Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Il Re dell’Universo: forse il meno dotato?
(Dn 7,13-14; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37)
Tutti i regni che si sono susseguiti prima di Gesù erano ispirati al medesimo brutale principio: la competizione (prima Lettura).
Il forte ha soggiogato il debole, il ricco si è imposto al povero, il più svelto ha asservito il meno dotato.
Nuovi dominatori si sono installati al posto dei predecessori, senza rendere più umana la convivenza dei popoli o la vita quotidiana.
Pensieri e sentimenti rimanevano identici: voracità, crudeltà, sopraffazione.
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori ponendo al vertice non il potere ma la Comunione.
Ha introdotto un criterio nuovo, quello del cuore di uomo - opposto dell’istinto crudele di belve.
Seconda Lettura: da una minuscola isola dell’Egeo, Patmos, un cristiano esiliato scrive a sette Chiese dell’Asia minore scosse dalla persecuzione scatenata dall’imperatore, esortandole alla perseveranza nella fede.
Cristo è definito «sovrano dei re della terra» per invitarci a valutare con occhi nuovi la storia del mondo.
Tutti guardavano a Domiziano come arbitro dei destini, l'uomo onnipotente che (storicamente, a Roma per difendersi dalle congiure di senatori e aristocrazia, ma soprattutto in oriente) si spacciava per “dio” e riempiva l'impero delle sue statue.
Non era lui a reggere le sorti del mondo.
Certo la potenza d’un impero si valutava dalle dimensioni del territorio su cui si estendeva. Ma il Regno alternativo non occupa spazio, non si basa su clamorose dimostrazioni di forza.
I suoi membri non sono gendarmi, né schiavi o sudditi, bensì «sacerdoti».
Unico ordine e segno di tale sacerdozio genuino è l’esser chiamati a offrire gesti di amore.
«Coraggio - sembra dire l'autore - la storia del mondo è una vicenda intermedia: tutto parte da Dio, e a Lui torna».
Se acquisiamo i Suoi occhi, l’interludio dei dominatori diverrà breve.
Pilato conosce unicamente l’immenso territorio su cui Tiberio estende il suo dominio, ha in mente solo le caratteristiche dei regni «da» (v.36) questo mondo.
Domini portati avanti per ambizione. Realtà basate sull'uso della forza e la persuasione del denaro.
Gesù non uccide: va lui a morire, non comanda ma obbedisce; non si allea e non cerca grandi e potenti ma si mette dalla parte di chi non conta nulla.
Possedere, conquistare, sterminare, ostentare, non sono perentori segni di forza, ma di sconfitta: grande è chi serve.
Purtroppo il copione della regalità che viene «da» questo mondo non è recitato solo dai capi: piace anche alle folle.
Sul colle Palatino, vicino al Circo Massimo, un graffito che risale al 200 circa raffigura una persona in adorazione del Crocifisso ritratto con una testa d’asino.
Verità di Dio, regalità dell’uomo - e viceversa.
Nel passo di Vangelo Gv pennella un quadro sulle perplessità di fondo che anche oggi affliggono l’Annuncio.
Citando Gesù: «Da te stesso tu dici questo oppure altri te l’hanno detto di me?» - nonché la risposta di Pilato: «La tua nazione e i gran sacerdoti ti hanno consegnato a me».
Gesù chiede al Procuratore di ragionare con la sua testa; di pensare non come figura dominante. (Il Signore aveva fatto un identico richiamo di senso alla guardia che gli aveva mollato uno schiaffo).
Contro di Lui si sono rivoltati tutti: ha scontentato non solo i titolati cui aveva toccato il sacchetto del commercio religioso, ma persino la sua gente - sebbene tosata e munta dalle autorità.
Insomma, la vittoria dell’ideologia di potere è certo assicurata da chi è detentore di cariche, ma paradossalmente anche dai sottomessi.
Forse la massa vede nella proposta del Signore un attentato alle piccole tranquillità che si ritaglia…
Una minaccia alle finte sicurezze che il potere tutto sommato è in grado di assicurare, compresa un’esistenza di piccolo cabotaggio - ma di scarsa responsabilità.
Mai intaccare la piccineria degli ozi derivanti da uno status assodato, persino dimesso o fasullo - purché non allarmante.
Nel tempo delle scelte quotidiane, la riconoscibilità di un posto - fisso - anche asservito, è sempre utile per appaltare a qualcuno la propria Libertà.
Così scansare l’abnorme fatica di rimettere in discussione le grandi linee della storia e della cronaca, cui si è assuefatti.
Talora i copioni della “regalità” e dei subalterni s’intersecano, sostenendosi a vicenda.
Con esito omologante, caratteristico di alcune agenzie “culturali” settarie, o di aree di condizionamento unilaterale.
Da ciò deriva un cumulo di difficoltà educative e pastorali… in un mondo contentabile dal “poco” immediato e facile - purtroppo anche in ambito di proposta spirituale.
E infatti nella comunità cristiana quali sono i segni del Regno di Dio? Oppure anch’essa ripete lo spartito della regalità che viene «da» questo mondo?
Forse saranno i variegati sfaldamenti di oggi - avviati da tutti coloro che non si accontentano di mansioni titolate o del parere d’un gruppo di pressione - a risolvere i veri problemi e rimettere le cose a posto.
Verità e Regalità.
Presso tutti i popoli l’ideale di “personaggio” riuscito è il Sovrano: ricco potente libero dominatore.
A Pilato, perfettamente inserito nella gerarchia di potere, il Maestro produce una sorta di sgretolamento mentale.
È l’opera singolare - davvero Sacerdotale - del cammino di Fede personale: l’invito a interrogarsi.
Ognuno di noi, da Re che non si lascia intimare i medesimi vecchi lati dall’esterno, bensì esige una vita piena, propria.
Gesù al termine della sua vicenda terrena è piuttosto silente. Egli attende che ciascuno si pronunci e scelga.
Regalità dell’uomo
Nuovo cielo, nuova terra,
mediante la testimonianza alla verità
1. Oggi la Basilica di San Pietro risuona della liturgia di una solennità insolita. Nel calendario liturgico postconciliare la solennità di nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo è stata collegata con l’ultima domenica dell’anno ecclesiastico. Ed è bene così. Infatti le verità della fede che vogliamo manifestare, il mistero che vogliamo vivere racchiudono, in un certo senso, ogni dimensione della storia, ogni tappa del tempo umano e aprono, insieme, la prospettiva “di un nuovo cielo e di una nuova terra” (Ap 21,1), la prospettiva di un regno, che “non è di questo mondo” (Gv 18,36). È possibile che si capisca erroneamente il significato delle parole sul “Regno”, pronunciate da Cristo davanti a Pilato, sul regno cioè che non è di questo mondo. Tuttavia il contesto singolare dell’avvenimento, nell’ambito del quale esse sono state pronunciate, non permette di comprenderle così. Dobbiamo ammettere che il regno di Cristo, grazie al quale si aprono davanti all’uomo le prospettive extraterrestri, le prospettive dell’eternità (Gv 18,37), si forma nel mondo e nella temporalità. Esso, quindi, si forma nell’uomo stesso mediante “la testimonianza alla verità” che Cristo ha reso in quel momento drammatico della sua Missione messianica: davanti a Pilato, davanti alla morte sulla croce, chiesta al giudice dai suoi accusatori. Così dunque la nostra attenzione deve essere attirata non solo dal momento liturgico della solennità d’oggi, ma anche dalla sorprendente sintesi di verità, che questa solennità esprime e proclama. Perciò mi sono permesso, insieme al Cardinale Vicario di Roma, di invitare oggi gli appartenenti ai vari settori dell’apostolato dei laici di tutte le parrocchie della nostra Città, tutti coloro cioè che insieme al Vescovo di Roma e ai pastori delle anime di ogni parrocchia accettano di far propria la testimonianza di Cristo Re e cercano di far posto al suo regno nei loro cuori e di diffonderlo tra gli uomini.
2. Gesù Cristo è “il testimone fedele” (cf. Ap 1,5), come dice l’Autore dell’Apocalisse. È “il testimone fedele” della signoria di Dio nella creazione e soprattutto nella storia dell’uomo. Dio infatti ha formato l’uomo dall’inizio come creatore e nello stesso tempo come Padre. Egli quindi, come Creatore e come Padre, è sempre presente nella sua storia. È diventato non solo l’inizio e il termine di tutto il creato, ma è diventato anche il Signore della storia e il Dio dell’alleanza: “Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’“Onnipotente”” (Ap 1,8).
Gesù Cristo – “testimone fedele” – è venuto al mondo proprio per rendere testimonianza di questo. La sua venuta nel tempo! quanto concretamente e in modo suggestivo l’aveva preannunciata il profeta Daniele nella sua visione messianica, parlando della venuta di “un figlio di uomo” (Dn 7,13) e delineando la dimensione spirituale del suo regno in questi termini: “Gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,14). Così il profeta Daniele, probabilmente nel II secolo, vide il regno di Cristo prima che egli venisse al mondo.
3. Quel che successe davanti a Pilato il venerdì prima di Pasqua ci permette di liberare l’immagine profetica di Daniele da ogni associazione impropria. Ecco infatti che lo stesso “Figlio dell’uomo” risponde alla domanda fattagli dal governatore romano. Questa risposta suona così: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
Pilato, rappresentante del potere esercitato a nome della potente Roma sul territorio della Palestina, l’uomo che pensa secondo categorie temporali e politiche, non capisce tale risposta. Quindi domanda per la seconda volta: “Dunque tu sei re?” (Gv 18,37).
Anche Cristo risponde per la seconda volta. Come la prima volta ha spiegato in quale senso egli non è re, così adesso, per rispondere pienamente alla domanda di Pilato e nello stesso tempo alla domanda di tutta la storia dell’umanità, di tutti i regnanti e di tutti i politici, risponde così: “Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (cf. Gv 18,37).
Questa risposta, in collegamento con la prima, esprime tutta la verità sul suo regno; tutta la verità su Cristo-Re.
4. In questa verità sono racchiuse anche quelle parole ulteriori dell’Apocalisse, con le quali il Discepolo prediletto completa, in certo qual modo, alla luce del colloquio che ha avuto luogo il Venerdì Santo nella residenza gerosolimitana di Pilato, ciò che, un tempo, aveva scritto il profeta Daniele. San Giovanni annota: “Ecco, viene sulle nubi (così si era già espresso Daniele) e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero... Sì. Amen!” (Ap 1,7).
Appunto: Amen. Questa unica parola sigilla, per così dire, la verità su Cristo Re. Egli è non soltanto “il testimone fedele”, ma anche “il primogenito dei morti” (Ap 1,5). E se è il principe della terra e di quelli che la governano (“il principe dei re della terra” [Ap 1,5]) lo è per questo, soprattutto per questo, e definitivamente per questo, perché “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6).
5. Ecco la piena definizione di quel regno, ecco tutta la verità su Cristo Re. Siamo convenuti oggi in questa Basilica per accettare queste verità ancora una volta, con gli occhi della fede largamente aperti e col cuore pronto a dare la risposta. Poiché questa è verità che esige in modo particolare una risposta. Non soltanto la comprensione. Non soltanto l’accettazione da parte dell’intelletto, ma una risposta che emerge da tutta la vita.
Quella risposta è stata pronunciata in modo splendido, dall’Episcopato della Chiesa contemporanea nel Concilio Vaticano II. Verrebbe perfino, in questo momento, la voglia di stendere la mano a quei testi della Costituzione Lumen Gentium che abbagliano con la semplice profondità della verità, ai testi carichi della pienezza della “praxis” cristiana contenuti nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, e ai tanti altri documenti che traggono da quelli fondamentali le conclusioni concrete per i vari campi della vita ecclesiale. Penso in particolare al decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici. Se qualcosa chiedo al laicato di Roma e del mondo, è che si tengano sempre d’occhio questi splendidi documenti dell’insegnamento della Chiesa contemporanea. Essi definiscono il senso più profondo dell’essere cristiani. Questi documenti meritano ben più che d’essere semplicemente studiati e meditati; se non si cerca in essi l’appoggio, è quasi impossibile capire e realizzare la nostra vocazione e, in specie, la vocazione dei laici, il loro particolare apporto alla costruzione di quel regno, che, pur non essendo “di questo mondo” (Gv 18,36), esiste tuttavia quaggiù, perché è in noi. E, in particolare, è in voi: laici!
6. Cristo è salito sulla croce come un Re singolare: come l’eterno testimone della verità. “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Questa testimonianza è la misura delle nostre opere. La misura della vita. La verità per la quale Cristo ha dato la vita – che ha confermato con la risurrezione – è la fondamentale sorgente della dignità dell’uomo. Il regno di Cristo si manifesta, come insegna il Concilio, nella “regalità” dell’uomo. Bisogna che noi sappiamo, in questa luce, partecipare a ogni sfera della vita contemporanea e formarla. Non mancano infatti, nei nostri tempi, le proposte indirizzate all’uomo, non mancano i programmi che si invocano per il suo bene. Sappiamo rileggerli nella dimensione della piena verità sull’uomo, della verità confermata con le parole e con la croce di Cristo!
(…)
Cristo, in un certo senso, sta sempre davanti al tribunale delle coscienze umane, come una volta si trovò davanti al tribunale di Pilato. Egli ci rivela sempre la verità del suo regno. E sempre s’incontra, da tante parti, con la replica “che cos’è la verità” (Gv 18,38).
Per questo sia egli ancora più vicino a noi. Sia il suo regno sempre più in noi. Ricambiamolo con l’amore al quale ci ha chiamati, e in lui amiamo sempre di più la dignità di ogni uomo!
Allora saremo veramente partecipi della sua missione. Diventeremo apostoli del suo regno.
(Papa Giovanni Paolo II, omelia 25 novembre 1979)
In quest’ultima domenica dell’Anno liturgico celebriamo la solennità di Gesù Cristo Re dell’universo, una festa di istituzione relativamente recente, che però ha profonde radici bibliche e teologiche. Il titolo di “re”, riferito a Gesù, è molto importante nei Vangeli e permette di dare una lettura completa della sua figura e della sua missione di salvezza. Si può notare a questo proposito una progressione: si parte dall’espressione “re dei Giudei” e si giunge a quella di re universale, Signore del cosmo e della storia, dunque molto al di là delle attese dello stesso popolo ebraico. Al centro di questo percorso di rivelazione della regalità di Gesù Cristo sta ancora una volta il mistero della sua morte e risurrezione. Quando Gesù viene messo in croce, i capi dei Giudei lo deridono dicendo: “E’ il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui” (Mt 27,42). In realtà, proprio in quanto è il Figlio di Dio Gesù si è consegnato liberamente alla sua passione, e la croce è il segno paradossale della sua regalità, che consiste nella vittoria della volontà d’amore di Dio Padre sulla disobbedienza del peccato. E’ proprio offrendo se stesso nel sacrificio di espiazione che Gesù diventa il Re universale, come dichiarerà Egli stesso apparendo agli Apostoli dopo la risurrezione: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18).
Ma in che cosa consiste il “potere” regale di Gesù? Non è quello dei re e dei grandi di questo mondo; è il potere divino di dare la vita eterna, di liberare dal male, di sconfiggere il dominio della morte. È il potere dell’Amore, che sa ricavare il bene dal male, intenerire un cuore indurito, portare pace nel conflitto più aspro, accendere la speranza nel buio più fitto. Questo Regno della Grazia non si impone mai, e rispetta sempre la nostra libertà. Cristo è venuto a “rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37) – come dichiarò di fronte a Pilato –: chi accoglie la sua testimonianza, si pone sotto la sua “bandiera”, secondo l’immagine cara a sant’Ignazio di Loyola. Ad ogni coscienza, dunque, si rende necessaria – questo sì – una scelta: chi voglio seguire? Dio o il maligno? La verità o la menzogna? Scegliere per Cristo non garantisce il successo secondo i criteri del mondo, ma assicura quella pace e quella gioia che solo Lui può dare. Lo dimostra, in ogni epoca, l’esperienza di tanti uomini e donne che, in nome di Cristo, in nome della verità e della giustizia, hanno saputo opporsi alle lusinghe dei poteri terreni con le loro diverse maschere, sino a sigillare con il martirio questa loro fedeltà.
Cari fratelli e sorelle, quando l’Angelo Gabriele portò l’annuncio a Maria, Le preannunciò che il suo Figlio avrebbe ereditato il trono di Davide e regnato per sempre (cfr Lc 1,32-33). E la Vergine Santa credette ancor prima di donarLo al mondo. Dovette, poi, senz’altro domandarsi quale nuovo genere di regalità fosse quella di Gesù, e lo comprese ascoltando le sue parole e soprattutto partecipando intimamente al mistero della sua morte di croce e della sua risurrezione. Chiediamo a Maria di aiutare anche noi a seguire Gesù, nostro Re, come ha fatto Lei, e a renderGli testimonianza con tutta la nostra esistenza.
[Papa Benedetto, Angelus 22 novembre 2009]
1. Oggi la Basilica di San Pietro risuona della liturgia di una solennità insolita. Nel calendario liturgico postconciliare la solennità di nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo è stata collegata con l’ultima domenica dell’anno ecclesiastico. Ed è bene così. Infatti le verità della fede che vogliamo manifestare, il mistero che vogliamo vivere racchiudono, in un certo senso, ogni dimensione della storia, ogni tappa del tempo umano e aprono, insieme, la prospettiva “di un nuovo cielo e di una nuova terra” (Ap 21,1), la prospettiva di un regno, che “non è di questo mondo” (Gv 18,36). È possibile che si capisca erroneamente il significato delle parole sul “Regno”, pronunciate da Cristo davanti a Pilato, sul regno cioè che non è di questo mondo. Tuttavia il contesto singolare dell’avvenimento, nell’ambito del quale esse sono state pronunciate, non permette di comprenderle così. Dobbiamo ammettere che il regno di Cristo, grazie al quale si aprono davanti all’uomo le prospettive extraterrestri, le prospettive dell’eternità (Gv 18,37), si forma nel mondo e nella temporalità. Esso, quindi, si forma nell’uomo stesso mediante “la testimonianza alla verità” che Cristo ha reso in quel momento drammatico della sua Missione messianica: davanti a Pilato, davanti alla morte sulla croce, chiesta al giudice dai suoi accusatori. Così dunque la nostra attenzione deve essere attirata non solo dal momento liturgico della solennità d’oggi, ma anche dalla sorprendente sintesi di verità, che questa solennità esprime e proclama. Perciò mi sono permesso, insieme al Cardinale Vicario di Roma, di invitare oggi gli appartenenti ai vari settori dell’apostolato dei laici di tutte le parrocchie della nostra Città, tutti coloro cioè che insieme al Vescovo di Roma e ai pastori delle anime di ogni parrocchia accettano di far propria la testimonianza di Cristo Re e cercano di far posto al suo regno nei loro cuori e di diffonderlo tra gli uomini.
2. Gesù Cristo è “il testimone fedele” (cf. Ap 1,5), come dice l’Autore dell’Apocalisse. È “il testimone fedele” della signoria di Dio nella creazione e soprattutto nella storia dell’uomo. Dio infatti ha formato l’uomo dall’inizio come creatore e nello stesso tempo come Padre. Egli quindi, come Creatore e come Padre, è sempre presente nella sua storia. È diventato non solo l’inizio e il termine di tutto il creato, ma è diventato anche il Signore della storia e il Dio dell’alleanza: “Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’“Onnipotente”” (Ap 1,8).
Gesù Cristo – “testimone fedele” – è venuto al mondo proprio per rendere testimonianza di questo. La sua venuta nel tempo! quanto concretamente e in modo suggestivo l’aveva preannunciata il profeta Daniele nella sua visione messianica, parlando della venuta di “un figlio di uomo” (Dn 7,13) e delineando la dimensione spirituale del suo regno in questi termini: “Gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,14). Così il profeta Daniele, probabilmente nel II secolo, vide il regno di Cristo prima che egli venisse al mondo.
3. Quel che successe davanti a Pilato il venerdì prima di Pasqua ci permette di liberare l’immagine profetica di Daniele da ogni associazione impropria. Ecco infatti che lo stesso “Figlio dell’uomo” risponde alla domanda fattagli dal governatore romano. Questa risposta suona così: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
Pilato, rappresentante del potere esercitato a nome della potente Roma sul territorio della Palestina, l’uomo che pensa secondo categorie temporali e politiche, non capisce tale risposta. Quindi domanda per la seconda volta: “Dunque tu sei re?” (Gv 18,37).
Anche Cristo risponde per la seconda volta. Come la prima volta ha spiegato in quale senso egli non è re, così adesso, per rispondere pienamente alla domanda di Pilato e nello stesso tempo alla domanda di tutta la storia dell’umanità, di tutti i regnanti e di tutti i politici, risponde così: “Io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (cf. Gv 18,37).
Questa risposta, in collegamento con la prima, esprime tutta la verità sul suo regno; tutta la verità su Cristo-Re.
4. In questa verità sono racchiuse anche quelle parole ulteriori dell’Apocalisse, con le quali il Discepolo prediletto completa, in certo qual modo, alla luce del colloquio che ha avuto luogo il Venerdì Santo nella residenza gerosolimitana di Pilato, ciò che, un tempo, aveva scritto il profeta Daniele. San Giovanni annota: “Ecco, viene sulle nubi (così si era già espresso Daniele) e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero... Sì. Amen!” (Ap 1,7).
Appunto: Amen. Questa unica parola sigilla, per così dire, la verità su Cristo Re. Egli è non soltanto “il testimone fedele”, ma anche “il primogenito dei morti” (Ap 1,5). E se è il principe della terra e di quelli che la governano (“il principe dei re della terra” [Ap 1,5]) lo è per questo, soprattutto per questo, e definitivamente per questo, perché “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6).
5. Ecco la piena definizione di quel regno, ecco tutta la verità su Cristo Re. Siamo convenuti oggi in questa Basilica per accettare queste verità ancora una volta, con gli occhi della fede largamente aperti e col cuore pronto a dare la risposta. Poiché questa è verità che esige in modo particolare una risposta. Non soltanto la comprensione. Non soltanto l’accettazione da parte dell’intelletto, ma una risposta che emerge da tutta la vita.
Quella risposta è stata pronunciata in modo splendido, dall’Episcopato della Chiesa contemporanea nel Concilio Vaticano II. Verrebbe perfino, in questo momento, la voglia di stendere la mano a quei testi della Costituzione Lumen Gentium che abbagliano con la semplice profondità della verità, ai testi carichi della pienezza della “praxis” cristiana contenuti nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes, e ai tanti altri documenti che traggono da quelli fondamentali le conclusioni concrete per i vari campi della vita ecclesiale. Penso in particolare al decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici. Se qualcosa chiedo al laicato di Roma e del mondo, è che si tengano sempre d’occhio questi splendidi documenti dell’insegnamento della Chiesa contemporanea. Essi definiscono il senso più profondo dell’essere cristiani. Questi documenti meritano ben più che d’essere semplicemente studiati e meditati; se non si cerca in essi l’appoggio, è quasi impossibile capire e realizzare la nostra vocazione e, in specie, la vocazione dei laici, il loro particolare apporto alla costruzione di quel regno, che, pur non essendo “di questo mondo” (Gv 18,36), esiste tuttavia quaggiù, perché è in noi. E, in particolare, è in voi: laici!
6. Cristo è salito sulla croce come un Re singolare: come l’eterno testimone della verità. “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Questa testimonianza è la misura delle nostre opere. La misura della vita. La verità per la quale Cristo ha dato la vita – che ha confermato con la risurrezione – è la fondamentale sorgente della dignità dell’uomo. Il regno di Cristo si manifesta, come insegna il Concilio, nella “regalità” dell’uomo. Bisogna che noi sappiamo, in questa luce, partecipare a ogni sfera della vita contemporanea e formarla. Non mancano infatti, nei nostri tempi, le proposte indirizzate all’uomo, non mancano i programmi che si invocano per il suo bene. Sappiamo rileggerli nella dimensione della piena verità sull’uomo, della verità confermata con le parole e con la croce di Cristo!
Sappiamo discernerli bene! Quel che dichiarano si esprime con la misura della vera dignità dell’uomo? La libertà che proclamano serve la regalità dell’essere creato a immagine di Dio, oppure al contrario prepara la privazione o costrizione di essa? Per esempio: servono la vera libertà dell’uomo o esprimono la sua dignità l’infedeltà coniugale, anche se sanzionata dal divorzio, o la mancanza di responsabilità per la vita concepita, anche se la tecnica moderna insegna come sbarazzarsi di essa? Certamente tutto il permissivismo morale non si basa sulla dignità dell’uomo e non educa l’uomo ad essa.
Come non richiamare, qui, la diagnosi che del contesto socio-religioso della nostra città ha fatto il Signor Cardinale Vicario alla vostra assemblea del 10 novembre scorso? Egli ha indicato le principali “sofferenze” che angustiano la città di Roma: l’insicurezza sociale delle famiglie per la casa, il lavoro, l’educazione dei figli; lo smarrimento spirituale e sociale degli immigrati dalle zone rurali; l’incomunicabilità tra le famiglie, che vivono nei grandi condomini popolari senza conoscersi e senza il coraggio di solidarizzare; la delinquenza organizzata, particolarmente al servizio della droga; la violenza pazza e immotivata e il terrorismo politico, a cui vanno aggiunte le molteplici manifestazioni di immoralità e di irreligiosità nella vita personale e sociale.
Di questi mali erano individuate le cause, fra l’altro, nel calo d’interesse ai problemi dell’educazione e della scuola lasciata sempre più in balia di forze minoritarie, ma fortemente turbative; e nella disgregazione della famiglia, sottoposta all’azione corrosiva di molteplici fattori ambientali e di costume. La radice più profonda di esse va posta, però, come ha detto il Signor Cardinale, “nel costante deprezzamento della persona umana, della sua dignità, dei suoi diritti e doveri” e del senso religioso e morale della vita. Il Cardinale Vicario ha anche sollecitato da voi tutti una coraggiosa assunzione di responsabilità, ponendovi dinanzi alcune “prospettive concrete di impegno”, ed esattamente: la costruzione di una vera comunità cristiana capace di annunciare il Vangelo in modo credibile; l’impegno culturale di ricerca e di discernimento critico, in costante fedeltà al Magistero, in ordine a un corretto dialogo tra Chiesa e mondo, l’impegno di contribuire all’incremento del senso della responsabilità sociale, stimolando nel clero e nei fedeli la solidarietà per il bene comune sia della Comunità ecclesiale che di quella civile; l’impegno, infine, nella pastorale vocazionale, oggi particolarmente urgente, ed in quella delle comunicazioni sociali.
Ecco, sorelle e fratelli carissimi, stanno davanti a voi alcune precise linee d’azione pastorale, sulle quali ognuno è invitato a misurarsi, in adesione coerente e coraggiosa alle esigenze poste dal Battesimo e dalla Confermazione e confermate dalla partecipazione all’Eucaristia. Chiedo a tutti e a ciascuno di non tirarsi indietro di fronte alle proprie responsabilità. Lo chiedo nella Solennità liturgica di Cristo Re.
Cristo, in un certo senso, sta sempre davanti al tribunale delle coscienze umane, come una volta si trovò davanti al tribunale di Pilato. Egli ci rivela sempre la verità del suo regno. E sempre s’incontra, da tante parti, con la replica “che cos’è la verità” (Gv 18,38).
Per questo sia egli ancora più vicino a noi. Sia il suo regno sempre più in noi. Ricambiamolo con l’amore al quale ci ha chiamati, e in lui amiamo sempre di più la dignità di ogni uomo!
Allora saremo veramente partecipi della sua missione. Diventeremo apostoli del suo regno.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 25 novembre 1979]
In questa ultima domenica dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di Cristo Re. E il Vangelo di oggi ci fa contemplare Gesù mentre si presenta a Pilato come re di un regno che «non è di questo mondo» (Gv 18,36). Questo non significa che Cristo sia re di un altro mondo, ma che è re in un altro modo, eppure è re in questo mondo. Si tratta di una contrapposizione tra due logiche. La logica mondana poggia sull’ambizione, sulla competizione, combatte con le armi della paura, del ricatto e della manipolazione delle coscienze. La logica del Vangelo, cioè la logica di Gesù, invece si esprime nell’umiltà e nella gratuità, si afferma silenziosamente ma efficacemente con la forza della verità. I regni di questo mondo a volte si reggono su prepotenze, rivalità, oppressioni; il regno di Cristo è un «regno di giustizia, di amore e di pace» (Prefazio).
Gesù si è rivelato re quando? Nell’evento della Croce! Chi guarda la Croce di Cristo non può non vedere la sorprendente gratuità dell’amore. Qualcuno di voi può dire: “Ma, Padre, questo è stato un fallimento!”. E’ proprio nel fallimento del peccato - il peccato è un fallimento - nel fallimento delle ambizioni umane, lì c’è il trionfo della Croce, c’è la gratuità dell’amore. Nel fallimento della Croce si vede l’amore, questo amore che è gratuito, che Gesù ci dà. Parlare di potenza e di forza, per il cristiano, significa fare riferimento alla potenza della Croce e alla forza dell’amore di Gesù: un amore che rimane saldo e integro, anche di fronte al rifiuto, e che appare come il compimento di una vita spesa nella totale offerta di sé in favore dell’umanità. Sul Calvario, i passanti e i capi deridono Gesù inchiodato alla croce, e gli lanciano la sfida: «Salva te stesso scendendo dalla croce!» (Mc 15,30). “Salva te stesso!”. Ma paradossalmente la verità di Gesù è proprio quella che in tono di scherno gli scagliano addosso i suoi avversari: «Non può salvare sé stesso!» (v. 31). Se Gesù fosse sceso dalla croce, avrebbe ceduto alla tentazione del principe di questo mondo; invece Lui non può salvare sé stesso proprio per poter salvare gli altri, proprio perché ha dato la sua vita per noi, per ognuno di noi. Dire: “Gesù ha dato la vita per il mondo” è vero, ma è più bello dire: “Gesù ha dato la sua vita per me”. E oggi in piazza, ognuno di noi, dica nel suo cuore: “Ha dato la sua vita per me”, per poter salvare ognuno di noi dai nostri peccati.
E questo chi lo ha capito? Lo ha capito bene uno dei due malfattori che sono crocifissi con Lui, detto il “buon ladrone”, che Lo supplica: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Ma questo era un malfattore, era un corrotto ed era lì condannato a morte proprio per tutte le brutalità che aveva fatto nella sua vita. Ma ha visto nell’atteggiamento di Gesù, nella mitezza di Gesù l’amore. E questa è la forza del regno di Cristo: è l’amore. Per questo la regalità di Gesù non ci opprime, ma ci libera dalle nostre debolezze e miserie, incoraggiandoci a percorrere le strade del bene, della riconciliazione e del perdono. Guardiamo la Croce di Gesù, guardiamo il buon ladrone e diciamo tutti insieme quello che ha detto il buon ladrone: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Tutti insieme: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Chiedere a Gesù, quando noi ci vediamo deboli, peccatori, sconfitti, di guardarci e dire: “Tu sei lì. Non ti dimenticare di me!”.
Di fronte alle tante lacerazioni nel mondo e alle troppe ferite nella carne degli uomini, chiediamo alla Vergine Maria di sostenerci nel nostro impegno di imitare Gesù, nostro re, rendendo presente il suo regno con gesti di tenerezza, di comprensione e di misericordia.
[Papa Francesco, Angelus 22 novembre 2015]
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà.
Ma se Dio ci crea e chiama incessantemente per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai farisei e - sembra - anche a Gesù.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita, e nella Torah pareva loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
In effetti i Farisei credevano alla risuscitazione dei morti in senso molto banale: una sorta di miglioramento e sublimazione delle (medesime) condizioni di essere naturale.
Per loro la vita dell’aldilà non era che un prolungamento accentuato, nobilitato e imbellito di questa nostra forma d’esistere.
Invece la vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta. Paragonabile all’immediatezza dell’amore.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
‘Risurrezione della carne’ designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste forme di vita: (traslitterando) Bìos e Zoe Aiònios [Vita dell’Eterno] che non ha a che vedere con la realtà solo biologica [v.36: «uguali agli angeli»].
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di ‘comunicazione diretta’.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un ‘essere-con e per’ gli altri; prontamente, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù. Egli ammutolisce pure i Sadducei facendoli riflettere; e trae il fondamento della Risurrezione (ma come la intende Lui) proprio da Esodo.
Così mostra che già nella Legge c’è una presentazione di Dio incompatibile con un destino d’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi. Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica l’Altissimo prendeva nome dalla regione o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi, non della polvere o del nulla.
Questo il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”.
[Sabato 33.a sett. T.O. 23 novembre 2024]
E Dio che lega il suo cuore all’umanità
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà, infondendo disorientamento e angoscia di pensieri sul senso della vita, sul motivo per cui ciascuno di noi esiste.
Se Dio ci crea e chiama incessantemente, per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai Farisei e - sembra - anche a Gesù.
Egli però riteneva che il Padre era ben altro che un Vivente… il quale infine si metteva a risuscitare cadaveri!
[È il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”].
Nella mentalità semitica la norma del ‘levirato’ era specchio di un’idea fiacca dell’esistenza dopo la morte - relegata alla semplice continuità del nome.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita: predicavano la religione che serviva a ottenere benedizioni per esistere su questa terra in modo agiato - e tanto loro bastava.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
I sadducei il loro “paradiso” se l’erano già costruito in città e fuori.
Le loro ampie ville con corte interna e piscina privata per le abluzioni erano proprio sulla collina dirimpetto al Tempio di Gerusalemme, dalla parte opposta del Monte degli Ulivi (ossia verso ovest).
Le loro seconde case - dove passavano l’inverno - erano a Gerico.
Anche per interesse diretto nell’attività sacrificale che svolgevano, ritenevano comunque che i testi profetici non avessero dignità di Scrittura sacra: solo la Legge rispecchiava la volontà di Dio.
E nella Torah sembrava loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione dei morti.
Così tentano d’incastrare anche Gesù, con un paradosso costruito ad arte, per evidenziare le contraddizioni di questa credenza - apparsa solo dal 2° sec. a.C. nel libro di Daniele e in Maccabei.
Essi la ritenevano assurda - quindi intendevano screditare il «Maestro» [termine con cui lo designano per metterlo in ridicolo: v.28].
In effetti l’appiglio c’era, perché i Farisei credevano alla risuscitazione nel senso banale. Una sorta di accentuazione, miglioramento o sublimazione delle (medesime) condizioni di vita - e legami - naturali.
Quindi non una forma definitiva, senza confini, qualitativamente indistruttibile.
In sostanza, nel ‘mondo di là’ ognuno avrebbe goduto completamente degli affetti famigliari e di clan della precedente forma di vita - e così via.
‘L’aldilà’ non doveva essere che un prolungamento sublimato, nobilitato e imbellito di questo nostro modo di esistere; senza malattie, sofferenze, problemi vari.
[Insomma, vita solo progredita; forse come ci è stata un tempo trasmessa da catechisti volenterosi... ma poco attenti alla Parola di Dio].
Così appunto i sadducei - conservatori - che accettavano unicamente il Pentateuco - ove sostenevano appunto che non si accenna a un’altra vita, ulteriore.
In tal guisa, essi avevano gioco facile a smascherare la fragilità di quella credenza popolare, cui i leaders del fariseismo erano viceversa legati.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
Nell’ambiente latino, tuttora, il modo d’intendere la Risurrezione risente non poco delle modalità rappresentative della tradizione pittorica.
Leggendo le raffigurazioni cui siamo abituati… notiamo che subito il Risorto mette a terra i gendarmi e spaventa tutti.
Esce dal sepolcro con il vessillo di vittoria, forte e muscoloso. Irrompe come tornando di qua per battere gli avversari.
Pretese descrittive e naturalistiche che non rendono merito alla Fede e quasi ridicolizzano i Vangeli.
Viceversa, nelle icone orientali la Risurrezione è intesa e figurata in modo sostanziale, misterico: la Discesa agli Inferi.
Non è un trionfo di Dio, che s’impone al mondo. Egli non ne ha bisogno alcuno.
Piuttosto l’evento teologico resta a sostegno della vittoria dei suoi figli, i quali ricevono vita direttamente dal Padre.
Ecco il riscatto della donna e dell’uomo qualunque [Adamo ed Eva] che vengono tratti dai sepolcri dalla forza divina - non naturale - del Cristo Risorto.
Il mondo definitivo stravolge l’idea dello Sheôl e lo scardina totalmente, sgombrando il buio - e quel grande dramma dell’umanità.
Si entra nel mondo di Dio; non si torna di qua - magari per vivere meglio: ringiovaniti e sani invece che malati, in villa con giardino piuttosto che in monolocale.
La vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta.
Paragonabile all’immediatezza dell’amore: un essere-con e per gli altri. Collimante al modo di esistere degli Angeli (v.36): essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
“Risurrezione della carne” designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, all’intimità stessa di Dio - nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Ovviamente non si può credere di venire introdotti nella Condizione Divina se durante il corso terreno non abbiamo sperimentato un costante vettore esistenziale morte-risurrezione.
È l’esperienza del guadagno nella sconfitta; in particolare, la scoperta di una vita impensabile, che ci ha fatto trasalire di Felicità. Per lo Stupore: nella provvidenziale trasmutazione dei nostri lati deboli e oscuri, da fiacche parvenze a punti di forza.
Diventati evolutivi, forse il meglio di noi.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste due forme di essere: (traslitterando dal greco) Bìos, e Zoè Aiònios.
La Zoe, Vita stessa dell’Eterno, è acutamente relazionale e sperimentabile - ma non ha a che vedere con l’esistenza biologica e la nostra carcassa [«uguali agli angeli» v.36].
Ciò che non muore non è il dna del corpo, bensì il dna celeste, che abbiamo ricevuto in dono dal Padre.
L’Oro divino ci abita e - se vogliamo - può affiorare già, in un’esistenza piena, di realizzazione della propria Vocazione, in clima di Comunione.
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di comunicazione diretta.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un essere-con e per gli altri; con prontezza, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma appunto da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù.
Egli ammutolisce pure i sadducei, facendoli riflettere, trattandoli da incompetenti.
Trae infatti il fondamento della “dottrina” della Risurrezione [ma come la intende Lui] proprio dal libro dell’Esodo.
Così mostra che sin dai rotoli della Legge c’è una presentazione dell’Eterno incompatibile col destino di un’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi.
Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica ogni santuario prendeva nome dalla divinità, specificata dal suo territorio o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Un brutto vizio pagano che purtroppo abbiamo ereditato.
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».
Ai tre Patriarchi era stato possibile avere discendenza, non per concatenazione naturale.
In quella mentalità, unica possibilità di perpetuare la vita di generazione in generazione era di poter trasmettere il proprio nome al primogenito maschio.
Ciò era accaduto invece per intervento dall’alto, mentre le mogli erano sterili [matriarche infertili: Sara, Rebecca, Rachele, a lungo senza eredi].
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi - non di morti (della polvere, dell’inconsistenza, del nulla).
I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr Mt 22,31-32). Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano il nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi; i vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio. E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il Suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.
Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio; in un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.
[Papa Benedetto, Lectio 11 giugno 2012]
1. Riprendiamo quest’oggi, dopo una pausa piuttosto lunga, le meditazioni tenute già da tempo e che abbiamo definito riflessioni sulla teologia del corpo.
Nel continuare, conviene, questa volta, riportarci alle parole del Vangelo, in cui Cristo fa riferimento alla risurrezione: parole che hanno un’importanza fondamentale per intendere il matrimonio nel senso cristiano e anche "la rinuncia" alla vita coniugale "per il regno dei cieli".
La complessa casistica dell’Antico Testamento nel campo matrimoniale non soltanto spinse i Farisei a recarsi da Cristo per porgli il problema dell’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ) ma anche, un’altra volta, i Sadducei, per interrogarlo sulla legge del cosiddetto levirato (questa legge, contenuta nel Dt 25,7-10 , riguarda i fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto. Se uno di essi moriva senza lasciare figli, il fratello del defunto doveva prendere in moglie la vedova del fratello morto. Il bambino nato da questo matrimonio era riconosciuto figlio del defunto, affinché non fosse estinta la sua stirpe e venisse conservata in famiglia l’eredità [cf. Dt 3,9-4,12 ]). Tale colloquio è riportato concordemente dai sinottici (cf. Mt 22,24-30 ; Mc 12,18-27 ; Lc 20,27-40 ). Sebbene tutte e tre le redazioni siano quasi identiche, tuttavia si notano tra loro alcune differenze lievi, ma, nello stesso tempo, significative. Poiché il colloquio è riferito in tre versioni, quelle di Matteo, Marco e Luca, si richiede un’analisi più approfondita, in quanto esso comprende contenuti che hanno un significato essenziale per la teologia del corpo.
Accanto agli altri due importanti colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al "principio" (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ), e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al "cuore"), indicando il desiderio e la concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cf. Mt 5,27-32 ), il colloquio, che ci proponiamo ora di sottoporre ad analisi, costituisce, direi, la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo stesso: trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo. In questo colloquio Gesù si richiama alla risurrezione, svelando così una dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo.
2. La rivelazione di questa dimensione del corpo, stupenda nel suo contenuto – e pur collegata col Vangelo riletto nel suo insieme e fino in fondo – emerge nel colloquio con i Sadducei, "i quali affermano che non c’è risurrezione" (1); essi sono venuti da Cristo per esporgli un argomento che – a loro giudizio – convalida la ragionevolezza della loro posizione. Tale argomento doveva contraddire "l’ipotesi della risurrezione". Il ragionamento dei Sadducei è il seguente: "Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello" ( Mc 12,19 ). I Sadducei si richiamano qui alla cosiddetta legge del levirato (cf. Dt 25,5-10 ), e riallacciandosi alla prescrizione di questa antica legge, presentano il seguente "caso": "C’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo ugualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come moglie" ( Mc 12,20-23 . I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio.
3. La risposta di Cristo è una delle risposte-chiave del Vangelo, in cui viene rivelata – appunto a partire dai ragionamenti puramente umani e in contrasto con essi – un’altra dimensione della questione, cioè quella che corrisponde alla sapienza e alla potenza di Dio stesso. Analogamente, ad esempio, si era presentato il caso della moneta del tributo con l’immagine di Cesare e del rapporto corretto fra ciò che nell’ambito della potestà è divino e ciò che è umano ("di Cesare") (cf. Mt 22,15-22 ). Questa volta Gesù risponde così: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" ( Mc 12,24-25 ). Questa è la risposta basilare del "caso", cioè al problema che vi è racchiuso. Cristo, conoscendo le concezioni dei Sadducei, ed intuendo le loro autentiche intenzioni, riprende, in seguito, il problema della possibilità della risurrezione, negata dai Sadducei stessi: "A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei viventi" ( Mc 12,26-27 ). Come si vede, Cristo cita lo stesso Mosè a cui hanno fatto riferimento i Sadducei, e termina con l’affermare: "Voi siete in grande errore" ( Mc 12,27 ).
4. Questa affermazione conclusiva, Cristo la ripete anche una seconda volta. Infatti la prima volta la pronunciò all’inizio della sua esposizione. Disse allora: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio": così leggiamo in Matteo ( Mt 22,29 ). E in Marco: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?" ( Mc 12,24 ). Invece, la stessa risposta di Cristo, nella versione di Luca ( Lc 20,27-36 ), è priva di accento polemico, di quel "siete in grande errore". D’altronde egli proclama la stessa cosa in quanto introduce nella risposta alcuni elementi che non si trovano né in Matteo né in Marco. Ecco il testo: "Gesù risponde: i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito: e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" ( Lc 20,34-36 ). Riguardo alla possibilità stessa della risurrezione, Luca – come i due altri sinottici – si riferisce a Mosè, ossia al passo del Libro dell’Esodo 3,2-6, in cui infatti si narra che il grande legislatore dell’Antica Alleanza aveva udito dal roveto, che "ardeva nel fuoco e non si consumava", le seguenti parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" ( Es 3,6 ). Nello stesso luogo, quando Mosè aveva chiesto il nome di Dio, aveva udito la risposta: "Io sono colui che sono" ( Es 3,14 ).
Così dunque, parlando della futura risurrezione dei corpi, Cristo si richiama alla potenza stessa del Dio vivente.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 novembre 1981]
A pochi giorni di distanza dalla solennità di Tutti i Santi e dalla Commemorazione dei fedeli defunti, la Liturgia di questa domenica ci invita ancora a riflettere sul mistero della risurrezione dei morti. Il Vangelo (cfr Lc 20,27-38) presenta Gesù a confronto con alcuni sadducei, i quali non credevano nella risurrezione e concepivano il rapporto con Dio solo nella dimensione della vita terrena. E quindi, per mettere in ridicolo la risurrezione e in difficoltà Gesù, gli sottopongono un caso paradossale e assurdo: una donna che ha avuto sette mariti, tutti fratelli tra loro, i quali uno dopo l’altro sono morti. Ed ecco allora la domanda maliziosa rivolta a Gesù: quella donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie (v. 33)?
Gesù non cade nel tranello e ribadisce la verità della risurrezione, spiegando che l’esistenza dopo la morte sarà diversa da quella sulla terra. Egli fa capire ai suoi interlocutori che non è possibile applicare le categorie di questo mondo alle realtà che vanno oltre e sono più grandi di ciò che vediamo in questa vita. Dice infatti: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito» (vv. 34-35). Con queste parole, Gesù intende spiegare che in questo mondo viviamo di realtà provvisorie, che finiscono; invece nell’aldilà, dopo la risurrezione, non avremo più la morte come orizzonte e vivremo tutto, anche i legami umani, nella dimensione di Dio, in maniera trasfigurata. Anche il matrimonio, segno e strumento dell’amore di Dio in questo mondo, risplenderà trasformato in piena luce nella comunione gloriosa dei santi in Paradiso.
I “figli del cielo e della risurrezione” non sono pochi privilegiati, ma sono tutti gli uomini e tutte le donne, perché la salvezza portata da Gesù è per ognuno di noi. E la vita dei risorti sarà simile a quella degli angeli (cfr v. 36), cioè tutta immersa nella luce di Dio, tutta dedicata alla sua lode, in un’eternità piena di gioia e di pace. Ma attenzione! La risurrezione non è solo il fatto di risorgere dopo la morte, ma è un nuovo genere di vita che già sperimentiamo nell’oggi; è la vittoria sul nulla che già possiamo pregustare. La risurrezione è il fondamento della fede e della speranza cristiana! Se non ci fosse il riferimento al Paradiso e alla vita eterna, il cristianesimo si ridurrebbe a un’etica, a una filosofia di vita. Invece il messaggio della fede cristiana viene dal cielo, è rivelato da Dio e va oltre questo mondo. Credere alla risurrezione è essenziale, affinché ogni nostro atto di amore cristiano non sia effimero e fine a sé stesso, ma diventi un seme destinato a sbocciare nel giardino di Dio, e produrre frutti di vita eterna.
La Vergine Maria, regina del cielo e della terra, ci confermi nella speranza della risurrezione e ci aiuti a far fruttificare in opere buone la parola del suo Figlio seminata nei nostri cuori.
[Papa Francesco, Angelus 6 novembre 2016]
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
"In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet". This refers to the solidity of the Word. It is solid, it is the true reality on which one must base one's life (Pope Benedict)
«In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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