Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Nell’enigma, la soluzione
(Lc 9,7-9)
Gesù, chi è? Non si può dare risposta se non alla luce della sua vicenda e della sua condanna: nulla a che vedere con uno degli spiritati o facitori di miracolo che suscita curiosità, come Erode si aspettava.
Il contrasto tra la straordinaria figura attesa e fraintesa, e l’ottusità del giudizio elusivo finisce per lasciare le cose come stanno. Peggio: racchiude il Mistero e smarrisce il suo “dove” oggi.
Non si comprende la Persona del Cristo a partire dalle cose che si conoscono.
Egli intende spazzare via tutti gl’idoli attrattivi ma falsi; però non ama la scure del Battezzatore, né lo zelo violento di Elia.
Vuol valorizzare l’intuizione delle coscienze, più che i doveri o la smania di analizzare i comportamenti. Questo l’incredibile.
Gesù non è una sorta di ‘fantasma’ che affiora dal passato.
Egli volge la storia a compimento secondo spinte innate e spontanee, che lasceranno emergere il semplice personale e il palese inedito.
Ogni gruppo religioso chiudeva il Messia nel suo modello interpretativo, consono a un ambiente venato di speranze antiche: difesa dei beni e delle consuetudini, identità “culturale”, benessere a discapito altrui, espansione, prodigi.
La rivoluzione dei figli pone una tematica che cerca la Via autentica, prossima e Altrove. L’umanità di Dio.
Insomma, interrogarsi sulla Persona di Gesù significa già iniziare a superare i codici conformisti e le piccine interpretazioni abitudinarie; per abbracciare l’irruzione dell’Eterno.
È il quesito stesso sulla dimensione Persona che invita ad allargare l’orizzonte e cominciare un Esodo. Esso ci guiderà all’autentica intesa e misura; al motivo per cui siamo al mondo.
Cristo rovescia sorti e destino del regno dell’uomo, e le sue rivendicazioni.
Ogni accostamento esteriore a figure pur eminenti della galleria dei grandi della storia rimane statico, parziale, troppo prevedibile.
Non di rado deviante, per le inevitabili limitazioni cerebrali che procura, ingabbiando l'anima [e immobilizzando la vita].
Per Via, la crescita di conoscenza della sua vicenda, l’adesione alla sua profondità, l’Azione dello Spirito, non lasceranno perdurare i pensieri fissi, gli attaccamenti, i luoghi comuni.
Interpretazioni, preconcetti o vetrine che poi impregnano tutta la vita e la attutiscono, privandola di ebbrezza.
Presenza del tutto personale, nuovo Fiuto, innata Sapienza di ‘natura’; non uno specifico particolarismo che non porge vita rigenerata - che fa l’occhiolino solo a se stessa.
Gesù: è Motore, Via e Motivo del Cammino nello Spirito che ci sta conducendo.
La sua Persona in noi trova un “punto” dentro da cui effonde il coraggio di essere se stessi, e di non cercare più l’approvazione esterna.
Ciò libera l'anima dalle attese comuni, o prodigiose; dai rimpianti del conformismo. Per far avanzare da stati e credenze primordiali a nuovi Sogni dell’essere che corrisponde e tintinna, che affiora e vuole esprimersi - umanizzando.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando ti sei accorto che nell’enigma sulla Persona del Cristo c’è già un taglio con l’ovvio di aspettative, e uno spunto - l’energia della soluzione?
[Giovedì 25.a sett. T.O. 25 settembre 2025]
Chi è Gesù: domanda che giudica
(Lc 9,7-9)
Gesù, chi è? Non si può dare risposta se non alla luce della sua vicenda e della sua condanna: nulla a che vedere con uno degli spiritati o facitori di miracolo che suscita curiosità, come Erode si aspettava.
Il contrasto tra la straordinaria figura attesa e fraintesa, e l’ottusità del giudizio elusivo finisce per lasciare le cose come stanno. Peggio: racchiude il Mistero - quello più normale del mondo, ma che rimane per sempre [l'umanità di Dio] - e smarrisce il suo “dove” oggi.
Non si comprende la Persona del Cristo a partire dalle cose che sappiamo o che cercano di inquadrarlo nei criteri consuetudinari del Primo Testamento; col sentire comune, coi modelli magici del tempo...
Egli non è uno degli antichi profeti, tornati a purificare le sconcezze delle cordate opportuniste del Tempio, e rabberciare le pratiche della religione antica. Viene a soppiantarle.
Per esigenze politiche, Erode Antipas è costretto a essere costantemente all’erta per la sicurezza del suo piccolo regno [Galilea e Perea] quindi il successo del Battista lo spaventa.
Come riferisce Giuseppe Flavio, il reuccio ha preferito farlo fuori per timore di una sollevazione popolare, di cui avrebbe dovuto rendere conto a Roma.
Ma - è la stupidità del potere - decapitato un profeta ecco subentrare qualcuno più incisivo.
Quando ancora il sangue del Battista era fresco, giunge notizia di un giovane Rabbi che sconvolge le menti dei sudditi di quelle terre.
L’incubo sovversivo si ripresenta, più sottile di prima: il Figlio di Dio non si limita a chiedere un miglioramento della situazione; vuole sostituirla.
Egli proclama la Verità del Padre e dell’uomo autentico, proponendo un germe di mondo alternativo alla società spietata e piramidale del tempo.
Intende spazzare via gl’idoli attrattivi ma falsi; però non ama la scure del Battezzatore, né lo zelo violento di Elia - il quale aveva fatto scendere un fuoco portentoso e irrefrenabile dal cielo, sui nemici.
Gesù vuol valorizzare l’intuizione delle coscienze, più che i doveri o la smania di analizzare i comportamenti. Questo l’incredibile.
Il Signore non è una sorta di ‘fantasma’ che affiora dal passato per fare il “massimo”, in un’atmosfera [anche di gruppo] che opprime e attende risultati potenziati o addirittura fuori scala.
Egli volge la storia a compimento secondo spinte innate e spontanee, che lasceranno emergere il semplice personale e il palese inedito.
Ogni gruppo religioso chiudeva il Messia nel suo modello interpretativo, consono a un ambiente venato di speranze antiche: difesa dei beni e consuetudini, identità “culturale”, benessere a discapito altrui, espansione, prodigi.
La rivoluzione dei figli pone una tematica che cerca la Via autentica, prossima e Altrove - appunto, l’umanità di Dio. In fondo, dietro l’angolo, ma non relegata dentro un angolo.
Insomma, interrogarsi sulla Persona di Gesù significa già iniziare a superare i codici conformisti e le piccine interpretazioni abitudinarie... per abbracciare l’irruzione dell’Eterno.
È il quesito stesso sul rilievo di Persona che invita a non guardare un’unica banale soluzione [quella di tutti o di qualche amante del parossismo].
Piuttosto, ad allargare l’orizzonte e cominciare un Esodo, che ci guiderà all’autentica intesa e misura; al motivo per cui siamo al mondo.
Cristo rovescia sorti e destino del regno dell’uomo, e le sue rivendicazioni.
Ogni accostamento esteriore a figure pur eminenti della galleria dei grandi della storia rimane statico, parziale, troppo prevedibile.
Non di rado deviante, per le inevitabili limitazioni cerebrali che procura, ingabbiando l'anima [e immobilizzando la vita].
Per Via, la crescita di conoscenza della sua vicenda, l’adesione alla sua profondità, l’Azione dello Spirito, non lasceranno perdurare nella nostra mente i pensieri fissi, gli attaccamenti, i luoghi comuni.
Interpretazioni, preconcetti o vetrine che poi impregnano tutta la vita e la attutiscono, privandola di ebbrezza.
Presenza del tutto personale, nuovo Fiuto, innata Sapienza di ‘natura’; non uno specifico particolarismo che non porge vita rigenerata - che fa l’occhiolino solo a se stessa.
Gesù: è Motore, Via e Motivo del Cammino nello Spirito che ci sta conducendo.
La sua Persona in noi trova un “punto” dentro da cui effonde il coraggio di essere se stessi, e di non cercare più l’approvazione esterna.
Ciò libera l'anima dalle attese comuni, o prodigiose; dai rimpianti del conformismo. Per far avanzare da stati e credenze primordiali a nuovi Sogni dell’essere che corrisponde e tintinna, che affiora e vuole esprimersi - umanizzando.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Secondo te, quali interpretazioni e preconcetti attutiscono l’esercizio dell’intuizione personale nella propria crescita, e l’Evangelizzazione?
Quando ti sei accorto che nell’enigma sulla Persona del Cristo c’è già un taglio con l’ovvio di aspettative, e uno spunto - l’energia della soluzione, anche per la rinascita dall’emergenza globale?
Mentre lo seguiamo
Per conoscere veramente Gesù bisogna parlare con lui, dialogare con lui mentre lo seguiamo sulla sua strada. Papa Francesco ha incentrato proprio sulla conoscenza di Gesù l’omelia della messa celebrata il 26 settembre 2013, nella cappella di Santa Marta.
Il Pontefice ha preso spunto dal brano del Vangelo di Luca (9, 7-9) nel quale Erode si interroga su chi sia quel Gesù di cui sente tanto parlare. La persona di Gesù, ha ricordato il Pontefice, ha suscitato spesso domande del tipo: «Chi è costui? Da dove viene? Pensiamo a Nazareth, per esempio, nella sinagoga di Nazareth, quando se n’è andato per la prima volta: ma dove ha imparato queste cose? Noi lo conosciamo bene: è il figlio del falegname. Pensiamo a Pietro e agli apostoli dopo quella tempesta, quel vento che Gesù ha fatto tacere. Ma chi è costui al quale obbediscono il cielo e la terra, il vento, la pioggia, la tempesta? Ma chi è?».
Domande, ha spiegato il Papa, che si possono fare per curiosità o per avere sicurezze sul modo di comportarsi davanti a lui. Resta comunque il fatto che chiunque conosca Gesù si fa queste domande. Anzi, «alcuni — ha proseguito il Papa tornando all’episodio evangelico — incominciamo a sentire paura di quest’uomo, perché li può portare a un conflitto politico con i romani»; e dunque pensano di non tenere maggiormente in considerazione «quest’uomo che crea tanti problemi».
E perché, si è chiesto il Pontefice, Gesù crea problemi? «Non si può conoscere Gesù — è stata la sua risposta — senza avere problemi». Paradossalmente, ha aggiunto, «se tu vuoi avere un problema, vai per la strada che ti porta a conoscere Gesù» e allora di problemi ne sorgeranno tanti. In ogni caso, Gesù non si può conoscere «in prima classe» o «nella tranquillità», tantomeno «in biblioteca». Gesù lo si conosce solo nel cammino quotidiano della vita.
E lo si può conoscere, ha affermato il Santo Padre, «anche nel catechismo. È vero! Il catechismo — ha precisato — ci insegna tante cose su Gesù e dobbiamo studiarlo, dobbiamo impararlo. Così impariamo che il Figlio di Dio è venuto per salvarci e capiamo dalla bellezza della storia della salvezza l’amore del Padre». Resta comunque il fatto che anche la conoscenza di Gesù attraverso il catechismo «non è sufficiente»: conoscerlo con la mente è già un passo in avanti, ma «Gesù è necessario conoscerlo nel dialogo con lui. Parlando con lui, nella preghiera, in ginocchio. Se tu non preghi, se tu non parli con Gesù — ha detto — non lo conosci».
C’è infine una terza strada per conoscere Gesù: «È la sequela, andare con lui, camminare con lui, percorrere le sue strade». E mentre si cammina con lui, si conosce «Gesù con il linguaggio dell’azione. Se tu conosci Gesù con questi tre linguaggi: della mente, del cuore, dell’azione, allora puoi dire di conoscere Gesù». Fare questo tipo di conoscenza comporta il coinvolgimento personale. «Non si può conoscere Gesù — ha ribadito il Pontefice — senza coinvolgersi con lui, senza scommettere la vita per lui». Dunque per conoscerlo davvero è necessario leggere «quello che la Chiesa ti dice di lui, parlare con lui nella preghiera e camminare nella sua strada con lui». Questa è la strada e «ognuno — ha concluso — deve fare la sua scelta».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 27/09/2013]
Il.mo Signor Professore Odifreddi, (...) vorrei ringraziarLa per aver cercato fin nel dettaglio di confrontarsi con il mio libro e così con la mia fede; proprio questo è in gran parte ciò che avevo inteso nel mio discorso alla Curia Romana in occasione del Natale 2009. Devo ringraziare anche per il modo leale in cui ha trattato il mio testo, cercando sinceramente di rendergli giustizia.
Il mio giudizio circa il Suo libro nel suo insieme è, però, in se stesso piuttosto contrastante. Ne ho letto alcune parti con godimento e profitto. In altre parti, invece, mi sono meravigliato di una certa aggressività e dell'avventatezza dell'argomentazione. (...)
Più volte, Ella mi fa notare che la teologia sarebbe fantascienza. A tale riguardo, mi meraviglio che Lei, tuttavia, ritenga il mio libro degno di una discussione così dettagliata. Mi permetta di proporre in merito a tale questione quattro punti:
1. È corretto affermare che "scienza" nel senso più stretto della parola lo è solo la matematica, mentre ho imparato da Lei che anche qui occorrerebbe distinguere ancora tra l'aritmetica e la geometria. In tutte le materie specifiche la scientificità ha ogni volta la propria forma, secondo la particolarità del suo oggetto. L'essenziale è che applichi un metodo verificabile, escluda l'arbitrio e garantisca la razionalità nelle rispettive diverse modalità.
2. Ella dovrebbe per lo meno riconoscere che, nell'ambito storico e in quello del pensiero filosofico, la teologia ha prodotto risultati durevoli.
3. Una funzione importante della teologia è quella di mantenere la religione legata alla ragione e la ragione alla religione. Ambedue le funzioni sono di essenziale importanza per l'umanità. Nel mio dialogo con Habermas ho mostrato che esistono patologie della religione e - non meno pericolose - patologie della ragione. Entrambe hanno bisogno l'una dell'altra, e tenerle continuamente connesse è un importante compito della teologia.
4. La fantascienza esiste, d'altronde, nell'ambito di molte scienze. Ciò che Lei espone sulle teorie circa l'inizio e la fine del mondo in Heisenberg, Schrödinger ecc., lo designerei come fantascienza nel senso buono: sono visioni ed anticipazioni, per giungere ad una vera conoscenza, ma sono, appunto, soltanto immaginazioni con cui cerchiamo di avvicinarci alla realtà. Esiste, del resto, la fantascienza in grande stile proprio anche all'interno della teoria dell'evoluzione. Il gene egoista di Richard Dawkins è un esempio classico di fantascienza. Il grande Jacques Monod ha scritto delle frasi che egli stesso avrà inserito nella sua opera sicuramente solo come fantascienza. Cito: "La comparsa dei Vertebrati tetrapodi... trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo "scelse" di andare ad esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei tetrapodi. Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell'evoluzione, alcuni possono correre a una velocità superiore ai 70 chilometri orari..." (citato secondo l'edizione italiana Il caso e la necessità, Milano 2001, pagg. 117 e sgg.).
In tutte le tematiche discusse finora si tratta di un dialogo serio, per il quale io - come ho già detto ripetutamente - sono grato. Le cose stanno diversamente nel capitolo sul sacerdote e sulla morale cattolica, e ancora diversamente nei capitoli su Gesù. Quanto a ciò che Lei dice dell'abuso morale di minorenni da parte di sacerdoti, posso - come Lei sa - prenderne atto solo con profonda costernazione. Mai ho cercato di mascherare queste cose. Che il potere del male penetri fino a tal punto nel mondo interiore della fede è per noi una sofferenza che, da una parte, dobbiamo sopportare, mentre, dall'altra, dobbiamo al tempo stesso, fare tutto il possibile affinché casi del genere non si ripetano. Non è neppure motivo di conforto sapere che, secondo le ricerche dei sociologi, la percentuale dei sacerdoti rei di questi crimini non è più alta di quella presente in altre categorie professionali assimilabili. In ogni caso, non si dovrebbe presentare ostentatamente questa deviazione come se si trattasse di un sudiciume specifico del cattolicesimo.
Se non è lecito tacere sul male nella Chiesa, non si deve però, tacere neppure della grande scia luminosa di bontà e di purezza, che la fede cristiana ha tracciato lungo i secoli. Bisogna ricordare le figure grandi e pure che la fede ha prodotto - da Benedetto di Norcia e sua sorella Scolastica, a Francesco e Chiara d'Assisi, a Teresa d'Avila e Giovanni della Croce, ai grandi Santi della carità come Vincenzo dè Paoli e Camillo de Lellis fino a Madre Teresa di Calcutta e alle grandi e nobili figure della Torino dell'Ottocento. È vero anche oggi che la fede spinge molte persone all'amore disinteressato, al servizio per gli altri, alla sincerità e alla giustizia. (...)
Ciò che Lei dice sulla figura di Gesù non è degno del Suo rango scientifico. Se Lei pone la questione come se di Gesù, in fondo, non si sapesse niente e di Lui, come figura storica, nulla fosse accertabile, allora posso soltanto invitarLa in modo deciso a rendersi un po' più competente da un punto di vista storico. Le raccomando per questo soprattutto i quattro volumi che Martin Hengel (esegeta dalla Facoltà teologica protestante di Tübingen) ha pubblicato insieme con Maria Schwemer: è un esempio eccellente di precisione storica e di amplissima informazione storica. Di fronte a questo, ciò che Lei dice su Gesù è un parlare avventato che non dovrebbe ripetere. Che nell'esegesi siano state scritte anche molte cose di scarsa serietà è, purtroppo, un fatto incontestabile. Il seminario americano su Gesù che Lei cita alle pagine 105 e sgg. conferma soltanto un'altra volta ciò che Albert Schweitzer aveva notato riguardo alla Leben-Jesu-Forschung (Ricerca sulla vita di Gesù) e cioè che il cosiddetto "Gesù storico" è per lo più lo specchio delle idee degli autori. Tali forme mal riuscite di lavoro storico, però, non compromettono affatto l'importanza della ricerca storica seria, che ci ha portato a conoscenze vere e sicure circa l'annuncio e la figura di Gesù.
(...) Inoltre devo respingere con forza la Sua affermazione (pag. 126) secondo cui avrei presentato l'esegesi storico-critica come uno strumento dell'anticristo. Trattando il racconto delle tentazioni di Gesù, ho soltanto ripreso la tesi di Soloviev, secondo cui l'esegesi storico-critica può essere usata anche dall'anticristo - il che è un fatto incontestabile. Al tempo stesso, però, sempre - e in particolare nella premessa al primo volume del mio libro su Gesù di Nazaret - ho chiarito in modo evidente che l'esegesi storico-critica è necessaria per una fede che non propone miti con immagini storiche, ma reclama una storicità vera e perciò deve presentare la realtà storica delle sue affermazioni anche in modo scientifico. Per questo non è neppure corretto che Lei dica che io mi sarei interessato solo della metastoria: tutt'al contrario, tutti i miei sforzi hanno l'obiettivo di mostrare che il Gesù descritto nei Vangeli è anche il reale Gesù storico; che si tratta di storia realmente avvenuta. (...)
Con il 19° capitolo del Suo libro torniamo agli aspetti positivi del Suo dialogo col mio pensiero. (...) Anche se la Sua interpretazione di Gv 1,1 è molto lontana da ciò che l'evangelista intendeva dire, esiste tuttavia una convergenza che è importante. Se Lei, però, vuole sostituire Dio con "La Natura", resta la domanda, chi o che cosa sia questa natura. In nessun luogo Lei la definisce e appare quindi come una divinità irrazionale che non spiega nulla. Vorrei, però, soprattutto far ancora notare che nella Sua religione della matematica tre temi fondamentali dell'esistenza umana restano non considerati: la libertà, l'amore e il male. Mi meraviglio che Lei con un solo cenno liquidi la libertà che pur è stata ed è il valore portante dell'epoca moderna. L'amore, nel Suo libro, non compare e anche sul male non c'è alcuna informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, nel dramma reale della nostra storia essa è presente come realtà determinante e deve essere presa in considerazione. Ma la Sua religione matematica non conosce alcuna informazione sul male. Una religione che tralascia queste domande fondamentali resta vuota.
Ill. mo Signor Professore, la mia critica al Suo libro in parte è dura. Ma del dialogo fa parte la franchezza; solo così può crescere la conoscenza. Lei è stato molto franco e così accetterà che anch'io lo sia. In ogni caso, però, valuto molto positivamente il fatto che Lei, attraverso il Suo confrontarsi con la mia Introduzione al cristianesimo, abbia cercato un dialogo così aperto con la fede della Chiesa cattolica e che, nonostante tutti i contrasti, nell'ambito centrale, non manchino del tutto le convergenze.
Con cordiali saluti e ogni buon auspicio per il Suo lavoro.
[Papa Benedetto, art. in La Repubblica 24/09/2013]
1. Con la catechesi della scorsa settimana, seguendo i più antichi simboli della fede cristiana, abbiamo iniziato un nuovo ciclo di riflessioni su Gesù Cristo. Il Simbolo apostolico proclama: “Credo . . . in Gesù Cristo, suo unico Figlio (di Dio)”. Il Simbolo niceno-costantinopolitano, dopo aver definito con precisione ancora maggiore la divina origine di Gesù Cristo come Figlio di Dio, prosegue dichiarando che questo Figlio di Dio “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e . . . si è incarnato”. Come si vede, il nucleo centrale della fede cristiana è costituito dalla duplice verità che Gesù Cristo è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo (la verità cristologica), ed è la realizzazione della salvezza dell’uomo, che Dio Padre ha compiuto in lui, Figlio suo e Salvatore del mondo (la verità soteriologica).
2. Se nelle precedenti catechesi abbiamo trattato del male, e in particolare del peccato, lo abbiamo fatto anche per preparare il ciclo presente su Gesù Cristo Salvatore. Salvezza infatti significa liberazione dal male, in particolare dal peccato. La Rivelazione contenuta nella sacra Scrittura, a cominciare dal Proto-Vangelo (Gen 3, 15) ci apre alla verità che solo Dio può liberare l’uomo dal peccato e da tutto il male presente nell’esistenza umana. Dio, mentre rivela se stesso come Creatore del mondo e suo provvidente Ordinatore, si rivela contemporaneamente come Salvatore: come colui che libera dal male, in particolare dal peccato causato dalla libera volontà della creatura. È questo il culmine del progetto creativo attuato dalla Provvidenza di Dio, nel quale mondo (cosmologia), uomo (antropologia) e Dio salvatore (soteriologia) sono strettamente legati.
Come infatti ricorda il Concilio Vaticano II, i cristiani credono che il mondo è “creato e conservato in esistenza dall’amore del Creatore, mondo certamente posto sotto la schiavitù del peccato, ma liberato da Cristo crocifisso e risorto . . .” (Gaudium et Spes, 2).
3. Il nome “Gesù”, considerato nel suo significato etimologico, vuol dire “Jahvè libera”, salva, aiuta. Prima della schiavitù di Babilonia veniva espresso nella forma “Jehosua”: nome teoforico che contiene la radice del santissimo nome di Jahvè. Dopo la schiavitù babilonese prese la forma abbreviata “Jeshua”, che nella traduzione dei Settanta fu trascritto con “Jesoûs” da cui l’italiano “Gesù”.
Il nome era alquanto diffuso, sia al tempo dell’antica sia della nuova alleanza. È infatti il nome che portava Giosuè, che dopo la morte di Mosè introdusse gli Israeliti nella terra promessa: “Egli, secondo il significato del suo nome, fu grande per la salvezza degli eletti di Dio . . . per assegnare il possesso a Israele” (Sir 46, 1). Gesù, figlio di Sirach, fu il compilatore del libro del Siracide (Sir 50, 27). Nella genealogia del Salvatore, riportata nel Vangelo secondo Luca, troviamo enumerato “Er, figlio di Gesù” (Lc 3, 28-29). Tra i collaboratori di san Paolo è presente anche un certo Gesù, “chiamato Giusto” (cf. Col 4, 11).
4. Il nome Gesù, tuttavia, non ebbe mai quella pienezza di significato che avrebbe assunto nel caso di Gesù di Nazaret e che sarebbe stato rivelato dall’angelo a Maria (cf. Lc 1, 31ss.) e a Giuseppe (cf. Mt 1, 21). All’inizio del ministero pubblico di Gesù, la gente intendeva il suo nome nel senso comune di allora.
“Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret”. Così dice uno dei primi discepoli, Filippo, a Natanaele il quale ribatte: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1, 45-46). Questa domanda indica che Nazaret non era molto stimata dai figli di Israele. Nonostante ciò, Gesù fu chiamato “Nazareno” (cf. Mt 2, 23), o anche “Gesù da Nazaret di Galilea” (Mt 21, 11), espressione che lo stesso Pilato utilizzò nell’iscrizione che egli fece porre sulla croce: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei” (Gv 19, 19).
5. La gente chiamò Gesù “il Nazareno” dal nome del luogo in cui egli risiedette con la sua famiglia fino all’età di trent’anni. Sappiamo tuttavia che il luogo di nascita di Gesù non fu Nazaret ma Betlemme, località della Giudea, a sud di Gerusalemme. Lo attestano gli evangelisti Luca e Matteo. Il primo, in particolare, fa notare che a causa del censimento ordinato dalle autorità romane, “Giuseppe, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto” (Lc 2, 4-6).
Come avviene per altri luoghi biblici, anche Betlemme assume un valore profetico. Rifacendosi al profeta Michea, Matteo ricorda che questa cittadina è stata designata come luogo della nascita del Messia: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te infatti uscirà un capo che pascerà il mio popolo Israele” (Mt 2, 6). Il profeta aggiunge: “. . . le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Mt 5, 1).
A questo testo si riferirono i sacerdoti e gli scribi che Erode aveva consultato per rispondere ai Magi che, giunti dall’Oriente, domandavano dove era il luogo della nascita del Messia.
Il testo del Vangelo di Matteo (Mt 2, 1): “Gesù nacque a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode”, si rifà alla profezia di Michea, alla quale si riferisce anche l’interrogativo riportato nel quarto Vangelo: “Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?” (Gv 7, 42).
6. Da questi particolari si deduce che Gesù è il nome di una persona storica, vissuta in Palestina. Se è giusto riconoscere credibilità storica a figure come Mosè e Giosuè, a maggior ragione va accolta l’esistenza storica di Gesù. I Vangeli non ci riferiscono in dettaglio la sua vita perché non hanno scopo primariamente storiografico. Sono però proprio i Vangeli che, letti con onestà di critica, portano a concludere che Gesù di Nazaret è una persona storica vissuta in uno spazio e tempo determinati. Anche da un punto di vista puramente scientifico deve suscitare meraviglia non chi afferma, ma chi nega l’esistenza di Gesù, come hanno fatto le teorie mitologiche del passato e come ancora oggi fa qualche studioso.
Per quanto riguarda la data precisa della nascita di Gesù, i pareri degli esperti non sono concordi. Si ammette comunemente che il monaco Dionigi il Piccolo, quando nell’anno 533 propose di calcolare gli anni non dalla fondazione di Roma, ma dalla nascita di Gesù Cristo, sia caduto in errore. Fino a qualche tempo fa si riteneva che si trattasse di uno sbaglio di circa quattro anni, ma la questione è tutt’altro che risolta.
7. Nella tradizione del popolo israelitico il nome “Gesù” ha conservato il suo valore etimologico: “Dio libera”. Per tradizione erano sempre i genitori che imponevano il nome ai loro figli. Invece nel caso di Gesù, figlio di Maria, il nome fu scelto e assegnato dall’alto già prima della nascita, secondo l’indicazione dell’angelo a Maria, nell’annunciazione (Lc 1, 31) e a Giuseppe in sogno (Mt 1, 21). “Gli fu messo nome Gesù” - sottolinea l’evangelista Luca - perché con questo nome “era stato chiamato dall’angelo prima di essere concepito nel grembo della madre” (Lc 2, 21).
8. Nel progetto disposto dalla Provvidenza di Dio, Gesù di Nazaret porta un nome che allude alla salvezza: “Dio libera”, perché egli è in realtà ciò che il nome indica, cioè il Salvatore. Lo testimoniano alcune frasi, presenti nei cosiddetti Vangeli dell’infanzia, scritti da Luca (Lc 2, 11): “. . . vi è nato . . . un salvatore”, e da Matteo (Mt 1, 21): “egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Sono espressioni che riflettono la verità che è rivelata e proclamata da tutto il Nuovo Testamento. Scrive ad esempio l’apostolo Paolo nella Lettera ai Filippesi: “Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi . . . e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore (Kyrios, Adonai) a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 9-11).
La ragione dell’esaltazione di Gesù la troviamo nella testimonianza resa a lui dagli apostoli i quali proclamarono con coraggio: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4, 12).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 14 gennaio 1987]
«Sarà una bella abitudine se tutti i giorni, in qualche momento, potessimo dire: “Signore, che ti conosca e mi conosca” e così andare avanti». È il suggerimento proposto da Papa Francesco nella messa celebrata giovedì 25 ottobre a Santa Marta. Non servono «cristiani a parole» che dicono il Credo «a pappagallo», ha affermato il Pontefice, invitando a vivere l’esperienza di sentirsi sul serio peccatori.
«Se qualcuno — ha esordito Francesco — ci domanda “chi è Gesù Cristo”, noi sicuramente diremo quello che abbiamo imparato nella catechesi, come lui è venuto a salvare il mondo, diremo la vera dottrina su Gesù: è il salvatore del mondo, il Figlio del Padre, Dio, uomo, quello che recitiamo nel Credo». Ma, ha fatto presente, «un po’ più difficile sarà rispondere alla domanda: “È vero, ma per te, chi è Gesù Cristo?”». E questa è una «domanda» che «ci mette un po’ in imbarazzo, perché devo pensare e arrivare al mio cuore per dare la risposta».
Dunque, ha rilanciato il Papa, «per me, chi è Gesù Cristo? La conoscenza di Gesù Cristo che io ho, quale è? Quando dico che per me Gesù Cristo è il Salvatore, è così — ha affermato il Pontefice — ma ognuno di noi deve rispondere anche dal cuore, quello che sa e sente di Gesù Cristo, perché tutti sappiamo che è il salvatore del mondo, che è il Figlio di Dio, che è venuto sulla terra per salvarci, e anche possiamo raccontare tanti passi del Vangelo».
Resta, però, la domanda diretta: ma «per me» chi è Gesù Cristo? Proprio «questo è il lavoro di Paolo» ha spiegato Francesco in riferimento al passo liturgico tratto dalla lettera agli Efesini (3, 14-21), facendo notare che l’apostolo «ha questa inquietudine di trasmettere la propria esperienza di Gesù Cristo». In effetti, ha insistito Francesco, Paolo «non ha conosciuto Gesù Cristo cominciando dagli studi teologici; poi, è andato a vedere come nella Scrittura era annunciato Gesù Cristo». Al contrario, «lui ha conosciuto Gesù Cristo per propria esperienza, quando è caduto da cavallo, quando il Signore gli ha parlato al cuore, direttamente». E «quello che Paolo ha sentito vuole che noi cristiani lo sentiamo».
Se fosse possibile domandare a Paolo «chi è Cristo per te?», ecco che, ha affermato il Papa, lui racconterebbe «la propria esperienza, semplice: “Mi amò e si è consegnato per me”». Ma Paolo «è coinvolto con Cristo, che ha pagato per lui», e «questa esperienza Paolo vuole che i cristiani — in questo caso i cristiani di Efeso — la abbiano, entrino in questa esperienza al punto che ognuno possa dire: “Mi amò e si consegnò per me”». Però è importante «dirlo con l’esperienza propria» ha suggerito il Papa.
Francesco ha voluto rileggere un passo della lettera agli Efesini proposta come prima lettura: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere — lì va Paolo — quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio».
«Paolo vuole condurre tutti noi a questa esperienza» ha spiegato il Pontefice, perché è «l’esperienza che lui ha avuto di Gesù Cristo: l’incontro con Gesù Cristo gli ha fatto capire questa cosa grande».
Ma «come si può arrivare a questo, qual è la strada?» è la questione proposta dal Papa. Forse, ha aggiunto, «devo recitare il Credo tante volte? Sì, ma non è proprio la migliore strada giusta per arrivare a questa esperienza: aiuterà, ma non è quella giusta». Infatti, ha affermato Francesco, «Paolo quando dice che Gesù si è consegnato per lui, che è morto per lui, vuole dire “ha pagato per me” e racconta tante volte nelle sue lettere la propria esperienza: “Io ero un peccatore”, “io perseguitavo i cristiani”».
Per farlo, ha proseguito il Papa, egli «parte dal proprio peccato, dalla propria esistenza peccatrice, e la prima definizione che dà Paolo di se stesso è “peccatore”: scelto per amore, ma peccatore». Così, ha fatto presente il Pontefice, «il primo passo per la conoscenza di Cristo, per entrare in questo mistero, è la conoscenza del proprio peccato, dei propri peccati».
«Tutti noi ci accostiamo al sacramento della riconciliazione e noi diciamo i nostri peccati» ha proseguito Francesco. «Ma — ha specificato — una cosa è dire i peccati, riconoscere i peccati e un’altra cosa è riconoscersi “peccatore”, di natura “peccatore”, capace di fare qualsiasi cosa». Insomma, «riconoscersi una sporcizia». E «Paolo ha questa esperienza».
Ci vuole, perciò, la consapevolezza che «il primo passo per la conoscenza di Gesù Cristo è la conoscenza propria, della propria miseria, che ha bisogno di essere redenta, che ha bisogno di qualcuno che paghi: paghi il diritto a dirsi “figlio di Dio”». In realtà, ha spiegato il Papa, «tutti lo siamo, ma» per «dirlo, sentirlo, c’era bisogno del sacrificio di Cristo e, partendo da questo, Paolo va avanti con queste esperienze religiose che lui ha, una dietro l’altra, tramite la preghiera e la carità».
Ecco allora, ha riaffermato il Pontefice, che «il primo passo» è «riconoscersi peccatori, ma non in teoria, in pratica». Dire «ho incominciato a fare questo, mi sono fermato, ma se io fossi andato più su questa strada, sarei finito male, molto male» è «la radice del peccato che ti porta avanti». Dunque «il primo passo è questo: riconoscersi peccatore e dire a se stesso le proprie miserie, vergognarsi di se stesso: è il primo passo».
«Il secondo passo per conoscere Gesù è la contemplazione, la preghiera» ha affermato il Papa, proponendo la semplice invocazione: «“Signore, che io ti conosca”». E aggiungendo che «c’è una preghiera bella, di un santo: “Signore, che ti conosca e mi conosca”». Si tratta, ha spiegato Francesco, di «conoscere se stessi e conoscere Gesù». E «qui si dà questo rapporto di salvezza: la preghiera» ha rilanciato il Pontefice, invitando a «non accontentarsi con il dire tre, quattro parole giuste su Gesù» perché «conoscere Gesù è un’avventura, ma un’avventura sul serio, non un’avventura da ragazzino».
Conoscere Gesù, ha proseguito il Papa, «è un’avventura che ti porta tutta la vita, perché l’amore di Gesù è senza limiti». Lo ricorda Paolo sempre nella lettera agli Efesini: «Quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» è un’espressione per indicare, appunto, che «non ha limiti». Ma «questo soltanto con l’aiuto dello Spirito Santo possiamo trovarlo: è l’esperienza di un cristiano». E «Paolo stesso lo dice: Lui ha tutto il potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare. Ha la potenza di farlo». Però «dobbiamo domandarlo: “Signore, che io ti conosca; che quando io parlerò di te, dica non parole da pappagallo, dica parole nate nella mia esperienza, e come Paolo possa dire: “Mi amò e si è consegnato per me” e dirlo con convinzione». Proprio questa è la nostra forza, questa è la nostra testimonianza».
«Cristiani di parole, ne abbiamo tanti; anche noi, tante volte lo siamo» ha messo in guardia Francesco. Ma «questa non è la santità: santità è essere cristiani che operano nella vita quello che Gesù ha insegnato e quello che Gesù ha seminato nel cuore». Per farlo occorre «conoscere Gesù» con «quella conoscenza che non ha limiti: l’altezza, la lunghezza, la pienezza, tutto».
Il «primo passo» ha ripetuto il Papa, resta «conoscere se stessi peccatori: senza questa conoscenza, e anche senza questa confessione interiore che sono un peccatore, non possiamo andare avanti». Poi, ha ricordato, il «secondo passo» è «la preghiera al Signore che, con la sua potenza, ci faccia conoscere questo mistero di Gesù che è il fuoco che lui ha portato sulla terra».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 26/10/2018]
25a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [21 settembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Riprendendo le attività pastorali la parola di Dio ci guida a comprendere dove sta la vera ricchezza della vita.
*Prima Lettura dal libro del profeta Amos (8, 4 – 7)
L’ora è certamente grave, poiché questo testo del profeta Amos si conclude con una formula solenne: “Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe”(v.7) . “Il vanto di Giacobbe” è Dio stesso, perché è lui che è (o che dovrebbe essere) l’unico vanto del suo popolo; in altre parole, il Signore giura per sè stesso. Dio non può impegnarsi che per se stesso! Ma a proposito di cosa Dio giura? Assicura di non dimenticare “tutte le loro opere “, cioè tutte le malefatte d’Israele che il profeta Amos stigmatizza perché cercano solo di arricchirsi a spese degli altri. Amos è un profeta dell’VIII secolo a.C., quando la Palestina è divisa in due regni. Piccolo pastore di un villaggio del Sud (Téqoa, vicino a Betlemme), fu scelto da Dio per andare a predicare nel regno del Nord, chiamato anche Samaria dal nome della sua capitale. Sotto il regno di Geroboamo II, verso il 750 a.C, la Samaria vive un periodo di prosperità economica ma questa prosperità non giova a tutti; al contrario, Amos constata che l’arricchimento degli uni nasce dall’impoverimento degli altri, semplicemente perché i prodotti di prima necessità, come il pane quotidiano o i sandali, sono nelle mani di venditori senza scrupoli. Così si arriva al punto che i poveri non hanno altra soluzione, per non morire di fame o di freddo, se non quella di vendersi come schiavi “ comprare con denaro gli indigenti e il povero con un paio di sandali” (v.6). Chi subisce un torto può tentare di rivolgersi alla giustizia, ma ogni volta che c’è un processo per frodi o truffe manifeste, i tribunali prendono le parti dei ricchi contro i poveri semplicemente perché i ricchi pagano i giudici. Amos lo dice chiaramente: “Cambiano il diritto in veleno e gettano a terra la giustizia”(5,7). La stessa giustizia è falsata, corrotta. Il testo che abbiamo ascoltato è dunque uno di quelli in cui Amos prende la parola per annunciare il giudizio di Dio ed è un vero e proprio atto d’accusa: enuncia i fatti, poi rende il suo verdetto: Voi schiacciate i poveri, annientate gli umili della terra e vi domandate quando passerà la festa della luna nuova perché possiamo vendere il nostro grano? La luna nuova, il primo giorno del mese (detta «neomenia»), era un giorno festivo: nessun lavoro, nessuno spostamento, nessuna attività commerciale era autorizzata perché giorno del riposo come il sabato. Questo tempo di sospensione negli affari serviva a rivolgere l’uomo verso Dio. Ma qui sembra che lo si viva con impazienza, perché ormai l’uomo ha un altro padrone: il denaro e, per chi ha come unico pensiero il guadagno, un giorno festivo è una perdita. Per questo Amos rimprovera: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero…e dite: quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? (v.7). Prende di mira i venditori disonesti, per i quali commercio significa truffa, con prezzi esorbitanti e bilance falsate. L’immagine della bilancia falsata è a doppio senso: da una parte si capisce come un bilanciere storto possa falsare una misura, ma, più profondamente, significa che tutta la società vive su bilance truccate. In fondo, Amos rimprovera al popolo di Samaria di vivere nella menzogna e nell’ingiustizia: le bilance sono falsate, la giustizia è corrotta, si rispettano controvoglia i giorni festivi e con un secondo fine; tutto è falsato, insomma. Ecco dunque il giudizio: «Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mi tutte le loro opere” (v.7). In altre parole: Voi che vi arricchite ingiustamente, dimenticate in fretta i vostri delitti, e i tribunali vi seguono; ma il Signore vi dichiara che tutto questo non va dimenticato e non dovete abituarvi all’ingiustizia. Amos pronuncia la sua ammonizione nel modo più solenne possibile, perché c’è una lezione molto seria: la prima cosa che Dio chiede al suo popolo è di vivere nella giustizia e la società fondata su ingiustizie e miserie di ogni genere, non può che offendere Dio. Amos è tanto più severo perché, da cent’anni, il regno del Nord si vanta di aver eliminato l’idolatria abolendo i culti dei Baal; ma in realtà, ciò che Amos rimprovera è di essere caduti in un’idolatria ancora più pericolosa: quella del denaro.
*Salmo responsoriale (113/[112])
Questo salmo è il primo di quelli che Gesù ha cantato la sera del Giovedì Santo prima di partire per il Monte degli Ulivi. La prima parola che ha cantato è Alleluia che significa letteralmente Lodate Dio: Allelu è l’imperativo, lodate; e Ya la prima sillaba del Nome santo. Dunque, si tratta di un salmo di lode e si capisce dalla prima parola: Alleluia. Interessante è la composizione di questo salmo, formato da due parti di quattro versetti ciascuna, che incorniciano un versetto centrale. Il versetto centrale è una domanda: “Chi è come il Signore nostro Dio? (v.5) e le due parti contemplano le due facce del mistero di Dio: la sua santità e la sua misericordia. Nella sua rivelazione Dio si è fatto conoscere come il Trascendente, il tutto Santo e come il Misericordioso il Tutto Vicino. Per manifestare la sua santità, si ripete il suo Nome, “il Signore”, il Nome di Dio, rivelato da Lui stesso in quattro lettere (YHWH) che però non viene mai pronunciato. E come sappiamo, nella Bibbia, quando compaiono queste quattro lettere, spontaneamente il lettore ebreo le sostituisce con «Adonai», che significa Mio Signore, e che non pretende descrivere né definire Dio. Il termine “Signore”, che esprime bene la distanza tra Dio e noi, è usato cinque volte mentre “il Nome” tre volte, e il verbo lodare tre volte. La grande scoperta si trova nel versetto centrale: ”Chi è come il Signore nostro Dio?”: il Dio della gloria è nello stesso tempo il Dio della misericordia. e la seconda parte del salmo descrive l’azione di Dio a favore dei più piccoli, dei più poveri: solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero (v.7). Tra i deboli e i poveri, vi era la donna sterile, che viveva con la continua paura di essere ripudiata: “Fa abitare nella casa la sterile, come madre gioiosa di figli” (v.9). Sara, moglie di Abramo, ha conosciuto questo miracoloso rovesciamento: la gioia della sterile che si ritrova, dopo alcuni anni, con la casa piena di figli. La Bibbia ama sottolineare questi rovesciamenti di situazione: perché nulla è impossibile a Dio. Il Magnificat di Maria è pieno di questa certezza fiduciosa. Quando dopo l’Ultima Cena Gesù ha cantato questo salmo con i discepoli salendo verso il Monte degli Ulivi, ha sentito in modo particolare il versetto “solleva dalla polvere il debole”. Si avviava alla sua morte, e ha certamente riconosciuto qui un annuncio della sua risurrezione.
*Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 1-8)
Nel cuore di questo brano si trova una frase che riassume tutta la Bibbia, è al centro del pensiero di Paolo, e soprattutto è il centro della storia dell’umanità: “Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (v.4). Ogni parola è importante: “Dio vuole”: è il mistero della sua volontà, quel progetto di misericordia che aveva già prestabilito in se stesso per condurre i tempi alla loro pienezza, come dice la lettera agli Efesini (cf. 1,9-10). La volontà di Dio è una volontà di salvezza che riguarda tutti gli uomini. Paolo insiste sulla dimensione universale del progetto di Dio: “Dio, nostro Salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”. In frasi di questo genere la parola “e” può essere sostituita da “cioè”; bisogna quindi intendere: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, cioè che giungano a conoscere pienamente la verità. E che cos’è la verità? È che Dio ci ama ed è sempre con noi per colmarci del suo amore. Essere salvati significa conoscere questa verità secondo il senso biblico del “conoscere”: cioè viverne, lasciarsi amare e trasformare da essa. Finché gli uomini non conoscono l’amore di Dio restano come prigionieri e Cristo è venuto per liberarci. Ecco perché troviamo l’espressione “ha dato se stesso in riscatto per tutti”(v.6) : ogni volta si può sostituire la parola riscatto con liberazione: credere nell’amore di Dio per tutti gli uomini e vivere di questo amore, significa essere salvati. Allora, la vera preghiera, – come dice Paolo – è entrare nel progetto di Dio per essere capaci di diffondere il vangelo come una scintilla che si propaga. Nell’ultima frase, l’insistenza di Paolo non riguarda tanto la posizione esteriore, ma lo stato d’animo con cui ci si deve presentare nella preghiera: “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese”. Come entrare nel progetto d’amore di Dio per tutti se il cuore è pieno di collera e di cattive intenzioni? Molto probabilmente qui si intravedono segni di difficoltà gravi, di opposizioni, di divisioni, forse persino di persecuzioni, nella comunità alla quale era destinata questa lettera. Non possiamo avanzare ipotesi precise, poiché non siamo nemmeno sicuri della data di composizione della lettera, né se sia interamente di Paolo o di un suo discepolo. Ma poco importa: ciò che conta, in ogni epoca e in qualunque difficoltà non bisogna dimenticare mai che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla piena conoscenza della verità, cioè dell’amore di Dio.
*Dal Vangelo secondo Luca (16, 1-13)
Questo testo riserva una sorpresa: Gesù sembra fare i complimenti ai truffatori: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”(v.8). Attenzione a non sbagliare! Gesù lo definisce disonesto, cioè malvagio perché l’onestà faceva parte della morale più elementare. Dunque, l’intenzione di Gesù non è certo quella di andare contro la morale di base e si premura di precisare che il padrone loda quell’uomo per la sua scaltrezza. Se Gesù usa un esempio provocatorio, è per farci riflettere su qualcosa di serio, come mostra l’ultima frase: c’è una scelta urgente da fare tra Dio e il denaro perché non si può servire Dio e il denaro. Gesù elenca una serie di opposizioni: tra i figli di questo mondo e i figli della luce, tra una piccola cosa e una grande cosa, tra il denaro ingannevole e il bene autentico, tra i beni altrui e ciò che è veramente nostro. Tutte queste opposizioni hanno un unico scopo: farci scoprire che il denaro è un inganno e che dedicare la vita a fare soldi è una strada sbagliata; è grave quanto l’idolatria, che i profeti hanno sempre combattuto. Nella frase: “Non potete servire Dio e il denaro”, il verbo servire ha un senso religioso. C’è un solo Dio: non fatevi idoli, perché ogni idolatria vi rende schiavi e il denaro può diventare un fine a se stesso e non più un mezzo. Quando si è ossessionati dal desiderio di guadagnare, si diventa presto schiavi: è importante guardarsi da ciò che si possiede per non esserne posseduti, dice la saggezza popolare. Il sabato era stato istituito anche per riscoprire, una volta alla settimana, il gusto della gratuità, un modo per restare liberi. Il denaro è ingannevole in due sensi: anzitutto, ci fa credere che ci assicurerà la felicità, ma un giorno dovremo lasciare tutto. Nella frase di Gesù l’espressione “quando verrà a mancare” (v.9) è un’allusione alla morte e certamente non c’è grande interesse a essere il più ricco del cimitero! Inoltre, il denaro ci inganna se pensiamo che ci appartenga solo per noi. Gesù non disprezza il denaro, ma lo mette al servizio del Regno, cioè per il bene degli altri e nessuno ne è proprietario, bensì amministratore. Se è vero che non serve a nulla essere il più ricco del cimitero, ha però molto senso essere ricchi per farne beneficiare anche gli altri. La domanda “se non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta chi vi affiderà quella vera?” (v.11) aiuta a capire che nell’uso del denaro è importante la fiducia: Dio si fida di noi, ci affida del denaro di cui siamo amministratori e responsabili. Ogni nostra ricchezza, di qualunque genere, ci è stata affidata come a degli amministratori perché la condividiamo trasformandola in felicità per chi ci circonda. Così si comprende meglio la parabola precedente, la storia di quell’amministratore minacciato di licenziamento che, per salvarsi, fa ancora una volta dei regali con i beni del suo padrone per farsi degli amici che lo accolgano. Era del tutto disonesto, ma ha saputo trovare rapidamente una soluzione ingegnosa per assicurarsi un futuro. L’astuzia, qui, consiste nell’usare il denaro come un mezzo e non come un fine. Non è quindi la disonestà che Gesù ammira, ma l’abilità: che cosa aspettiamo anche noi a trovare soluzioni creative per assicurare l’avvenire di tutti? La sete di guadagnare rende molte persone piene di inventiva; Gesù vorrebbe che la passione per la giustizia o la pace ci rendesse altrettanto inventivi! Il giorno in cui dedicheremo tanto tempo e tanta intelligenza a ricercare vie di pace, di giustizia e di condivisione quanto ne dedichiamo ad accumulare denaro oltre il necessario, il volto del mondo cambierà. In fondo, la morale della parabola può essere riassunta così: scegliete Dio, con decisione, e mettete al servizio del Regno la stessa intelligenza che mettereste nel fare soldi. I figli della luce sanno che il denaro è solo una piccola cosa; il Regno è la grande cosa e per questo non servono il denaro come una divinità, ma se ne servono per il bene di tutti.
+ Giovanni D’Ercole
Sobrietà soddisfatta: nuova Profondità
(Lc 9,1-6)
Al tempo di Gesù non mancavano diversi movimenti di rinnovamento che cercavano di rinverdire la vita di comunità, insidiata dal collasso economico e sociale, e dal servilismo politico e religioso.
Esseni, Farisei e Zeloti avevano i loro missionari, che sebbene inviati proprio da coloro che più radicalmente desideravano un nuovo modo di convivere, erano totalmente prevenuti nei confronti di altri interlocutori.
Non si fidavano della gente, né delle consuetudini o del cibo altrui, anch’esso considerato legalmente impuro.
Invece gli Apostoli devono imparare ad accettare l’ospitalità, confidare nelle persone, e immaginare di essere accolti persino da coloro che la devozione comune considera contaminati.
L’uomo di Fede si distingue dal credente religioso fondamentalista, perché ha un criterio di fraternità e coesistenza opposto: denuncia le leggi di esclusione rituale, culturale e sociale.
Ha una nuova profondità.
L’accesso alla ‘purezza’ è nel rapporto intimo e personale con Dio, e nella qualità di relazioni aperte; non altrove. E la Chiesa è realtà eccentrica; non vive per sé, per i vantaggi, per vincere.
Essa ha solo il compito di tenere vivo il Messaggio che guida tutti alla Felicità piena.
Ciascuno, e la Comunità stessa, puntano sull’Annuncio [reale, con la vita] che ha forza trasformante. Assolutamente la Chiesa non è costituita per imporre idee e trionfare, tutt’altro.
Così il figlio di Dio in itinere non può trascorrere il suo tempo a migliorare l’alloggio, come fosse un segno di rango sociale e spirituale - magari passando da una prima sistemazione di fortuna a forme sempre più agiate e appariscenti sul territorio (v.4).
Il testimone autentico ha in cuore ben altra Promessa.
Lc insiste sul fatto che la Missione debba svolgersi nella più assoluta povertà - condizione per continuare l’assunto di Gesù - e toglie al fedele in Cristo persino l’inerme penuria del bastone da viaggio che invece Mc (6,8) gli lascia.
Il rapporto con gli eventi, le relazioni con le persone e le forze cieche del potere, e degl’imprevisti naturali, devono in noi diventare Incontro.
Sbalordimento di Empatia nuova che in se stessa annuncia sapienza, cura, guarigione, e vittoria sull’infermità (vv.1-2) - introducendo anche i lontani e disperati alla incisività della Fede.
Questo Viaggio di ritrovamento della propria e altrui vita nelle mani del Padre non è ancora terminato.
La Verità del Risorto è aperta a una Speranza aggiornata e di prospettiva, non inquadrata - da tenere viva. L’esigenza di opere trasmutanti il mondo antico acquista un’attualità sempre rinvigorita.
Continua ai nostri giorni, ma con esigenze, motivi, orizzonti e offerte di redenzione in forme “divine” sorprendenti - anche a motivo di poliedrici contesti culturali [o perfino d’interferenze interne, coi loro immutati tentativi di offuscamento perbenista rigido e devoto - o modaiolo - dello spirito umano].
Ciò che conta non sono i mezzi, diversi secondo ambiente o più o meno miseri, ma l’Annuncio della Verità che si ‘fa’, non che si ‘ha’.
In sé l’indigenza materiale è una cattedra, ma pure una vetrina. In altre religioni, ci sono forme di povertà ed esproprio individuale [confrontate alle nostre] eroiche e sorprendenti, forse però inaccessibili e di cerchia, nel loro incredibile atletismo - e spersonalizzazione.
La Chiesa dev’essere libera, disponibile, tutta dedita, inerme.
Il suo peso specifico - vera garanzia di credibilità - resta da discernere in ordine a una vita universale e perfetta ‘da salvati’ [recuperati per Grazia], non da fenomeni asettici e cesellati nei minimi dettagli.
Lo vediamo oggi, nel tempo della crisi globale: bisogna reinventarsi per rinascere, anche dal punto di vista dei criteri di sacralità.
Insomma: smettere di sabotare le nostre risorse naturali spontanee, e diventare ciò che siamo a partire dalle reali fragilità - in modo più genuino [e al contempo, più profondo].
Talora bisognerà far leva proprio sugli aspetti che un tempo erano considerati cagionevolezza di carattere... appunto da escludere, in un mondo tutto esteriore, falsamente estroverso, manierista, supponente di sé.
Al fine di costruire una sola Famiglia e un solo Popolo di Dio, liberato da pastoie che umiliano la gioia, tutti i ‘fatti’ credibili e i ‘mezzi’ conformi - fragranti e spontanei, o anche culturalmente affinati - possono essere accolti, presi in considerazione, reinventati.
Opzione assoluta e non negoziabile è il bene della donna e dell’uomo concreti, non un convincimento di purità, o di adeguatezza “culturale”.
Ciò che conta è la sollecitudine per il nostro rapporto con Dio nella relazione di Comunione coi fratelli e sorelle, alla pari, per una convivialità delle differenze che ci arricchisce, personalmente e insieme.
La qualità d’intesa basta a tutto, e marca una saggia differenza nei confronti di aspetti idolatrici… quali rivalse materiali, controllo delle coscienze deboli, ed espansione sul territorio - cifre così importanti per le ideologie e purtroppo anche per alcune forme impositive del nostro credo [rigide o di soppiatto].
Se viceversa ci radichiamo in una disposizione di coesistenza, esclusivamente conviviale e di spirito largo, informeremo tutto il nostro modo di vivere. Ciò, nella soddisfatta sobrietà di chi già possiede il Tesoro autentico, dentro e fuori di sé: il Cristo universale, risuscitato a favore delle «moltitudini»; Fonte e Culmine del Regno da edificare.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come annunzi il Regno di Dio?
Porti ciò che per primo hai vissuto, o preferisci idee, atteggiamenti artificiosi, schemi, pensieri, organigrammi e “nomi” altrui?
Cosa ritieni possa complicare l’Annuncio oggi?
[Mercoledì 25.a sett. T.O. 24 settembre 2025]
Cari amici, con la vostra preziosa opera di animazione e cooperazione missionaria richiamate al Popolo di Dio “la necessità per il nostro tempo di un impegno deciso nella missio ad gentes” (Esort. ap. Verbum Domini, 95), per annunciare la “grande Speranza”, “quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme” (Enc. Spe salvi, 31). Nuovi problemi e nuove schiavitù, infatti, emergono nel nostro tempo, sia nel cosiddetto primo mondo, benestante e ricco ma incerto circa il suo futuro, sia nei Paesi emergenti, dove, anche a causa di una globalizzazione caratterizzata spesso dal profitto, finiscono per aumentare le masse dei poveri, degli emigranti, degli oppressi, in cui si affievolisce la luce della speranza. La Chiesa deve rinnovare costantemente il suo impegno di portare Cristo, di prolungare la sua missione messianica per l’avvento del Regno di Dio, Regno di giustizia, di pace, di libertà, di amore. Trasformare il mondo secondo il progetto di Dio con la forza rinnovatrice del Vangelo, “perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28) è compito dell’intero Popolo di Dio. E’ necessario pertanto continuare con rinnovato entusiasmo l’opera di evangelizzazione, l’annuncio gioioso del Regno di Dio, venuto in Cristo nella potenza dello Spirito Santo, per condurre gli uomini alla vera libertà dei figli di Dio contro ogni forma di schiavitù. E’ necessario gettare le reti del Vangelo nel mare della storia per portare gli uomini verso la terra di Dio.
“La missione di annunciare la Parola di Dio è compito di tutti i discepoli di Cristo, come conseguenza del loro battesimo” (Esort. ap. Verbum Domini, 94). Ma perché vi sia un deciso impegno nell’evangelizzazione, è necessario che i singoli cristiani come le comunità credano veramente che “la Parola di Dio è la verità salvifica di cui ogni uomo in ogni tempo ha bisogno” (ibid., 95). Se questa convinzione di fede non è profondamente radicata nella nostra vita, non potremo sentire la passione e la bellezza di annunciarla. In realtà, ogni cristiano dovrebbe fare propria l’urgenza di lavorare per l’edificazione del Regno di Dio. Tutto nella Chiesa è al servizio dell’evangelizzazione: ogni settore della sua attività e anche ogni persona, nei vari compiti che è chiamata a svolgere. Tutti devono essere coinvolti nella missio ad gentes: Vescovi, presbiteri, religiosi e religiose, laici. “Nessun credente in Cristo può sentirsi estraneo a questa responsabilità che proviene dall’appartenere sacramentalmente al Corpo di Cristo” (ibid., 94). Occorre, pertanto, prestare particolare cura affinché tutti i settori della pastorale, della catechesi, della carità siano caratterizzati dalla dimensione missionaria: la Chiesa è missione.
Condizione fondamentale per l’annuncio è lasciarsi afferrare completamente da Cristo, Parola di Dio incarnata, perché solo chi è in attento ascolto del Verbo incarnato, chi è intimamente unito a Lui, può diventarne annunciatore (cfr ibid., 51; 91). Il messaggero del Vangelo deve rimanere sotto il dominio della Parola e deve alimentarsi dei Sacramenti: è da questa linfa vitale che dipendono la sua esistenza e il suo ministero missionario. Solo radicati profondamente in Cristo e nella sua Parola si è capaci di non cedere alla tentazione di ridurre l’evangelizzazione ad un progetto solo umano, sociale, nascondendo o tacendo la dimensione trascendente della salvezza offerta da Dio in Cristo. E’ una Parola che deve essere testimoniata e proclamata esplicitamente, perché senza una testimonianza coerente essa risulta meno comprensibile e credibile. Anche se spesso ci sentiamo inadeguati, poveri, incapaci, conserviamo sempre la certezza nella potenza di Dio, che mette il suo tesoro “in vasi di creta” proprio perché appaia che è Lui ad agire per mezzo nostro.
Il ministero dell’evangelizzazione è affascinante ed esigente: richiede amore per l’annuncio e la testimonianza, un amore così totale che può essere segnato anche dal martirio. La Chiesa non può venire meno alla sua missione di portare la luce di Cristo, di proclamare il lieto annuncio del Vangelo, anche se ciò comporta la persecuzione (cfr Esort. ap. Verbum Domini, 95). E’ parte della sua stessa vita, come lo è stato per Gesù. I cristiani non devono avere timore, anche se “sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede” (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2011, 1). San Paolo afferma che “né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,38-39).
[Papa Benedetto, discorso all’assemblea generale Pontificie Opere Missionarie 14 maggio 2011]
2. L'odierno incontro avviene nel tempo e nello spirito del Grande Giubileo, che la Chiesa universale sta vivendo con grande fervore. Questo è un singolare Anno di grazia, nel quale la comunità cristiana sta facendo una più viva esperienza della bontà di Dio, manifestatasi nell'incarnazione del Figlio e annunciata con gratitudine dalla Chiesa a tutte le genti. Risuonano nel nostro spirito le parole dell'Apostolo: "Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!" (2 Cor 6, 2b).
La celebrazione del Grande Giubileo appare, quindi, un'occasione quanto mai opportuna per riflettere sulla misericordia che Dio Padre, mediante l'opera dello Spirito Santo, ha offerto in Cristo a tutta l'umanità. Il Grande Giubileo è "annuncio di salvezza", che va fatto risuonare in ogni angolo della terra, affinché chi l'ha udito ne divenga a sua volta testimone e se ne faccia strumento per la salvezza di ogni persona. Siamo tutti chiamati ad aprire gli occhi dinanzi alle necessità delle numerose pecore senza pastore (cfr Mc 6, 34), per metterci al loro servizio, al fine di far conoscere loro il nome del Signore, perché, confessandolo, anch'esse abbiano parte alla salvezza (cfr Rm 10,9).
3. Voglio qui ricordare in modo particolare quanti, uomini e donne, dedicandosi "ad vitam" alla missione "ad gentes", hanno fatto di questa attività la ragion d'essere della propria esistenza. Essi sono un esempio incomparabile di dedizione alla causa della diffusione del Vangelo. Ringrazio e benedico di cuore coloro che, in forme tanto discrete quanto efficaci, si impegnano nel lavoro dell'animazione e della cooperazione missionaria. Sono in tanti. Ai sacerdoti, alle consacrate ed ai consacrati si uniscono numerosi laici, individualmente o come famiglia, desiderosi di dedicare alla missione alcuni anni della loro vita o, addirittura, l'intera loro esistenza. Non poche volte essi proclamano la Buona Novella e manifestano la loro fede in ambienti ostili o indifferenti. Portate loro, carissimi Fratelli e Sorelle, la mia riconoscenza ed il mio incoraggiamento a continuare generosamente questo vigoroso impegno missionario. Dio, che non si lascia vincere in generosità, li saprà ricompensare.
La recente commemorazione dei Testimoni della Fede del ventesimo secolo, celebrata la scorsa Domenica nel Colosseo, ci ricorda che non di rado, per la missione, la prova suprema è il dono della vita fino alla morte. "Come sempre nella storia cristiana, i «martiri», cioè i testimoni, sono numerosi e indispensabili al cammino del Vangelo. Anche nella nostra epoca ce ne sono tanti: vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici, a volte eroi sconosciuti che danno la vita per testimoniare la fede. Sono essi gli annunciatori ed i testimoni per eccellenza" (Lett. enc. Redemptoris missio, 45).
Nel rendere grazie a Dio per questi nostri fratelli e sorelle nella fede, preghiamo perché il lavoro missionario della Chiesa sia sempre animato da grande generosità.
[Papa Giovanni Paolo II, discorso all’assemblea delle Pontificie Opere Missionarie 11 maggio 2000]
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore. Occorre saper contemplare. L’uomo d’oggi sente molto il bisogno di non limitarsi alle pure preoccupazioni materiali, e di integrare invece la propria cultura tecnica con superiori e disintossicanti apporti provenienti dal mondo dello spirito [Giovanni Paolo II]
This can only take place on the basis of an intimate encounter with God, an encounter which has become a communion of will, even affecting my feelings (Pope Benedict)
Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento (Papa Benedetto)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
We are faced with the «drama of the resistance to become saved persons» (Pope Francis)
Siamo davanti al «dramma della resistenza a essere salvati» (Papa Francesco)
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.