don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 22 Luglio 2025 11:01

17a Domenica T.O. (anno C)

XVII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [27 Luglio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa volta mi sono dilungato un poco nel presentare nelle NOTE alcuni dettagli importanti delle letture, utili per la meditazione personale e per la lectio divina in questo tempo di vacanza. 

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (18, 20-32)

Questo testo segna un passo avanti nell’idea che gli uomini si fanno del loro rapporto con Dio: è la prima volta che si osa immaginare che un uomo possa intervenire nei progetti di Dio. Purtroppo, la lettura liturgica non ci fa ascoltare i versetti precedenti nei quali leggiamo che subito dopo l’incontro alle Querce di Mamre, Abramo si congeda accompagnando i tre misteriosi uomini a contemplare dall’alto Sodoma. Il Signore, parlando tra sé, dice: ”Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?” (vv.17-19). Dio prende molto sul serio l’alleanza appena fatta ed è qui che inizia quella che potremmo chiamare “la più bella trattativa della storia”: Abramo, armato di tutto coraggio, intercede per cercare di salvare Sodoma e Gomorra da un castigo certamente meritato. In sostanza chiede se Dio vuole veramente sterminare queste città anche se incontra almeno cinquanta giusti, o solo quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci. Che audacia! Eppure, a quanto pare, Dio accetta che l’uomo si ponga come interlocutore: in nessun momento il Signore sembra spazientirsi ed anzi risponde ogni volta esattamente come Abramo sperava. Forse Dio apprezza che Abramo abbia una così alta idea della sua giustizia. A questo proposito, si può notare che questo testo è stato redatto in un’epoca in cui si comincia ad avere coscienza della responsabilità individuale: infatti Abramo si scandalizzerebbe all’idea che dei giusti possano essere puniti insieme ai peccatori e per loro colpa. Siamo lontani dal tempo in cui un’intera famiglia veniva eliminata per la colpa di uno solo. La grande scoperta della responsabilità individuale risale al profeta Ezechiele e al periodo dell’esilio a Babilonia, cioè al VI secolo a.C. Possiamo quindi formulare un’ipotesi sulla composizione del capitolo letto oggi e domenica scorsa: si tratta di un testo redatto in epoca piuttosto tarda, pur derivando da racconti forse molto più antichi, la cui forma orale o scritta non era ancora definitiva. Dio ama che l’uomo si faccia intercessore per i suoi fratelli come possiamo vedere con Mosè:  quando il popolo si fabbricò un “vitello d’oro” da adorare subito dopo aver giurato di non seguire mai più gli idoli. Mosè intervenne per supplicare Dio di perdonare e Dio, che non aspettava altro, si affrettò a perdonare(Es 32). Mosè intercedeva per il popolo di cui era responsabile; Abramo, invece, intercede per dei pagani e questo è logico, in fondo, visto che egli è portatore di una benedizione per tutte le famiglie della terra. Questo testo è un grande passo avanti nella scoperta del volto di Dio, ma è solo una tappa collocandosi ancora in una logica di contabilità: quanti giusti serviranno per ottenere il perdono dei peccatori? L’ultimo passo teologico sarà scoprire che con Dio non si tratta mai di pagamento.  La sua giustizia non ha nulla a che vedere con una bilancia, i cui due piatti devono essere perfettamente in equilibrio ed è ciò che san Paolo cercherà di farci capire nel passo della lettera ai Colossesi di questa domenica. Questo testo della genesi è anche una bella lezione sulla preghiera, che ci viene proposta nel giorno in cui il vangelo di Luca riporta l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, a cominciare dal Padre Nostro, la preghiera plurale per eccellenza che ci invita pregando ad allargare il cuore alla dimensione dell’intera umanità. 

 

NOTA: Sviluppo della nozione di giustizia di Dio nella Bibbia: All’inizio si trovava normale che tutto il gruppo pagasse per la colpa di uno: vedi il caso di Akân ai tempi di Giosuè (Gs 7,16-25). In una seconda fase si immagina che ognuno paghi per sé. Qui, c’è un nuovo passo avanti: se si trovano dieci giusti, essi possono salvare tutta una città. Geremia oserà andare oltre: un solo giusto può ottenere il perdono per tutti: «Percorrete le strade di Gerusalemme, cercate: se trovate un solo uomo che pratichi il diritto… io perdonerò alla città» (Ger 5,1). Anche Ezechiele ragiona in questi termini: «Ho cercato tra loro un uomo che si ponesse sulla breccia davanti a me… ma non l’ho trovato» (Ez 22,30). È con il libro di Giobbe, fra gli altri, che si compie l’ultimo passo: quando si comprenderà finalmente che la giustizia di Dio è sinonimo di salvezza, non di punizione. Geremia arriva persino a invocare un perdono senza condizioni, fondato sulla sola grandezza di Dio: «Se i nostri peccati testimoniano contro di noi, agisci, Signore, per l’onore del tuo nome!» (Ger 14,7-9). Davanti a Dio, proprio come Geremia, Abramo ha capito che i peccatori non hanno altro argomento che Dio stesso!  Infine, si noti l’ottimismo di Abramo, che gli vale pienamente il titolo di “padre nella fede”: egli continua a credere che non tutto è perduto, che non tutti sono perduti. Persino in una città orrenda come Sodoma, egli è convinto che ci siano almeno dieci uomini buoni!

 

Salmo responsoriale (137/138), 1-2a, 2bc-3, 6-7ab, 7c-8)

Questo salmo è tutto un canto di ringraziamento per l’Alleanza che Dio propone all’umanità: l’Alleanza conclusa, in primo luogo, con Israele, ma anche l’Alleanza aperta a  tutte le nazioni e la vocazione di Israele è proprio introdurre in essa le altre nazioni. Torna tre volte 

il ringraziamento: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”, “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”, e – nel versetto 4 che non ascoltiamo questa domenica – “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. Qui si nota una progressione: dapprima è Israele che parla a nome proprio: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”; poi viene precisato il motivo: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”; infine, è l’intera umanità che entra nell’Alleanza e rende grazie: “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. 

Poiché si parla dell’Alleanza, è normale che vi siano allusioni all’esperienza del Sinai e si colgono echi della grande scoperta del roveto ardente quando Dio disse a Mosè di aver visto la miseria del suo popolo e di essere sceso a liberarlo (Es 2,23-24). In eco, il salmo canta: “Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto”(v.3) Un altro richiamo alla rivelazione di Dio al Sinai è l’espressione “Il tuo amore e la tua fedeltà”(v.2): sono le stesse parole con cui Dio si è definito davanti a Mosè (Es 34,6). La frase “La tua destra mi salva” (v.7) è, per gli ebrei, un’allusione all’uscita dall’Egitto. La “destra” è, naturalmente, la mano destra e, sin dal cantico di Mosè dopo il passaggio miracoloso del Mar Rosso (Es 15), si è presa l’abitudine di parlare della vittoria che Dio ha ottenuto con mano forte e braccio potente (Es 15,6.12). Anche l’espressione “Signore, il tuo amore è per sempre” (v.8) evoca tutta l’opera di Dio, in particolare l’Esodo come il salmo 135/136, il cui ritornello è: “Perché il suo amore è per sempre”. Un un altro legame tra questo salmo e il cantico di Mosè è il nesso tra tutta l’epopea dell’Esodo, l’Alleanza del Sinai e il Tempio di Gerusalemme. Mosè cantava:

“Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. È il mio Dio, lo voglio lodare, è il Dio di mio padre, lo voglio esaltare” (Es 15,1-2.13), e il salmo riprende in eco:

“Non agli dei, ma a Te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo” (vv.1-2) perché il

Tempio è il luogo in cui si fa memoria di tutta l’opera di Dio a favore del suo popolo. La presenza di Dio non si limita però a un tempio di pietra, ma quel tempio, o ciò che ne resta, è un segno permanente di quella presenza. E ancora oggi, dovunque si trovi nel mondo, ogni ebreo prega rivolto verso Gerusalemme, verso il monte del tempio santo perché è il luogo scelto da Dio, ai tempi del re Davide, per offrire al suo popolo un segno della sua presenza. Infine, la grandezza di Dio non schiaccia l’uomo; almeno non colui che sa riconoscere la propria piccolezza: “Eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano”(v.6). Anche questo è un grande tema biblico: la sua grandezza si manifesta proprio nella sua bontà verso la piccolezza dell’uomo (cf.Sap 12,18) e il salmo 113/112: “Dalla polvere rialza il debole, dall’immondizia solleva il povero” e nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Il credente lo sa e ne resta meravigliato: Il Dio è grande non ci schiaccia, ma al contrario, ci fa crescere.

Questi parallelismi cioè l’influenza del cantico di Mosè, l’esperienza del Sinai dal roveto ardente fino all’uscita dall’Egitto e all’Alleanza, si ritrovano in molti altri salmi e testi biblici.

Ciò dimostra quanto questa esperienza sia stata – e resti – il fondamento della fede di Israele.

 

Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Colossesi (2,12-14)

Dio ha annullato il documento scritto contro di noi (Col 2,14). Paolo qui fa riferimento a una pratica molto diffusa quando si prendeva in prestito del denaro: era consuetudine che il debitore consegnasse al creditore un “documento di riconoscimento del debito”. Anche Gesù ha utilizzato questa immagine nella parabola dell’amministratore disonesto. Il giorno in cui il padrone lo minaccia di licenziamento, egli pensa a procurarsi degli amici; a questo scopo convoca i debitori del suo padrone e a ciascuno dice: «Ecco il tuo documento di debito, cambia la somma. Dovevi cento sacchi di grano? Scrivi ottanta.» (Lc 16,7). Come fa spesso, Paolo utilizza il linguaggio della vita quotidiana per esprimere un pensiero teologico. Questo il suo ragionamento: a causa della gravità dei nostri peccati, possiamo considerarci debitori nei confronti di Dio. Del resto, nel giudaismo, i peccati erano spesso chiamati “debiti”; e una preghiera ebraica del tempo di Gesù diceva: “Per la tua grande misericordia, cancella tutti i documenti che ci accusano.” Ebbene, chiunque alzi lo sguardo verso la croce di Cristo scopre fino a che punto arriva la misericordia di Dio per i suoi figli: con Lui non si tratta di tenere una contabilità: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” è la preghiera del Figlio; ma è Lui stesso ad aver detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Il corpo di Cristo inchiodato alla croce mostra che Dio è così: dimentica ogni nostro torto, ogni nostra colpa verso di Lui. Il suo perdono è esposto davanti ai nostri occhi: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, diceva il profeta Zaccaria (Zc 12,10; Gv 19,37). È come se il documento del nostro debito fosse stato inchiodato alla croce di Cristo. Si resta comunque sorpresi perché tutto questo passaggio è scritto al passato: “con Cristo sepolti nel battesimo, con Lui siete anche risorti… con lui Dio ha dato vita anche a voi… perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi … lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. 

NOTA Paolo vuole affermare che la salvezza del mondo è già compiuta: questo “già-realizzato” della salvezza è uno dei grandi temi della Lettera ai Colossesi.  La comunità cristiana è già salvata attraverso il battesimo; partecipa già alla realtà celeste. Anche qui si nota una evoluzione rispetto ad alcune lettere precedenti di Paolo, come “Siamo stati salvati, ma nella speranza” (Rm 8,24); “Se siamo stati totalmente uniti a Lui nella morte, lo saremo anche nella risurrezione.” (Rm 6,5). Mentre la Lettera ai Romani pone la risurrezione nel futuro, le Lettere ai Colossesi e agli Efesini parlano al passato, sia della sepoltura con Cristo sia della risurrezione come realtà già attuale. “Quando eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo – per grazia siete salvati –; con Lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù.” (Ef 2,5-6). “Siete stati sepolti con Cristo, con Lui siete anche risorti… Eravate morti… ma Dio vi ha dato la vita con Cristo.” Il battesimo per Paolo è come una seconda nascita e l’insistenza sul fatto che la salvezza è già avvenuta, mediante la nascita a una vita totalmente nuova, è probabilmente legata anche al contesto storico: dietro molte espressioni della Lettera si intravede un clima di tensione e di conflitto. La comunità di Colosse sembra subire influenze pericolose, contro cui Paolo vuole metterla in guardia: “Nessuno vi inganni con discorsi seducenti” (Col 2,4)… “Nessuno vi intrappoli con una filosofia vuota e ingannevole” (Col 2,8)… “Nessuno vi giudichi per questioni di cibo, di bevande, di feste o di sabati” (Col 2,16). Riappare così, in filigrana, un problema ricorrente: come si entra nella salvezza? Bisogna continuare a osservare rigorosamente tutta la legge ebraica?  Paolo risponde: per mezzo della fede. Questo tema è presente in molte lettere, e lo ritroviamo chiaramente anche qui (v.12): sepolti nel battesimo con Cristo… risorti… per mezzo della fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La Lettera agli Efesini lo ripete ancora più chiaramente: “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. Non viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene.” (Ef 2,8-9) La vita con Cristo nella gloria del Padre non è solo una speranza futura, ma un’esperienza attuale dei credenti: un’esperienza di vita nuova, di vita divina. D’ora in poi, se lo vogliamo, Cristo vive in noi; e siamo resi capaci di vivere nella vita quotidiana la vita divina del Cristo risorto!  Questo significa che nessuna delle nostre vecchie condotte è più una condanna inevitabile. L’amore, la pace, la giustizia, la condivisione sono possibili. E se non lo riteniamo possibile, allora diciamo che Cristo non ci ha salvati! Attenzione! Finora abbiamo sempre parlato della Lettera ai Colossesi come se Paolo ne fosse l’autore; in realtà, molti esegeti ritengono che sia stata scritta da un discepolo molto vicino a Paolo, ispirato dal suo pensiero, ma di una generazione successiva, 

 

Dal Vangelo secondo Luca (11,1-13)

Può forse sorprendere ma Gesù non ha inventato le parole del Padre Nostro: esse provengono direttamente dalla liturgia ebraica e, più in profondità, dalle Scritture. A partire dal vocabolario, che è molto biblico: Padre, nome, santo, regno, pane, peccati, tentazioni…. Cominciamo dalle prime due domande: con grande pedagogia, esse si rivolgono innanzitutto verso Dio e ci insegnano a dire “il tuo nome”, “il tuo Regno”. Educano il nostro desiderio e ci impegnano a collaborare alla crescita del suo Regno. Il Padre Nostro, probabilmente insegnato da Gesù in aramaico “Abun d’bashmaya…nethqadash shimukin che richiama l’ebraico liturgico, è una scuola di preghiera, o se si preferisce, un metodo per imparare a pregare: non dimentichiamo la richiesta del discepolo che direttamente precede: “Signore, insegnaci a pregare” (v.1). Ebbene, se seguiamo il metodo di Gesù, grazie al Padre Nostro, finiremo per sapere parlare la lingua di Dio il cui primo termine è Padre. L’invocazione “Padre nostro” ci pone subito in relazione filiale con Dio ed era già presente nell’Antico Testamento: “Tu, Signore, sei nostro Padre, nostro Redentore da sempre.” (Is 63,16). Le prime due domande riguardano il nome e il regno. “Sia santificato il tuo nome”: nella Bibbia, il nome rappresenta la persona stessa; dire che Dio è santo (kadosh / shmokh in aramaico - separato) significa affermare che Egli è “al di là di tutto e questa richiesta significa: “Fa’ che tu sia riconosciuto come Dio”. “Venga il tuo regno”: ripetuta ogni giorno, questa domanda ci trasformerà in operai del Regno. La volontà di Dio – lo sappiamo – è che l’umanità, radunata nel suo amore, diventi regina della creazione: “Riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,27) e i credenti aspettano il giorno in cui Dio sarà riconosciuto re su tutta la terra, come annunciava il profeta Zaccaria: “Il Signore sarà re su tutta la terra” (Zc 14,9). La nostra preghiera, questo nostro metodo per imparare la lingua di Dio, ci farà diventare persone che desiderano sopra ogni cosa che Dio sia riconosciuto, adorato, amato, che tutti lo riconoscano come Padre, appassionati dell’evangelizzazione e del Regno di Dio. Le tre domande successive riguardano la vita quotidiana: “Dacci”, “Perdonaci”, “Non abbandonarci alla tentazione”. Dio non smette mai di compiere tutto questo e noi ci poniamo in un atteggiamento di accoglienza dei suoi doni. “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano ”τν πιούσιον”: la manna che cadeva ogni mattina nel deserto educava il popolo a confidare giorno per giorno e questa richiesta ci invita a non preoccuparci del domani e a ricevere ogni giorno il cibo come dono di Dio: qui il pane riveste vari significati, compreso il pane eucaristico come spiegherò nella Nota e il plurale “nostro pane” c’invita a condividere la preoccupazione del Padre di sfamare tutti i suoi figli. “Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”: il perdono di Dio non è condizionato dal nostro comportamento e il perdono fraterno non compra il perdono di Dio, ma è l’unica via per entrare nel perdono divino che è già donato: chi ha il cuore chiuso non può accogliere i doni di Dio. “Non abbandonarci alla tentazione” qui c’è un problema di traduzione, perché – ancora una volta – la grammatica ebraica è diversa dalla nostra: il verbo usato nella preghiera ebraica significa «fa’ che non entriamo nella tentazione» Si tratta di ogni tentazione, certamente, ma soprattutto della più grave, la tentazione di dubitare dell’amore di Dio. Nella preghiera del Padre nostro tutta la vita del mondo è coinvolta: parlare la lingua di Dio significa sapere chiedere e la preghiera di domanda non solo è permessa, ma è raccomandata perché è esercizio di umiltà e fiducia, e non sono richieste qualsiasi: pane, perdono, forza contro le tentazioni. Tutte le domande sono al plurale e ognuno di noi le formula a nome dell’intera umanità. In fondo c’è un legame stretto tra le prime domande del Padre Nostro e le successive: chiediamo a Dio ciò che serve per compiere la nostra missione battesimale: Dacci tutto ciò che ci serve – pane e amore – e proteggici, affinché abbiamo la forza di annunciare il tuo Regno. Nel vangelo segue immediatamente la parabola dell’amico importuno che invita a non smettere mai di pregare, certi che il Padre celeste dà sempre lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (v.13) per cui anche se i problemi non saranno risolti con un colpo di bacchetta magica, non li vivremo però più da soli ma insieme a Lui.

 

NOTA 

1 – A proposito del “pane”, nel versetto 3: lo stesso aggettivo è presente in una preghiera del libro dei Proverbi: «Non darmi né povertà né ricchezza; concedimi solo il cibo necessario.» (Pr 30,8).  

2 Il termine pane τν πιούσιον, aggettivo molto raro è un hapax legomenon, cioè appare solo qui (e in Mt 6,11), e non si trova altrove nella letteratura greca classica o nei LXX (Settanta). Molteplici le interpretazioni, ma πιούσιος resta enigmatico e porta con sé una ricchezza di significati: il pane materiale necessario per vivere ogni giorno; il pane spirituale, cioè la Parola di Dio e l’Eucaristia, il segno di una fiducia giorno per giorno nella Provvidenza del Padre. Alcuni esegeti lo leggono come “il pane per il giorno che sta per venire”, quindi un’invocazione fiduciosa per il futuro immediato. 

3. Gesù prende il Padre nostro direttamente dalla liturgia ebraica ed ecco alcune preghiere ebraiche che ne sono all’origine: Padre nostro che sei nei cieli» (Mishnah Yoma, invocazione comune); Sia santificato il tuo nome eccelso nel mondo che hai creato secondo la tua volontà (Qaddish, Qedushah e Shemoné Esré); Venga presto e sia riconosciuto nel mondo intero il tuo Regno… Sia fatta la tua volontà in cielo e sulla terra… Dacci il pane quotidiano…

Rimetti i nostri peccati come noi li rimettiamo… Non ci indurre in tentazione… A te appartengono grandezza, potenza, gloria… (1 Cr 29,11)

4. La dossologia finale del Padre Nostro: Molti gruppi cristiani, ben prima del Concilio Vaticano II, recitavano alla fine del Padre Nostro: Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Questa “dossologia” (parola di lode) si trova in alcuni manoscritti di Matteo, ed è probabilmente derivata da un uso liturgico molto antico, già nel I secolo, ma risale ancora più indietro, fino alla preghiera di Davide  (cf Cronache 29,11).

5. Sull’importanza delle preghiere di domanda, eco un’interessante immagine proposta da Denys l’Areopagita: immagina una barca sul mare; sulla riva, c’è una roccia, su di essa un anello e un altro anello sulla barca, legati da una corda L’uomo che prega è come chi, dalla barca, tira la corda: non attira la roccia verso di sé, ma avvicina sé stesso – e la barca – alla roccia.

+ Giovanni D’Ercole

Lunedì, 21 Luglio 2025 09:59

«Padre (Nostro)»: per le Beatitudini

Giovedì, 17 Luglio 2025 04:28

Diventare primi ministri

(Mt 20,20-28)

 

L’Impero soggiogava il bacino mediterraneo con la forza delle Legioni.

Attraverso una vasta base di schiavi e tributi, esso concentrava titoli e ricchezze in mano a piccole cerchie - con abuso di potere e coercizioni.

Il nuovo Regno dev’essere germe di società alternativa.

Il perno sarà riappropriarsi di una sorta di sintesi della vita di Gesù per farla propria, come espressa nel v.28.

Sono qui enunciati tre titoli che hanno dato inizio alla Cristologia:

 

«Figlio dell’uomo» è Colui che ha manifestato l’uomo nella condizione divina: pienezza di umanità che riflette e rivela la stessa vita intima di Dio.

Figura di una “santità” accessibile e trasmissibile, tutta incarnata - perfino sommaria.

Figlio dell’uomo è infatti lo sviluppo autentico e pieno della persona secondo il Sogno attivo del Padre, che spazza via il «Giogo» ossessivo della Religione comune - dilatando la vita (e i confini dell’ego).

Nell’adesione al «Figlio dell’uomo» siamo introdotti come protagonisti nella storia della salvezza.

Collaboratori nell’apice della Creazione - ossia nel processo dell’amore. E veniamo distaccati dal pre-umano delle competizioni [condizione belluina per brama di supremazie].

 

«Servo» di Yahweh: Giusto che patisce pene d’Amore, per farci salvi - icona della forza dimessa e sapiente del Padre che attraverso i figli si esprime non come vincitore, ma al pari di agnello mansueto.

Icona sacrificale - nel senso antico di «sacrum facere», rendere Sacro - per risollevare un popolo incapace di andare a Dio attraverso i fratelli.

Nel giudaismo la ‘morte del giusto’ - persino nella dimensione giuridica della Torah - era pari a un riscatto, già inteso come riparazione-espiazione per la moltitudine (v.28) dei colpevoli (cf. Is 53,11-12).

In Cristo svanisce il meccanismo vicario: il Padre invia il Figlio non come vittima esterna o propiziatoria, necessaria e predestinata, bensì per farci riflettere, primo passo della umanizzazione.

Così recuperando la dimensione di consapevolezza e Comunione [ossia convivialità delle differenze].

 

Quindi: unico titolo di “preminenza” resta quello di «Go’el»: farsi (ciascuno) «Parente prossimo» che si accolla ogni debito per il riscatto altrui, per il ripristino in dignità personale - e totale possesso di sé.

Piena fraternità con la donna e l’uomo di ogni condizione: dovrebbe essere il programma crescente dell’apostolo.

 

Malgrado la sproporzione, solo questo rivolgimento di Volto sta al centro della storia e non abbassa Dio al livello del banale ‘dominio’.

Capovolgimento e Libertà che si fa programma permanente di solidarietà fattiva, e stimola il fervore.

Principio determinante del nuovo Regno, dove non si rincorrono ambizioni.

Piuttosto, si condivide la sorte del Maestro, ossia «bere il medesimo Calice» (vv.22-23) e il destino di realizzazione altrui; anche paradossale.

 

In Cristo, il popolo della Chiesa-Famiglia procede verso Gerusalemme, senza meriti né funzioni che accampino un diritto - ma con le chiavi della ‘vita’.

È così che ci si trova concretamente «a destra e sinistra» (vv.21.23) del regale Crocifisso - e nell’Unione mistica col Risorto piagato.

 

Salendo assieme.

 

 

[S. Giacomo Apostolo, 25 luglio]

L’anti-ambizione o la prima fila nel modello dei satrapi

(Mt 20,20-28)

 

In via non ufficiale, Pio VII ci provò a sollevare il triregno (stile neoclassico, inusuale) regalato da Napoleone, ma i suoi paggi quasi non riuscivano a tirarlo su... per il peso.

Figuriamoci sopportare in testa 8 chili e 200 grammi! Provò tuttavia anche a infilarselo, mentre ovviamente qualcuno lo sosteneva anche di lato [immagina se fosse caduto sulle pantofole rosse].

Ma risultava pure troppo stretto: impossibile ficcarci la testa!

Per dispetto, Bonaparte novello imperatore glielo aveva fatto confezionare in modo che nessun Papa potesse mai fregiarsene; e così fu, l’ironico pezzo da museo.

La formula d’imposizione era: «Ricevi la Tiara ornata di tre corone, e sappi che Tu sei Padre dei Principi e dei Re, Reggitore del mondo, Vicario in terra del Salvatore Nostro Gesù Cristo, cui è onore e gloria nei secoli dei secoli». Amen.

Mentre tra sinfonie e cori qualcuno attendeva proprio il momento della tiara per lagrimare un poco sugli antichi fasti, alla celebrazione della riapertura del Concilio - dopo l’incoronazione - Paolo VI depose definitivamente il triregno sull’altare papale.

Se lo tolse con soddisfazione, non perché fosse poco confortevole (aveva sul capo ben 4 chili e mezzo): in seguito fece anche altri gesti d’inattesa rinuncia con pretese a farsi ossequiare.

Dopo di lui nessun Papa ebbe il coraggio di adornarsene.

Occasione ghiotta: imperdibile per chi aveva vasta esperienza degli ambienti curiali e diplomatici.

Con in pugno le chiavi del Cielo, le briglie della terra e il comando del Purgatorio [le tre corone], il pontefice decise di far salire diverse vampe da sottoterra - per surriscaldare gli strapuntini di qualche carrierista da strascico, abituato a dirigere le anime stando sopra un qualsiasi purchessia tronetto.

 

Papa Francesco parla esplicitamente del clericalismo come radice di tutti i mali morali della Chiesa [se non ci capita la grazia del principato, non sarebbe male aspirare almeno ai ruoli di coloro che stanno a fianco dei capi: v.21].

Al pari dell’ambizione dei figli di Zebedeo, fra noi è tutto uno sgomitare per un posto al sole - gravissima e radicale carenza, incapace di qualsiasi attività di profezia critica.

Un falso concetto del Regno: per questo l’aereo è spesso fuori rotta, e ciò non depone a favore dei dirigenti ambiziosi, sempre stranamente in gara.

(Mai ridimensionarsi e lasciare che fedeli o confratelli ci considerino degli idioti che non “mietono” e quindi non sanno stare al mondo).

Ufficialmente uniti all’Offerta del Figlio Servitore, di fatto non tutti credono che nella debolezza del credente risalti la Potenza divina e l’autentica Stima che edifica la trama del presente e lancia il futuro.

Altro che sognatori dell’isola che non c’è: a moltissimi sembra più dignitoso presumere di sé.

Meglio pensare che la Croce gloriosa del Cristo sia una parentesi momentanea e tutta unicamente sua, frutto d’un piano prestabilito o di un destino cieco, affinché l’umiliazione del farsi piccoli non ci tocchi.

Dietro le buone maniere, ecco serpeggiare pessime abitudini - e la bramosia, che attraverso privilegi fissi guida le chiese alla perdita di senso e coesione.

Con strascico di vitalizi [prebende e titoli a vita, senza possibilità di ricambio ministeriale, né controlli e riassetto].

Chi mira alla visibilità e ai tronetti non ha alcun interesse reale per le persone, salvo per la sua élite di cooptati.

Pensa calcolando e agisce secondo vanità: mostrando il proprio rango “spirituale”, con artificioso senso dell’onore, e preminenze, arroganza, tornaconto di giro.

Figuriamoci la qualità imperscrutabile di proposte pastorali private della convinzione di un’altra Attesa, illuminante. Talora allestite per un maggior brillare esterno, e autocompiacersi; promuovere numeri, mostrarsi in vetrina, e passerelle.

 

L’Impero soggiogava il bacino mediterraneo con la forza delle Legioni. Attraverso una vasta base di schiavi e tributi, esso concentrava titoli e ricchezze in mano a piccole cerchie - con abuso di potere e coercizioni.

Il nuovo Regno dev’essere germe di società alternativa.

E quando l’archetipo della Chiesa piramidale salterà, vittima delle sue contraddizioni interne, dovremo essere pronti a porgere alle persone un modello di convivenza che non si disintegri più [coi suoi stessi boomerang].

 

Il perno sarà riappropriarsi di una sorta di sintesi della vita di Gesù per farla propria, come espressa nel v.28.

Sono qui enunciati tre titoli che hanno dato inizio alla Cristologia:

 

«Figlio dell’uomo» è Colui che ha manifestato l’uomo nella condizione divina: pienezza di umanità che riflette e rivela la stessa vita intima di Dio.

Figura di una “santità” accessibile e trasmissibile, tutta incarnata - perfino sommaria.

Figlio dell’uomo è infatti lo sviluppo autentico e pieno della persona secondo il Sogno attivo del Padre, che spazza via il «Giogo» ossessivo della Religione comune - dilatando la vita (e i confini dell’ego).

Nell’adesione al «Figlio dell’uomo» siamo introdotti come protagonisti nella storia della salvezza.

Collaboratori nell’apice della Creazione - ossia nel processo dell’amore. E veniamo distaccati dal pre-umano delle competizioni [condizione belluina per brama di supremazie].

 

«Servo» di Yahweh: Giusto che patisce pene d’Amore, per farci salvi - icona della forza dimessa e sapiente del Padre che attraverso i figli si palesa non come vincitore, ma al pari di agnello mansueto.

Icona sacrificale - nel senso antico di «sacrum facere», rendere Sacro - per risollevare un popolo incapace di andare a Dio attraverso i fratelli.

Nel giudaismo la morte del giusto - persino nella dimensione giuridica della Torah - era pari a un riscatto, già inteso come riparazione-espiazione per la moltitudine (v.28) dei colpevoli (cf. Is 53,11-12).

In Cristo svanisce il meccanismo vicario: il Padre invia il Figlio non come vittima esterna o propiziatoria, necessaria e predestinata, bensì per farci riflettere, primo passo della umanizzazione.

Così recuperando la dimensione di consapevolezza e Comunione [ossia convivialità delle differenze].

 

Quindi: unico titolo di “preminenza” resta quello di «Go’el»: farsi (ciascuno) «Parente prossimo» che si accolla ogni debito per il riscatto altrui, per il ripristino in dignità personale e totale possesso di sé.

Piena fraternità con la donna e l’uomo di ogni condizione dovrebbe essere il programma crescente dell’apostolo.

Insolito strumento di “eccellenza“ o “eminenza” - eppure francamente sapienziale, secondo natura:

Anche il Tao Tê Ching (LII) afferma: «Illuminazione, è vedere il piccolo; forza, è attenersi alla mollezza».

 

Malgrado la sproporzione, solo questo rivolgimento di Volto sta al centro della storia e non abbassa Dio al livello del banale dominio.

Capovolgimento e Libertà che si fa programma permanente di solidarietà fattiva, e stimola il fervore.

Principio determinante del nuovo Regno, dove non si rincorrono ambizioni.

Piuttosto, si condivide la sorte del Maestro, ossia «bere il medesimo Calice» (vv.22-23) e il destino di realizzazione altrui, anche paradossale.

 

In Cristo, il popolo della Chiesa-Famiglia procede verso Gerusalemme, senza meriti né funzioni che accampino un diritto - ma con le chiavi della vita.

È così che ci si trova concretamente «a destra e sinistra» (vv.21.23) del regale Crocifisso - e nell’Unione mistica col Risorto piagato.

 

Salendo assieme.

Giovedì, 17 Luglio 2025 04:19

Servitore

Gesù si presenta come servo, offrendosi quale modello da imitare e da seguire. Dallo sfondo del terzo annuncio della passione, morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, si stacca con stridente contrasto la scena dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che inseguono ancora sogni di gloria accanto a Gesù. Essi gli chiesero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Folgorante è la replica di Gesù e inatteso il suo interrogativo: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo?» (v. 38). L’allusione è chiarissima: il calice è quello della passione, che Gesù accetta per attuare la volontà del Padre. Il servizio a Dio e ai fratelli, il dono di sé: questa è la logica che la fede autentica imprime e sviluppa nel nostro vissuto quotidiano e che non è invece lo stile mondano del potere e della gloria.

Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che - secondo il Maestro - deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni. E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche «gli altri dieci» apostoli che «cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca, san Cirillo di Alessandria aggiunge: «I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri … Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà» (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e «chiamarli a sé», quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-44).

Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita a indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua stessa carne.

[Papa Benedetto, allocuzione al Concistoro 18 febbraio 2012]

Giovedì, 17 Luglio 2025 04:16

Sono qui di nuovo, pellegrino

San Giacomo!

Sono qui, nuovamente, presso il tuo sepolcro
al quale mi avvicino oggi,
pellegrino da tutte le strade del mondo,
per onorare la tua memoria ed implorare la tua protezione.
Giungo dalla Roma luminosa e perenne,
fino a te che ti sei fatto pellegrino sulle orme di Cristo
ed hai portato il suo nome e la sua voce
fino a questo confine dell’universo.
Vengo dai luoghi di Pietro
e, quale suo successore, porto a te
che sei con lui colonna della Chiesa,
l’abbraccio fraterno che viene dai secoli
ed il canto che risuona fermo ed apostolico nella cattolicità.
Viene con me, san Giacomo, un immenso fiume giovanile
nato dalle sorgenti di tutti i paesi della terra.
Qui lo trovi, unito e sereno alla tua presenza,
ansioso di rinnovare la sua fede nell’esempio vibrante della tua vita.
Veniamo a questa soglia benedetta in animato pellegrinaggio.
Veniamo immersi in questo copioso esercito
che sin dalle viscere dei secoli è venuto portando le genti fino a questa Compostela
dove tu sei pellegrino ed ospite, apostolo e patrono.
E giungiamo qui al tuo cospetto perché andiamo uniti nel cammino.
Camminiamo verso la fine di un millennio
che desideriamo sigillare con il sigillo di Cristo.
Camminiamo ancora oltre, verso l’inizio di un millennio nuovo
che desideriamo aprire nel nome di Dio.
San Giacomo,
abbiamo bisogno per il nostro pellegrinaggio
del tuo ardore e del tuo coraggio.
Per questo veniamo a chiederteli
fino a questo “finis-terrae” delle tue imprese apostoliche.
Insegnaci, Apostolo ed amico del Signore,
la via che porta a lui.
Aprici, predicatore delle Spagne,
alla verità che hai imparato dalle labbra del Maestro.
Dacci, testimone del Vangelo,
la forza di amare sempre la vita.
Mettiti tu, patrono dei pellegrini,
alla testa del nostro pellegrinaggio di cristiani e di giovani.
E come i popoli all’epoca camminarono verso di te,
vieni tu in pellegrinaggio con noi incontro a tutti i popoli.
Con te, san Giacomo apostolo e pellegrino,
desideriamo insegnare alle genti d’Europa e del mondo
che Cristo è - oggi e sempre -
la via, la verità e la vita.

[Papa Giovanni Paolo II, preghiera alla tomba di s. Giacomo, Santiago 19 agosto 1989]

[Ha preso il via a Santiago di Compostela, nella regione della Galizia, in Spagna, l'Anno giubilare 2021 dedicato all'Apostolo Giacomo le cui spoglie, conservate nella Cattedrale, sono visitate da innumerevoli pellegrini. Nel messaggio inviato da Francesco l'invito ad un cammino di conversione e di solidarietà con i propri compagni di strada].

 

Si è aperto il 31 dicembre 2020, l'Anno Compostelano, un giubileo che si indice per l'anno in cui il giorno 25 luglio, memoria di san Giacomo martire, cade di domenica. Così, infatti, accadrà nel 2021. Il tema dell'evento è "Esci dalla tua terra! L'apostolo ti aspetta". L'annuncio dell'arcivescovo di Santiago de Compostela, monsignor Julián Barrio Barrio a tutti i fedeli, parla di "un anno di grazia e di perdono" per tutti coloro che vorranno partecipare. "In questo terzo Anno Santo compostelano del terzo millennio del cristianesimo - prosegue l'arcivescovo - la coraggiosa testimonianza dell'apostolo San Giacomo è un'occasione per riscoprire la vitalità della fede e della missione, ricevuta al Battesimo.

Il messaggio di Papa Francesco all'apertura della Porta Santa

Ed è a monsignor Julián Barrio Barrio che si rivolge il messaggio che Papa Francesco ha inviato in occasione dell'apertura della Porta Santa, per esprimere l’affetto e la vicinanza “a tutti coloro che partecipano a questo momento di grazia per tutta la Chiesa, e in particolare per la Chiesa in Spagna e in Europa”. “Seguendo le orme dell'Apostolo – scrive Papa Francesco - lasciamo il nostro sé, quelle sicurezze a cui ci aggrappiamo, ma con un obiettivo chiaro in mente, non siamo esseri erranti, che ruotano sempre intorno a se stessi senza arrivare da nessuna parte. È la voce del Signore che ci chiama e, come pellegrini, la accogliamo in atteggiamento di ascolto e di ricerca, intraprendendo questo viaggio per incontrare Dio, gli altri e noi stessi”.

La misericordia di Dio accompagna il nostro cammino

La meta, sottolinea il Papa, è importante quanto il cammino verso di essa, che è un cammino di conversione seguendo Gesù Via, Verità e Vita. Citando la Lettera apostolica "Misericordia et misera" del 20 novembre 2016, il testo prosegue con un messaggio che rassicura: “In questo cammino la misericordia di Dio ci accompagna e anche se la condizione di debolezza dovuta al peccato rimane, essa viene superata dall'amore che ci permette di guardare al futuro con speranza e di essere pronti a rimettere la nostra vita sulla strada giusta”.

Si cammina leggeri e in compagnia

Per mettersi in cammino bisogna prima di tutto staccarsi dalle cose che appesantiscono, ma poi nella vita non si cammina da soli e affidarsi ai nostri compagni senza sospetti e diffidenza “ci aiuta a riconoscere nel prossimo un dono che Dio ci fa per accompagnarci in questo viaggio”. Si tratta di “uscire da se stessi per unirsi agli altri”, di aspettarsi e sostenersi a vicenda, condividendo fatiche e conquiste. Al termine del viaggio, scrive il Papa, ci troveremo con lo zaino vuoto, ma con “un cuore pieno di esperienze forgiate in contrasto e in sintonia con la vita di altri nostri fratelli e sorelle che provengono da contesti esistenziali e culturali diversi”. E riscoprendo il nostro dover essere discepoli missionari “per chiamare tutti in quella patria verso la quale ci stiamo muovendo”.

Il pellegrino comunica la fede con la sua vita

Francesco descrive il pellegrino come di uno che è capace di mettersi nelle mani di Dio, consapevole che la patria promessa è già presente in Cristo che gli è vicino e così “tocca il cuore del fratello, senza artifici, senza propaganda, nella mano tesa pronta a dare e a prendere”. I tre gesti che i pellegrini compiono arrivando alla Porta Santa, ricordano il motivo del viaggio, scrive ancora il Papa: il primo “è contemplare nel Portico della Gloria lo sguardo sereno di Gesù, il giudice misericordioso”, che ci accoglie nella sua casa. Il secondo è l'abbraccio che ci arriva dall'immagine dell'Apostolo Giacomo che ci mostra la via della fede. La partecipazione alla celebrazione eucaristica, il terzo gesto, ci invita “a sentire che siamo il popolo di Dio”, chiamato “a condividere la gioia del Vangelo”.

Fermento nella città dell'Apostolo

Era il 1122 quando ebbe origine l'Anno Santo che viene celebrato, da allora, ogni 6, 5, 6 e 11 anni. Questo porta a circa 14 anni giubilari ogni secolo. L'apertura della porta della Cattedrale di Santiago, dove sono custodite le reliquie dell'Apostolo Giacomo, artefice dell'evangelizzazione ispanica, sta creando un fermento trattenuto nella città galiziana. Proprio a questa terra e alle sue coste riconduce la sagoma della capasanta raffigurata nel logo dell'evento, simbolo universale del cammino di Compostela. Campeggia anche la croce emblematica di Santiago e un ventaglio di raggi a rappresentare la fratellanza tra i popoli di ogni razza e cultura. Ad intraprendere il pellegrinaggio lungo il cammino - primo itinerario culturale europeo e patrimonio della umanita, una delle più antiche e importanti vie della cristianità - sono milioni di persone ogni anno. 

Nella Cattedrale una rinnovata bellezza

Nel 2020 i pellegrinaggi sono stati sospesi a causa della pandemia, ma si è potuto sfruttare il periodo del lockdown per realizzare dei lavori di restauro alla Cattedrale che ora risplende di una illuminazione più ideonea e tutto rifulge di una rinnovata bellezza. Ed è sotto il segno della contemplazione della bellezza e della speranza, mentre i pellegrinaggi ufficialmente sono ripresi ma l'emergenza sanitaria ancora in corso impedisce, di fatto, l'arrivo dei camminanti, che l'Anno Santo apre i battenti.

 

[Adriana Masotti e Antonella Palermo -  

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-01/il-papa-per-l-anno-compostelano.html]

Smarrirsi, per la trasformazione

(Mt 13,10-17)

 

San Paolo esprime il senso del “mistero della cecità” che gli fa contrasto nel cammino con la celebre espressone «spina nel fianco»: dovunque andasse, erano già pronti i nemici; e disaccordi inattesi.

Così anche per noi: eventi funesti, catastrofi, emergenze, disgregazione delle antiche certezze rassicuranti - tutte esterne e paludose; sino a poco prima valutate con senso di permanenza.

Forse nell’arco della nostra esistenza, già ci siamo resi conto che le incomprensioni sono state i modi migliori per riattivarci, e introdurre le  energie della Vita rinnovata.

Si tratta di quelle risorse o situazioni che forse mai avremmo immaginato alleate della nostra e altrui realizzazione.

Dice Erich Fromm:

«Vivere significa nascere in ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere. La nascita non è quindi un atto; è un processo ininterrotto. Lo scopo della vita è di nascere pienamente, ma la tragedia è che la maggior parte di noi muore prima di essere veramente nato».

Infatti, nel clima dei disordini o delle divergenze assurde [che ci obbligano a rigenerare] si affacciano talora le più trascurate virtù intime.

Energie nuove - che cercano spazio - e potenze esterne. Entrambi plasmabili; inconsuete, inimmaginabili, eterodosse.

Ma che trovano le soluzioni, la vera via d’uscita ai nostri problemi; la strada per un futuro che non sia un semplice riassetto della situazione precedente, o di come abbiamo immaginato “si sarebbe dovuti essere e fare”.

Concluso un ciclo, iniziamo una nuova fase; forse con maggiore rettitudine e franchezza - più luminosa e naturale, umanizzante, vicina al ‘divino’.

 

Il contatto autentico e coinvolgente con i nostri stati dell’essere profondi viene generato in modo acuto proprio dai distacchi.

Essi ci portano al dialogo dinamico con le riserve eterne di forze trasmutatrici che ci abitano, e più ci appartengono.

Esperienza primordiale che arriva dritta al cuore.

Dentro di noi tale via “pesca” l’opzione creativa, fluttuante, inedita.

In tal guisa il Signore trasmette e apre la sua proposta servendosi di ‘immagini’.

Freccia di Mistero che va oltre i frammenti della coscienza, della cultura, delle procedure, di ciò che è comune.

Per una conoscenza di se stessi e del mondo che travalica quella della storia e della cronaca; per la consapevolezza attiva di altri contenuti.

Sino a che il travaglio e il caos stesso guidano l’anima e la obbligano a un Altro inizio, a un differente sguardo (tutto spostato), a un’inedita comprensione di noi stessi e del mondo.

Ebbene, la trasformazione dell’universo non può esser frutto di un insegnamento cerebrale o dirigista; piuttosto, di una esplorazione narrativa - che non allontana la gente da se stessa.

E Gesù lo sa.

 

 

[Giovedì 16.a sett. T.O.  24 luglio 2025]

Mercoledì, 16 Luglio 2025 04:38

La vera Parabola di Dio

Questo Vangelo insiste anche sul “metodo” della predicazione di Gesù, cioè, appunto, sull’uso delle parabole. “Perché a loro parli con parabole?” – domandano i discepoli (Mt 13,10). E Gesù risponde ponendo una distinzione tra loro e la folla: ai discepoli, cioè a coloro che si sono già decisi per Lui, Egli può parlare del Regno di Dio apertamente, invece agli altri deve annunciarlo in parabole, per stimolare appunto la decisione, la conversione del cuore; le parabole, infatti, per loro natura richiedono uno sforzo di interpretazione, interpellano l’intelligenza ma anche la libertà. Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato: l’amore, infatti, rispetta sempre la libertà.

[Papa Benedetto, Angelus 10 luglio 2011]

Mercoledì, 16 Luglio 2025 04:31

Perché Gesù parla in parabole?

1. “Uscì di casa e si sedette in riva al mare” (Mt 13, 1).

Gesù è il Maestro; lo è anche nel modo di guardare la natura. Nei Vangeli sono numerosi i passi che lo presentano immerso nell’ambiente naturale e, se si presta attenzione, si può cogliere nel suo comportamento un chiaro invito ad un atteggiamento contemplativo di fronte alle meraviglie del creato. Così avviene, ad esempio, nel racconto evangelico di questa Domenica. Vediamo Gesù seduto in riva al lago di Tiberiade, quasi assorto in meditazione.

Il divino Maestro, prima dell’alba o dopo il tramonto, e in altri momenti decisivi della sua missione, amava ritirarsi in un luogo solitario e silenzioso, in disparte (cf. Mt 14, 23; Mc 1, 35; Lc 5, 16), per poter rimanere a tu per tu col Padre celeste e dialogare con lui. In quei momenti Egli non mancava certo di contemplare anche il creato, per raccogliervi un riflesso della bellezza divina.

2. Sulla sponda del lago lo raggiungono i suoi discepoli e molta gente. “Egli parlò loro di molte cose in parabole” (Mt 13, 3). Gesù parla “in parabole”, cioè utilizzando vicende dell’esperienza quotidiana ed elementi tratti dalla contemplazione del creato.

Ma perché Gesù parla “in parabole”? È ciò che si domandano i discepoli, e noi con loro. Il Maestro risponde, riecheggiando Isaia: Perché guardino e non vedano, ascoltino e non intendano (cf. Mt 13, 13-15). Che significa tutto ciò? Perché parlare in parabole e non invece “apertamente” (cf. Gv 16, 29)?

3. Carissimi Fratelli e Sorelle! In realtà, la creazione stessa è come una grande parabola. Quanto esiste – il cosmo, la terra, i viventi, l’uomo – non costituisce forse una sola, immensa parabola? E chi ne è l’Autore, se non Dio Padre, con cui Gesù dialoga nel silenzio della natura? Gesù parla in parabole perché questo è lo “stile” di Dio. Il Figlio unigenito ha lo stesso modo di fare e di parlare del Padre celeste. Chi vede Lui vede il Padre (cf. Gv 14, 9), chi ascolta Lui ascolta il Padre. E ciò concerne non solo i contenuti, ma anche i modi; non solo il che cosa Egli dice, ma pure il come lo dice.

Sì, il “come” è importante, perché manifesta l’intenzione profonda di chi parla. Se il rapporto intende essere dialogico, il modo di parlare deve rispettare e promuovere la libertà dell’interlocutore. Ecco la ragione per la quale il Signore parla in parabole: perché chi ascolta sia libero di accogliere il suo messaggio; libero non solo di ascoltarlo, ma soprattutto di comprenderlo, di interpretarlo e di riconoscervi l’intenzione di Colui che parla. Dio si rivolge all’uomo in modo che sia possibile incontrarlo nella libertà.

4. Il creato è, per così dire, il grande racconto divino. Il significato profondo di questo meraviglioso libro della creazione, tuttavia, sarebbe rimasto per noi difficilmente decifrabile, se Gesù – Verbo fatto uomo – non fosse venuto a “spiegarcelo”, rendendo i nostri occhi capaci di riconoscere più agevolmente nelle creature l’impronta del Creatore.

Gesù è la Parola che custodisce il significato di tutto ciò che esiste. È il Verbo in cui riposa il “nome” di ogni cosa, dalla particella infinitesimale alle immense galassie. Egli stesso è allora la “Parabola” piena di grazia e di verità (cf. Gv 1, 14), con la quale il Padre rivela se stesso e la sua volontà, il suo misterioso disegno d’amore e il senso ultimo della storia (cf. Ef 1, 9-10). In Gesù, Dio ci ha detto tutto ciò che aveva da dirci.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a s. Stefano di Cadore, 11 luglio 1993]

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Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato [Papa Benedetto]
This belonging to each other and to him is not some ideal, imaginary, symbolic relationship, but – I would almost want to say – a biological, life-transmitting state of belonging to Jesus Christ (Pope Benedict)
Questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale (Papa Benedetto)
She is finally called by her name: “Mary!” (v. 16). How nice it is to think that the first apparition of the Risen One — according to the Gospels — took place in such a personal way! [Pope Francis]
Viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16). Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i Vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! [Papa Francesco]
Jesus invites us to discern the words and deeds which bear witness to the imminent coming of the Father’s kingdom. Indeed, he indicates and concentrates all the signs in the enigmatic “sign of Jonah”. By doing so, he overturns the worldly logic aimed at seeking signs that would confirm the human desire for self-affirmation and power (Pope John Paul II)
Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo (Papa Giovanni Paolo II)
Without love, even the most important activities lose their value and give no joy. Without a profound meaning, all our activities are reduced to sterile and unorganised activism (Pope Benedict)
Senza amore, anche le attività più importanti perdono di valore, e non danno gioia. Senza un significato profondo, tutto il nostro fare si riduce ad attivismo sterile e disordinato (Papa Benedetto)
In reality, an abstract, distant god is more comfortable, one that doesn’t get himself involved in situations and who accepts a faith that is far from life, from problems, from society. Or we would even like to believe in a ‘special effects’ god (Pope Francis)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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