don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Giovedì, 17 Luglio 2025 04:16

Sono qui di nuovo, pellegrino

San Giacomo!

Sono qui, nuovamente, presso il tuo sepolcro
al quale mi avvicino oggi,
pellegrino da tutte le strade del mondo,
per onorare la tua memoria ed implorare la tua protezione.
Giungo dalla Roma luminosa e perenne,
fino a te che ti sei fatto pellegrino sulle orme di Cristo
ed hai portato il suo nome e la sua voce
fino a questo confine dell’universo.
Vengo dai luoghi di Pietro
e, quale suo successore, porto a te
che sei con lui colonna della Chiesa,
l’abbraccio fraterno che viene dai secoli
ed il canto che risuona fermo ed apostolico nella cattolicità.
Viene con me, san Giacomo, un immenso fiume giovanile
nato dalle sorgenti di tutti i paesi della terra.
Qui lo trovi, unito e sereno alla tua presenza,
ansioso di rinnovare la sua fede nell’esempio vibrante della tua vita.
Veniamo a questa soglia benedetta in animato pellegrinaggio.
Veniamo immersi in questo copioso esercito
che sin dalle viscere dei secoli è venuto portando le genti fino a questa Compostela
dove tu sei pellegrino ed ospite, apostolo e patrono.
E giungiamo qui al tuo cospetto perché andiamo uniti nel cammino.
Camminiamo verso la fine di un millennio
che desideriamo sigillare con il sigillo di Cristo.
Camminiamo ancora oltre, verso l’inizio di un millennio nuovo
che desideriamo aprire nel nome di Dio.
San Giacomo,
abbiamo bisogno per il nostro pellegrinaggio
del tuo ardore e del tuo coraggio.
Per questo veniamo a chiederteli
fino a questo “finis-terrae” delle tue imprese apostoliche.
Insegnaci, Apostolo ed amico del Signore,
la via che porta a lui.
Aprici, predicatore delle Spagne,
alla verità che hai imparato dalle labbra del Maestro.
Dacci, testimone del Vangelo,
la forza di amare sempre la vita.
Mettiti tu, patrono dei pellegrini,
alla testa del nostro pellegrinaggio di cristiani e di giovani.
E come i popoli all’epoca camminarono verso di te,
vieni tu in pellegrinaggio con noi incontro a tutti i popoli.
Con te, san Giacomo apostolo e pellegrino,
desideriamo insegnare alle genti d’Europa e del mondo
che Cristo è - oggi e sempre -
la via, la verità e la vita.

[Papa Giovanni Paolo II, preghiera alla tomba di s. Giacomo, Santiago 19 agosto 1989]

[Ha preso il via a Santiago di Compostela, nella regione della Galizia, in Spagna, l'Anno giubilare 2021 dedicato all'Apostolo Giacomo le cui spoglie, conservate nella Cattedrale, sono visitate da innumerevoli pellegrini. Nel messaggio inviato da Francesco l'invito ad un cammino di conversione e di solidarietà con i propri compagni di strada].

 

Si è aperto il 31 dicembre 2020, l'Anno Compostelano, un giubileo che si indice per l'anno in cui il giorno 25 luglio, memoria di san Giacomo martire, cade di domenica. Così, infatti, accadrà nel 2021. Il tema dell'evento è "Esci dalla tua terra! L'apostolo ti aspetta". L'annuncio dell'arcivescovo di Santiago de Compostela, monsignor Julián Barrio Barrio a tutti i fedeli, parla di "un anno di grazia e di perdono" per tutti coloro che vorranno partecipare. "In questo terzo Anno Santo compostelano del terzo millennio del cristianesimo - prosegue l'arcivescovo - la coraggiosa testimonianza dell'apostolo San Giacomo è un'occasione per riscoprire la vitalità della fede e della missione, ricevuta al Battesimo.

Il messaggio di Papa Francesco all'apertura della Porta Santa

Ed è a monsignor Julián Barrio Barrio che si rivolge il messaggio che Papa Francesco ha inviato in occasione dell'apertura della Porta Santa, per esprimere l’affetto e la vicinanza “a tutti coloro che partecipano a questo momento di grazia per tutta la Chiesa, e in particolare per la Chiesa in Spagna e in Europa”. “Seguendo le orme dell'Apostolo – scrive Papa Francesco - lasciamo il nostro sé, quelle sicurezze a cui ci aggrappiamo, ma con un obiettivo chiaro in mente, non siamo esseri erranti, che ruotano sempre intorno a se stessi senza arrivare da nessuna parte. È la voce del Signore che ci chiama e, come pellegrini, la accogliamo in atteggiamento di ascolto e di ricerca, intraprendendo questo viaggio per incontrare Dio, gli altri e noi stessi”.

La misericordia di Dio accompagna il nostro cammino

La meta, sottolinea il Papa, è importante quanto il cammino verso di essa, che è un cammino di conversione seguendo Gesù Via, Verità e Vita. Citando la Lettera apostolica "Misericordia et misera" del 20 novembre 2016, il testo prosegue con un messaggio che rassicura: “In questo cammino la misericordia di Dio ci accompagna e anche se la condizione di debolezza dovuta al peccato rimane, essa viene superata dall'amore che ci permette di guardare al futuro con speranza e di essere pronti a rimettere la nostra vita sulla strada giusta”.

Si cammina leggeri e in compagnia

Per mettersi in cammino bisogna prima di tutto staccarsi dalle cose che appesantiscono, ma poi nella vita non si cammina da soli e affidarsi ai nostri compagni senza sospetti e diffidenza “ci aiuta a riconoscere nel prossimo un dono che Dio ci fa per accompagnarci in questo viaggio”. Si tratta di “uscire da se stessi per unirsi agli altri”, di aspettarsi e sostenersi a vicenda, condividendo fatiche e conquiste. Al termine del viaggio, scrive il Papa, ci troveremo con lo zaino vuoto, ma con “un cuore pieno di esperienze forgiate in contrasto e in sintonia con la vita di altri nostri fratelli e sorelle che provengono da contesti esistenziali e culturali diversi”. E riscoprendo il nostro dover essere discepoli missionari “per chiamare tutti in quella patria verso la quale ci stiamo muovendo”.

Il pellegrino comunica la fede con la sua vita

Francesco descrive il pellegrino come di uno che è capace di mettersi nelle mani di Dio, consapevole che la patria promessa è già presente in Cristo che gli è vicino e così “tocca il cuore del fratello, senza artifici, senza propaganda, nella mano tesa pronta a dare e a prendere”. I tre gesti che i pellegrini compiono arrivando alla Porta Santa, ricordano il motivo del viaggio, scrive ancora il Papa: il primo “è contemplare nel Portico della Gloria lo sguardo sereno di Gesù, il giudice misericordioso”, che ci accoglie nella sua casa. Il secondo è l'abbraccio che ci arriva dall'immagine dell'Apostolo Giacomo che ci mostra la via della fede. La partecipazione alla celebrazione eucaristica, il terzo gesto, ci invita “a sentire che siamo il popolo di Dio”, chiamato “a condividere la gioia del Vangelo”.

Fermento nella città dell'Apostolo

Era il 1122 quando ebbe origine l'Anno Santo che viene celebrato, da allora, ogni 6, 5, 6 e 11 anni. Questo porta a circa 14 anni giubilari ogni secolo. L'apertura della porta della Cattedrale di Santiago, dove sono custodite le reliquie dell'Apostolo Giacomo, artefice dell'evangelizzazione ispanica, sta creando un fermento trattenuto nella città galiziana. Proprio a questa terra e alle sue coste riconduce la sagoma della capasanta raffigurata nel logo dell'evento, simbolo universale del cammino di Compostela. Campeggia anche la croce emblematica di Santiago e un ventaglio di raggi a rappresentare la fratellanza tra i popoli di ogni razza e cultura. Ad intraprendere il pellegrinaggio lungo il cammino - primo itinerario culturale europeo e patrimonio della umanita, una delle più antiche e importanti vie della cristianità - sono milioni di persone ogni anno. 

Nella Cattedrale una rinnovata bellezza

Nel 2020 i pellegrinaggi sono stati sospesi a causa della pandemia, ma si è potuto sfruttare il periodo del lockdown per realizzare dei lavori di restauro alla Cattedrale che ora risplende di una illuminazione più ideonea e tutto rifulge di una rinnovata bellezza. Ed è sotto il segno della contemplazione della bellezza e della speranza, mentre i pellegrinaggi ufficialmente sono ripresi ma l'emergenza sanitaria ancora in corso impedisce, di fatto, l'arrivo dei camminanti, che l'Anno Santo apre i battenti.

 

[Adriana Masotti e Antonella Palermo -  

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-01/il-papa-per-l-anno-compostelano.html]

Smarrirsi, per la trasformazione

(Mt 13,10-17)

 

San Paolo esprime il senso del “mistero della cecità” che gli fa contrasto nel cammino con la celebre espressone «spina nel fianco»: dovunque andasse, erano già pronti i nemici; e disaccordi inattesi.

Così anche per noi: eventi funesti, catastrofi, emergenze, disgregazione delle antiche certezze rassicuranti - tutte esterne e paludose; sino a poco prima valutate con senso di permanenza.

Forse nell’arco della nostra esistenza, già ci siamo resi conto che le incomprensioni sono state i modi migliori per riattivarci, e introdurre le  energie della Vita rinnovata.

Si tratta di quelle risorse o situazioni che forse mai avremmo immaginato alleate della nostra e altrui realizzazione.

Dice Erich Fromm:

«Vivere significa nascere in ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere. La nascita non è quindi un atto; è un processo ininterrotto. Lo scopo della vita è di nascere pienamente, ma la tragedia è che la maggior parte di noi muore prima di essere veramente nato».

Infatti, nel clima dei disordini o delle divergenze assurde [che ci obbligano a rigenerare] si affacciano talora le più trascurate virtù intime.

Energie nuove - che cercano spazio - e potenze esterne. Entrambi plasmabili; inconsuete, inimmaginabili, eterodosse.

Ma che trovano le soluzioni, la vera via d’uscita ai nostri problemi; la strada per un futuro che non sia un semplice riassetto della situazione precedente, o di come abbiamo immaginato “si sarebbe dovuti essere e fare”.

Concluso un ciclo, iniziamo una nuova fase; forse con maggiore rettitudine e franchezza - più luminosa e naturale, umanizzante, vicina al ‘divino’.

 

Il contatto autentico e coinvolgente con i nostri stati dell’essere profondi viene generato in modo acuto proprio dai distacchi.

Essi ci portano al dialogo dinamico con le riserve eterne di forze trasmutatrici che ci abitano, e più ci appartengono.

Esperienza primordiale che arriva dritta al cuore.

Dentro di noi tale via “pesca” l’opzione creativa, fluttuante, inedita.

In tal guisa il Signore trasmette e apre la sua proposta servendosi di ‘immagini’.

Freccia di Mistero che va oltre i frammenti della coscienza, della cultura, delle procedure, di ciò che è comune.

Per una conoscenza di se stessi e del mondo che travalica quella della storia e della cronaca; per la consapevolezza attiva di altri contenuti.

Sino a che il travaglio e il caos stesso guidano l’anima e la obbligano a un Altro inizio, a un differente sguardo (tutto spostato), a un’inedita comprensione di noi stessi e del mondo.

Ebbene, la trasformazione dell’universo non può esser frutto di un insegnamento cerebrale o dirigista; piuttosto, di una esplorazione narrativa - che non allontana la gente da se stessa.

E Gesù lo sa.

 

 

[Giovedì 16.a sett. T.O.  24 luglio 2025]

Mercoledì, 16 Luglio 2025 04:38

La vera Parabola di Dio

Questo Vangelo insiste anche sul “metodo” della predicazione di Gesù, cioè, appunto, sull’uso delle parabole. “Perché a loro parli con parabole?” – domandano i discepoli (Mt 13,10). E Gesù risponde ponendo una distinzione tra loro e la folla: ai discepoli, cioè a coloro che si sono già decisi per Lui, Egli può parlare del Regno di Dio apertamente, invece agli altri deve annunciarlo in parabole, per stimolare appunto la decisione, la conversione del cuore; le parabole, infatti, per loro natura richiedono uno sforzo di interpretazione, interpellano l’intelligenza ma anche la libertà. Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato: l’amore, infatti, rispetta sempre la libertà.

[Papa Benedetto, Angelus 10 luglio 2011]

Mercoledì, 16 Luglio 2025 04:31

Perché Gesù parla in parabole?

1. “Uscì di casa e si sedette in riva al mare” (Mt 13, 1).

Gesù è il Maestro; lo è anche nel modo di guardare la natura. Nei Vangeli sono numerosi i passi che lo presentano immerso nell’ambiente naturale e, se si presta attenzione, si può cogliere nel suo comportamento un chiaro invito ad un atteggiamento contemplativo di fronte alle meraviglie del creato. Così avviene, ad esempio, nel racconto evangelico di questa Domenica. Vediamo Gesù seduto in riva al lago di Tiberiade, quasi assorto in meditazione.

Il divino Maestro, prima dell’alba o dopo il tramonto, e in altri momenti decisivi della sua missione, amava ritirarsi in un luogo solitario e silenzioso, in disparte (cf. Mt 14, 23; Mc 1, 35; Lc 5, 16), per poter rimanere a tu per tu col Padre celeste e dialogare con lui. In quei momenti Egli non mancava certo di contemplare anche il creato, per raccogliervi un riflesso della bellezza divina.

2. Sulla sponda del lago lo raggiungono i suoi discepoli e molta gente. “Egli parlò loro di molte cose in parabole” (Mt 13, 3). Gesù parla “in parabole”, cioè utilizzando vicende dell’esperienza quotidiana ed elementi tratti dalla contemplazione del creato.

Ma perché Gesù parla “in parabole”? È ciò che si domandano i discepoli, e noi con loro. Il Maestro risponde, riecheggiando Isaia: Perché guardino e non vedano, ascoltino e non intendano (cf. Mt 13, 13-15). Che significa tutto ciò? Perché parlare in parabole e non invece “apertamente” (cf. Gv 16, 29)?

3. Carissimi Fratelli e Sorelle! In realtà, la creazione stessa è come una grande parabola. Quanto esiste – il cosmo, la terra, i viventi, l’uomo – non costituisce forse una sola, immensa parabola? E chi ne è l’Autore, se non Dio Padre, con cui Gesù dialoga nel silenzio della natura? Gesù parla in parabole perché questo è lo “stile” di Dio. Il Figlio unigenito ha lo stesso modo di fare e di parlare del Padre celeste. Chi vede Lui vede il Padre (cf. Gv 14, 9), chi ascolta Lui ascolta il Padre. E ciò concerne non solo i contenuti, ma anche i modi; non solo il che cosa Egli dice, ma pure il come lo dice.

Sì, il “come” è importante, perché manifesta l’intenzione profonda di chi parla. Se il rapporto intende essere dialogico, il modo di parlare deve rispettare e promuovere la libertà dell’interlocutore. Ecco la ragione per la quale il Signore parla in parabole: perché chi ascolta sia libero di accogliere il suo messaggio; libero non solo di ascoltarlo, ma soprattutto di comprenderlo, di interpretarlo e di riconoscervi l’intenzione di Colui che parla. Dio si rivolge all’uomo in modo che sia possibile incontrarlo nella libertà.

4. Il creato è, per così dire, il grande racconto divino. Il significato profondo di questo meraviglioso libro della creazione, tuttavia, sarebbe rimasto per noi difficilmente decifrabile, se Gesù – Verbo fatto uomo – non fosse venuto a “spiegarcelo”, rendendo i nostri occhi capaci di riconoscere più agevolmente nelle creature l’impronta del Creatore.

Gesù è la Parola che custodisce il significato di tutto ciò che esiste. È il Verbo in cui riposa il “nome” di ogni cosa, dalla particella infinitesimale alle immense galassie. Egli stesso è allora la “Parabola” piena di grazia e di verità (cf. Gv 1, 14), con la quale il Padre rivela se stesso e la sua volontà, il suo misterioso disegno d’amore e il senso ultimo della storia (cf. Ef 1, 9-10). In Gesù, Dio ci ha detto tutto ciò che aveva da dirci.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a s. Stefano di Cadore, 11 luglio 1993]

Mercoledì, 16 Luglio 2025 04:17

Il Regno nascosto

C’è una domanda ricorrente nelle meditazioni di Papa Francesco durante le messe celebrate a Santa Marta, ed è l’invito a un esame di coscienza: «Come è il mio rapporto con lo Spirito Santo?». Anche nell’omelia […] il Pontefice ha riproposto il quesito con una particolare declinazione: «Credo davvero che lo Spirito fa crescere in me il regno di Dio?».

È stato infatti il regno di Dio il tema della riflessione che ha preso le mosse dal brano del vangelo di Luca (17, 20-25) nel quale i dottori della legge chiedono a Gesù: «Tu predichi il regno di Dio, ma quando verrà il regno di Dio?». È una domanda, ha spiegato il Pontefice, che veniva anche dalla «curiosità di tanta gente», una domanda «semplice che nasce da un cuore buono, un cuore di discepolo». Non a caso, è una richiesta ricorrente nel vangelo: per esempio, ha suggerito il Papa, in quel momento «tanto brutto, oscuro» in cui Giovanni Battista — che era al buio in carcere e «non capiva nulla, angosciato» — invia i suoi discepoli per dire al Signore: «Ma di’: sei tu o dobbiamo aspettare un altro? È arrivato il regno di Dio o è un altro?».

Ritorna spesso il dubbio sul «quando», come avviene nella «domanda, sfacciata, superba, cattiva» del ladrone: «Se sei tu, scendi dalla croce», che esprime la «curiosità» del «quando viene il regno di Dio».

La risposta di Gesù è: «Ma il regno di Dio è in mezzo a voi». Così ad esempio, ha ricordato Francesco, «il regno di Dio è stato annunciato nella sinagoga di Nazaret, quel lieto annuncio quando Gesù legge quel passo di Isaia e finisce dicendo: “Oggi questa scrittura si è adempiuta in mezzo a voi”». Un annuncio lieto e, soprattutto, «semplice». Infatti «il regno di Dio cresce di nascosto», tanto che Gesù stesso lo spiega con la parabola del seme: «nessuno sa come», ma Dio lo fa crescere. È un regno che «cresce da dentro, di nascosto o si trova nascosto come la gemma o il tesoro, ma sempre nell’umiltà».

Qui il Pontefice ha inserito il passaggio chiave della sua meditazione: «Chi dà la crescita a quel seme, chi lo fa germogliare? Dio, lo Spirito Santo che è in noi». Una considerazione che spiega l’avvento del regno con il modo di operare del Paraclito, che «è spirito di mitezza, di umiltà, di ubbidienza, di semplicità». Ed è lo Spirito, ha aggiunto il Papa, «che fa crescere dentro il regno di Dio, non sono i piani pastorali, le grandi cose...».

Si tratta, ha detto Francesco, di un’azione nascosta. Lo Spirito «fa crescere e arriva il momento e appare il frutto». Un’azione che sfugge a una piena comprensione: «Chi è stato o è stata — si è chiesto ad esempio il Papa — a seminare il seme del regno di Dio nel cuore del buon ladrone? Forse la mamma quando gli insegnò a pregare... Forse un rabbino quando gli spiegava la legge...». Certo è che nonostante nella vita egli lo abbia dimenticato, quel seme, nascosto, a un certo punto è stato fatto crescere. Tutto ciò accade perché «il regno di Dio è sempre una sorpresa, una sorpresa che viene» in quanto «è un dono dato dal Signore».

Nel colloquio con i dottori della legge, Gesù si sofferma sulla caratteristiche di questa azione silenziosa: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione e nessuno dirà: “Eccolo qui oppure eccolo là”». Infatti, ha aggiunto il Pontefice, «il regno di Dio non è uno spettacolo» o addirittura «un carnevale». Esso non si mostra «con la superbia, con l’orgoglio, non ama la pubblicità», ma «è umile, nascosto e così cresce».

Un esempio lampante viene da Maria. Quando la gente la guardava al seguito di Gesù, a stento la riconosceva («Ah, quella è la mamma...»). Lei era «la donna più santa», ma giacché lo era «di nascosto», nessuno comprendeva «il mistero del regno di Dio, la santità del regno di Dio». E così, «quando era vicina alla croce del figlio, la gente diceva: “Ma povera donna con questo criminale come figlio, povera donna...”». Nessuno capiva, «nessuno sapeva».

La caratteristica del nascondimento, ha spiegato il Papa, viene proprio dallo Spirito Santo che è «dentro di noi»: è lui «che fa crescere il seme, lo fa germogliare fino a dare il frutto». E noi tutti siamo chiamati a percorrere questa strada: «è una vocazione, è una grazia, è un dono, è gratuito, non si compra, è una grazia che Dio ci dà».

Ecco perché, ha concluso il Pontefice, è bene che «noi tutti battezzati» che «abbiamo dentro lo Spirito Santo», ci chiediamo: «Come è il mio rapporto con lo Spirito Santo, quello che fa crescere in me il regno di Dio?». Bisogna infatti capire: «Io credo davvero che il regno di Dio è in mezzo a noi, è nascosto, o mi piace più lo spettacolo?». Occorre, ha aggiunto, pregare «lo Spirito che è in noi» per chiedere la grazia «che faccia germogliare in noi e nella Chiesa, con forza, il seme del regno di Dio perché divenga grande, dia rifugio a tanta gente e dia frutti di santità».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 17/11/2017]

Martedì, 15 Luglio 2025 22:10

16a Domenica T.O. (anno C)

16a Domenica T.O. (anno C) [20 luglio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! L’estate per chi può è tempo in cui si può dedicare più ascolto alla Parola e pregare per quanti invece vivono così immersi nelle preoccupazioni al punto da credere di non aver tempo per pregare.

 

*Prima Lettura dal Libro della Genesi (18, 1-10)

Mambré è un abitante del paese di Canaan che, in diverse occasioni, ha offerto ospitalità ad Abramo nel suo bosco di querce (vicino all’attuale città di Hebron). Sappiamo che per i Cananei le querce erano alberi sacri. Questo racconto riferisce un’apparizione di Dio nel bosco appartenente a Mambré. Ma, in realtà, non è la prima volta che Dio parla ad Abramo. Fin dal capitolo 12, il libro della Genesi ci narra le ripetute apparizioni e promesse di Dio ad Abramo. Ma, per il momento, nulla è ancora accaduto e Abramo e Sara stanno per morire senza figli. Si dice spesso che Dio ha scelto un popolo, ma in realtà  Dio ha scelto prima un uomo – e per di più, un uomo senza figli. E proprio a quest’uomo privo di futuro (almeno secondo criteri umani) Dio ha fatto una promessa inaudita: “Farò di te una grande nazione… In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2-3). A questo vecchio sterile, ha detto: “Conta le stelle, se riesci… Così sarà la tua discendenza”. Solo su questa promessa, apparentemente irrealizzabile, Abramo ha deciso di giocarsi tutta la vita. Abramo non dubitava che Dio avrebbe mantenuto la sua parola, ma conosceva bene l’ostacolo evidente: lui e Sara erano sterili o almeno tali credevano di essere, visto che a settantacinque e sessantacinque anni erano ancora senza figli. Abramo aveva immaginato delle soluzioni: Dio mi ha promesso una discendenza, ma, in fondo, il mio servo è come un figlio. “Signore Dio, che cosa mi darai? Vado via senza figli, e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco” (Gen 15,2). Ma Dio rifiutò: “Non costui sarà tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede” (Gen 15,4). Qualche anno più tardi, quando Dio tornò a parlare di quella nascita, Abramo non poté fare a meno di ridere (Gen 17,17); poi pensò a un’altra soluzione: potrebbe essere il mio vero figlio, Ismaele, quello che ho avuto dall’unione (autorizzata da Sara) con Agar. “Potrà forse nascere un figlio a un uomo di cent’anni? E Sara, a novant’anni, potrà ancora partorire?… Possa Ismaele vivere davanti a te!” Ma anche questa volta Dio rifiutò: “No! Tua moglie Sara ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco” (Gen 17,19). La Promessa è la Promessa. Il brano che leggiamo questa domenica presuppone tutta questa lunga storia di Alleanza di venticinque anni, secondo la Bibbia. L’evento si svolge vicino alla quercia di Mambré. Tre uomini apparvero ad Abramo e accettarono la sua ospitalità. Fermiamoci qui. Contrariamente a quanto si pensa, il punto centrale del testo non è l’ospitalità generosa offerta da Abramo! All’epoca, in quella civiltà, non era niente di straordinario, per quanto esemplare potesse essere. Il messaggio dell’autore, ciò che suscita la sua ammirazione e che lo spinge a scrivere per tramandare alle generazioni future, è molto più grande! È accaduto l’impensabile: per la prima volta nella storia dell’umanità, Dio in persona si è fatto ospite di un uomo! Nessuno ha dubbi sul fatto che i tre illustri visitatori rappresentino Dio. La lettura del testo, per noi, è un po’ difficile, perché non si capisce bene se ci sia un solo visitatore o più di uno: Abramo alzò gli occhi e vide tre uomini… disse: mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi… si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi… andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi…Dov’è Sara, tua moglie?… Tornerò da te fra un anno… tua moglie avrà un figlio. In realtà, l’autore scrive molto tempo dopo, sulla base di racconti diversi. Di tutte queste fonti, ne fa una sola, armonizzando il tutto il più possibile. E poiché vuole evitare ogni apparenza di politeismo, si preoccupa di ribadire più volte che Dio è uno solo. All’epoca l’autore non poteva immaginare che fosse la Trinità, ma certamente Abramo ha riconosciuto senza esitazione, in quei tre visitatori, la presenza divina. Dio, dunque – perché è proprio Lui, senza dubbio – si è fatto ospite nella casa di Abramo. E per dirgli cosa? Per confermargli quel progetto inaudito che aveva per lui: l’anno prossimo, in questo stesso tempo la vecchia Sara avrà un figlio. E da questo figlio nascerà un popolo che sarà lo strumento della benedizione divina. Sara, che stava origliando dietro la tenda, non poté trattenere una risata: erano così vecchi tutti e due e il viandante rispose con una frase che non dovremmo mai dimenticare: “C’è forse qualcosa d’impossibile per il Signore?” (Gen 18,14). E l’impossibile accadde: nacque Isacco, primo anello della discendenza promessa, numerosa come le stelle del cielo.

 

*Salmo responsoriale (14 /15, 1a. 2-3a, 3bc-4ab, 4d-5)

I salmi sono stati tutti composti per accompagnare un’azione liturgica durante i pellegrinaggi e le feste al Tempio di Gerusalemme e il Salterio potrebbe essere paragonato ai libretti dei canti che troviamo nelle nostre chiese. Qui, il pellegrino arriva alle porte del Tempio e pone la domanda: sono degno di entrare? La risposta si trova nel Libro del Levitico: “Siate santi, perché io sono santo” (19,2) e questo salmo ne trae le conseguenze: a colui che desidera entrare nel Tempio (la “casa” di Dio), deve avere una condotta degna del Dio santo. “Chi dimorerà sulla tua santa montagna? (v.1) La risposta è semplice: “Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore” (v.2) e i versetti seguenti lo precisano: essere giusto, essere vero, non fare torto a nessuno. In fin dei conti tutto questo richiama il Decalogo (Es 20) e l’identikit dell’uomo giusto tracciato da Ezechiele (Ez 18,5-9). Michea riprende esattamente la domanda del nostro salmo e la sviluppa (Mi 6,6-8) come anche Isaia, suo contemporaneo (Is 33,15-16). Un po’ più tardi, anche Zaccaria sentirà il bisogno di ripeterlo (Zc 8,16-17). Leggendo questi testi che indico solamente ma che è utile andare a meditare, si capisce quanto sia indispensabile attendere l’intervento di Colui che può trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne, come dice Ezechiele. Tutto ci aiuta a rileggere questo salmo applicandolo a Gesù che i vangeli descrivono “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), attento agli esclusi: i lebbrosi (Mc 1), la donna adultera (Gv 8), malati e indemoniati ebrei o pagani. Gesù è completamente estraneo alle logiche del profitto e non ha nemmeno dove posare il capo. Gesù ci aiuta a rileggere il versetto 3: “Non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo, non lancia insulti al suo vicino” dandogli una dimensione nuova e insegnando nella parabola del buon Samaritano che il cerchio dei nostri “prossimi” può allargarsi all’infinito. Il v 4: “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio” potrebbe apparire una stonatura in mezzo a tutti questi bei sentimenti: probabilmente però indica un impegno di fedeltà perché il “malvagio” è l’infedele, l’idolatra e il pellegrino deve rifiutare ogni forma di idolatria per cui in Israele la fedeltà al Dio unico è stata un combattimento costante. Infine, il richiamo alle esigenze dell’Alleanza costituisce una catechesi rivolta ai pellegrini, non una condizione per entrare nel Tempio perché diversamente nessuno avrebbe mai potuto entrarci eccetto Gesù di Nazaret il solo Santo.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1, 24 – 28)

“Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa”. Come intendere la prima frase di questo testo? Manca qualcosa alle sofferenze di Cristo? Oppure, ci sono altre sofferenze da sopportare da parte nostra per “compensare”, in qualche modo? In verità ci sono sofferenze ancora da sopportare, poiché Paolo lo afferma, ma non si tratta di completare una misura. Non è il frutto di una pretesa divina, bensì una necessità  dovuta alla durezza del cuore umano. Ciò che resta da soffrire sono le difficoltà, le opposizioni, persino le persecuzioni, che ogni opera di evangelizzazione incontra. Gesù lo ha detto chiaramente, prima e dopo la sua Passione e  Risurrezione. Se il Figlio dell’uomo ha dovuto soffrire molto, rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, messo a morte e il terzo giorno risorgere (cf Lc 9,22), analogo destino sarà quello dei suoi discepoli: Vi consegneranno ai tribunali e alle sinagoghe, sarete percossi, comparirete davanti a governatori e re a causa mia e ciò sarà per voi un’occasione di testimonianza, ma prima, bisogna che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni (cf Mc 13,9-10). L’avvertimento è che finché la missione non sarà conclusa, il discepolo dovrà continuare a faticare, affrontare difficoltà, persino persecuzioni certamente non per decreto divino, come se Dio desiderasse la sofferenza dei suoi figli e contasse le loro lacrime perché una simile supposizione deformerebbe l’immagine del Dio di tenerezza e di compassione che Mosè stesso aveva già scoperto. Due per Paolo sono le caratteristiche qualificanti il discepolo di Cristo: l’imitazione del divino Maestro sofferente e l’annuncio del “mistero” (v.26) La prima caratteristica è descritta in questo difficile versetto iniziale e sant’Agostino applica questa partecipazione alle sofferenze di Cristo a tutti i cristiani che soffrono perché l’intera comunità sia purificata dal male. La seconda caratteristica è l’annuncio, l’impegno missionario il cui contenuto è “il mistero”, il progetto cioè della salvezza rivelato in Cristo. Per l’opera dell’evangelizzazione, Dio chiama dei collaboratori perché non vuole agire senza di noi. Il mondo però rifiuta di ascoltare la Parola e resiste con tutte le sue forze alla diffusione del vangelo, un’opposizione che arriva fino a perseguitare e sopprimere i martiri, testimoni scomodi. È esattamente ciò che Paolo sta vivendo, imprigionato per aver parlato troppo di Gesù di Nazaret. Nelle sue lettere alle giovani comunità cristiane, egli incoraggia spesso i destinatari ad accettare, a loro volta, l’inevitabile persecuzione (cf 1Ts 3,3). E anche Pietro dice la stessa cosa: “Resistete, saldi nella fede, sapendo che le stesse sofferenze sono riservate ai vostri fratelli sparsi nel mondo.” (1Pt 5,9-10).  Dunque non ci si deve arrendere e occorre annunciare Cristo,  malgrado tutto, “ ammonendo ogni uomo, istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.”(v.28).  Cristo ha iniziato, a noi il compito di portare a compimento l’opera dell’annuncio e in tal modo la Chiesa cresce poco a poco, come Corpo di Cristo. Nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12) l’immagine del corpo serviva per parlare dell’armonia tra i membri all’interno di ogni Chiesa locale. Qui invece la visione di Paolo si amplia e contempla la Chiesa universale, grande corpo di cui Cristo è il capo.  Questo mistero, disegno di Dio è stato rivelato ai cristiani, e diventa per loro fonte inesauribile di gioia e di speranza: “Cristo in voi, lui, speranza della gloria!” (v. 27) ed è lo stupore della presenza del Cristo in mezzo a loro che trasforma i credenti in testimoni. Allora comprendiamo meglio la frase iniziale del testo di oggi: Trovo la gioia nelle sofferenze che sopporto per voi, poiché quello che manca alle sofferenze di Cristo, lo completo nella mia carne, per il bene del suo corpo che è la Chiesa.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (10, 38-42)

“Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33): questo è forse il miglior commento alla lezione di Gesù nella casa di Marta e Maria, un racconto esclusivo dell’evangelista Luca che segue immediatamente la parabola del buon samaritano. Gesù è in cammino con i discepoli verso Gerusalemme, occasione per lui di dare molte istruzioni ai suoi discepoli offrendo punti di riferimento che li aiutino a restare fedeli alla vocazione di seguirlo. Ha prima raccomandato ai discepoli in missione di accettare l’ospitalità (cf Lc 9,4; 10,5-9) e ora volentieri entra in questa casa a Betania che ben conosceva. Bisogna evitare di contrapporre Marta, l’attiva, a Maria, la contemplativa, perché l’evangelista sembra piuttosto concentrarsi sulla relazione dei discepoli con il Signore, come si percepisce dal contesto e dalla ripetizione del termine “Signore”, che compare tre volte: Maria stava seduta ai piedi del Signore… Marta disse: Signore, non ti importa? Il Signore le rispose.... L’uso insistito di questo termine indica che la relazione descritta da Luca tra Gesù e le due sorelle, Marta e Maria, non va giudicata secondo i criteri umani del “buon comportamento”, ma secondo ciò che il Maestro desidera insegnare ai suoi discepoli. Qui invita al discernimento di ciò che è la “parte migliore”, cioè l’atteggiamento essenziale e indispensabile nella vita e nella missione dei cristiani. Le due donne accolgono il Signore con tutta la loro attenzione: Marta è assorbita da molte faccende legate al servizio, Maria s’intrattiene con l’ospite ascoltandolo e non perde nessuna delle sue parole. Non si può dire che una sia attiva e l’altra contemplativa: entrambe, a loro modo, sono totalmente concentrate su di lui. L’evangelista si focalizza su Gesù che parla, anche se non ci viene detto che cosa dica, mentre Maria, “seduta ai pedi del Signore” ascolta con l’atteggiamento del discepolo per lasciarsi istruire (cf. Is 50). Marta protesta: “Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. E qui Gesù pronuncia una frase che ha fatto versare molto inchiostro: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose”. Gesù non rimprovera Marta per il suo desiderio di accoglierlo bene perché, nella cultura dell’ospitalità (soprattutto in Oriente), l’accoglienza significava preparare un buon pasto: “uccidere il vitello grasso”. L’agitazione e l’inquietudine di Marta ispirano a Gesù un insegnamento utile per tutti i suoi discepoli perché va all’essenziale: “Di una cosa solo c’è bisogno”: cioè tutto è utile se non si dimentica però “la parte migliore” cioè l’essenziale. Nella vita, tutti dobbiamo essere sia Marta che Maria, ma attenzione a non confondere le priorità. Gesù riprenderà questa lezione più avanti, in modo più esteso (Lc 12,22-32) che però la liturgia non sempre lo propone. Mi permetto allora di richiamarlo: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di ciò che mangerete, né per il corpo, di cosa vi vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito... Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più vestirà voi, gente di poca fede! Non cercate dunque che cosa mangerete o che cosa berrete, e non state con l’animo in ansia. Sono i pagani del mondo che ricercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo Regno, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta”. Gesù ci mette in guardia dal rischio che le preoccupazioni d’ogni giorno c’impediscano di ascoltare la sua parola che è “la parte migliore”. Dedicandoci al servizio come Marta, dobbiamo evitare di dimenticare che è sempre Dio a prendersi cura di noi e non il contrario. Possiamo parafrasare le parole di Gesù così: Marta, per accogliermi tu ti affanni e ti agiti facendo molte cose utili, ma il modo migliore è sapere che sono io a voler fare delle cose per te e quindi restami in ascolto.

+ Giovanni D’Ercole

Martedì, 15 Luglio 2025 05:09

Vite e tralci: una Nuova Mistica

Gv 15,1-8(.9-11)

 

L’allegoria della vite e dei tralci descrive la Presenza del Signore in mezzo ai suoi. Egli è fonte della vita intima e delle opere.

L’imperativo di credere in Lui (c.14) diventa esigenza di ‘rimanere’ in Lui [cf. Gv 6,56: tema eucaristico del ‘corpo unico’].

Gesù si serve dell’immagine della vite e dei tralci per trasmettere un insegnamento sulla famigliarità con Lui e la fraternità tra discepoli, che ne illustri il legame profondo.

Unione intima, alimento comune, solidarietà, continuità del legame, richiedono un’opera attenta e costante, tra cui «taglio e mondatura» perché non tutti i pampini e i germogli recano fecondità.

Ma attenzione: l'Amore divino è impulso che chiede un “lasciarsi portare”. Esso trascina; ci prende e si fa linfa nutriente. C’investe purificando.

Non è dimensione da intendersi quale “sforzo” (sostanzialmente nostro) bensì come un... essere afferrati e farsi coinvolgere nel moto della vita di Grazia.

Gesù invita ad avere cura dei codici dell’interiorità: da essi assumere l’impulso risoluto cui affidare le scelte, e che già ci ha guidati a crescere.

 

Nel brano di Vangelo il Creatore-contadino «taglia e purifica», per riallacciare tale ‘intesa’ personale.

Gesù parla di «Vite quella vera» (v.1): è solo Lui il germe autentico del Popolo piantato dal Padre.

Vuol dire che in giro venivano inculcati insegnamenti devianti, e interrate o esposte false “viti” [come quella favolosa ricolma di pampini d’oro sulla porta del Santuario interno del Tempio di Gerusalemme].

La linfa vitale non scorre dalle ricchezze, né da dottrine e discipline - neppure dalle grandi, impressionanti magnificenze del vecchio culto.

E l’interesse dell’agricoltore è che la Vigna porti sempre più «Frutto» ossia Amore; null’altro.

Il «permanere» di Cristo nei discepoli, la sua ‘unione’ con ciascuno, è essenziale per vivere sulla terra la stessa vita divina.

La Fede-amore ‘incorpora’ ed è contagiosa.

Laddove incontrasse resistenza, sarà proprio tale ostacolo a incitarla a maggiore purezza, dunque a più vigore (v.2).

Per questo motivo prima «Taglia» ciò ch’è stato rigoglioso nel passato ma non darebbe più nulla.

Ce ne accorgiamo nel tempo della crisi, che smaschera e rovescia posizioni assillanti e importune, mortificanti lo sviluppo.

Poi «Purifica» (v.2: testo greco) ossia procede come fa il bravo villico, a una seconda sfrondatura leggera dei germogli della vite; staccando quelli che assorbono linfa ma si addensano troppo e non hanno giusta vitalità [onde non togliere nutrimento ai punti propulsivi].

 

Questo brano è stato spesso interpretato come invito per eccellenza ad abbracciare una spiritualità delle “potature” [il termine nei Vangeli non esiste] che non ha senso in ottica di Fede, ossia d’Amore.

Nelle religioni tradizionali è il soggetto - «tralcio» - a doversi centrare su se stesso, individuare le mancanze, i difetti e vizi, e “potarli”.

Invece solo il Padre-agricoltore sa riconoscere gli elementi nocivi, quelli parassiti e senza futuro, che non vale la pena continuare a sorreggere.

La vita in Cristo non c’insedia su un’immagine di sterile perfezione esterna, che a Dio non interessa.

Una Potenza spontanea, il mistero delle radici vocazionali, l’opera a più livelli di un’essenza radicale, innata, che ci accompagna, sono in grado di alimentare e correggere ogni geometria a tavolino.

Agli impedimenti pensa il Padre, non il singolo tralcio, né altri tralci.

In tal guisa - cedendo il dirigismo esterno - non produrremo danni irreparabili.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale Linfa ti sazia, quella esterna? Quale geometria mondana e normale segui? Qual è la tua idea di miglioramento nella Fede?

 

 

Mistica della Gioia: essere se stessi, Rivelazione repentina

 

Resilienza non a denti stretti, e Somiglianza non possessiva

(Gv 15,9-11)

 

Gesù si è appena servito dell’immagine della «vigna» per configurare il “carattere” del suo nuovo popolo e la ‘circolazione di vita’ che lo accomuna.

«Vita» di particolare intensità e temperamento.

L’allegoria della vite e dei tralci è ora tradotta in termini esistenziali.

La propagazione del dinamismo divino in noi dà il via a una ‘corrente di amore’ particolare e accentuata.

La sorte del tralcio «inaridito» [privo della Linfa dello Spirito] e reciso è il senso d’inutilità e angoscia (v.6).

Ma - alla Vigna - perfino tagli, mondature e purificazioni (v.2) non impediscono di produrre grappoli abbondanti e succosi.

Un canto nuovo, finalmente privo di dissociazioni.

Il disagio infatti reca alla pergola un flusso addirittura più marcato, un cammino di carattere, e una dilatazione.

L’agricoltore è il Padre (v.1) che taglia e sfronda in ordine alla maggiore vitalità del campo.

Qui si permane, cedendo le nostre “previsioni” alla Grazia - nella paradossale tutela della concentrazione personale.

Lasciamo a Lui la decisione di far cadere i travestimenti infecondi.

Sarà il sapiente Agricoltore a spegnere i modelli dispersivi e accendere la nostra ‘voce’ - quella che ci appartiene.

L’energia della metamorfosi che si espanderà da situazioni critiche ci farà «essere» invece di “somigliare” [fuori].

Da dentro, lo ‘sguardo in stato di ricerca’ verrà spostato e reso essenziale, lasciando spazio alla virtù delle ‘radici’ proprie.

Man mano la recita che richiedeva forzature sterili verrà sapientemente smontata - affinché non ci chiudiamo in preconcetti.

La forza apparente dovrà dare spazio alla forza reale.

Per Via, ciascuno accetterà un’altra immagine di sé; senza per questo distaccarsi dalla convivenza.

Il tener duro lascerà spazio alla flessibilità, alla melodia vocazionale.

In tal guisa, facendo largo al modo di essere autentico.

 

Imparando a guardare bene e affidarsi a tutto ciò che provvidenzialmente si affaccia, sgorgheranno risposte elastiche.

Nell’anima si riverserà la Gioia personale - non quella fatua d’euforia o esaltazione, passeggera delle molte foglie.

Perché non dovendo nascondere altre preferenze, un diverso carattere individuante, o le nostre stesse fragilità, diventeremo più forti.

Senza per questo imporsi di dover sempre controllare la situazione.

L’intima Letizia che ci attiverà sarà frutto d’una consapevolezza nuova, che infine contribuisce alla ‘cattolica’ convivialità delle differenze.

Coscienza che coniuga la divina proposta di Somiglianza non possessiva con la nostra capacità di accoglierci - non di lottare in modo innaturale.

Anche nelle vulnerabilità. Malgrado i diversi gusti attorno.

Un’onda vitale ad personam che diventa resilienza non comune, e diversa Felicità.

 

Permanendo nella circolazione d’amore Padre-Figlio saremo avvolti da una ebbrezza che intuisce il senso e l'unicità del nostro Seme.

Tutto ciò cambia il modo di vedere la vita, le relazioni, le sofferenze, e la Gioia.

Deponendo gli sforzi e il rimuginare, incontrando gli enigmi e i lati sconosciuti, ecco affiorare La Sapienza che ci abita.

 

 

 

[s. Brigida di Svezia, 23 luglio]

Martedì, 15 Luglio 2025 05:05

Vite e tralci: una nuova Mistica

Gv 15,1-8 (.9-11)

 

L’allegoria della vite e dei tralci descrive la Presenza del Signore in mezzo ai suoi. Egli è fonte della vita intima e delle opere.

L’imperativo di credere in Lui (c.14) diventa esigenza di rimanere in Lui [cf. Gv 6,56: tema eucaristico del “corpo unico”].

La vite è una pianta che esige molte attenzioni. Nei testi biblici è presa come simbolo delle cure di Dio verso il suo popolo, e viceversa la sua distruzione raffigurava le antiche calamità nazionali.

Gesù si serve dell’immagine della vite e dei tralci per trasmettere un insegnamento sulla famigliarità con Lui e la fraternità tra discepoli, che ne illustri il legame profondo.

Unione intima, alimento comune, solidarietà e continuità del legame richiedono un’opera attenta e costante, tra cui taglio e mondatura, perché non tutti i pampini e i germogli recano fecondità.

Ma attenzione: l'Amore divino è impulso che chiede un lasciarsi portare. Esso trascina; ci prende e si fa linfa nutriente. C’investe purificando.

Non è dimensione da intendersi quale sforzo (sostanzialmente nostro) bensì come un... essere afferrati e farsi coinvolgere nel moto della vita di Grazia.

A paragone con le allusioni del Primo Testamento, si nota una sostituzione: sebbene il vignaiolo continui a rappresentare il Padre, la vite non è più figura del popolo, ma di Gesù.

E «portare frutto» è espressione frequente che indica solo Amore: il risultato vero che Dio si attende, l’opera unica da realizzare in tutte le nostre opere.

Il permanere di Cristo nei discepoli, la sua unione con ciascuno, è essenziale per vivere sulla terra la stessa vita divina.

La Fede-amore incorpora ed è contagiosa. Laddove incontrasse resistenza, sarà proprio tale ostacolo a incitarla a maggiore purezza, dunque a più vigore (v.2).

L’uomo invece abbandonato a se stesso non prolunga l’influsso di Cristo; non supera le barriere della nomenclatura e del normale.

Chi s’immagina autosufficiente - spezzando l’unione - incrina il Mistero che lo avvolge, e sarà preda dei suoi stessi affastellamenti infecondi.

Ma è anche vero che una vigna di razza è invadente per sua natura: dimostra in modo palese una piena disponibilità a esprimere… amore (frutto, gusto, vita).

Insomma, se oggi la missione segna il passo è perché ha già perso la sua vitalità dinamica: non basteranno i piani di adattamento o le narrazioni e una riforma esterna a risuscitarla.

È l’Incontro vitale che fa emergere le onde della forza e della più amichevole franchezza.

 

Negli anni, la Vocazione ci ha guidati e portati ad avere un modo di essere personale e un ambito di relazioni caratterizzante.

Ancora il Signore continua a chiamare, affinché entrando nel suo linguaggio [irripetibile, commisurato a ciascuna vicenda e sensibilità] veniamo sottratti a condizionamenti che non ci appartengono.

Gesù invita ad avere cura dei codici dell’interiorità, e da essi assumere l’impulso risoluto cui affidare le scelte e che già ci ha guidati a crescere.

Dagli albori della nostra storia e della nostra personalità, Lui solo continua ad essere Fonte intima e zampillante dello sviluppo - anche delle impronte che avevamo trattenuto.

Se ci fossimo affidati all’esteriorità, l’anima avrebbe disperso la sua linfa, smarrendo l’essenza che le apparteneva e specificava.

Così non avremmo incontrato noi stessi e non ci saremmo mai alimentati delle risorse costitutive più efficienti, che ora donano insieme equilibrio, maggiore completezza, capacità di giudizio in situazione, amabile trasparenza.

Si diventa se stessi, si diventa persona a tutto tondo, si diventa missionari, allo stesso modo: capendo che nelle vene scorre una Linfa, uno stimolo, che viene da Chi la sa più lunga di noi e delle opinioni.

Ci sono piante di sottobosco, altre che svettano; altre ancora, intrufolandosi nelle zone vuote e misteriosamente lasciate alla luce piena stanno crescendo a ritmo assai sostenuto rispetto a quelle da molto tempo piantate e installate - habitué da sembrare omologate.

La magia del creato - vite, tralci - parla di un altro regno, di un Logos che si correla a noi e dirige sapientemente i suoi flussi e le forze vitali.

In tal guisa accade nello Spirito, che interiorizza, chiama, nutre, trasmette equilibrio o profezia, e genera lo stupore del tutto e dell’unicità.

Come hanno fatto quei semi (nell’esempio che ho davanti casa, un doppio pino e un pino singolo) a radicare proprio nei punti caratteristici, intermedi e giusti - sia dal punto di vista estetico che dell’utilità, densità e ampiezza? Neanche avrei saputo pensarli così nitidamente disposti; tanto allineati in perfetta proporzione, misura, volume e scala.

Solo l’Alleato nascosto vede bene l’insieme, la struttura, la funzionalità e i dettagli delle nostre fibre.

Egli sa dove condurre, e come nutrirci per ritrovare l’Io, l'unità qualitativa dell’essere.

Lo fa seminando, immettendo, rigenerando, calibrando l’energia del suo e nostro Sogno. A ritmo conveniente, e curando la banalità razionale utilitarista dei nostri progetti. 

Incessantemente ricentrando il portato personale, la consapevolezza di sé, l’inclinazione spontanea.

Nonché distaccando l’anima da chi in mille modi vuole lasciarci nell’ignoranza della Via creaturale, per trattenere i luoghi comuni ed i totem del suo mondo abitudinario, snervante.

Ciò mentre lo Spirito separa il nostro pensiero poliedrico da false guide unilaterali [antiquate e grette, o isteriche e sofisticate, ma disincarnate].

I primi della classe magari pedinano, incalzano, e plagiano, distraendoci dal Dialogo non conformista con l’irripetibile compito della vita personale.

 

Nel brano di Vangelo il Creatore-contadino taglia e purifica, per riallacciare l’intesa.

Gesù parla di «Vite quella vera» (v.1): è solo Lui il germe autentico del Popolo piantato dal Padre.

Vuol dire che in giro venivano inculcati insegnamenti devianti, e interrate o esposte false viti - come quella favolosa ricolma di pampini d’oro sulla porta del Santuario interno del Tempio di Gerusalemme.

La linfa vitale non scorre dalle ricchezze, né da dottrine e discipline - neppure dalle grandi, impressionanti magnificenze del vecchio culto. 

Neppure da fantasie à la page e senza spina dorsale.

L’interesse dell’Agricoltore è che la Vigna porti sempre più Frutto ossia Amore, null’altro.

In tale traiettoria, il Contadino che sa cosa fare, «taglia» (v.2) [anche affinché non ci siano cordate, marpioni organizzati. Essi che assorbono le energie del suo popolo [munto e tosato] senza minimamente porsi il problema di comunicare - a loro volta - vita autentica agli altri.

 

Prima «Taglia» ciò ch’è stato rigoglioso nel passato ma non darebbe più nulla.

Ce ne accorgiamo nel tempo della crisi, che smaschera e rovescia posizioni assillanti e importune, mortificanti lo sviluppo.

Poi «purifica» (v.2: testo greco) ossia procede come fa il bravo villico, a una seconda sfrondatura leggera dei germogli della vite; staccando quelli che assorbono linfa ma si addensano troppo e non hanno giusta vitalità [onde non togliere nutrimento ai punti propulsivi].

 

Questo brano è stato spesso interpretato come invito per eccellenza ad abbracciare una spiritualità delle “potature” [il termine nei Vangeli non esiste] che non ha senso in ottica di Fede, ossia d’Amore.

Nelle religioni antiche è il soggetto - «tralcio» - a doversi centrare su se stesso, individuare le mancanze, difetti e vizi, e “potarli”.

Invece solo il Padre-agricoltore sa individuare gli elementi nocivi, quelli parassiti e senza futuro, che non vale la pena continuare a sorreggere.

Egli agisce nella realtà del nostro cammino, come si farebbe con un’antiquata e intimamente corrotta costruzione di cartapesta [nonché, con le fantasie alla moda, che portano al vuoto].

 

La vita in Cristo non si preoccupa dei limiti esterni, anzi evita di rendere protagonisti i difetti [rinnegati!] della vita spirituale.

Tale configurazione risulterebbe ossessiva, inconcludente, perché insediata su un’immagine di sterile “perfezione” che a Dio non interessa.

Piuttosto, sarà uno stupore osservare come nel cammino di Fede proprio le anime incerte, i loro passi malfermi e lati considerati oscuri possano nascondere le vere Perle del mondo.

Una Potenza spontanea, il mistero delle immagini che sgorgano dal profondo delle radici vocazionali e riattivano energie; l’opera a più livelli di un’essenza radicale, innata, che ci accompagna [immanente l’essere e che ne sa più di noi] sono energie tutte in grado di alimentare e correggere ogni geometria a tavolino.

Come non produrre danni irreparabili? Cedendo il dirigismo esterno.

 

Agli impedimenti pensa il Padre, non il singolo tralcio, né altri tralci - reduci, esperti, veterani che siano.

Sebbene più in alto, più grossi... eletti a vita, costoro non fornirebbero giusto umore vitale, né legame organico: ci presenterebbero solo contenuti sepolti, e il conto.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale Linfa ti sazia, quella esterna?

Quale geometria mondana e normale segui?

Qual è la tua idea di miglioramento nella Fede?

 

 

Mistica della Gioia: essere se stessi, Rivelazione repentina

 

Resilienza non a denti stretti, e Somiglianza non possessiva

(Gv 15,9-11)

 

«Rimanete nell’amore, quello mio […] Se i comandamenti miei osserverete, rimarrete nell’amore mio […] Vi ho detto queste cose affinché la gioia quella mia sia in voi e la gioia vostra sia piena».

 

Gesù si è appena servito dell’immagine della vigna per configurare il carattere del suo nuovo popolo e la circolazione di vita che lo accomuna.

Vita di particolare intensità e temperamento.

 

L’allegoria della vite e dei tralci è ora tradotta in termini esistenziali.

La propagazione del dinamismo divino in noi dà il via a una corrente di amore, particolare e accentuata.

Il Signore non chiede di essere amato, ma di accogliere (prima di trasfondere) la modalità di Dio - il Dono che discende dal Padre e da Lui.

La sorte del tralcio inaridito [privo della Linfa dello Spirito] e reciso è il senso d’inutilità e angoscia (v.6).

Ma - alla Vigna - perfino tagli, gettatezze, mondature e purificazioni (v.2) che la vita impone non impediscono di produrre grappoli abbondanti e succosi.

Un canto nuovo, finalmente privo di dissociazioni.

Il disagio infatti reca alla pergola un flusso addirittura più marcato, un cammino di carattere, e una dilatazione.

È l’occasione liberante che riattualizza l’essere, e può traboccare.

Vuole portarci alla casa che ci appartiene, non in un territorio di cronicizzazione [inchiodato al giogo dei canoni].

 

L’agricoltore è il Padre (v.1) che taglia e sfronda la vite da germogli inutili - sebbene anch’essi in apparenza verdi (v.2) - in ordine alla maggiore vitalità del campo.

Qui si permane, cedendo le nostre previsioni alla Grazia - nella paradossale tutela della concentrazione personale.

Lasciamo a Lui la decisione di far cadere i travestimenti infecondi.

In tal guisa, sarà il sapiente Agricoltore a spegnere i modelli dispersivi e accendere la nostra voce - quella che ci appartiene.

L’energia della metamorfosi che si espanderà da situazioni critiche ci farà essere, invece di somigliare [fuori].

Da dentro, lo sguardo in stato di ricerca verrà spostato e reso essenziale, lasciando spazio alla virtù delle radici proprie.

Man mano la recita che richiedeva forzature sterili verrà sapientemente smontata - affinché non ci chiudiamo in preconcetti.

La forza apparente dovrà dare spazio alla forza reale.

Per Via, ciascuno accetterà un’altra immagine di sé; senza per questo distaccarsi dalla convivenza.

Il tener duro lascerà spazio alla flessibilità, alla melodia vocazionale.

In tal guisa, facendo largo al modo di essere autentico.

 

Imparando a guardare bene e affidarsi a tutto ciò che provvidenzialmente si affaccia, sgorgheranno risposte elastiche.

Nell’anima si riverserà la Gioia personale - non quella fatua d’euforia o esaltazione, passeggera delle molte foglie [per essere ad es. come gli altri; a tutti i costi “sicuri”, accompagnati o affastellati].

Perché non dovendo nascondere altre preferenze, un diverso carattere individuante, o le nostre stesse fragilità, diventeremo più forti.

Senza per questo imporsi di dover sempre controllare la situazione.

L’intima Letizia che ci attiverà sarà frutto d’una consapevolezza nuova, che infine contribuisce alla ‘cattolica’ convivialità delle differenze.

Coscienza che coniuga la divina proposta di Somiglianza non possessiva con la nostra capacità di accoglierci - non di lottare in modo innaturale.

Anche nelle vulnerabilità. Malgrado i diversi gusti attorno.

Un’onda vitale ad personam che diventa resilienza non comune, e diversa Felicità.

 

L’esperienza di pienezza, di corrispondenza nel comprendere il senso del proprio esserci, è opera impossibile sia in termini di capacità che di progetto.

O di previsioni cerebrali, attese normalizzate, propositi di perfezione. Sarebbe un comandamento grave.

Forzando, non deponendo i modelli mentali, non facendosi un poco da parte nei pensieri indotti, prevarrebbe infine la sensazione d’una condizione dell’essere umano sulla terra come evento conflittuale, tessuto d’inquietudine - inappagato, tragico, assurdo.

La presa di possesso di Dio non è frutto d’aspettativa alcuna, né di emozioni, situazioni a comando, bensì d’un lasciarsi salvare: farsi introdurre in una vita da salvati - che talora giunge repentina, sempre imprevista.

Amare (addirittura) Dio non può essere un’iniziativa devota: è solo risposta non a denti stretti a una Manifestazione impensabile e non allestita, che precede e sbalordisce l’identificazione religiosa, personale, del mondo.

Permanendo nella circolazione d’amore Padre-Figlio saremo avvolti da una ebbrezza che intuisce il senso e l'unicità del nostro seme.

Tutto ciò cambia il modo di vedere la vita, le relazioni, le sofferenze, e la Gioia.

Deponendo gli sforzi e il rimuginare, incontrando gli enigmi e i lati sconosciuti, ecco affiorare La Sapienza che ci abita.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale linfa ti sazia, quella esterna?

Qual è la tua idea di miglioramento e Felicità?

Qual è la tua consapevolezza esistenziale di Rivelazione?

Martedì, 15 Luglio 2025 04:53

Appartenersi, o l’insoddisfazione

Pensando a questi Beati e a tutta la schiera dei Santi e Beati, possiamo capire che cosa significhi vivere come tralci della vera vite che è Cristo, e portare frutto. Il Vangelo di oggi ci ha richiamato alla mente l’immagine di questa pianta, che è rampicante in modo rigoglioso nell’oriente e simbolo di forza vitale, una metafora per la bellezza e il dinamismo della comunione di Gesù con i suoi discepoli e amici, con noi.

Nella parabola della vite, Gesù non dice: “Voi siete la vite”, ma: “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5). Ciò significa: “Così come i tralci sono legati alla vite, così voi appartenete a me! Ma appartenendo a me, appartenete anche gli uni agli altri”. E questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale. È la Chiesa, questa comunità di vita con Gesù Cristo e dell'uno per l’altro, che è fondata nel Battesimo e approfondita ogni volta di più nell’Eucaristia. “Io sono la vera vite”; questo, però, in realtà significa: “Io sono voi e voi siete me” – un’inaudita identificazione del Signore con noi, con la sua Chiesa.

Cristo stesso, quella volta, vicino a Damasco, chiese a Saulo, il persecutore della Chiesa: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4). In tal modo il Signore esprime la comunanza di destino che deriva dall’intima comunione di vita della sua Chiesa con Lui, il Risorto. Egli continua a vivere nella sua Chiesa in questo mondo. Egli è con noi, e noi siamo con Lui. – “Perché mi perseguiti?” –In definitiva è Gesù che vogliono colpire i persecutori della sua Chiesa. E, allo stesso tempo, questo significa che noi non siamo soli quando siamo oppressi a causa della nostra fede. Gesù Cristo è da noi e con noi.

Nella parabola, il Signore Gesù dice ancora una volta: “Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore” (Gv 15,1), e spiega che il vignaiolo prende il coltello, taglia i tralci secchi e pota quelli che portano frutto perché portino più frutto. Per dirlo con l'immagine del profeta Ezechiele, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, Dio vuole togliere dal nostro petto il cuore morto, di pietra, e darci un cuore vivente, di carne (cfr Ez 36,26). Vuole donarci una vita nuova e piena di forza. un cuore di amore, di bontà e di pace. Cristo è venuto a chiamare i peccatori. Sono loro che hanno bisogno del medico, non i sani (cfr Lc 5,31s.). E così, come dice il Concilio Vaticano II, la Chiesa è il “sacramento universale di salvezza” (Lumen gentium, 48) che esiste per i peccatori, per noi, per aprire a noi la via della conversione, della guarigione e della vita. Questa è la continua e grande missione della Chiesa, conferitale da Cristo.

Alcuni guardano la Chiesa fermandosi al suo aspetto esteriore. Allora la Chiesa appare solo come una delle tante organizzazioni in una società democratica, secondo le cui norme e leggi, poi, deve essere giudicata e trattata anche una figura così difficile da comprendere come la “Chiesa”. Se poi si aggiunge ancora l'esperienza dolorosa che nella Chiesa ci sono pesci buoni e cattivi, grano e zizzania, e se lo sguardo resta fisso sulle cose negative, allora non si schiude più il mistero grande e bello della Chiesa.

Quindi, non sorge più alcuna gioia per il fatto di appartenere a questa vite che è la “Chiesa”. Insoddisfazione e malcontento vanno diffondendosi, se non si vedono realizzate le proprie idee superficiali ed erronee di “Chiesa” e i propri “sogni di Chiesa”! Allora cessa anche il lieto canto “Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa”, che generazioni di cattolici hanno cantato con convinzione.

Ma torniamo al Vangelo. Il Signore continua così: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me, … perché senza di me – si potrebbe anche tradurre: fuori di me – non potete far nulla” (Gv 15,4).

Ognuno di noi è messo di fronte a tale decisione. Il Signore, nella sua parabola, ci dice di nuovo quanto essa sia seria: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi raccolgono i tralci buttati via, li gettano nel fuoco e li bruciano” (cfr Gv 15,6). Al riguardo, S. Agostino commenta: “L’uno o l’altro spetta al tralcio, o la vite o il fuoco; se [il tralcio] non è nella vite, sarà nel fuoco; quindi affinché non sia nel fuoco, sia nella vite” (In Joan. Ev. tract. 81,3 [PL 35, 1842]).

La scelta qui richiesta ci fa capire, in modo insistente, il significato fondamentale della nostra decisione di vita. Ma, allo stesso tempo, l'immagine della vite è un segno di speranza e di fiducia. Incarnandosi, Cristo stesso è venuto in questo mondo per essere il nostro fondamento. In ogni necessità e aridità, Egli è la sorgente che dona l’acqua della vita che ci nutre e ci fortifica. Egli stesso porta su di sé ogni peccato, paura e sofferenza e, in fine, ci purifica e ci trasforma misteriosamente in tralci buoni che danno vino buono. In questi momenti di bisogno, a volte ci sentiamo come finiti sotto un torchio, come i grappoli d’uva che vengono pigiati completamente. Ma sappiamo che, uniti a Cristo, diventiamo vino maturo. Dio sa trasformare in amore anche le cose pesanti e opprimenti nella nostra vita. Importante è che “rimaniamo” nella vite, in Cristo. In questo breve brano, l’evangelista usa la parola “rimanere” una dozzina di volte. Questo “rimanere-in-Cristo” segna l’intero discorso. Nel nostro tempo di inquietudine e di qualunquismo, in cui così tanta gente perde l’orientamento e il sostegno; in cui la fedeltà dell’amore nel matrimonio e nell’amicizia è diventata così fragile e di breve durata; in cui vogliamo gridare, nel nostro bisogno, come i discepoli di Emmaus: “Signore, resta con noi, perché si fa sera (cfr Lc 24,29), sì, è buio intorno a noi!”; in questo tempo il Signore risorto ci offre un rifugio, un luogo di luce, di speranza e fiducia, di pace e sicurezza. Dove la siccità e la morte minacciano i tralci, là in Cristo c’è futuro, vita e gioia, là c’è sempre perdono e nuovo inizio, trasformazione entrando nel suo amore.

Rimanere in Cristo significa, come abbiamo già visto, rimanere anche nella Chiesa. L’intera comunità dei credenti è saldamente compaginata in Cristo, la vite. In Cristo, tutti noi siamo uniti insieme. In questa comunità Egli ci sostiene e, allo stesso tempo, tutti i membri si sostengono a vicenda. Insieme resistiamo alle tempeste e offriamo protezione gli uni agli altri. Noi non crediamo da soli, crediamo con tutta la Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, con la Chiesa che è in Cielo e sulla terra.

La Chiesa quale annunciatrice della Parola di Dio e dispensatrice dei sacramenti ci unisce con Cristo, la vera vite. La Chiesa quale “pienezza e completamento del Redentore” – come la chiamava Pio XII - (Pio XII, Mystici corporis, AAS 35 [1943] p. 230: “plenitudo et complementum Redemptoris”) è per noi pegno della vita divina e mediatrice dei frutti di cui parla la parabola della vite. Così la Chiesa è il dono più bello di Dio. Pertanto, Agostino poteva dire: “Ognuno possiede lo Spirito Santo nella misura in cui ama la Chiesa” (In Ioan. Ev. tract. 32, 8 [PL 35, 1646]). Con la Chiesa e nella Chiesa possiamo annunciare a tutti gli uomini che Cristo è la fonte della vita, che Egli è presente, che Egli è la grande realtà che cerchiamo e a cui aneliamo. Egli dona se stesso e così ci dona Dio, la felicità, l’amore. Chi crede in Cristo, ha un futuro. Perché Dio non vuole ciò che è arido, morto, artificiale, che alla fine è gettato via, ma vuole ciò che è fecondo e vivo, la vita in abbondanza, e Lui ci dà la vita in abbondanza.

[Papa Benedetto, omelia in Berlino, 22 settembre 2011]

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Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato [Papa Benedetto]
This belonging to each other and to him is not some ideal, imaginary, symbolic relationship, but – I would almost want to say – a biological, life-transmitting state of belonging to Jesus Christ (Pope Benedict)
Questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale (Papa Benedetto)
She is finally called by her name: “Mary!” (v. 16). How nice it is to think that the first apparition of the Risen One — according to the Gospels — took place in such a personal way! [Pope Francis]
Viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16). Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i Vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! [Papa Francesco]
Jesus invites us to discern the words and deeds which bear witness to the imminent coming of the Father’s kingdom. Indeed, he indicates and concentrates all the signs in the enigmatic “sign of Jonah”. By doing so, he overturns the worldly logic aimed at seeking signs that would confirm the human desire for self-affirmation and power (Pope John Paul II)
Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo (Papa Giovanni Paolo II)
Without love, even the most important activities lose their value and give no joy. Without a profound meaning, all our activities are reduced to sterile and unorganised activism (Pope Benedict)
Senza amore, anche le attività più importanti perdono di valore, e non danno gioia. Senza un significato profondo, tutto il nostro fare si riduce ad attivismo sterile e disordinato (Papa Benedetto)
In reality, an abstract, distant god is more comfortable, one that doesn’t get himself involved in situations and who accepts a faith that is far from life, from problems, from society. Or we would even like to believe in a ‘special effects’ god (Pope Francis)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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