Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

(Ap 1,9-11a.12-13.17-19)

Apocalisse 1:9 Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù.

 

Chi scrive è Giovanni. Come molti scritti profetici dell'Antico Testamento cominciano con il racconto della chiamata dei loro autori, così anche Giovanni colloca all'inizio del suo libro il compito che gli è stato affidato e che lo autorizza a scrivere. È lui che riceve la rivelazione di Dio, e prende direttamente la parola in prima persona.  Giovanni è "fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù". È “fratello” perché in Cristo è una cosa sola insieme agli altri discepoli. In Cristo siamo tutti figli dell'unico Dio e quindi tutti fratelli gli uni degli altri. È il corpo di Cristo che ci costituisce una cosa sola in Lui. Con ciò viene presentato il contesto in cui il messaggio è nato: l'Apocalisse è in sostanza un messaggio riguardo la tribolazione, ed è un messaggio di speranza rivolto a una comunità perseguitata.

Giovanni è “compagno”, cioè è in comunione con loro, “nella tribolazione”, perché anche lui è perseguitato come loro, insieme a loro. Lui non scrive da fuori della persecuzione, da uomo libero, scrive da dentro la persecuzione. Secondo una tradizione, Giovanni uscì sano e salvo da una botte piena di olio bollente senza la benché minima ustione, e così fu relegato in esilio dall'Imperatore Domiziano, successore di Tito e suo fratello germano.

È compagno “nel regno”, la "basileia", la regalità. C'è una fierezza, una dignità, una regalità che è strutturale nella vita cristiana. Anche Giovanni come loro appartiene a quel regno di sacerdoti costituito da Dio. Tribolazione e regalità sembrano contraddirsi. Non siamo trionfanti eppure ci riconosciamo nell'essere dignitosi, fieri, liberi anche nelle vicende più drammatiche. Giovanni addita la regalità della vita cristiana come un modo di stare dentro a tutte le situazioni più disperate con regalità di vita.

È compagno “nella costanza in Gesù”, perché vuole perseverare sino alla fine come Gesù. Lui di Gesù è il discepolo amato. Lui ha accompagnato Gesù fino alla croce. Ora Giovanni sta amando Gesù nella persecuzione, nel dolore e nella sofferenza. Lo sta amando nella costanza, cioè nella perseveranza sino alla fine. La costanza è la capacità di tener duro, di star sotto ai pesi, di sostenere il carico, la capacità di perseverare anche là dove il carico diventa gravoso. In attesa del glorioso evento della manifestazione del regno, la paziente sopportazione è la virtù specifica dei perseguitati. Incorporati in Cristo per mezzo del battesimo, i cristiani diventano partecipi della sua passione, ma in attesa di partecipare alla sua stessa gloria.

Giovanni è in esilio. Il luogo del suo esilio è l'isola chiamata Patmos. È un'isola rocciosa di circa 26 km quadrati, a circa 100 Km a sud di Efeso, facente parte delle Sporadi. Nell'isola si mostra ancora oggi una grotta dove si dice che l'apostolo abbia ricevuto queste rivelazioni. Eusebio, lo storico della chiesa, scrive che dopo la morte di Domiziano, il senato romano aveva richiamato tutti quelli che erano stati esiliati, e Giovanni da Patmos andò a Efeso. Egli dice anche che Giovanni sopravvisse fino al regno di Traiano. Infatti, l'uso del tempo passato, "mi trovavo nell'isola" suggerisce che lui non si trovava più a Patmos quando ha messo per iscritto le sue visioni. L'isola è una bella figura della Chiesa di Cristo. Come un'isola è continuamente sbattuta dalle onde del mare, così la Chiesa è afflitta dalle persecuzioni. L'apostolo è esiliato in questo luogo di pena “a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù”. Giovanni si presenta come un testimone di Gesù. Lui è il testimone di Gesù che trasmette coraggio a tutti gli altri testimoni di Gesù, perché perseverino nella loro testimonianza sino alla fine.

La parola "testimonianza" evoca l'atmosfera di un processo o di un pubblico dibattito: si testimonia un fatto accaduto e una realtà vissuta personalmente. Non è valida una testimonianza per sentito dire. La testimonianza cristiana è inoltre legata alla sofferenza, al pagare di persona: testimonianza vuol dire martirio. Decidendo di porsi dalla parte di Cristo, il testimone deve sapere che sarà coinvolto nel suo rifiuto da parte del mondo incredulo. È questo l'aspetto che l'Apocalisse sottolinea maggiormente. Giovanni sa che solo chi avrà avuto la forza di andare fino in fondo, come Gesù Cristo, entrerà nel suo regno. Per questo non si risparmia dall'aiutare i suoi fratelli. Il discepolo di Gesù può essere perseguitato per una sola ragione: "a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù", cioè, può essere perseguitato solo perché vero, autentico, fedele discepolo di Gesù. Chi fa questa scelta, dal mondo sarà sempre avversato. È questa, però, la scelta della vita eterna. 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

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Apr 14, 2025

PASQUA (1Cor 5,6b-8)

Pubblicato in Art'working

(1Cor 5,6b-8)

 

1Corinzi 5:6 Non sapete che un pò di lievito fa fermentare tutta la pasta?

1Corinzi 5:7 Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!

1Corinzi 5:8 Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità.

 

Attenzione perché un po' di lievito, cioè aprire uno spiraglio al male, è come aprire una diga e si viene travolti: un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta! Il peccato è come il lievito. Una volta che lo si mette nella pasta santa della comunità, a poco a poco riesce a fermentarla tutta, cioè a trasformarla in pasta di peccato e non più di santità e di verità. Questa è la vera potenza del peccato. Non solo riesce a rovinare un’anima, ma un’anima rovinata riesce a rovinare altre anime in un processo contagioso.

Bisogna togliere il lievito vecchio perché noi siamo una pasta nuova, una pasta che non deve essere lievitata, siamo pasta azzima. Il riferimento è alla celebrazione pasquale con l’immolazione dell’agnello a ricordo dell’Esodo, e dei pani azzimi che venivano mangiati in quella circostanza. L’agnello poteva essere mangiato solo con pane azzimo. In quella notte tutto ciò che apparteneva al passato, al vecchio mondo, doveva scomparire dalla casa. Bisognava iniziare una vita nuova, verso un futuro nuovo, verso un paese nuovo.

Dice Paolo: Togliete via il lievito vecchio, cioè via quella logica sbagliata che vi fa diventare appartenenti al mondo e non più appartenenti a Cristo. Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Voi siete azzimi. Nel senso che non avete un vostro lievito e nel caso l’aveste fa parte del mondo, perché nel battesimo il vecchio lievito è stato tolto di mezzo, siamo stati rigenerati in Gesù Cristo e in lui siamo stati fatti una nuova pasta, azzima, senza il lievito del peccato. Questa è ora la nostra realtà.

Bisogna mangiare l’agnello pasquale, e il nostro Agnello pasquale è Gesù Cristo che è stato già immolato, è giù sulla tavola. Come lo si mangia? Con la pasta nuova, ma la pasta nuova siamo noi, allora dobbiamo mangiarlo da pasta nuova, non lo possiamo mangiare da pasta lievitata dal peccato. Questo è il motivo per cui bisogna togliere il peccato, cioè il vecchio lievito, dal nostro cuore. Praticamente Paolo fa notare che Cristo, la nostra Pasqua, è già stato sacrificato: la festa è cominciata, eppure il vecchio lievito è ancora nella casa – che contraddizione!

Per difendersi dal pericolo di essere corrotta, la chiesa deve fare quello che si faceva in ogni casa israelita alla vigilia della Pasqua. Si faceva scomparire con molta scrupolosità tutto il pane con lievito. Il vecchio lievito di cui si deve purificare la chiesa è il principio corruttore dell’uomo vecchio. Ricordiamoci che il nostro agnello pasquale, Gesù Cristo, è già stato immolato una volta, e la sua immolazione non si ripete, e quindi la Pasqua che celebriamo dura sempre, e quindi sempre dobbiamo essere senza lievito. La vita cristiana può paragonarsi ad una festa pasquale continua (il «celebriamo» del v. 8 è presente, indica un’azione continua nel tempo). Se la vita cristiana è paragonata a una continua Pasqua; allora i credenti devono continuamente eliminare il lievito dalla propria vita e dalla comunità.

Se non mangiamo Cristo, non possiamo lasciare la terra di schiavitù. Rimaniamo prigionieri del nostro peccato. Se non possiamo mangiare Lui, Cristo non serve alla nostra vita. Se Cristo non ci serve, a che serve che noi siamo cristiani? A nulla.

Per Paolo ci sono tre modi di mangiare Cristo, di celebrare la nostra cena pasquale con Lui. Il primo modo è quello di celebrarla con il lievito vecchio, cioè in uno stato di peccato. Questo modo non è secondo Dio. Questo modo non ci consente di mangiare la Pasqua. Se la mangiamo diviene per noi motivo di condanna. È peccato grave mangiare Cristo, nostra Pasqua, con il lievito vecchio, cioè con il peccato grave nel cuore, senza pentimento, senza volontà di abbandonare questo lievito, senza aver deciso di liberarci di esso.

Il secondo modo è di celebrarla con lievito di malizia e di malvagità. La malizia e la malvagità sono malattie del cuore che non cerca Dio, che non lo desidera, e tuttavia convive con il Vangelo. La malizia toglie il bene dal cuore e vi mette il male, la persona pensa, vuole, e giudica tutto secondo questo criterio di male con il quale convive. Anche questo modo non è secondo Dio.

Il terzo modo di celebrarla, quello giusto, è con gli azzimi della sincerità e della verità. Con la sincerità e la verità nel cuore si inizia quel cammino che deve portarci al conseguimento della nostra meta spirituale che è il raggiungimento del regno dei cieli, in attesa della risurrezione gloriosa del nostro corpo in Cristo, con Cristo e per Cristo.

Per molti, la sincerità significa semplicemente avere sulle labbra ciò che c’è nel cuore, e secondo questi sentimenti agire. Questa sincerità spesso convive con il peccato; la persona sincera commette il peccato apertamente, senza neanche quel pudore che è il segno che ancora vive in noi un poco di timor di Dio. Questa sincerità è deplorevole, perché è una sincerità che scusa il male e chi lo commette. La sincerità che raccomanda Paolo, invece, è la purezza delle motivazioni, la purezza di un cuore sincero senza l’aggiunta di sostanze estranee, intese qui come il peccato, che adulterano le motivazioni pure e le opere dei santi. La vita sincera è una vita che può sostenere l’esame più accurato, una vita le cui caratteristiche sono l’onestà intellettuale e la sincerità morale.

La Pasqua antica era soltanto l’immagine di una festa di molto superiore per significato e per importanza. Il sacrificio dell’agnello che inaugurava la Pasqua era l’ombra dell’unico sacrificio veramente efficace ed eterno dell’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. La liberazione dall’Egitto ricordata dalla Pasqua ebraica, era la figura della liberazione dalla servitù del peccato e della morte eterna, liberazione procurata da Cristo per tutti i credenti, che per la fede in lui ora sono costituiti in popolo di Dio. Il modo di celebrazione della Pasqua (senza azzimi) era l’emblema della vita di riconoscenza e santità che deve condurre la chiesa.

Celebriamo dunque la festa, dice Paolo, la festa del vero passaggio, del vero esodo, con azzimi di sincerità e di verità.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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(Lc 22,14 - 23,56)

 

Luca 22:14 Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui,

Luca 22:15 e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione,

Luca 22:16 poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio».

Luca 22:17 E preso un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi,

Luca 22:18 poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio».

Luca 22:19 Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me».

Luca 22:20 Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi».

Luca 22:39 Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono.

 

Il v. 14 funge da cornice al racconto della cena pasquale al cui interno si colloca l'istituzione dell'eucaristia. Un versetto molto denso, scandito in tre parti. La prima è una nota temporale molto significativa, che introduce il racconto pasquale: “Quando fu l'ora”. L'ora è giunta. È la cena pasquale. Qui avviene l'incontro e il completamento-sostituzione di due eventi salvifici, che vengono strettamente legati alla passione-morte-risurrezione di Gesù: la celebrazione della pasqua ebraica, l'evento della liberazione di Israele. L'altro evento, complementare e sostitutivo del primo, sono il pane e il vino, elementi essenziali e propri della pasqua ebraica, ma che qui, in questa “ora”, vengono risignificati, perché rappresentativi di una nuova liberazione, che ha come fondamento un pane-corpo spezzato e un vino-sangue versato “per voi”, dove in quel “per voi” si ritrova chiunque abbia deciso la propria vita per quel pane spezzato e per quel vino versato. Si tratta, dunque, di un'ora che costituisce il vertice della storia della salvezza, dove tutto ciò che è stato prefigurato trova in quest'ora il suo compimento, che ritualizza in quel pane-corpo spezzato e in quel vino-sangue versato l'evento salvifico che si fa offerta di salvezza per chiunque lo accolga nella propria vita.

La seconda parte del v. 14 presenta un Gesù che prende posto a tavola. Non si parla di sedersi, ma di reclinarsi, adagiarsi, sdraiarsi, distendersi (greco: “anepesen”), alla maniera propria del mondo greco-romano, ma che aveva assunto per l'ebreo il significato di una posizione che qualificava l'uomo libero; mentre la terza parte del v. 14 afferma “gli apostoli con lui”. Gli apostoli sono quelli che Gesù ha chiamato con sé perché condividessero la sua sorte, il ceppo fondativo della chiesa. Ed è proprio in questa prospettiva che l'evangelista attesta che anche gli apostoli si adagiano con Gesù a quella tavola del pane-corpo spezzato e del vino-sangue versato, condividendone in tal modo la sorte. Si tratta - lo sdraiarsi alla mensa con Gesù in cui viene ritualizzata la sua morte - di una vera e propria sequela che in qualche modo riecheggia, anticipandolo, il v. 39 in cui si racconta che Gesù “uscito, se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono”.

Il v. 15 apre la pericope relativa alla pasqua ebraica che qui, in quel “prima della mia passione”, viene legata alla passione e morte di Gesù; ma si intuisce anche come in quel “prima” questa pasqua ebraica sia anche l'ultima. Si comprende in tal modo l'esprimersi di Gesù (“ho desiderato ardentemente”), per dire la sua grande attesa per questa pasqua, posta alle soglie del suo patire e morire. Una pasqua di addio, quindi, ma non di abbandono, poiché saranno proprio i vv. 19-20, che nel riprendere la gestualità della pasqua ebraica la riscatteranno, divenendone riferimento perpetuo (“in memoria di me”), in cui si ritrova una nuova presenza di Gesù sotto forma di pane e di vino e che ha il suo compimento in lui, vero agnello pasquale immolato.

Luca, nel rilevare il grande desiderio e la grande attesa di Gesù per questa pasqua, l'ultima che egli avrebbe celebrato con i suoi, focalizza l'espressione “mangiare questa pasqua con voi”, così che in qualche modo, in quella pasqua, i discepoli sono coinvolti nei destini di Gesù. Una pasqua che, tuttavia, ha la sua compiutezza soltanto nel Regno di Dio, denunciandone in tal modo la sua incompiutezza e, quindi, tutta la sua inconsistenza e fragilità. In altri termini, una pasqua (quella ebraica) che ha liberato, ma non è più liberante.

La questione del valore salvifico di questa pasqua è qui affrontata da Luca nella contrapposizione tra i verbi “mangiare” e “non mangiare” del v. 16, verbo quest'ultimo, come il “non bere” del v. 18, posto al futuro; come dire ‘mai più mangerò e mai più berrò’, togliendo a questa pasqua il senso di “celebrazione liberante”: “finché essa non si compia nel regno di Dio”, assegnandole in tal modo una dimensione escatologica.

Il presente della pasqua ebraica, infatti, che celebra la liberazione di Israele dall'oppressione egiziana, ha in se stessa un senso incompiuto, che era racchiuso in un memoriale ripetitivo che non trova sbocchi nella storia se non in un ricordo glorioso, che simile al muro del pianto, ricorda la grandiosità delle gesta di Yahweh. Una pasqua, quindi, sterile - che non apre Israele al futuro, ma lo rinchiude nel suo passato attraverso una ritualità che non gli consente sbocchi, così che la liberazione in essa celebrata diventa una liberazione incompiuta. Per questo Gesù e con lui i suoi non ne mangeranno più e non solo perché egli verrà ucciso da lì a poco. Liberazione che, tuttavia, ritroverà il suo senso e la sua compiutezza in quel Regno di Dio, che Gesù è venuto a rivelare e a fondare, e che quella pasqua in qualche modo prefigurava, celebrando una liberazione che in realtà ne prefigurava un'altra e nella quale troverà la sua compiutezza, divenendo pasqua liberante.

Gesù, dunque, non mangerà più di questa pasqua, e con lui i suoi discepoli, perché questa è stata trasferita in una nuova pasqua e da questa sostituita, in un nuovo esodo dalla schiavitù alla libertà, significato nel passaggio dalla morte alla vita di Gesù, che incide sulla vita di ogni singolo credente nel suo oggi, il quale mangiando di questa nuova pasqua, annuncia nella testimonianza della propria vita questo passaggio dalla morte alla vita - nell'attesa del suo ritorno. Viene a crearsi in tal modo una forte tensione escatologica tra il ‘già e il non ancora’; orientando l'intera umanità credente verso una meta che va al di là dello spazio e del tempo, dove l'oggi incompiuto trova la sua compiutezza e il suo senso e dove il tempo incompiuto diventa eternità compiuta.

 

  Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

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(Gv 8,1-11)

Giovanni 8:1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi.

Giovanni 8:2 Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.

Giovanni 8:3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo,

Giovanni 8:4 gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.

Giovanni 8:5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?».

Giovanni 8:6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.

Giovanni 8:7 E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».

Giovanni 8:8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.

Giovanni 8:9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.

Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo.

Giovanni 8:10 Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».

Giovanni 8:11 Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; và e d'ora in poi non peccare più».

 

Significativo è il verbo che Giovanni usa per indicare che Gesù si reca al tempio: “paraginomai”. Il verbo è composto dalla preposizione “para”, che significa “presso, verso” e dal verbo “gignomai”, che significa “diventare”. L'andare di Gesù al tempio dunque è un farsi vicino e un diventare sempre più quel tempio che non solo è la casa del Padre suo, ma anche figura del suo nuovo corpo, in cui si celebrerà un nuovo culto gradito a Dio.

Il contesto in cui si inserisce il racconto è quello del tempio e più precisamente, come sottolinea con estrema precisione il v. 20, il “luogo del tesoro” che era detto anche cortile delle donne, perché segnava il confine al di là del quale le donne non potevano accedere. Quando dunque gli scribi e i farisei conducono la donna colta in flagranza di adulterio da Gesù, questi stava insegnando nell'atrio delle donne o tesoreria. Il racconto dell'adultera dunque si inserisce all'interno dell'attività di insegnamento di Gesù, e in qualche modo ne fa parte.

Gli scribi e i farisei conducono da Gesù una donna. Essa viene posta in mezzo. Non si dice esattamente dove, ma l'idea che ne viene è che essa sia posta in mezzo alle due parti, tra Gesù e le autorità religiose. Ci si trova dunque tra due schieramenti contrapposti in mezzo ai quali viene posto l'oggetto del contendere, non tanto la donna, spogliata di ogni identità e di ogni dignità, ma quello che lei rappresenta: un caso di violazione della Torah. La questione dunque si sposta subito dalla donna alla Legge mosaica, che la condanna alla lapidazione. Un confronto che diviene più evidente al v. 5 dove si oppone Mosè a Gesù: “Mosè ci ha comandato… Tu che ne dici”?

“Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo”. Sotto processo quindi non c'è soltanto la donna, ma con lei anche Gesù, il quale si trova di fronte ad un aut aut: mettersi contro Mosè, sostenendo la sua posizione critica nei confronti del modo di intendere la Torah; o dare ragione a Mosè, rinnegando la sua posizione. Ma Gesù trova una terza via: per due volte, al v. 6 e al v. 8, viene evidenziato che Gesù “si mise a scrivere col dito per terra”. Giovanni, quindi, sembra voler attrarre l'attenzione sul bizzarro comportamento di Gesù. Ci si è chiesti che cosa Gesù stesse scrivendo per terra con il dito e fiumi d'inchiostro sono stati versati nelle più disparate ipotesi, che, a giochi fatti, tali sono rimaste. Ma qui il problema non è il contenuto, cioè ciò che Gesù stava scrivendo, ma lo scrivere stesso di Gesù; è questo gesto che l'evangelista indica al suo lettore e non ciò che Gesù ha scritto: “chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra”. Del resto, non va dimenticato, Gesù stava scrivendo sul pavimento dell'atrio delle donne, che era di pietra. Ciò che scriveva con il dito quindi non poteva rimanere impresso e pertanto non poteva neppure essere letto. 

Per capire il comportamento di Gesù è necessario leggere con attenzione: “chinatosi”; è l'atteggiamento di chi si avvicina dall'alto verso il basso, quasi andando incontro a qualcosa o a qualcuno, che si trova più in basso di sé. A questo punto Gesù “si mise a scrivere col dito per terra”. Ecco ciò che conta: “lo scrivere con il dito” sulla terra, che sappiamo essere però “pietra”. Gesù dunque, chinatosi scriveva con il dito sulla pietra. A rafforzare questo concetto c'è lo stesso verbo scrivere che, diversamente da quello contenuto al v. 8, è qui reso con una forma verbale particolare: “katégraphen”, il cui significato primario non è scrivere, bensì incidere, graffiare, sottolineando più l'azione di uno scalpellino che quella di uno scriba. Ed è esattamente ciò che Es 31,18 dice: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, TAVOLE DI PIETRA, SCRITTE DAL DITO DI DIO”. Anche Dio quindi è sceso giù sul monte Sinai e lì con il suo dito ha scritto la sua Legge sulla pietra. Il comportamento di Gesù dunque riproduce esattamente quello di Dio sul Sinai. Gesù quindi sta qui riscrivendo la Legge mosaica con l'autorità stessa di Dio, riproducendone il comportamento, dichiarando in tal modo superata non tanto la Torah, quanto la modalità di approcciarsi ad essa e di intenderla, secondo la logica della lettera, soffocandone lo spirito di cui era portatrice.

Il giudaismo non riusciva a trascendere la fisicità della Legge espressa nella lettera. I suoi avversari infatti “insistevano nell'interrogarlo” (v. 7). Così, Gesù li sfida, ribaltando l'accusa mossa all'adultera su di loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Alla loro insistenza Gesù, dunque, risponde invitandoli a riflettere sulla loro comune condizione di peccatori, poiché nessuno di fronte a Dio può ritenersi in qualche modo giusto e santo. La Torah dunque va riletta e ricompresa dalla prospettiva di Dio e non dell'uomo; per questo Gesù sta riscrivendo la Torah secondo le logiche e il sentire di Dio e ne ha tutta l'autorità e il potere.

Il v. 9 rileva come tutti se ne andarono, denunciando in tal modo la loro incapacità di giudizio, perché un peccatore non può ergersi a giudice verso un altro peccatore. Il giudaismo con il suo mondo della lettera che accusa e condanna è scomparso, lasciando posto ad una nuova realtà, quella dell'amore del Padre che si è donato all'uomo nel Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio in Gesù sta dunque riscrivendo la sua Legge secondo le logiche non più della lettera, ma dello spirito che la vivifica. Il giudizio pertanto si dovrà espletare nel perdono e nella misericordia.

Il racconto dell'adultera si chiude con una constatazione: nessun verdetto è stato emesso; nessun giudizio si è compiuto. Il processo che si era instaurato nei confronti di Gesù e della donna si è disciolto, poiché questo è il tempo della misericordia e della salvezza e non del giudizio. La Legge mosaica perde il suo volto duro di giudice che condanna senza appello per confluire nell'economia dell'amore e della grazia. Per questo i rappresentanti e i sostenitori della Legge sono scomparsi ed è rimasto solo Gesù, il nuovo Mosè che sta riscrivendo con il dito di Dio una nuova legge, quella fondata sullo spirito che dona la vita e non la toglie.

Il v. 11 si chiude con l'esortazione a riprendere e a proseguire quel cammino di rigenerazione che è iniziato con l'incontro con Gesù espresso con quel “da ora in poi” che segna una netta cesura tra il prima e il dopo; inizia un cammino nuovo: “da ora in poi non peccare più”. Nel nostro normale intendere, il non peccare significa non commettere dei peccati, cioè non commettere delle violazioni, per cui il peccare è un fare o non fare ciò che la Legge divina ci comanda. Ma l'espressione in questione va ben oltre questa visione riduttiva. Infatti il verbo “amartánō” (peccare) in prima battuta non significa peccare, bensì deviare, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, non raggiungere l'obiettivo, fallire; quindi, in seconda battuta, anche peccare, il cui significato però va compreso all'interno di quei significati da cui deriva. Di conseguenza l'invito di Gesù “a non peccare” non è un invito a non violare più la Legge mosaica, bensì a prendere atto come la donna, dall'incontro avuto con Gesù sia stata generata a nuova vita (“da ora in poi”) e in questa novità di vita deve guardarsi dal deviare e dall'abbandonarla, non tanto perché qualcuno la potrebbe condannare nuovamente, ma perché “da ora” l'abbandonarla contiene già in sé il senso del fallire quell'obiettivo ultimo verso cui si è incamminati: Dio, della cui vita siamo stati resi partecipi fin d'ora in Cristo.

A tal punto più nessuno, né la Legge né Dio, ci condannerà, perché noi stessi ci condanneremmo e Dio non può più fare nulla, perché, parafrasando s. Agostino, quel Dio che ci ha creati senza di noi, non può salvarci senza di noi. In altri termini, ora la salvezza è un dono che è stato posto nelle nostre mani; spetta a noi aderirvi esistenzialmente o meno. E qui non si tratta di osservare qualche comandamento o meno, un modo banale quanto ingannevole di sentirci a posto con Dio, ma di mantenere saldo il nostro orientamento esistenziale verso di Lui, che solo la Parola può alimentare e sorreggere, evitandoci di peccare, cioè di fallire il nostro obiettivo primo ed ultimo: Dio! E questo va ben al di là dell'osservanza o meno di qualche precetto.

 

 

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(2Cor 5,17-21)

4a Domenica di Quaresima (anno C)

 

2Corinzi 5:17 Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove.

2Corinzi 5:18 Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione.

2Corinzi 5:19 È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.

2Corinzi 5:20 Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.

2Corinzi 5:21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.

 

«Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». Paolo dà un saggio della sua visione secondo la fede. Letteralmente dal greco è: “Se uno in Cristo nuova creazione”, senza verbo. Non dice: “se uno crede in Cristo...”, ma dice «Se uno in Cristo»; non adopera il verbo essere. Se uno è inserito in Cristo, cioè se c'è questa identificazione con Cristo, allora è un'altra realtà, una creatura nuova. Quella che si è venuta a creare con la risurrezione di Cristo è una realtà nuova.

La fede ci fa una cosa sola con Cristo, perché ci fa un solo corpo in Cristo. Cristo è la novità di Dio. Cristo è l’uomo nuovo venuto a fare nuove tutte le cose. Se noi siamo in Cristo, partecipiamo della sua novità di amore e di verità. Qual è la conseguenza di questa novità? L’abbandono delle cose vecchie. Vecchio, per Paolo, è tutto il passato vissuto senza Cristo o nell’attesa di lui.

Altra conseguenza è questa: le cose vecchie in Cristo non esistono più; se le facciamo esistere, allora noi non siamo più vitalmente uniti a Cristo; siamo in Cristo in ragione del nostro battesimo, ma non lo siamo in quanto partecipazione alla sua grazia e alla sua verità.

Anche questo è un altro grande principio dell’antropologia paolina, che è poi antropologia cristiana. L’essere divenuti in Cristo nuove creature obbliga a vivere come tali. Obbliga a vivere in novità di vita, e la novità di vita per Paolo è una sola: riproporre la vita di Cristo nelle nostre membra, perché noi siamo suo corpo.

La Chiesa non ha solo l’obbligo di annunciare Cristo, ha anche quello di aiutare ogni membro di Cristo a sviluppare tutta la novità che Cristo ha creato in lui mediante il suo santo Spirito. La Chiesa deve essere maestra e guida perché ogni suo figlio manifesti Cristo nelle opere e nei pensieri. Per questo, oltre che missionaria, deve essere anche formatrice di quanti già credono in Cristo. Senza  quest’opera di formazione, la stessa missione svanisce. Non può svolgere la missione cristiana se non chi vive di Cristo, in Cristo e per Cristo. È compito della Chiesa impegnare ogni sua energia affinché il popolo di Dio cresca nella verità, nella grazia, nella santità, in spiritualità.

La Chiesa non potrà fare questo se perde di vista di essere luce in mezzo agli uomini. Una luce che si affievolisce non è vista più da nessuno; mentre una luce che cresce e si ingrandisce sempre più, può attrarre uomini da molto lontano. Questa è la via della Chiesa: la formazione spirituale, dottrinale, sapienziale dei suoi figli.

«Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione». Eccoci arrivati al grande tema della riconciliazione. Perché Paolo scrive questa lettera? Per riconciliarsi con i Corinzi. Quindi arriva al vertice mettendo in evidenza l'amore di Cristo che ha dato se stesso; questa è la causa che riconcilia, che rimette insieme. La riconciliazione è mediante Cristo, ma su questo iniziano le divergenze, o meglio iniziano le falsità. Da tutti si afferma la redenzione mediante Cristo, ma non la redenzione alla creazione in noi della novità che è Cristo. Non si può affermare che l’uomo è stato fatto nuova creatura in Cristo senza affermare che è chiamato a vivere questa vita nuova.

Una redenzione concepita solo come salvezza finale, senza la novità che Cristo ha prodotto in noi, è una redenzione protestante, non è redenzione biblica, non è cattolica, perché non è questa la redenzione che Gesù Cristo è venuto ad operare in mezzo a noi.

«È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo». Paolo ora spiega in che cosa consiste la riconciliazione. Con il peccato l’uomo ha contratto una colpa dinanzi a Lui. Questa colpa merita una pena, che è la morte eterna dell’uomo. Dio, per il  sacrificio di Cristo offerto sulla croce, per la sua obbedienza fino alla morte e alla morte di croce, non imputa più questa colpa. Quindi l'azione importante l'ha fatta il Cristo e ha affidato agli apostoli il ministero della riconciliazione. C'è una lite, tra Dio e l'uomo; è evidente che ha ragione Dio e l'uomo ha torto. A questo punto, per arrivare alla riconciliazione, che si fa? Nel mondo chi ha torto paga! C'è la pena e ci sono le spese del processo: chi ha torto paga; dopo di che ci si rimette a posto e ci si riconcilia. Qui invece la riconciliazione avviene non facendo pagare a chi aveva torto, e questo annunzio dell'avvenuta riconciliazione senza il pagamento della pena e delle spese, è affidata agli apostoli.

Da precisare che la riconciliazione cristiana non è solo la non imputazione delle colpe contratte a causa dei peccati commessi. Questa è solo una parte della riconciliazione. La riconciliazione cristiana da un lato confessa il perdono dei peccati, dall’altro essa è incorporazione in Cristo, è essere stati fatti in Cristo creature nuove. Tutti questi aspetti della riconciliazione sono essenziali e devono essere insegnati, altrimenti si può anche ridurre la riconciliazione ad un fatto puramente giuridico. Il Signore non ci imputa il peccato, ma noi rimaniamo così come siamo. Questa non è la verità cristiana della riconciliazione, ma è la dottrina calvinista.

«Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio». L'insegnamento ora si trasforma in un invito accorato ad accogliere il dono di Dio. Non è sufficiente che Dio abbia riconciliato il  mondo in Cristo: è urgente che ognuno si lasci riconciliare in Cristo da Dio e si ci lasci riconciliare accogliendo nel proprio cuore la parola del vangelo, la verità di Cristo. Lasciarsi riconciliare con Dio, invitare ogni uomo ad accogliere la parola della salvezza, è l’invito sempre nuovo che la Chiesa deve fare ad ogni uomo. È questa la via della salvezza. Altre non esistono.

L’azione missionaria della Chiesa inizia con un invito forte alla conversione. L’invito alla conversione, alla riconciliazione deve essere esplicito, chiaro, evidente. Non può essere presunto, né fatto per mezze frasi o per allusioni. Questo non è il metodo di Gesù Cristo, non è lo stile di Paolo, non è la via dei santi.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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(1Cor 10,1-6.10-12)

3a Domenica di Quaresima (anno C)

 

1Corinzi 10:1 Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono il mare,

1Corinzi 10:2 tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare,

 

Paolo, in questo brano, ci rimanda alla storia del passato, alla lezione della storia. Ci richiama al significato profondo della storia che è storia di salvezza. Si dice che la storia è maestra di vita, però gli alunni non imparano niente. Paolo invece dice che dalla storia d’Israele si deve imparare. La storia d’Israele non è una storia qualsiasi, ma è un modo con cui storicamente si è manifestata la rivelazione divina. La rivelazione, infatti, non si è manifestata attraverso la spiegazione di concetti, ma attraverso determinati fatti storici che poi vengono anche letti e interpretati. La storia d’Israele è una storia esemplare, per cui è giusto e doveroso, se si vuol capire Gesù Cristo, vedere tutta la storia sacra che lo prepara. Tra l’altro, questo ci abitua a leggere anche la nostra piccola storia personale, che è anch’essa storia di salvezza perché il Signore cammina con noi.

«Non voglio infatti che ignoriate»: I Corinzi dovevano conoscere i fatti qui narrati, ma l'apostolo vuol far loro conoscere il significato tipologico che questi fatti hanno, e che non deve essere ignorato. Gesù Cristo è il risultato finale di un lungo cammino, e dobbiamo conoscere il cammino che l’ha preceduto. Paolo è molto rispettoso della storia d’Israele e sente di doverla raccontare. Ci rimanda a questi esempi del passato che sono vicende straordinarie, ma sono anche vicende di peccato, e comunque sempre istruttive perché mostrano qual è il modo di fare di Dio.

«I nostri padri». I cristiani possono considerare gli antichi Israeliti come loro padri, perché la Chiesa è succeduta alla sinagoga, ed essi sono i veri eredi e figli di Abramo.

«Furono tutti»: Per tre volte Paolo ripete questa espressione. Come dire che la salvezza era stata data a tutti. Tutti infatti furono guidati dalla nuvola, cioè dalla presenza di Dio, e tutti attraversarono il mare. Tutti conquistarono la libertà dalla schiavitù e tutti furono guidati da Dio nel cammino verso la terra promessa. Quindi, da parte di Dio nessuna esclusione, nessuna preferenza verso gli uni a discapito degli altri. Egli ha tratto dall’Egitto tutto il suo popolo, per tutti ha diviso il mare, per tutti ha voluto che vi fosse la nuvola. Tutti erano nella condizione di grazia e di verità che avrebbe consentito loro di poter conquistare la terra promessa e possederla per sempre.

Questa universalità di grazia e di verità per Paolo è simile a un battesimo. C’è una immersione anche dei figli di Israele, anche se il loro battesimo è semplicemente figura di quello istituito da Gesù Cristo. Tuttavia c’è una vera immersione degli Israeliti nel mare e nella ‘nuvola’ e questa immersione per loro è vera salvezza, vera liberazione.

Israele è vissuto sotto la nuvola, quella nuvola misteriosa che guidava gli Israeliti attraverso il deserto, e li riparava dal sole: a significare la presenza di Dio, la Shekinah. Essere sotto la nuvola significa essere sotto la protezione di Dio. Attraversarono il mare e furono battezzati: il passaggio dalla terra della schiavitù che è l’Egitto, alla terra promessa, avviene attraverso il passaggio del mar Rosso, e questo è un battesimo perché significa lo stacco dalla schiavitù dell’Egitto, liberazione e purificazione, e cammino verso la terra promessa.

«Per essere di Mosè». Mosè, mediatore dell'antica alleanza, era figura di Gesù Cristo, e gli Israeliti da lui condotti verso la terra promessa, erano figura dei cristiani condotti da Gesù Cristo verso il cielo. Ora, come i cristiani per mezzo del battesimo sono incorporati a Gesù Cristo e a lui assoggettati come loro Signore, di cui sono tenuti a osservare le leggi, così per gli Israeliti la nuvola misteriosa e il passaggio del mar Rosso furono una specie di battesimo, per cui restarono assoggettati a Mosè e obbligati ad osservare le sue leggi. Da quel momento, il popolo è separato per sempre dall’Egitto e appartiene al Dio che l’ha liberato e al profeta-mediatore che Dio gli ha dato per capo.

La nuvola misteriosa, segno sensibile della presenza di Dio, e del favore che Egli accordava al suo popolo, era una figura dello Spirito Santo, che viene dato nel battesimo di Gesù Cristo, e similmente il passaggio a piedi asciutti per il mar Rosso e la conseguente liberazione dalla servitù di Faraone, erano figure della nostra liberazione dalla servitù del peccato per mezzo delle acque del battesimo.

Precisata questa verità, Paolo ci ricorda che non è sufficiente uscire dall’Egitto per avere la terra promessa. L’uscita è una cosa, la conquista e il possesso della terra è un’altra. Tra l’uscita e la conquista della terra c’è tutto un deserto da attraversare. Per gli Israeliti il deserto durò quarant’anni; per i cristiani esso dura per tutta la loro vita.

Con il battesimo usciamo dalla schiavitù del peccato, con una vita di perseveranza protesa alla conquista del regno dei cieli camminiamo verso la gloriosa risurrezione che avverrà nell’ultimo giorno.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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(Gen 15,5-12.17-18)

 

Genesi 15:5 Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».

Genesi 15:6 Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.

Genesi 15:7 E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese».


 

«Poi lo condusse fuori e gli disse: Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle e soggiunse: Tale sarà la tua discendenza». Dio conduce Abramo fuori dal modo di vedere umano. Gli occhi terreni non vedono più di tanto. Ma quando si innalzano per contemplare l’infinito, ecco che la promessa di Dio assume tutto il suo valore e la sua portata. Vengono poste le fondamenta di una salvezza che interessa l’uomo e che è infinitamente al di sopra della realtà creata. 

 

«Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia». Tre sono le componenti della fede di Abramo:

 

a) Abramo crede (in ebraico il verbo credere è «’āman» lo stesso che dà origine all’amen con cui concludiamo le nostre preghiere e significa “appoggiarsi a...”, “fidarsi di...”. Il patriarca si fida di Dio e a lui consegna se stesso e il suo futuro.

b) Dio questo “glielo accreditò”. Il verbo “accreditare” è «āšav», viene usato nella Bibbia per indicare i sacrifici validamente celebrati. Il nuovo, vero sacrificio da offrire a Dio è perciò l’atto interiore della fede. Non è più per grazia che il Signore darà ad Abramo una discendenza numerosissima. Gliela darà per giustizia. Dio non dona solamente per grazia, dona anche per giustizia.

c) “...come giustizia”: Abramo diventa “giusto”, cioè fedele all’impegno di alleanza che lo lega al suo Dio: fedele e giusto.

 

In che cosa credette Abramo? Non in una discendenza limitata e finita nel tempo, ma in una discendenza eterna. E con ciò la promessa di una discendenza diventa per se stessa promessa della salvezza. Col tempo si delineerà e si manifesterà sempre più chiaramente la figura di questa salvezza, che in realtà sarà un Salvatore.


L’atto in virtù del quale Abramo credette è l’emblema e il modello della fede gradita a Dio. D’ora in poi Abramo vivrà solo esclusivamente per questa promessa divina, al di là e al di sopra di ogni apparenza umana. Non basta uscire da un mondo di perdizione per ritrovarsi subito in un mondo di salvezza. C’è un tempo di paziente attesa, di obbedienza, di perseveranza, senza le quali il cammino si ferma a metà.


«E gli disse: Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese». Dio dice ad Abramo che lui è stato fatto uscire da Ur dei Caldei proprio per avere in possesso il paese di Canaan. Il primo passo della fede, che è quello dell’uscire, sembra imputabile esclusivamente all’opera di Dio. Abramo è stato fatto uscire fuori da Ur. Non gli è imputato a giustizia l’essere uscito dalla vita vecchia, ma l’essere entrato in quella nuova, che è fede nella promessa di Dio, fede nella futura venuta di un Salvatore.


Qualcuno potrebbe dire: io credo nell’esistenza di Dio, dunque ho fede in Dio. Credere che Dio esiste non comporta necessariamente una vita di fede. La semplice convinzione dell’esistenza di Dio non fa entrare nella vita di Dio. La fede vera è qualcosa di più di un semplice assenso mentale all’esistenza di Dio, porta con sé un cambiamento radicale del porsi davanti a Lui. Non al Dio frutto del mio pensiero, ma al Dio che storicamente si è manifestato. Non è sufficiente credere in un Dio Creatore, dobbiamo credere in un Dio che è anche Salvatore.


E qui il discorso della fede non ammette pluralità di fedi. La fede, se da un lato presuppone l’evento storico della morte e risurrezione di Cristo discendenza di Abramo, Salvatore del mondo, comporta di necessità l’annuncio di tale evento, quello che chiamiamo col nome di Vangelo. Non può esserci ecumenismo se non mettendo davanti a tutti la necessità della conoscenza del Vangelo. Si dialoga annunciando e si annuncia dialogando. Dialogo non è la ricerca di una soluzione e di un compromesso che accontenti tutti, ma far passare la Parola di Dio, la sola che salva, attraverso le forme in cui l’uomo può farla propria. L’ecumenismo deve avere a che fare soltanto con la forma dell’annuncio, non può e non deve alterarne la sostanza.


Vi è un’unica porta che conduce al Paradiso ed è quella aperta da Cristo e custodita da Pietro. Altro è riflettere come il Vangelo si possa annunciare a tutti, altro è discutere su di una salvezza al di fuori di Cristo. Si dialoga con chi non crede allo scopo di annunciare, non si discute per venir meno all’annuncio. Non esiste la buona fede di chi non crede; esiste, ed è un dato di fatto, la malafede di chi è ingannato dal satana. Troppe persone credono nella propria sincerità, bontà, per giustificare la non fede.


Perché in Abramo troviamo il modello della vera fede? Perché l’ascolto della Parola di Dio in lui supera e scavalca le vie della ragione e del cuore. Chi cerca Dio, deve girare alla larga e diffidare di una fede diversa da quella di Abramo. Premessa della fede è la volontà di uscire dalla vita vecchia (Ur dei Caldei) per entrare in quella nuova (la terra promessa). Non entra chi non è uscito, e non è uscito se non colui che ha consapevolezza di peccato. L’essere entrati nella fede di per sé non garantisce il rimanere nella fede. Si può anche venire meno e non essere perseveranti fino alla fine. 


Per molti cattolici basta la messa della domenica, confessarsi una volta all’anno, qualche buona opera, non uccidere, non rubare… e tutto è fatto. Manca l’idea che essere cristiani vuol dire vivere per Cristo e non per se stessi. Per quel che riguarda la chiesa Protestante, l’affermazione di una salvezza che è data unicamente e esclusivamente dalla fede in Cristo, si risolve nella facile fede di tipo psicologico, come convinzione che a noi è chiesto solo di accettare con il cuore e la mente la salvezza operata da Gesù. E se pecchiamo possiamo stare tranquilli, perché la vita eterna è già data dall’elezione divina. Se la salvezza è già data ed assicurata, si può anche mettere da parte gli strumenti e i doni di grazia donati da Cristo attraverso la sua Chiesa e la sua Tradizione, uniche garanzie di una corretta comprensione e di un vero rapporto con la Rivelazione.


Nel protestantesimo basta appellarsi alla propria coscienza, in un cammino di auto confermazione e di auto approvazione. Tutto da soli, in proprio, senza fatica, senza essere disturbati nelle proprie convinzioni, in una esaltazione massima di quell’individualismo che sempre più si va affermando nel mondo come segno del dominio del demonio, principe di questo mondo.

 

 

 

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(Rm 10,8-13)

Romani 10:8 Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo.

Romani 10:9 Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.

 

«Che dice dunque? Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo». Come Mosè diceva che la parola, cioè la legge dì Dio, era facile a conoscersi e a osservarsi, così Paolo dice altrettanto del vangelo. Se la legge ha come fine Cristo, se tutto da Cristo prende inizio e in Cristo si conclude, se tutta la parola della Scrittura nasconde Cristo, tutta la parola della Scrittura nasconde il vangelo, verso cui ogni parola dell'Antico Testamento conduce e guida. "La parola della fede che noi predichiamo", sono le verità evangeliche necessarie a credersi per conseguire la salvezza, le quali, per mezzo della predicazione degli apostoli, sono alla portata di tutti, in modo che tutti possono dire di averle nella loro bocca e nel loro cuore, e non è necessario fare lunghi viaggi o sostenere gravi fatiche per apprenderle. Cristo è presente nella parola della fede che viene proclamata dalla Chiesa.

Ci sono tre verità che dobbiamo cogliere in questa frase di Paolo. La prima è questa: la parola del vangelo, che è parola di Cristo, non è estranea all'uomo, non è lontana da lui, non in senso spazio-temporale, ma in senso esistenziale. L'esistenza dell'uomo anela verso questa parola, la cerca. In fondo, ogni ricerca dell'uomo è ricerca della verità. A causa del peccato questa ricerca smarrisce la sua essenza, ma resta pur sempre una ricerca del proprio essere. L'uomo si cerca, ma non si trova e non si trova perché non riesce a trovarsi in Cristo. Solo trovando Cristo l'uomo trova se stesso, ma per trovare Cristo bisogna trovare la parola di Cristo.

La seconda verità è questa: la parola deve essere predicata, annunciata, proclamata, affinché ogni uomo l'ascolti e ascoltandola vi aderisca attraverso la fede. Se manca la predicazione, allora sì che la parola rimane distante dall'uomo, e se rimane distante la parola anche Cristo rimane distante. Quando la Chiesa avrà fatto questo, essa avrà aiutato l'uomo nella sua ricerca di Cristo, avrà aiutato l'uomo a ritrovarsi, a essere se stesso. La Chiesa esiste per dare Cristo. Questo è il fine e il mandato che la Chiesa ha ricevuto. Ecco perché la predicazione è l'essenza stessa della Chiesa. Cristo si dona attraverso la parola e senza la parola, Cristo non si dona, e se non si dona chi lo cerca lo cerca invano. Di questo la Chiesa è responsabile. Il vero peccato della Chiesa, l'unico di cui si deve sempre pentire, è la mancata evangelizzazione, il mancato annuncio, l'omessa predicazione della parola di Gesù.

La terza verità ci indirizza invece verso "la parola della fede". La parola è della fede perché essa annuncia un mistero che solo per fede si può accogliere e solo per fede vi si può aderire. Senza la fede la parola rimane parola muta. Fede e parola sono una unità inscindibile. Ci potrebbe essere la parola senza la fede, ma questa non svela il mistero, poiché il mistero non lo svela la parola, ma lo Spirito che si rivela al cuore e si manifesta solo se nel cuore c'è fede.

Cosa si constata oggi? Si constata che Cristo è come dimenticato. Di lui si stanno perdendo le tracce. La parola della predicazione è epurata di ogni contenuto inerente Cristo, della sua verità e della sua grazia. Oggi prevale in molti la proposizione di una giustizia tutta umana, terrena, a volte anche diabolica. Se la predicazione della fede è omessa, Cristo è omesso, la giustizia secondo la fede è omessa, la grazia e la verità sono omesse. Cosa resta? Resta l'uomo e il suo peccato. 

«Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo». Colui che viene professato nella fede è Gesù Signore. Il professare con la bocca che Gesù è il Signore e il credere nel cuore che Dio l'ha risuscitato dai morti costituiscono il modo per giungere alla salvezza. Questo significa non solo ammettere il fatto storico della risurrezione, ma anche l'accettare, dal profondo dell'anima, tutta l'opera di salvezza compiuta da Cristo.

Questa confessione deve essere una testimonianza esplicita. L'adesione a Cristo non può essere mai un fatto privato, vissuto intimamente nel proprio cuore, in cui deve comunque radicarsi, ma va testimoniata pubblicamente. Non si può essere cristiani anonimi, cristiani del silenzio. Il cristiano è colui che dinanzi al mondo confessa che Gesù è il Signore, il Verbo, l'Unigenito del Padre che si è fatto carne nel seno della Vergine Maria e che nella sua umanità e non solo nella sua divinità è stato costituito Signore di ogni uomo. Il termine Kyrios (Signore) era usato nella Bibbia dei LXX per tradurre YHWH e quello che Paolo ci dice è che la confessione di fede consiste nel credere che Gesù è il Messia e che egli è ‘uno’ con Yahweh.

Questa confessione deve essere netta. Non possono esserci lacune. Ecco perché è necessario che il cristiano confessi con la sua bocca che Gesù è il Signore, consustanziale a Dio per natura divina, consustanziale all'uomo per natura umana. Se manca una retta confessione circa la persona di Gesù non si può essere salvati, perché il Gesù che confessiamo non sarebbe più il Gesù di Dio, ma un Gesù modellato su pensieri umani, e quindi un idolo. Tutto quello che l'uomo costruisce con la sua mente è semplicemente un idolo e l'idolo non salva. Salva invece il Figlio di Dio venuto nella carne per la redenzione del mondo, e il Figlio di Dio venuto nella carne è il Signore dell'uomo.

Non rimane però sufficiente proclamare con la bocca la retta fede; occorre che vi partecipi anche il cuore, e il cuore vi partecipa facendo propria la verità che si professa. Dalla professione della bocca e dalla fede del cuore nasce la salvezza per l'uomo. La salvezza che Paolo prospetta, non è semplicemente la liberazione dal peccato. La salvezza è possedere la vita di Cristo e fare di questa vita il principio ispiratore della nostra vita: azioni, parole, pensieri. Ecco perché la sola liberazione dal peccato è un concetto assai riduttivo di salvezza.

 

 

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(1Cor 15,54-58)

8a Domenica T.O. (C)

 

1Corinzi 15:54 Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura:

La morte è stata ingoiata per la vittoria.

1Corinzi 15:55 Dov'è, o morte, la tua vittoria?

Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?

1Corinzi 15:56 Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge.

1Corinzi 15:57 Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!

1Corinzi 15:58 Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

 

Fino al giorno della risurrezione finale, la morte regnerà su questa terra e sommergerà ogni uomo. Quando invece il Signore compirà l’ultima sua opera, allora sarà la morte ad essere sommersa per sempre nella vittoria di Cristo. Dopo di che, la morte non avrà più potere, sarà sconfitta per sempre, per sempre annullata. L’uomo entrerà nella sua definitività, e solo allora comprenderemo cosa Cristo ha veramente fatto per noi. La morte, sia fisica che spirituale, solo Cristo l’ha vinta, solo in Lui la vinceremo oggi e nell’ultimo giorno. Non ci sono altri Messia, non ci sono altre vie, non ci sono altre fedi. L’unico Messia è Gesù Cristo, l’unica via è la risurrezione di Gesù Cristo, l’unica fede è la Parola del Signore, il suo Santo Vangelo. Quanti cercano altrove sappiano che non troveranno nulla, perché nulla esiste.

La morte sarà spodestata, resa impotente, sommersa dalla vittoria di Cristo. Essa che pensava di avere un pungiglione mortale, si trova ad essere essa stessa punta dal pungiglione vittorioso di Gesù Cristo. Essa che pensava di essere la dominatrice assoluta sull’uomo, dall’uomo Gesù è stata sconfitta. È stato Cristo morto a vincerla con la sua risurrezione. È questa la beffa della morte. Dove nessun uomo avrebbe potuto riuscire, perché anche lui prigioniero e schiavo per nascita della morte, Cristo ha trionfato. La vittoria di Cristo è la risurrezione, la croce è la vittoria sul peccato. Divenendo in Cristo un solo corpo e una sola vita, anche noi sulla croce insieme a Lui vinciamo il peccato, e vincendo il peccato siamo condotti verso la completa vittoria sulla morte.

Infatti, anche se la vittoria si compie in Cristo, nel suo corpo, eppure Paolo dice che la vittoria è nostra: «ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo». La vittoria è nostra perché essa sarà manifestata in noi. Noi siamo associati con Colui che ha fatto tutto.

Ora, dal cuore del cristiano deve innalzarsi al Padre il nostro inno di ringraziamento, di lode e di benedizione. Il rendimento di grazie è la più alta forma di adorazione. Si può rendere grazie solo se la vittoria di Cristo è stata fatta già nostra; si rende grazie per un dono di cui siamo già in possesso, che ci ha già trasformati.

Rende grazie a Dio di un così grande dono chiunque si impegna, lavora, si affatica, affinché la vittoria di Cristo trasformi interamente la sua vita e lui diventi nel mondo immagine visibile di Cristo crocifisso e risorto, di uomo spirituale, che trasmette attraverso la sua vita il cammino della speranza cui è chiamato ogni uomo. Il rendimento di grazie si trasforma così in un obbligo di santità, cui siamo chiamati dal Padre che ci ha conferito la vittoria di Cristo e attende che noi la viviamo totalmente in noi.

«Perciò fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, prodigandovi sempre nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore». In questo versetto conclusivo Paolo ribadisce alcune verità che devono costituire la vita dei credenti. La prima è questa: rimanere saldi e irremovibili. In che cosa? Nella verità della risurrezione di Cristo e della nostra nell’ultimo giorno. La risurrezione di Cristo è la verità che dà consistenza a tutte le altre verità della nostra fede. Se la risurrezione di Cristo non viene confessata con certezza di cuore e di mente, tutto alla fine risulterà vano e inutile.

Non basta però rimanere saldi e irremovibili in questa verità. Bisogna che ci si prodighi nell’opera del Signore. Qual è l’opera del Signore? Il compimento della sua morte e della sua risurrezione in noi. Poiché l’opera di Cristo è stata la sua morte e la sua risurrezione, anche per il cristiano l’opera del Signore è il compimento in lui della morte di Cristo e della sua risurrezione. La morte di Cristo si compie nel cristiano attraverso l’obbedienza alla volontà di Dio. L’opera del Signore che bisogna fare è trasformare in vita la parola di Cristo, come Cristo ha trasformato in vita la parola del Padre. Paolo vuole che in questa opera ci prodighiamo. Prodigarsi significa non risparmiarsi in nulla, significa spendere ogni nostra energia fisica e spirituale per il compimento in noi dell’opera di Cristo.

La terza verità che dobbiamo sempre avere nel cuore è questa: chi compie l’opera del Signore compie l’unica opera vera, l’unica giusta, l’unica santa, l’unica che ha valore eterno. Ognuno di noi, in ogni opera che compie, deve chiedersi se ciò che fa è l’opera di Dio. Solo l’opera di Dio non è vana, e compiendola non sciupiamo il nostro tempo e non consumiamo inutilmente le nostre energie. L’opera che renderà prezioso il nostro lavoro è una sola: il compimento della morte di Cristo in noi, perché in noi si compia la sua risurrezione gloriosa nell’ultimo giorno.

Se si vede così il cristianesimo, si dà ad esso un’altra impronta; si dà l’impronta della ricerca della volontà di Dio perché sia compiuta nella nostra vita. Se si osserva secondo questa visione di fede la vita di una comunità cristiana, allora ci si accorge di tutte le vanità che l’avvolgono. Tutto si fa, tranne che compiere ognuno singolarmente e tutti insieme, ognuno secondo la sua parte e la sua vocazione, l’opera di Cristo, che è la nostra morte in Lui nella più grande obbedienza al Padre nostro che è nei cieli.

La fede vera, sana, rinnova l’esistenza, la cambia, la trasforma. Oggi questo si richiede alle comunità cristiane: partire dall’annuncio della retta fede perché ognuno inizi nel suo corpo il compimento dell’opera del Signore, che è l’opera di Cristo, iniziata in noi il giorno del nostro battesimo.

Sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore. Questo fervore nel fare il bene, deve accendersi in noi per la certezza del premio. La nostra fatica non è infruttuosa, perché ci renderà degni della futura risurrezione, a condizione però che tutto sia fatto nel Signore, cioè in unione intima con Gesù Cristo.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

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(1Cor 15,45-49)

1Corinzi 15:45 il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.

1Corinzi 15:46 Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.

1Corinzi 15:47 Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo.

1Corinzi 15:48 Quale è l'uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti.

1Corinzi 15:49 E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste.

 

 

In questi versetti Paolo si addentra nel parallelismo Adamo–Cristo. Adamo, il primo uomo, a causa del suo peccato fu un portatore di morte, di malattie, di sofferenza, di dolore. Fu anche causa di un corpo concupiscente, di un corpo difficilmente governabile dallo stesso uomo. Adamo anziché padre di vita si rivelò padre di morte, anziché di libertà si dimostrò padre di schiavitù, invece che di salvezza divenne un padre di perdizione.

Nella sua infinita ed eterna misericordia, Dio aveva fin dall’eternità previsto un rimedio efficace contro la morte che Adamo avrebbe immesso nel mondo. Pensando a Gesù Cristo, Salvatore e Redentore, ha pensato a Lui come spirito datore di vita al fine di operare la nostra redenzione. Come l’ha operata? Attraverso il suo corpo morto e risuscitato. Quel corpo che si è rivestito di vita divina e immortale, di gloria e incorruttibilità, il Signore lo dona come nostro cibo e bevanda di vita eterna perché anche noi diveniamo partecipi di esso, e ce ne rivestiamo.

Adamo ha lasciato in eredità un corpo di peccato. Questa è la nostra condizione. Solo chi diviene una cosa sola con Cristo, potrà rivestire il corpo spirituale. Se si rimane fuori del corpo di Cristo, noi rimaniamo nella schiavitù del vizio e del peccato; dimoriamo nel nostro egoismo, trascorriamo i nostri giorni sospinti e sballottati dalla concupiscenza che fa di noi uomini istintivi, passionali, superbi, fanfaroni, trasgressori.

A chi domandasse perché lo stato spirituale, benché più perfetto, sia venuto dopo lo stato animale più imperfetto, l'apostolo risponde con un principio generale: l'ordine naturale vuole che si cominci da ciò che è imperfetto, e si passi poi a ciò che è più perfetto. Dio ha voluto seguire questa legge, e perciò ha stabilito che lo stato spirituale più perfetto fosse preceduto dallo stato animale imperfetto.

Noi abbiamo ricevuto un corpo animale; attraverso questo corpo, in un cammino di verità siamo chiamati a rivestire il corpo celeste. La morte di Cristo consente di metterci in cammino, perché lo Spirito Santo nelle acque del battesimo ci riveste di Cristo. È un cammino verso l’acquisizione della nostra vera umanità. È un cammino lungo, non facile, costa il sacrificio e l’olocausto della nostra vita. La via è una sola: rimanere ancorati in Cristo, divenire con lui una cosa sola.

Adamo viene dalla terra perché secondo il racconto della Genesi fu plasmato dal polvere del suolo. Questa è la sua origine. Gesù viene dal cielo in quanto vero Dio. Non viene dal cielo in quanto corpo. Il corpo egli lo ha assunto dalla beata Vergine Maria. Anche lui quindi ha un corpo che è stato tratto dalla carne di Adamo, anche se questa carne per un singolare privilegio è santissima, piena di grazia, fin dal primo momento del suo concepimento. Il corpo di Gesù Cristo è nato nella più grande santità, ma è sempre carne umana e quindi anche Gesù Cristo ha un corpo che proviene dalla terra, altrimenti non avrebbe potuto redimerci.

«Quale è il terreno, tali sono anche i terreni; e quale è il celeste, tali saranno anche i celesti». Ognuno produce secondo la sua natura. Adamo che era stato tratto dalla polvere del suolo ha generato uomini a sua immagine, fatti anch’essi di corpo materiale. Altro invece è il dono di Cristo: attraverso la sua passione, morte e risurrezione il suo corpo è divenuto spirituale, glorioso. Il suo corpo porta in sé la perfezione dell’immagine divina. Per grazia saremo in tutto simile al suo corpo celeste, se ci lasceremo generare da Dio attraverso la fede. Questo è il più grande atto di amore con il quale Dio ci rivestirà domani, se oggi ci lasciamo rivestire nell’anima attraverso la conversione, la fedeltà al vangelo, ossia una vita tutta fatta di parola di Cristo.

Infatti, «come abbiamo portato l'immagine del terreno, così porteremo anche l'immagine del celeste». Per discendenza da Adamo abbiamo portato l’immagine dell’uomo terreno; così per fede porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Cristo è nella gloria del suo corpo spiritualizzato. Questa è l’immagine di cui saremo rivestiti un giorno. Verso il compimento di questa verità dobbiamo camminare.

Il momento presente è il luogo del passaggio, cioè di questa gestazione in cui progressivamente la nostra vita animale, la nostra vita concreta di ogni giorno, la nostra esistenza, è vissuta in termini spirituali. Ed è già questa la caparra della risurrezione. La morte allora non sarà il fallimento di questa vita, ma il brano successivo che è tutto un inno alla vita. Nel battesimo abbiamo deposto l'immagine dell'uomo terreno e cominciato a portare l'immagine di Gesù Cristo, immagine che diverrà perfetta dopo la risurrezione.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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The Fathers made a very significant commentary on this singular task. This is what they say: for a fish, created for water, it is fatal to be taken out of the sea, to be removed from its vital element to serve as human food. But in the mission of a fisher of men, the reverse is true. We are living in alienation, in the salt waters of suffering and death; in a sea of darkness without light. The net of the Gospel pulls us out of the waters of death and brings us into the splendour of God’s light, into true life (Pope Benedict)
I Padri […] dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita (Papa Benedetto)
We may ask ourselves: who is a witness? A witness is a person who has seen, who recalls and tells. See, recall and tell: these are three verbs which describe the identity and mission (Pope Francis, Regina Coeli April 19, 2015)
Possiamo domandarci: ma chi è il testimone? Il testimone è uno che ha visto, che ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione (Papa Francesco, Regina Coeli 19 aprile 2015)
There is the path of those who, like those two on the outbound journey, allow themselves to be paralysed by life’s disappointments and proceed sadly; and there is the path of those who do not put themselves and their problems first, but rather Jesus who visits us, and the brothers who await his visit (Pope Francis)
C’è la via di chi, come quei due all’andata, si lascia paralizzare dalle delusioni della vita e va avanti triste; e c’è la via di chi non mette al primo posto se stesso e i suoi problemi, ma Gesù che ci visita, e i fratelli che attendono la sua visita (Papa Francesco)
So that Christians may properly carry out this mandate entrusted to them, it is indispensable that they have a personal encounter with Christ, crucified and risen, and let the power of his love transform them. When this happens, sadness changes to joy and fear gives way to missionary enthusiasm (John Paul II)
Perché i cristiani possano compiere appieno questo mandato loro affidato, è indispensabile che incontrino personalmente il Crocifisso risorto, e si lascino trasformare dalla potenza del suo amore. Quando questo avviene, la tristezza si muta in gioia, il timore cede il passo all’ardore missionario (Giovanni Paolo II)
This is the message that Christians are called to spread to the very ends of the earth. The Christian faith, as we know, is not born from the acceptance of a doctrine but from an encounter with a Person (Pope Benedict))
È questo il messaggio che i cristiani sono chiamati a diffondere sino agli estremi confini del mondo. La fede cristiana come sappiamo nasce non dall'accoglienza di una dottrina, ma dall'incontro con una Persona (Papa Benedetto)
From ancient times the liturgy of Easter day has begun with the words: Resurrexi et adhuc tecum sum – I arose, and am still with you; you have set your hand upon me. The liturgy sees these as the first words spoken by the Son to the Father after his resurrection, after his return from the night of death into the world of the living. The hand of the Father upheld him even on that night, and thus he could rise again (Pope Benedict)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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