Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

Set 1, 2025

23a Domenica T.O. (anno C)

Pubblicato in Art'working

(Lc 14,25-33)

 

Luca 14:25 Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse:

Luca 14:26 «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.

Luca 14:27 Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.

 

Luca 14:28 Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?

Luca 14:29 Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo:

Luca 14:30 Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.

Luca 14:31 Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?

Luca 14:32 Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace.

Luca 14:33 Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

 

Luca precisa la posizione di Gesù rispetto alla gente che lo segue, raccontando che “si voltò e disse”. Questo suo voltarsi dice come Gesù preceda questa gente, come una sorta di pastore che guida le sue pecore; come un maestro che precede e guida i suoi discepoli che camminano con lui.

Poi Gesù presenta la prima regola riguardante la sequela, che in modo radicale taglia corto con i rapporti familiari e affettivi del discepolo, ed è accompagnata da una modalità di sequela che la inquadra in una cornice di sofferenza. Il motivo per cui si rende necessario superare il legame affettivo per accedere al Regno di Dio, nasce dal fatto che il contesto familiare può costituire un impedimento.

Per poter comprendere come ciò possa accadere è necessario porsi nel contesto storico della chiesa nascente: chi intendeva farsi discepolo usciva in genere da una famiglia giudaica o pagana, che difficilmente comprendeva la scelta del proprio familiare. Vi era, poi, il contesto sociale, civile e religioso in cui si collocava il neo credente e la sua famiglia, il quale, avverso ai credenti, li perseguitava. Da qui la necessità di saper superare i propri legami familiari ed affettivi, e le proprie origini carnali per abbracciare con determinazione il Regno di Dio.

Se il v. 26 stabilisce la prima regola per la sequela, il superamento dei legami carnali parentali, il v. 27 stabilisce le modalità sia di accesso che di conduzione della sequela: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Si tratta di una sequela che ha per sfondo la croce. Quanto qui viene detto assume una particolare significatività proprio perché Gesù si sta muovendo all'interno del suo viaggio verso Gerusalemme, dove si compiranno i misteri della salvezza, che passano attraverso la sofferenza e la morte in croce. Ed è proprio all'interno di questo viaggio verso la sofferenza e la morte in croce salvifiche, che Luca afferma che “molta gente andava con lui”, proiettando in tal modo il lettore all'interno di un discepolato che si sta muovendo verso Gerusalemme.

A questo punto, Gesù, attraverso due domande retoriche induce il discepolo a valutare attentamente la scelta di seguirlo, al fine di non trovarsi poi nella triste e vergognosa necessità di dover abbandonare. La prima riguarda la costruzione di una torre; la seconda riguarda una guerra che sta per scoppiare tra due re. Entrambe sono, da un lato, una esortazione alla prudenza e a soppesare attentamente la propria scelta; ma, dall'altro, ognuna di esse dice che cos'è la sequela: si tratta di costruire non tanto una torre, quanto piuttosto un rapporto nuovo con se stessi, con gli altri e, ancor prima, con Gesù, che è in cammino sulla via della croce; una sequela, che si prospetta inoltre come una dura battaglia con il mondo avverso. Anche quest'ultimo aspetto il discepolo deve valutare.

Dopo questa attenta riflessione su che cos'è la sequela e la necessità di soppesarla attentamente, Gesù introduce la terza e ultima regola, che contiene in se stessa una sorta di giudizio di condanna: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. La scelta della povertà per la sequela è di fatto una scelta di libertà, che consente l'intera offerta di se stessi a Dio, senza remore e senza ripensamenti. Da qui il sollecito di Gesù, a chi ha deciso di seguirlo, di liberarsi dai beni materiali. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Ago 25, 2025

22a Domenica T.O. (anno C)

Pubblicato in Art'working

22a Domenica T.O. (anno C)

(Lc 14,1.7-14)

 

Luca 14:1 Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo.

Luca 14:7 Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola:

Luca 14:8 «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te

Luca 14:9 e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto.

Luca 14:10 Invece quando sei invitato, va’ a metterti all'ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali.

Luca 14:11 Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

Luca 14:12 Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio.

Luca 14:13 Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi;

Luca 14:14 e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

 

Il brano si apre con un verbo caro a Luca e con il quale l'evangelista scandisce l'accadere della storia della salvezza, a cui lega un evento che avviene in un giorno di sabato e all'interno della casa di uno dei capi dei farisei: “Kaì egéneto” (e avvenne). Ciò che qui viene ora raccontato, pertanto, ha a che vedere con l'attuarsi della salvezza nell'oggi di Gesù e nell'oggi della chiesa.

Il v. 7 si apre con Gesù che racconta una “parabola” la quale ha per oggetto il comportamento prevaricatore degli invitati. Il racconto coinvolge direttamente i commensali e li colloca in un ipotetico banchetto nuziale al cui interno Gesù detta loro delle regole di “bon tone”. Ma gli insegnamenti di Gesù, è da pensare che vadano ben oltre ciò che appare: semplici regole di buon comportamento sociale. La natura di queste norme riguardano innanzitutto i commensali dove c'è presente anche Gesù, che tra loro si erge a maestro e tutti si trovano all'interno di una casa. Tutte immagini che rimandano alla comunità credente. A questa, pertanto, sono rivolte tali esortazioni che spingono i credenti ad assumere all'interno della loro comunità comportamenti di servizievole umiltà, sui quali pesa un giudizio divino.

Il tema dell'umiltà traluce in tutto il Nuovo Testamento ed ha il suo incipit nello stesso Gesù, il quale non è venuto per essere servito, ma per servire, e lo ha dimostrato lavando, a ridosso della sua passione e morte, i piedi ai suoi discepoli, lasciando intravvedere in questo suo gesto il senso più vero e profondo della sua morte: un servizio di redenzione e riscatto a favore dell'umanità. Ed è proprio in virtù di questa umiltà servizievole che il credente ritrova la sua vera natura del suo essere in Cristo, che abbassatosi in un'obbedienza fino alla morte di croce, ha trovato paradossalmente in questo suo abbassarsi la sua esaltazione.

In tal modo questo atteggiamento umile e servizievole a favore della comunità credente assume un'importanza tale da essere sottoposta al giudizio escatologico: “Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.

Dopo aver stabilito la regola d'oro dell'umiltà, che si fa servizio all'interno della comunità credente, su cui pesa la minaccia di un giudizio divino, Gesù detta una nuova regola, rivolta al padrone di casa; metafora, in qualche modo, di quel bel mondo benestante che si bea di se stesso, scambiandosi reciproci favori: “le tue possibilità spendile con chi non può ricompensarti a motivo della sua triste condizione esistenziale”. Quindi una generosità allo stato puro, che non si aspetta contraccambi, ma fatta soltanto in nome di Gesù e di quell'amore che deve vincolare ogni credente e nel quale si riflette l'amore del Padre per tutti, indistintamente dalle condizioni personali. Una regola che deve qualificare il modo di vivere del credente e che lo contraddistingue come autentico discepolo di Gesù, sul quale è chiamato a riparametrare la sua vita. Una regola che non va presa come un semplice buon consiglio, ma è resa vincolante da quella beatitudine con cui si chiude l'esortazione: “e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (v. 14). In altri termini, la scelta della magnanimità verso i bisognosi ha una sua immancabile risonanza nell'ultimo giorno, nel giorno della risurrezione dei giusti; e così parimenti vale per il comportamento egoistico, il quale, benché non esplicitamente menzionato, traspare comunque tra le righe.

Luca lascia trasparire come tutto ciò che qui sulla terra viene fatto, sia nel bene che nel male, ha un suo riscontro finale. La logica della contropartita per ciò che qui, in questa vita, viene compiuto, risuona anche nel Padre nostro: “rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. La nostra salvezza non solo si gioca qui sulla terra, in questa vita, ma a determinarla sarà proprio il nostro modo di vivere. Una vita, dunque, che va presa in modo estremamente serio, poiché su di essa pesa già fin d'ora il giudizio escatologico, che non ha appelli.

 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Ago 18, 2025

21a Domenica T.O. (anno C)

Pubblicato in Art'working

(Lc 13,22-30)

Luca 13:22 Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme.

Luca 13:23 Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose:

Luca 13:24 «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno.

Luca 13:25 Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete.

Luca 13:26 Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze.

Luca 13:27 Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità!

Luca 13:28 Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori.

Luca 13:29 Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio.

Luca 13:30 Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi».

 

La questione posta dall'anonimo personaggio (“un tale gli chiese...”) era molto dibattuta e riguardava la quantità di persone che si salvavano in Israele. C'era infatti chi sosteneva che tutti i figli dell'Alleanza partecipavano, in quanto tali, al mondo futuro. Chi, invece, sosteneva che soltanto pochi si salvavano.

La risposta che segue pone l'accento su due elementi: sulle difficoltà per il giudaismo di aderire alla proposta del Regno e, per chi vi ha aderito, quella di mantenersi fedele, lasciandosi alle spalle il culto mosaico (v. 24); e l'urgenza di aderire con decisione a Gesù, finché è possibile, poiché  giungerà impietoso il giudizio divino (v. 25) e a nulla varrà il cercar di far valere di essere giudei e di aver condiviso qualcosa con Gesù, se non c'è stata la più sincera e totale adesione a lui (vv. 26-27). Ciò porterà al loro disconoscimento da parte del giudice escatologico, che li estrometterà dal Regno, dove invece si siederanno sia i Padri che i Profeti, che tale Regno avevano preannunciato; sia i pagani che sinceramente hanno accolto il suo annuncio (vv. 28-29), così che i giudei, che furono i prescelti da Dio fin dall'inizio del suo progetto di salvezza e destinati a diventare popolo santo e regno di sacerdoti, saranno gli ultimi; mentre i pagani, così disprezzati e reietti dal giudaismo, ma che hanno saputo accogliere l'annuncio di Gesù, li precederanno nel Regno (v. 30).

Il brano affronta una questione molto importante: quella della posizione del giudaismo nei confronti di Gesù e, associata a questa, quella dei giudaizzanti, cioè di quei cristiani provenienti dal giudaismo, ma che non l'avevano mai abbandonato, continuando a coniugare il nuovo insegnamento con quello mosaico, anzi, affermando che la salvezza portata da Gesù era possibile soltanto sottomettendosi alla Legge mosaica.

Una posizione simile era inaccettabile, poiché vanificava il messaggio salvifico portato da Gesù, riconducendo i nuovi credenti nell'ambito del giudaismo. La questione nei vangeli è affrontata in termini specifici soltanto da Luca, sia per la sua vicinanza a Paolo, sia per il proprio interesse ecclesiologico e sia, infine, perché, in quanto missionario come Paolo e a lui molto vicino, ha potuto constatare di persona l'azione deleteria dei giudaizzanti. La questione verrà affrontata in modo passionale da Paolo nelle sue Lettere. In Rm 9-11 egli svilupperà una lunga riflessione sul rifiuto del giudaismo nei confronti di Gesù e cercherà di darsi una risposta [molto elaborata] da cui lascia trasparire tutta la sua sofferenza.

I destinatari del messaggio sono soprattutto quelle persone che hanno mangiato e bevuto alla mensa del Signore, dopo aver accolto il suo messaggio (v. 26). Si tratta di un messaggio che parla di “sforzi” e di “porta stretta” attraverso la quale molti cercano di entrare ma senza riuscirci, lasciando trasparire la difficoltà, per i giudei, di accettare la persona di Gesù. Molti giudei ci avevano provato, ma non avevano saputo fare la scelta definitiva a tutto favore di Gesù, poiché cercavano di far convivere i due insegnamenti, quello di Mosè e quello di Gesù, non avendo còlto appieno la novità unica ed esclusiva da Lui portata.

Quel “sforzatevi” (v. 24) lascia trasparire come l'accettazione di Gesù non fosse una cosa semplice, perché portava il giudeocristiano a rompere con il contesto sociale e religioso, subendone pesanti ritorsioni da parte delle autorità religiose; e nel contempo gli stessi rapporti parentali venivano compromessi, creandosi all'interno della cerchia familiare dei profondi dissidi. Forse anche per questo, oltre per l'incapacità di lasciare definitivamente la religione dei Padri, profondamente radicata nell'animo del pio giudeo, si cercava di far convivere Gesù e Mosè, per attutire il contraccolpo dell'adesione a Gesù.

La conseguenza di questo compromesso è l'espulsione dal Regno, che pesa su costoro come un giudizio di condanna. Si parla, infatti, di padrone di casa che “si alzerà e chiuderà la porta”; si parla dell'emissione di un verdetto che qualifica costoro come “operatori di iniquità”; si parla di un luogo “dove c'è pianto e stridore di denti”, un'espressione che ritroviamo sempre all'interno di un contesto giudiziale di condanna. Una condanna che viene aggravata dal constatare da parte di questi giudaizzanti come una parte di Israele, quella fedele ai Padri e ai Profeti, vi entra mentre loro ne vengono gettati fuori. Similmente avverrà quando vedranno venire i pagani da ogni luogo della terra, qui indicato nei suoi estremi di “oriente e occidente e da settentrione e mezzogiorno”.

Il brano si conclude con la sentenza del v. 30: “ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”. I pagani precederanno Israele nel nuovo mondo e ne prenderanno il posto a motivo della loro disponibilità alla chiamata.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Ago 11, 2025

20a Domenica T.O. (anno C)

Pubblicato in Art'working

(Lc 12,49-53)

 

Luca 12:49 Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!

Luca 12:50 C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!

Luca 12:51 Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione.

Luca 12:52 D'ora innanzi in una casa di cinque persone

Luca 12:53 si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

 

Il v. 49 è scandito in due parti: da un lato la venuta di Gesù porta con sé il fuoco; dall'altro, Gesù esprime il suo desiderio che questo fuoco fosse già acceso. Il fuoco nel linguaggio biblico è associato all'essere stesso di Dio e al suo agire, ed esprime il giudizio di condanna posto in atto da Dio stesso. Nel Nuovo Testamento il fuoco riproduce significati e immagini mutuati dall'Antico Testamento, ma assume anche nuovi aspetti con riferimento a contesti escatologici, segnati dall'azione dello Spirito Santo.

Di fronte ad una simile e variegata significanza del termine ‘fuoco’, come interpretare il senso che Luca attribuisce a tale sostantivo e tale che possa accordarsi con il resto del brano? Due sono gli elementi che ci aiutano a comprenderne il significato: questo fuoco posto sulla terra, intendendo per terra questa dimensione spazio-temporale abitata dall'uomo, è stato portato da Gesù, che è manifestazione e rivelazione del Padre. È Azione di Dio in mezzo agli uomini; un Gesù che con gli esorcismi dichiara che egli è venuto a distruggere il regno di Satana e a ricostituire in mezzo agli uomini il Regno di Dio, e tutto ciò lo fa con la potenza di Dio che gli è propria. Forse è proprio questo che Luca intendeva significare con quel fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra. Da qui il desiderio di Gesù: “e come vorrei che fosse già acceso!”, cioè già affermato. Un desiderio che va oltre il suo tempo e si proietta in quello post pasquale della Chiesa, qualificata da questo fuoco che è lo Spirito Santo, la cui potenza rigeneratrice opera nella Parola.

Ma tra l'oggi di Gesù e il tempo della Chiesa vi è di mezzo la passione e morte di Gesù, significata dal battesimo con cui Gesù deve essere battezzato. Una passione e morte che assumono un significato escatologico, in quanto che la morte di Gesù è unica, irripetibile e definitiva ed è decisiva per l'uomo che, suo malgrado, ne è direttamente coinvolto.

Sulla morte di Gesù, infatti, è stato posto il giudizio di Dio, divenendo in tal modo discriminante per gli uomini: accoglierla e viverla nella propria vita, diventa una promessa di risurrezione per il credente. Diversamente, la morte di Gesù diviene un elemento di condanna. È significativo in tal senso quanto l'assemblea risponde all'annuncio del celebrante: “Annunciamo, Signore, la tua morte; proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta”.

Il credente, dunque, è chiamato ad annunciare nella quotidianità del proprio vivere la morte di Gesù, che è morte all'uomo vecchio; ma che diviene nel contempo una proclamazione della risurrezione di Gesù, la proclamazione che in questa morte-risurrezione si sono inaugurati dei tempi nuovi, che preludono a quelli definitivi. E il tutto, annuncio della morte e proclama della vita nuova, avvengono nell'attesa della sua venuta.

Definito il senso della missione del Gesù storico (vv. 49-50), Luca passa ad esaminare i riflessi e le conseguenze di questa sulla Chiesa, in particolare le divisioni e gli sconvolgimenti all'interno della cerchia familiare. Di certo, l'annuncio che Gesù è venuto a portare il Fuoco di Dio su di una terra profondamente segnata dal peccato e che ragiona in termini antitetici a quelli di Dio, non è molto rassicurante e certamente non promette un mondo idilliaco per il credente. Ed ecco dunque l'annuncio, che viene scandito su tre livelli:

 

  1. a. L'affermazione di principio: Gesù non è venuto a portare la pace, ma la divisione. Il tono è chiaramente escatologico e richiama da vicino la comunità di Qumran, che aveva dettagliatamente elaborato la “regola della guerra” dei figli della luce contro i figli delle tenebre, preparando i propri adepti allo scontro finale in un clima di forte tensione escatologica.

 

  1. b. Tale guerra sarà posta all'interno della famiglia. “D'ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre”. Quel “D'ora innanzi” riguarda il tempo della Chiesa. È da questo momento che ha inizio la guerra, che da contro Gesù si è trasferita ora contro la Chiesa. Luca qui parla di cinque componenti della famiglia, probabilmente, di una famiglia tipo, in cui si combattono tra loro “tre contro due e due contro tre”.

 

  1. c. Gli avversari all'interno della famiglia: padre-figlio, madre-figlia, suocera-nuora. Un intreccio di parentela molto stretto, ma che proprio per questa intima e profonda unione e comunione di rapporti, risalta ancor più quanto questa guerra sconvolga in profondità non solo l'assetto familiare, ma con questo, anche l'assetto sociale. Si noti come le conflittualità avvengono tra persone dello stesso sesso: padre e figlio, madre e figlia, nuora e suocera. Quasi a dire che qui lo sconvolgimento non conflagra soltanto all'interno della stretta cerchia familiare, ma anche all'interno della stessa identità sessuale, che è identità propria della persona. 

 

Vi è in questa descrizione della disgregazione familiare, preludio di quella sociale o forse suo riflesso, una progressività che dall'affermazione generale del v. 51 penetra sempre più in profondità, passando per il v. 52 e raggiungendo, infine, il v. 53, all'interno dell'intimità familiare e della stessa identità sessuale e dei ruoli familiari propri dei componenti, quasi a dire che nulla si sottrarrà a questa guerra, che travolgerà anche i rapporti più intimi e più cari dell'uomo e in cui tutto verrà messo in discussione e stravolto. Uno sconvolgimento, quindi, da cui non si salva nessuno, togliendo ogni sicurezza e ogni identità.

 

Questo testo di Luca sembra essere stato scritto l'altro ieri, e non duemila anni fa, tanto si adatta alla situazione familiare e sociale di oggi.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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19a Domenica T.O. anno C (Lc 12,32-48)

 

Luca 12:32 Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno.

 

Luca 12:33 Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma.

Luca 12:34 Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.

 

Luca 12:35 Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese;

Luca 12:36 siate simili a coloro che aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa.

Luca 12:37 Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.

Luca 12:38 E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro!

 

Il v. 32 si apre con un sollecito a “Non temere”. Un'espressione questa che ogniqualvolta compare apre ad un annuncio, che prospetta un intervento di Dio sull'uomo e sulla sua storia, che lo rende partecipe della sua azione salvifica. Non fa eccezione neppure questa volta, in cui Dio apre il credente a una nuova prospettiva, di cui già in qualche modo fa parte fin d'ora: quella del suo Regno. Il credente, dunque, appartiene già alla dimensione di Dio, anche se non ancora in termini pieni e definitivi. Ma è questa la prospettiva in cui si muove e verso cui è incamminato e dalla quale è qualificato. Al Padre, infatti, “è piaciuto di darvi il suo regno”. In quel “piaciuto” è racchiuso il senso di un progetto eterno riservato a chi crede. Il verso si prospetta, dunque, come una rassicurazione che sollecita il credente a non temere, poiché egli fa parte ora di un progetto divino, che lo vede erede e partecipe della vita stessa di Dio, per cui tutta la sua vita acquista un nuovo significato.

Inquadrati all'interno delle rassicurazioni e delle prospettive spirituali del v. 32, i vv. 33-34 indicano la via maestra per rendersi degni eredi del Regno: vendere e dare in elemosina i propri beni materiali, creando in tal modo una tesaurizzazione spirituale. I beni venduti, pertanto, diventano strumento di arricchimento spirituale. Per capire questo è necessario considerare che l'elemosina veniva concepita ancor prima che un'alienazione di propri beni materiali, un sincero dono di se stessi all'altro. La qualità dell'elemosina, pertanto, trova il suo valore nel cuore di chi la compie: essa si radica nella sincerità di cuore e si fa dono per l'altro, arricchendolo spiritualmente, prima ancora che materialmente, perché in quella elemosina il credente dona, ancor prima che un bene materiale, se stesso; e proprio per questo diviene per lui fonte di tesaurizzazione spirituale.

Il v. 35 introduce un nuovo tema, e lo fa dipingendo la condizione di vita del servo, che arrotola la sua veste, che gli poteva arrivare alle ginocchia o fino alle caviglie, fissandone i lembi ai fianchi con una cinta, per essere maggiormente libero nel muoversi, evitando che gli si attorcigliasse intorno alle gambe, e d’inciampare. Esso viene presentato con la lucerna accesa: “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese”. I fianchi cinti stanno ad indicare lo stato di servizio e di prontezza in cui si trova il servo; mentre la lucerna indica come questo servizio si prolunghi anche lungo le ore notturne, mettendo in evidenzia lo stato di costante veglia di questo servo. Un servizio, quindi, che non conosce pause; una veglia finalizzata al servizio. Un sevizio che è illuminato dalla lucerna, che in qualche modo metaforizza la Parola di Dio, che dà sostanza al servizio del credente, illuminandolo e tenendolo desto. Fianchi cinti e lucerna accesa sono due immagini emblematiche che indicano lo stato di costante, ininterrotto e solerte servizio di questo servo.

Luca, letteralmente dice: “Stiano i vostri fianchi cinti”. Il verbo greco usato è estōsan, che dà il senso della fermezza e della solidità, del restare fermi sulla propria posizione. Un'immagine, dunque, che delinea l'atteggiamento del vero discepolo, che si qualifica per il suo essere al servizio di Dio, sempre e con determinazione.

Il v. 36, infatti, inizia con una congiunzione, “kai” (= e), che lo lega a quello precedente e ne trae le conseguenze: dalla descrizione dell'abbigliamento si passa all'esortazione dei discepoli a tenere un comportamento conseguente: quello dell'attesa, che implica un “ad tendere”, un tenersi in tensione verso qualcosa o qualcuno; un orientare la propria vita verso qualcuno o qualcosa in modo tale che questa tensione e questo orientamento esistenziale “verso...” caratterizzi la vita del discepolo. L'oggetto di tale attesa è il padrone che torna dalle nozze. Una precisazione questa che qui non ha significati metaforici o simbolici, ma si riferisce al tempo incerto delle nozze stesse. Parlando di nozze senza alcuna precisazione, Luca fa riferimento a quell'insieme di cerimonie e celebrazioni, accompagnate da lunghi festeggiamenti, che culminavano nel banchetto nuziale. Precisando che il padrone era andato alle nozze e che i servi erano in attesa del suo ritorno, Luca ha voluto dire che il tempo del ritorno di quel padrone non era conosciuto. Da qui la necessità di quei servi di vegliare in ogni istante per essere pronti ad accogliere il ritorno del loro padrone.

I vv. 37-38 definiscono lo stato di beatitudine dei servi vigilanti. I versetti presentano un graduale e crescente riconoscimento da parte del padrone nei confronti di quei servi che hanno saputo attendere vigilanti il suo ritorno e si sono mostrati pronti ad accoglierlo. Per due volte vengono definiti “beati”, cioè partecipi della beatitudine del loro padrone, entrando così in qualche modo a condividerne la stessa vita, che per definizione è di beatitudine. Una partecipazione ed una condivisione che vengono realizzate quando il padrone li fa sedere alla sua stessa mensa e, rovesciando i ruoli padrone-servi, si mette egli stesso a servirli, segno che quei servi sono entrati a far parte della vita del loro padrone e la condividono.

Vi è, infine, un crescendo sempre più premiante a seconda che il padrone rientri durante il giorno, facendoli sedere subito a mensa e mettendosi a servirli; o durante la notte, rinunciando al riposo. Questi servi hanno saputo mettere da parte le loro naturali e legittime esigenze per porsi a totale servizio del loro padrone, dimostrando come la loro fedeltà e la loro attenzione fossero sempre e comunque presenti anche nei momenti più impegnativi e difficili. Per questo Luca termina questa esaltazione dei servi con un'esclamazione, che accentua ancor più la loro beatitudine: “beati loro!”.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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(Qo 1,2; 2,21-23)

Ecclesiaste 1:2 Vanità delle vanità, dice Qoèlet,

vanità delle vanità, tutto è vanità.

Ecclesiaste 2:21 perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura.

Ecclesiaste 2:22 Allora quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?

Ecclesiaste 2:23 Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!


La parola ebraica Qoèlet deriva dal verbo qahal. Un commentario giudaico spiega che Qoelet si chiamava così perché fa riferimento a 1Re 8:1, dove qahal è l'assemblea alla quale Salomone predica. Così il Qoèlet è il Predicatore. Il corrispondente termine Ecclesiaste deriva dal greco “ekklesia”, che significa “chiesa” o “assemblea”. Qoèlet è il maestro predicatore, che offre una riflessione sulla vita dell’uomo.

È  una  verità  forte  quella  con  la  quale  il  Qoèlet  inizia  la  sua riflessione. Afferma che tutto è vanità. La parola “vanità” (ebraico: “hevel”) è la prima del discorso di Qoèlet ed è anche la parola chiave dell'intero libro. Il significato primario della parola è “vapore/soffio”, e, in senso figurato, il termine viene utilizzato per descrivere qualcosa che non ha consistenza, qualcosa che è, ma subito dopo non è, qualcosa di evanescente, vuoto, fugace. Oggi diremmo “fregatura”. Per Qoèlet tutta la vita è un immenso vuoto, una nebbia, un soffio, un’illusione, un’assurdità, una fregatura.

Secondo Gianfranco Ravasi - nel suo commento al Qoèlet - l’espressione «vanità delle vanità» sarebbe un po’ l’antitesi del Cantico dei Cantici. In entrambi i casi i sostantivi che formano la frase sono presentati nella loro forma superlativa ma, mentre Qoèlet parla di un «vuoto dei vuoti», il Cantico dei Cantici «è invece il Cantico superlativo dell'amore». Come Cantico dei Cantici è il superlativo della gioia data dall’amore, così vanità delle vanità è il superlativo della frustrazione  data dal vuoto della vita.

“Hevel” è anche il nome (ebraico) di un altro personaggio biblico - Abele - secondogenito di Adamo. Abele è un vapore sfuggente che scomparirà senza lasciare traccia. Hevel è stato tradotto con “vanità” per dare l'idea di vuoto.

Come sostantivo, hevel viene utilizzato in riferimento agli idoli, proprio per descriverli come vuoti di significato, inutili, inefficaci. In confronto al Dio d’Israele che, nel corso della storia, è intervenuto a favore del suo popolo, le altre divinità vengono descritte come hevel, hanno la stessa consistenza del vapore.

Il fatto che “vanità” sia ripetuto diverse volte, il Qoèlet vuole che l’ascoltatore fermi la sua mente e si dedichi solo a questo pensiero. Se anche l’ascoltatore rifletterà come lui ha riflettuto, vedrà che le cose stanno così. La vanità è la vita umana, essa è una cosa vuota, manca del suo contenuto vitale. Le cose ci sono, manca però ciò che dona valore alle cose. Il Qoèlet comincia a meditare, si interroga, perde le sue certezze. Cosa cerco? Per cosa lotto? Per la vanità! Per cosa mi affatico? Per la vanità!

Nella tradizione ebraica il libro dell'Ecclesiaste si legge a Sukkot, durante la Festa delle Capanne (o Tabernacoli), la festa che ricorda la transitorietà della vita, quando gli Israeliti vivevano sotto le capanne nel deserto.

Per esempio, quando il frutto di un onesto ed intelligente lavoro cade in possesso del pigro e dell’ozioso (v. 21), a quale scopo tanto affanno? È come se il Qoèlet avvertisse una grande ingiustizia in ciò che avviene al momento della morte. Uno lavora con sapienza e con successo e al momento della morte dovrà lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Non solo è una ingiustizia. È anche un grande male. È vanità. Una esistenza onesta ed operosa, che non risparmia a se stessa alcuna fatica e dolore, che pensa sempre per il meglio, poco concedendo al riposo, non dovrà poi concludere con amarezza che tutto è stato perfettamente vano e inutile?

Cosa vuole insegnarci il Qoèlet, o meglio, la Parola di Dio? Prima di tutto essa ci rivela le conseguenze della morte. La morte spoglia l’uomo di qualsiasi cosa che è materiale. L’anima si presenterà “nuda” al cospetto di Dio. Se lasciare agli altri i frutti del proprio sudore è un male, come fare per trasformare la fatica in un bene eterno o in qualcosa che l’uomo porta con sé? Tutto ciò che è materia appartiene alla terra e alla terra lo si deve lasciare. L’anima porta con sé solo ciò che è spirituale, sia in bene che in male. È proprio questa la saggezza: trasformare in realtà spirituale il frutto del proprio lavoro. La Parola di Dio indica questa via nella carità. Chi fa della propria vita un atto di carità, nulla perde, tutto porta con sé, acquisisce un guadagno eterno.

La  vita  dell’uomo  sulla  terra  è  dolori  e fastidi  penosi.  Il  suo  cuore  neppure  di notte riposa. Se poi deve lasciare la terra spoglio, è il vuoto assoluto. È questo il motivo per cui è necessario trovare una soluzione per trasformare la vanità in pienezza. Se questa soluzione non viene trovata, la vita rimane vuota. Nessun uomo deve vivere una vita vuota. Egli ha bisogno di pienezza. La via però è sempre e una sola. La trasformazione della materia in spirito, in virtù, in amore, dà il vero compimento alla vita. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Gen 18,20-32

Genesi 18:20 Disse allora il Signore: «Il grido contro Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave.

Genesi 18:21 Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».

Genesi 18:22 Quegli uomini partirono di lì e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora davanti al Signore.

Genesi 18:23 Allora Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio?

Genesi 18:24 Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?

Genesi 18:25 Lungi da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?».

Genesi 18:26 Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città».

Genesi 18:27 Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere...

Genesi 18:28 Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne trovo quarantacinque».

Genesi 18:29 Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta».

Genesi 18:30 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta».

Genesi 18:31 Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti».

Genesi 18:32 Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

 

Il male che si compie grida al Signore. Possiamo definire il peccato di Sodoma e di Gomorra come l’abisso ultimo in cui può cadere la natura umana. Il testo della Genesi presenta Dio che vuole accertarsi che le cose stanno veramente secondo il grido che è giunto fino a Lui.

«Disse allora il Signore: Il grido contro Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave». Queste parole sottolineano il motivo dell'imminente distruzione di Sodoma e Gomorra. Per Dio, la peccaminosità di quelle città ha raggiunto un livello che richiede il giudizio. Il "grido" di cui si parla simboleggia il grido di ingiustizia e immoralità che è giunto agli orecchi del Signore.

L'attenzione sui peccati delle città rivela il principio che la corruzione morale e l'ingiustizia si scontrano con la punizione divina. Questo implica che il giudizio di Dio non è arbitrario, ma è una risposta all'effetto cumulativo della malvagità e del decadimento della società.

L'applicazione pratica del v. 20 va oltre il contesto storico e teologico, e riguarda il concetto della giustizia divina e della responsabilità morale dell'uomo. Ci ricorda che le azioni hanno conseguenze e che esiste un ordine morale divino che ritiene gli individui e le società responsabili del loro comportamento.

Inoltre, incoraggia la riflessione sull'etica personale e comunitaria. È un invito all'autoesame e al pentimento, ed esorta gli individui e le comunità ad affrontare i fallimenti morali e le ingiustizie prima che raggiungano un punto di non ritorno. Sottolinea anche l'importanza di promuovere la giustizia e la rettitudine nel proprio ambiente di vita. Proprio come il grido di Sodoma e Gomorra fu notato da Dio, anche il clima etico delle nostre comunità viene osservato e valutato.

Il v. 20 ha una notevole rilevanza nel contesto di oggi. È un potente promemoria delle conseguenze del fallimento morale collettivo e dell'importanza della condotta etica. In un mondo che affronta numerose sfide morali e sociali, questo versetto richiama l'attenzione sulla necessità del pentimento personale e sociale. Invita gli individui e le comunità a riflettere sulle loro azioni e sui valori della società, incoraggiando un cammino verso la rettitudine e l'equità. Inoltre, il racconto di Sodoma e Gomorra stimola discussioni su questioni come la corruzione, l'ingiustizia e il ruolo della comunità di fede nell'affrontare le questioni morali. Sfida i lettori contemporanei a considerare se le loro azioni e le strutture sociali si allineano con i principi divini di giustizia e compassione.

È un versetto profondo che racchiude le ragioni che motivano il giudizio divino di Sodoma e Gomorra. Mette in evidenza l'importanza del comportamento morale e il principio della retribuzione divina in risposta a gravi trasgressioni. Il "grido" di Sodoma e Gomorra è un grido morale che va oltre la percezione umana e invoca l'intervento divino. La natura "molto grave" del loro peccato evidenzia l'intensità della loro corruzione morale, e serve da monito per tutte le società sui pericoli della malvagità incontrollata.

In termini pratici, bisogna trarre lezione sull'importanza di vivere secondo gli standard divini e di mantenere la giustizia sociale, sostenendo l'integrità, la compassione e la rettitudine nella vita personale e comunitaria. La profonda connessione tra il comportamento umano e il giudizio divino, sfida i credenti a vivere una vita che rifletta la giustizia e l'integrità morale.

Dopo di che nasce biblicamente, con questo racconto della vita di Abramo, la preghiera di intercessione. Nasce anche la richiesta di perdono dell’empio a motivo del giusto. È questo il cuore della nostra cristologia. È questo il cuore del Vangelo. Dio non può far morire insieme l’empio e il giusto a motivo dell’empio. Dio però può far vivere insieme l’empio e il giusto a motivo del giusto. 

Chi ama il Signore e ha fede in Lui, non può accettare una giustizia sommaria che accomuna in un’unica condanna l’empio con il giusto.

Alla base di questa discussione vi è un interrogativo preciso: davanti a Dio ha maggior peso la cattiveria di molti o la bontà di pochi? Dio è pronto a dare più importanza al bene, anche se minoritario, perché il suo amore precede la sua giustizia. 

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Sal 14)

Salmi 14:1 Salmo. Di Davide.

Signore, chi abiterà nella tua tenda?

Chi dimorerà sul tuo santo monte?

Salmi 14:2 Colui che cammina senza colpa,

agisce con giustizia e parla lealmente,

Salmi 14:3 non dice calunnia con la lingua,

non fa danno al suo prossimo

e non lancia insulto al suo vicino.

Salmi 14:4 Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,

ma onora chi teme il Signore.

Anche se giura a suo danno, non cambia;

Salmi 14:5 presta denaro senza fare usura,

e non accetta doni contro l'innocente.

Colui che agisce in questo modo

resterà saldo per sempre.

 

Il salmo è di Davide. Per mezzo di lui lo Spirito Santo ha espresso queste parole. Questo salmo elenca undici azioni che fanno di un uomo un giusto. Alcune di queste azioni, come il divieto del prestito a interesse o della corruzione in tribunale, sono previste dalla Torah, ma altre no, a dimostrazione che Davide è profeta, va oltre la linea di giustizia tracciata dalla Torah. Da un punto di vista cultuale, è un salmo liturgico, un vero e proprio “atto penitenziale” perché il pellegrino per entrare nel tempio doveva avere 1'animo purificato. Si tratta di un gesto che si compie anche all'inizio della Messa ("Confesso a Dio onnipotente... ") che precede la celebrazione vera e propria del rito.

Per entrare nel tempio, la Torah richiedeva una purità esteriore, che era legata all'osservanza di determinate pratiche. Il salmista va oltre: Dio esige la purità interiore. A Dio interessa il cuore dell'uomo, la purezza del cuore. Davide manifesta quella legge scritta nei cuori che sarà portata a compimento da Gesù. Il salmo esprime il camminare verso Dio, il giungere nella tenda del Signore, e qui sostare. Il pellegrino va al tempio, ma alla fine vi dimora anche, non nel senso di abitare nel tempio ma nel senso che incontra il Signore ed ha comunione con Lui. È quello che sperimentiamo nell'Eucarestia.

Le domande del salmista - Chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte? - sono domande che riguardano il futuro dell'uomo. L'uomo non vive solo di presente o di futuro storico. Vive anche di un futuro eterno, dopo la sua morte. Questo futuro lo si potrà vivere sul monte della vita che è del Signore, oppure nella valle della perdizione e della morte senza il Signore. Chi abiterà con il Signore per l'eternità? Chi dimorerà per sempre nella sua casa? A questa domanda bisogna dare una risposta. Il Salmo dà la risposta con molta chiarezza.

Per vivere in eterno con Dio occorre che vengano osservate delle leggi ben precise: camminare senza colpa, praticare la giustizia, dire la verità (v. 2). La prima richiesta ("Colui che cammina senza colpa") condiziona tutte le altre. L'ebraico «tāmîm» significa "rettamente". Cammina senza colpa (cioè rettamente) e pratica la giustizia… colui che osserva la Parola di Dio e vive nell'osservanza dei comandamenti. Dice la verità… colui che è giusto, perché solo il giusto ha nel cuore Dio che è la verità. Se l’uomo mette Dio nel suo cuore, sempre parlerà con verità. Se Dio però non è nel cuore, o addirittura si pensa che non esista, quale verità potrà proferire con la bocca se è assente dal cuore? 

Per salire e abitare sul monte del Signore si deve avere sempre una lingua pura, santa (v. 3). Mai con essa si devono spargere calunnie, falsità, diffamazioni. Non si deve fare alcun danno al prossimo, né fisico e né spirituale. Non si devono lanciare insulti al proprio vicino. Il vicino deve essere aiutato, mai calpestato, mai insultato. Con il vicino si deve vivere in serena fraternità.

Chi vuole salire sul monte del Signore non deve avere alcuna connivenza con il malvagio (v. 4). Il malvagio deve essere ritenuto spregevole ai suoi occhi. Nessuna comunione con lui. Piuttosto si deve sempre onorare chi teme il Signore. Chi vuole abitare con Dio deve starsene lontano dagli empi, e deve frequentare chi teme il Signore.

Altra cosa necessaria che deve essere fatta: dovrà osservare i giuramenti. Deve mantenere sempre la parola data, anche se è a suo danno, anche se contro i propri interessi. Il giusto dovrà essere sempre giusto. Poiché dovrà abitare nel regno della luce, il suo dovrà essere un cammino di luce. Quanto distante è oggi la concezione di molti cristiani da quella del salmista. È come se avessimo distrutto in pochi anni un patrimonio di verità costruito in millenni.

L'usura è un peccato condannato severamente dalla Chiesa, che è stata sempre contraria agli usurai, tanto è vero che nel Medio Evo questo tipo di prestito era praticato soltanto dagli ebrei. Il v. 5 sembra scritto oggi. Per gli usurai non c'è posto sul monte santo del Signore. Essi si sono nutriti, come vampiri assetati, del sangue dei loro simili, per loro non ci potrà essere posto presso Dio perché nel loro cuore non c'è stato posto per i bisognosi.

Non salirà sul monte santo di Dio neanche chi si lascia corrompere da doni e regali, contro l’innocente. Chi condanna gli innocenti, qualunque sia il motivo, sappia che per lui non c'è posto sul monte di Dio. Il problema della corruzione della magistratura era di attualità anche nella Bibbia. I giudici che ricevevano compensi davano ragione al forte e torto al debole. Il giusto, invece, abbraccia la causa dell'innocente senza incentivi monetari. Se il cristiano avesse il coraggio di annunciare queste antiche verità, il mondo respirerebbe di una luce diversa. Purtroppo il cristiano predica una salvezza a basso prezzo, anzi senza alcun prezzo, addirittura al prezzo del peccato, e il mondo sta precipitando nel caos per mancanza di verità e moralità.

Il salmo, con tutte le sue richieste molto concrete, evidenzia che liturgia e vita, preghiera ed esistenza, non devono mai essere separate. Un cristiano che si limita soltanto ad andare alla Messa domenicale non è un buon cristiano, perché la pratica del culto non può essere separata dalle opere. Ci sarebbe una frattura grandissima tra la sua preghiera (liturgia) e la sua vita (esistenza).

Il contenuto del salmo ci induce a non avere una visione magica della liturgia e della preghiera; il salmista vuole inculcare il concetto che la liturgia-preghiera senza la coerenza di vita è vuota. Gli atti indicati in questi versetti non si devono compiere al momento dell'ingresso nel tempio; piuttosto sono comportamenti che devono contraddistinguere la vita del credente. Inoltre, la nostra non può essere una fede intimistica [io e il mio Dio] per il fatto che il nostro rapporto con Dio vale proprio in quanto ci sono gli altri. Se non si vive in una dimensione comunitaria, non si può nemmeno amare il Signore. 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Sal 18

Salmi 18:1 Al maestro del coro. Salmo. Di Davide.

Salmi 18:2 I cieli narrano la gloria di Dio,

e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento.

Salmi 18:3 Il giorno al giorno ne affida il messaggio

e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Salmi 18:4 Non è linguaggio e non sono parole,

di cui non si oda il suono.

Salmi 18:5 Per tutta la terra si diffonde la loro voce

e ai confini del mondo la loro parola.

Salmi 18:6 Là pose una tenda per il sole

che esce come sposo dalla stanza nuziale,

esulta come prode che percorre la via.

Salmi 18:7 Egli sorge da un estremo del cielo

e la sua corsa raggiunge l'altro estremo:

nulla si sottrae al suo calore.

 

Questo Salmo è stato diviso dalla liturgia in 18 A e 18 B. Nella prima parte del Salmo (vv. 2-7) c’è il canto al Creatore dell'universo. Nella seconda (vv. 8-15) c’è un inno alla Torah, cioè alla  legge  divina,  alla  parola  del  Signore. Le due parti del salmo trattano di come l'uomo può attingere la conoscenza di Dio; prima per deduzione osservando i cieli visibili e poi mediante l'insegnamento della Torah, la Parola di Dio. Sono rispettivamente la sfera materiale e quella spirituale. L’unità  tra  le  due  parti è  fatta  attraverso il simbolismo del sole: Senza la luce fisica del sole e la luce spirituale della Parola di Dio, non vi sarebbe vita sulla terra. Dio si rivela a tutti illuminando l’universo con il fulgore del sole e illumina il fedele con lo sfolgorare della sua Parola contenuta nella sua legge rivelata. È significativo, infatti, che la legge, nella seconda parte del Salmo, sia tratteggiata con attributi solari: Come  il  sole dà  la  luce  fisica alla terra  (vv.  6-7),  così  la  legge  è  la  lampada  che  dà  luce spirituale all’uomo (vv. 8-9).

L’ordine, la bellezza, l’armonia dell’universo narrano la gloria di Dio. Il firmamento si autoproclama opera delle mani di Dio. L’esistenza dei cieli è un canto alla gloria di Dio. Chi guarda il firmamento non può non confessare che esso è opera della mani del Signore. La maestà della creazione fornisce la prova di un Dio creatore ancora più maestoso del creato. Chi dalla bellezza del creato non vede la bellezza infinita del suo Creatore è uno stolto. Ma chi non è stolto innalza un grande inno di lode al Creatore.

Il giorno che va trasmette la notizia che esiste un Creatore al giorno che viene, gliela affida perché la trasmetta a sua volta. Anche la notte che va ne trasmette notizia alla notte che viene, perché anch’essa gridi questa verità e la consegni a sua volta alla notte che le succederà. Nessun  giorno  vuole  che  l’altro  giorno  si  dimentichi  del  suo  Signore  e  così nessuna notte vuole che l’altra notte smetta di narrare le meraviglie di Dio. La verità  di  Dio deve  rimanere  stabile  per sempre.

Giorno  e  notte  si  trasmettono  la  notizia  in  modo  silenzioso.  Nessuno li ode parlare. Si trasmettono la notizia naturalmente, per il fatto di succedersi, di essere. Basta che la notte si alzi e il cielo stellato brilla in tutto il suo splendore e subito inizia l’inno di lode per il suo Creatore e Signore. Basta  che  il  giorno  spunti  e  la  contemplazione  delle  opere  di  Dio  diviene  un canto di lode e di benedizione per il suo Autore. Questa verità dovrebbe valere anche per l’uomo. Basta che un uomo venga alla luce perché si canti un inno di ringraziamento al suo Autore e Dio. Non vi è prodigio più grande nella natura della nascita di una nuova vita umana. Eppure l’uomo è l’unico essere che non trasmette questa notizia.

Non  vi  è  un  luogo  sulla  terra  dove  giorno  e  notte  non  cantino  la  gloria  del Signore. Da ogni angolo dell’universo appare la straordinaria grandezza di Dio. Da ogni angolo dell’universo sale a Dio l’inno di gloria e di benedizione. Il messaggio del creato riguardo la gloria di Dio raggiunge tutte le nazioni ed è comprensibile a tutti.

Nel cielo vi è qualcosa di straordinariamente bello, grande, luminoso. Nel cielo Dio ha posto la tenda per il sole (v. 6). È come se il sole fosse al centro delle opere di Dio. È come se fosse l’opera più eccelsa. La sua luce e il suo calore riflettono la potenza di Dio. Il sole è anche paragonato a uno sposo che esce dal suo talamo. È l’immagine dello sposo che ama la sua sposa e che dalla sua sposa è amato. Il sole esce per dare gioia, calore, a tutta la terra. Esce per risvegliarla dal suo torpore della notte. Esce per rimetterla in vita. Il sole è la vita materiale della terra. Per questo è simbolo di Dio. Il sole si alza e compie il suo giro per dare vita a tutta la terra. Così è Dio. Si alza e viene a portare la sua luce di verità a tutti gli uomini.

Il sole passa e la terra si riscalda. È Dio la luce eterna che dona vita e calore. Ma soprattutto dona vita di verità ad ogni uomo. Il sole è simbolo di Dio, ma soprattutto è simbolo della Parola di Dio. È la Parola di Dio la vera luce che illumina ogni uomo. Come le piante e gli animali e anche gli uomini attingono la loro vita dal calore del sole, così la Parola di  Dio deve generare vita in ogni uomo. Basta ascoltarla, viverla. È sufficiente che ci si lasci riscaldare dalla sua luce e la vita fiorisce in noi. Non si deve fare nient'altro. Basta solo viverla, assorbirla. La luce del sole si assorbe. Anche la luce della Parola di Dio va assorbita. 

 

 

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(Gal 6,14-18)

Galati 6:14 Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.

 

Mentre gli altri si possono vantare perché sono bravi, perché hanno tanti discepoli, perché osservano la legge, perché si circoncidono, Paolo dice: io vorrei vantarmi di una cosa, della croce del Signore nostro Gesù Cristo. È questo il programma spirituale di Paolo. Ogni azione, ogni gesto deve servire solo a dare compimento a questa sua scelta fondamentale: la scelta di essere crocifisso con Cristo e di crocifiggere il mondo in Cristo. Un crocifisso è un uomo maledetto, ma uno crocifisso in Cristo è un benedetto e un eletto del cielo. Da Cristo in poi la croce, segno di morte, sarà portata come segno di vita e segno di gloria. Chiunque volgerà lo sguardo a Colui che è stato trafitto sarà salvo.

La croce è il contrario del vanto, è una ignominia; è come dire: io mi vanto della cosa peggiore che ci sia, perché la croce è la cosa peggiore che ci sia. Paolo si vanta della croce perché nella croce egli ha capito l’essenza di Dio; ha capito che sulla croce il Signore Gesù ci ha amato. Questo è il vanto del cristiano: capire il mistero della croce e capire il mistero dell’amore di Dio. Chi capisce questo amore dice: io sono crocifisso per il mondo; ma cosa vuol dire che io sono crocifisso per il mondo? Il mondo per me, è morto attraverso la croce, non ha più il suo fascino, non ha più la sua attrattiva, perché io ormai non vivo più del mio io, del mio egoismo, del mio vecchio uomo, io vivo di questo amore che Lui mi dà gratuitamente, quindi sono morto al mio io, vivo di Lui; non sono più io che vivo, Cristo vive in me; la vita che vivo nella carne, la vivo nell’amore del Signore che mi ha amato e ha dato sé stesso per me.

Chi sceglie la croce si dona pienamente al Signore e il dono si concretizza non nel fare questa o quell’altra cosa, ma nel mettersi a disposizione del Signore, nel porsi in ascolto della sua volontà. Scegliere la croce è rinunciare ai propri progetti, alle proprie idee, ai propri pensieri, alle proprie vedute - in modo che lo Spirito possa guidare la nostra vita dove e quando Lui vuole. Così, crocifiggere il mondo significa che noi lo rinneghiamo, lo condanniamo, lo rifiutiamo, lo seppelliamo perché non regni più su di noi, perché non invada la nostra vita, perché non ci tenti e ci faccia abbandonare Cristo, unica sorgente di vita e di benedizione.

Questo mondo è il mondo della carne, del peccato e della morte, che sta in contrasto con la nuova creazione in Cristo. Il mondo lo si crocifigge togliendo dal nostro cuore i suoi pensieri, le sue idee, ogni influenza e ogni sentimento che contrasta con la volontà di Dio espressa e manifestata nella parola di Cristo. Il mondo si crocifigge condannando apertamente le sue opere, il suo essere contro Dio, la sua volontà satanica di opporsi a tutto ciò che è riferimento morale nella condotta dell’uomo. Oggi si condanna il mondo… ma lo si crocifigge? La risposta è negativa. Non si crocifigge perché ci si è omologati al suo pensiero che è pensiero di satana e non di Cristo.

La Chiesa in questo deve registrare molti fallimenti nei suoi figli. Costoro vivono di riti ma non di fede; di funzioni, ma non di Parola; di tradizioni, ma non di santità; vivono di esteriorità e di formalismi, ma non di ascolto della Parola di Cristo. Il mondo non si crocifigge se non si vive di fede, di Parola, di ascolto, di santità, di grande interiorità, di costante mozione dello Spirito Santo.

«Il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo». Paolo è un crocifisso, cioè un morto nei confronti di questo vecchio mondo del male, il quale è impossibilitato ad allontanarlo da Cristo, e lui stesso è stato crocifisso nel confronti del mondo, poiché il mondo da lui nulla può più prendere, se non la testimonianza della croce di Cristo. E questa è l’esperienza profonda che Paolo propone a tutti e di questo si vanta, di questo è giusto vantarsi e voglia il cielo che tutti ci possiamo vantare di questo.

Se il discepolo di Gesù non crocifigge il mondo, dal mondo non viene crocifisso. Le due crocifissioni sono l’una la causa dell’altra. Il discepolo di Gesù crocifigge il mondo, il mondo crocifigge il discepolo di Gesù. Prima deve essere il discepolo di Gesù a scegliere di seguire Cristo con fedeltà, ed è in questa scelta che il mondo viene crocifisso, ma è anche nella realizzazione di questa scelta che il mondo crocifigge il cristiano. Tutto pertanto dipende dal discepolo di Gesù, e se il mondo non ci crocifigge è segno che noi non abbiamo crocifisso il mondo.

Pertanto è assai facile sapere se siamo di Cristo o se non lo siamo. Basta che osserviamo come ci tratta il mondo. Se il mondo ci crocifigge, è segno evidente che noi abbiamo crocifisso il mondo. Quando il mondo non ci crocifigge più, è manifesto che noi abbiamo rallentato il nostro cammino nella fede, o addirittura ci siamo allontanati dalla retta via e ci siamo immersi (anche noi) nei pensieri e nella logica del mondo.

Praticamente in questo versetto Paolo riassume l’esperienza profonda della vita cristiana e il nocciolo di tutta la Lettera ai Galati, cioè il senso della croce, come vanto, cioè come gloria, come rivelazione di Dio e come cambiamento radicale di vita: muore l’uomo vecchio e nasce l’uomo nuovo che ha come misura l’amore di Dio e non più il proprio egoismo, i propri desideri.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

  • Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo nel mistero trinitario
  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
  • Tutte le generazioni mi chiameranno beata
  •  Cattolici e Protestanti a confronto – In difesa della fede
  •  La Chiesa e Israele secondo San Paolo – Romani 9-11

 

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The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
These words are full of the disarming power of truth that pulls down the wall of hypocrisy and opens consciences [Pope Benedict]
Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia e apre le coscienze [Papa Benedetto]
While the various currents of human thought both in the past and at the present have tended and still tend to separate theocentrism and anthropocentrism, and even to set them in opposition to each other, the Church, following Christ, seeks to link them up in human history, in a deep and organic way [Dives in Misericordia n.1]
Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda [Dives in Misericordia n.1]
Jesus, however, reverses the question — which stresses quantity, that is: “are they few?...” — and instead places the question in the context of responsibility, inviting us to make good use of the present (Pope Francis)
Gesù però capovolge la domanda – che punta più sulla quantità, cioè “sono pochi?...” – e invece colloca la risposta sul piano della responsabilità, invitandoci a usare bene il tempo presente (Papa Francesco)

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