ma chi studia la Bibbia e si impegna ad approfondire il significato della parola di Dio, si rende conto che in realtà i protestanti non sono affatto quei maestri biblici che sembrano, ma sono dei profondi ignoranti storici e biblici, plagiati dalla loro setta di appartenenza. Chiamandoli ignoranti non voglio offenderli, perché altrimenti li chiamerei "falsi e bugiardi". Chiamandoli ignoranti gli riconosco la buona fede, credono in alcune dottrine sbagliate, non accorgendosi di sbagliare.
Il punto è che lo Spirito Santo non può contraddire se stesso, e quindi certamente le interpretazioni contrastanti delle diverse denominazioni non possono essere tutte vere, né tutte ispirate. È evidente che non è possibile che lo stesso Spirito suggerisca a ciascuno dottrine diverse. In questo modo si creano dei compartimenti stagni, ogni gruppo protestante crede di essere nella verità più degli altri, isolandosi e predicando un vangelo personalizzato. Per esempio, secondo gli Avventisti tutte le altre chiese cristiane hanno abolito il comandamento del sabato, celebrando il culto alla domenica, e quindi tranne loro tutti sono destinati all'inferno se non aboliscono la domenica come giorno del Signore. Ovviamente essi motivano queste loro accuse con alcuni versetti biblici, interpretandoli a modo proprio. Ecco, è questo il punto che sfugge a tutti i protestanti, classici e moderni: la Bibbia non può essere interpretata soggettivamente, perché la Verità non è affatto soggettiva.
Ma essendo divisi in compartimenti stagni, non comunicanti gli uni con gli altri, è difficile che qualcuno di loro si accorga delle differenze dottrinali con gli altri protestanti. Se qualcuno se ne accorge, fa finta di niente, o non gli dà il giusto peso, tanto, basta credere in Gesù come nostro personale salvatore. Le loro attenzioni vengono rivolte solo verso la Chiesa cattolica, il nemico da sconfiggere! È fin troppo comodo affermare orgogliosamente che "Io capisco quello che c'è scritto nella Bibbia perché lo Spirito Santo mi guida. Dio ha nascosto la verità ai sapienti e l'ha rivelata agli umili". Ecco, ogni buon protestante usa frasi del genere per rifiutare l'autorità interpretativa dei padri e dei dottori della Chiesa.
In questo contesto si assiste a scene nelle quali qualsiasi protestante, di qualsiasi grado di cultura, schernisce gli scritti di Ireneo, Agostino, Tommaso d'Aquino, e lo fa in maniera disinvolta, perché nell'interpretare la Bibbia si sente tanto umile da essere guidato direttamente da Dio, ma allo stesso tempo è abbastanza cieco da non accorgersi che troppi "umili" protestanti professano poi dottrine assai diverse tra loro. Disprezzano il cattolico ma eleggono un "fai-da-te" che inorgoglisce e dice: "Non ho bisogno di leggere gli scritti dei padri della Chiesa, mi basta la sola Bibbia", quindi i maestri di cui parla l'apostolo Paolo non servirebbero a nulla: "È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri" (Ef 4,11).
Basterebbe leggere la storia delle eresie che hanno colpito il cristianesimo lungo i secoli, per rendersi conto che gli eretici basavano e basano sempre le loro tesi sulla Bibbia, spiegandola a modo loro. Difficilmente le persone andranno a spulciare intrecciate questioni dottrinali e teologiche. È più facile trovare un prete che abbia commesso qualche errore umano e sceglierlo come bersaglio, al fine di avvalorare le tesi anticattoliche e considerare la Chiesa cattolica nemica del cristianesimo e della verità, alleata con satana per sviare le anime e portarle all'inferno. Nemmeno l'arcangelo Michele ostentava una tale sicurezza nel bollare o giudicare il diavolo, eppure si trattava del diavolo (Gd 1,9):
L'arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore!
La verità è che l'accusatore per eccellenza è proprio Satana, i santi non accusano nessuno, non per rispetto, ma perché si rimettono al giudizio di Dio. Per un protestante invece è normale dire che i cattolici vanno all'inferno perché sono idolatri. Si ergono a giudici, credendo di conoscere i cuori, e fraintendono il concetto di adorazione. Qualsiasi cristiano si dovrebbe porre delle domande, a verifica di ciò in cui crede, e dovrebbe saper discernere se le proprie convinzioni in materia di fede sono solo frutto di autosuggestione, fantasie indotte, oppure se trovano conferma nella storia del cristianesimo e nella Bibbia.
Argentino Quintavalle
autore dei libri
- Apocalisse – commento esegetico
- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?
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Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
"In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet". This refers to the solidity of the Word. It is solid, it is the true reality on which one must base one's life (Pope Benedict)
«In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita (Papa Benedetto)
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