Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
L’autorevolezza di Gesù e nostra
(Mt 21,23-27)
«Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?» (Mt 21,23).
Nell’ambiente tradizionale giudaizzante delle prime comunità rimbalzavano domande circa l’autorevolezza di Cristo nel porre sotto assedio il sistema religioso ordinario, e il suo distinguersi perfino da profeti riconosciuti come il Battista.
Unica risposta: la potenza di Dio che si esprimeva nel segno dei tempi - fermentando le coscienze.
La missione di Gesù non è stata regolare: sconcertava l’atmosfera, quindi la sua Parola viva e tagliente andava circoscritta a ogni costo.
Un comportamento così audace sarebbe sembrato irriverente, perfino se adottato dal Messia atteso in persona.
E un senza-terra non poteva che essere un suo falso pretendente...
I leaders religiosi che il Signore fronteggiava - radicati in schemi di pensiero e strategie consolidate - si accontentavano sempre di adattare il Cielo entro canovacci chiusi.
Mt tenta di aiutare le sue comunità di Galilea e Siria: dovevano continuare impavide, e non lasciarsi sedurre da pratiche religiose ufficiali, né inquinare dall’ideologia imperiale.
L’evangelista sembra anche suggerire ai fedeli in Cristo di evitare diatribe puntigliose, con i rappresentanti di un mondo solo in apparenza stabile - viceversa destinato a implodere sulle proprie contraddizioni.
Dopo la cacciata dei venditori e usurai-profanatori dal Tempio (Mt 21,12ss), la sorte di Gesù è segnata.
Ma attraverso i suoi intimi, il nuovo Regno - slegato - si deve proporre nello spirito di disinteresse, e come Sorpresa.
Solo il Padre può aver gestione di seme, radici e sviluppo.
Nessun uomo può dare “autorizzazione” a una qualsiasi persona di poter essere riflessiva e disciolta.
C’è un percorso imprevedibile anche per chi è abituato a sentirsi dirigere in ogni vicenda. Mentre le garanzie ingombrano le menti e intasano le vie che poi sfociano in esperienze di frontiera.
In tal guisa, palesiamo indipendenza e libertà perché Gesù stesso l’ha dimostrate, sorvolando qualsiasi aspettativa e proposito.
Prima o poi i capi sarebbero rimasti costernati da chi non sopporta le ratifiche, riconoscendo infine la loro ignoranza.
Si sarebbero incagliati definitivamente, da soli - persino a motivo della volontà di non esporsi (vv.25-27a). Perplessità tattica, che rivela incredulità - tiepidezza - mancanza totale di Fede.
Insomma, il ‘silenzio’ di quanti gradiscono una Chiesa più attenta e meno esteriore è spesso l’eco giusto di Dio, più eloquente di tante brillanti disquisizioni (v.27b).
Così Gesù evita l’ambiguità della restrizione mentale o della semantica evasiva: in Lui la non-risposta ai dirigenti si trasforma in domanda.
Il Signore resta silente, ma senza sviare il quesito.
[Lunedì 3.a sett. Avvento, 15 dicembre 2025]
L’autorevolezza di Gesù e nostra
(Mt 21,23-27)
«Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?» (Mt 21,23).
Nell’ambiente tradizionale giudaizzante delle prime comunità rimbalzavano domande circa l’autorevolezza di Cristo nel porre sotto assedio il sistema religioso ordinario, e il suo distinguersi perfino da profeti riconosciuti come il Battista.
Unica risposta: la potenza di Dio che si esprimeva nel segno dei tempi - fermentando le coscienze.
La missione di Gesù non è stata regolare: sconcertava l’atmosfera, quindi la sua Parola viva e tagliente andava circoscritta a ogni costo.
Un comportamento così audace sarebbe sembrato irriverente nei confronti delle autorità, perfino se adottato dal Messia atteso in persona. E un senza-terra non poteva che essere un suo falso pretendente...
I leaders religiosi che il Signore fronteggiava - radicati in schemi di pensiero e strategie consolidate, pure di moneta - si accontentavano sempre di adattare il Cielo entro canovacci chiusi.
Anche i fedeli delle comunità di Mt sembravano sotto la tutela d’interessi, strade, parole e gesti imposti dal clima dispotico.
Negli anni 70-80 i giudei convertiti al Signore erano perseguitati, perché resistevano ai costumi e alle pressioni delle guide religiose costituite e al sistema di potere.
Alcuni avevano già sconsideratamente tentato la strada diplomatica, provando a conciliare Fede e Impero.
Come diceva Paolo, ormai tristemente consapevole della sconfitta della sua teologia: «Quelli che vogliono fare bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere, solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo».
Mt tenta di aiutare le sue comunità di Galilea e Siria: dovevano continuare impavide, e non lasciarsi sedurre da pratiche religiose ufficiali, né inquinare dall’ideologia corriva, dei vari Cesari.
L’evangelista sembra anche suggerire ai fedeli in Cristo di evitare diatribe puntigliose, con i rappresentanti di un mondo solo in apparenza stabile - viceversa destinato a implodere sulle proprie contraddizioni.
Scrive il Tao Tê Ching (v): «Parlar molto e scrutar razionalmente, val meno che mantenersi vuoto». E il maestro Wang Pi commenta: «Chi non parla e non fa ragionamenti sicuramente scruta la ragione delle cose».
Dopo la cacciata dei venditori e usurai-profanatori dal Tempio (Mt 21,12ss), la sorte di Gesù è segnata.
Non si tocca il vero dio delle antiche alture: il sacchetto dei “maestri” e il tesoro dei sacerdoti implicati.
I massimi responsabili degli affari in nero del recinto sacro apparivano credenti e leali, ma solo se scrutati dal di fuori.
Il loro occhio interiore e la loro attività ben celata sotto i mantelli e dietro le quinte si posava su tutt’altro che i beni spirituali.
Erano padroni di tutto, quindi nessuno doveva prendere iniziativa alcuna senza loro placet. Figuriamoci intaccare il commercio religioso.
Chi mai ha dato l’imprimatur a un figlio di falegname di contrapporsi a lauti guadagni, e intaccarne il prestigio?
Le convinzioni utili e i proventi ormai abitudinari erano “diritto acquisito”.
Purtroppo, la storia delle religioni è punteggiata di episodi di plagio e compromesso, anche nei tempi in cui la situazione economica e sociale diventava difficile o complessa (come oggi).
Laddove i ceti meno abbienti declinavano i rischi, più volentieri si appaltava la difficile gestione della libertà personale - lasciando campo aperto ai soci in affari con Dio, manipolatori di coscienza.
Ma qui - a furia di permessi da chiedere con deferenza, procedimenti analoghi (e “cordate” di contrabbando) - mancava infine quella freschezza piena di stupore, tipica dell'anima aperta all’avventura e alla passione d'amore.
Pertanto, secondo Gesù nessun uomo può dare “autorizzazione” a una qualsiasi persona di poter essere riflessiva e disciolta.
C’è un percorso imprevedibile anche per chi è abituato a sentirsi dirigere in ogni vicenda.
Il seme portato dal vento dello Spirito fa la sua pianta, che non necessariamente somiglia a quelle circostanti: non si vincola nella sua espressività particolare, e vola anche fuori confine.
Sebbene le autorità costituite non volessero assolutamente perdere il controllo delle cose e imponessero la solita vita pia standard - coi suoi tornaconti - secondo il Cristo, Dio solo poteva aver gestione di seme, radici e sviluppo.
Attraverso i suoi intimi, il nuovo Regno - slegato - si deve proporre al mondo intero, nello spirito di disinteresse… e come Sorpresa.
Attributi imprevisti e sgombri, che il Figlio svela nella sua vicenda di cura dei malfermi, e di contrapposizione agli astuti; nella sua Persona.
Palesiamo indipendenza e libertà, perché Gesù stesso l’ha dimostrate, sorvolando qualsiasi aspettativa e proposito.
Il Maestro non era un qualunquista con coloro che ordivano trame di mestiere e pretendevano pure il nullaosta.
Egli, senza ricercare concordismi lessicali, sottolineava che l’ortodossia non si doveva confondere con la ripetizione.
Le garanzie del passato ingombrano spesso le menti e intasano le vie che poi sfociano in esperienze di frontiera.
In tal guisa, prima o poi i capi sarebbero rimasti costernati da chi non sopporta le ratifiche, riconoscendo infine la loro ignoranza.
Si sarebbero incagliati definitivamente, da soli - soverchiati dai loro stessi imbrogli e dall’ansia di non perdere il potere sulla gente [sempre più insofferente ai “visti”].
Ciò, persino a motivo della volontà di non esporsi (vv.25-27a).
Perplessità tattica, che rivela incredulità - tiepidezza - mancanza totale di Fede.
Come ha sottolineato Papa Francesco:
Gesù, con intelligenza, risponde con un’altra domanda e mette i capi dei sacerdoti “all’angolo”, chiedendo loro se Giovanni il Battista battezzava con un’autorità che gli veniva dal cielo, cioè da Dio o dagli uomini. Matteo descrive il loro ragionamento, riletto dal Pontefice «Se noi diciamo: “Dal cielo”, ci dirà: “Perché non avete creduto?”; se diciamo: “Dagli uomini”, la gente verrà contro di noi». E se ne lavano le mani e dicono: “Non sappiamo”. Questo, ha commentato il Santo Padre, «è l’atteggiamento dei mediocri, dei bugiardi della fede».
«Non solo Pilato se ne lavò le mani», ha spiegato il Papa, anche questi se ne lavano le mani: «Non sappiamo». Questo significa, ha proseguito Francesco, «non entrare nella storia degli uomini, non coinvolgersi nei problemi, non lottare per fare il bene, non lottare per guarire tanta gente che ha bisogno... “Meglio di no. Non sporchiamoci”».
Per questo, ha chiarito il Pontefice, Gesù risponde «con la stessa musica: “Neppure io vi dico con quale autorità faccio questo”». Infatti «questi sono due atteggiamenti dei cristiani tiepidi», ha ricordato Francesco, «di noi — come diceva mia nonna — “cristiani all’acqua di rosa”; cristiani così: senza consistenza».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/12/2019]
Nel commento al Tao (LXV) il maestro Ho-Shang Kung scrive: «L’uomo che possiede la misteriosa virtù è così profondo da non poter essere sondato, così imperscrutabile da non aver limite».
Il silenzio di coloro che in Cristo stanno tuttora educando i protagonisti dei luoghi sacri è spesso l’eco giusto di Dio, più eloquente di tante brillanti disquisizioni (v.27b).
Così Gesù evita l’ambiguità della restrizione mentale o della semantica evasiva: in Lui la non risposta ai dirigenti si trasforma in domanda.
Il Signore resta silente, ma senza sviare il quesito.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Dimostri autonomia ed emancipazione da coloro che ambiscono controllare la tua personalità, per farti poi diventare solo un operaietto (con licenza) del (loro) tempio?
Secondo te: malgrado le fastose apparenze di rango, le pressappochiste guide spirituali del popolo e i funzionari del Tempio, avevano a che fare con Colui che celebravano?
Talora, forse - anche noi - poco o nulla?
Traduzione della potenza in umiltà
La parola che Gesù rivolge agli uomini apre immediatamente l’accesso al volere del Padre e alla verità di se stessi. Non così, invece, accadeva agli scribi, che dovevano sforzarsi di interpretare le Sacre Scritture con innumerevoli riflessioni (…)
L’autorità divina non è una forza della natura. È il potere dell’amore di Dio che crea l’universo e, incarnandosi nel Figlio Unigenito, scendendo nella nostra umanità, risana il mondo corrotto dal peccato. Scrive Romano Guardini: «L’intera esistenza di Gesù è traduzione della potenza in umiltà… è la sovranità che qui si abbassa alla forma di servo» (Il Potere, Brescia 1999, 141.142).
Spesso per l’uomo l’autorità significa possesso, potere, dominio, successo. Per Dio, invece, l’autorità significa servizio, umiltà, amore; significa entrare nella logica di Gesù che si china a lavare i piedi dei discepoli (cfr Gv 13,5), che cerca il vero bene dell’uomo, che guarisce le ferite, che è capace di un amore così grande da dare la vita, perché è Amore. In una delle sue Lettere, santa Caterina da Siena scrive: «E’ necessario che noi vediamo e conosciamo, in verità, con la luce della fede, che Dio è l’Amore supremo ed eterno, e non può volere altro se non il nostro bene» (Ep. 13 in: Le Lettere, vol. 3, Bologna 1999, 206).
[Papa Benedetto, Angelus 29 gennaio 2012]
La parola che Gesù rivolge agli uomini apre immediatamente l’accesso al volere del Padre e alla verità di se stessi. Non così, invece, accadeva agli scribi, che dovevano sforzarsi di interpretare le Sacre Scritture con innumerevoli riflessioni (…)
L’autorità divina non è una forza della natura. È il potere dell’amore di Dio che crea l’universo e, incarnandosi nel Figlio Unigenito, scendendo nella nostra umanità, risana il mondo corrotto dal peccato. Scrive Romano Guardini: «L’intera esistenza di Gesù è traduzione della potenza in umiltà… è la sovranità che qui si abbassa alla forma di servo» (Il Potere, Brescia 1999, 141.142).
Spesso per l’uomo l’autorità significa possesso, potere, dominio, successo. Per Dio, invece, l’autorità significa servizio, umiltà, amore; significa entrare nella logica di Gesù che si china a lavare i piedi dei discepoli (cfr Gv 13,5), che cerca il vero bene dell’uomo, che guarisce le ferite, che è capace di un amore così grande da dare la vita, perché è Amore. In una delle sue Lettere, santa Caterina da Siena scrive: «E’ necessario che noi vediamo e conosciamo, in verità, con la luce della fede, che Dio è l’Amore supremo ed eterno, e non può volere altro se non il nostro bene» (Ep. 13 in: Le Lettere, vol. 3, Bologna 1999, 206).
[Papa Benedetto, Angelus 29 gennaio 2012]
Non è qui il luogo di citare le conferme che percorrono l’intera storia dell’umanità. Certo è che fin dai tempi più antichi il dettame della coscienza indirizza ogni soggetto umano verso una norma morale oggettiva, che trova espressione concreta nel rispetto della persona dell’altro e nel principio di non fare a lui quello che non si vuole sia fatto a sé [41].
[41] «La legge morale – ha lasciato detto Confucio – non è lontana da noi... L’uomo saggio non sbaglia molto in quanto riguarda la legge morale. Egli ha per principio: non fate agli altri quello che non vorreste che gli altri facessero a voi» (Tchung-Yung – Il giusto Mezzo, 13). Un antico maestro giapponese (Dengyo Daishi, detto anche Saicho, vissuto tra il 767-822 d.C.) esorta a essere «dimentichi di se stessi, benefici verso gli altri, perché qui sta il vertice dell’amicizia e della compassione» (cfr. W. Th. De Bary, Sources of Japanese Tradition, New York 1958, vol. I, 127). E come non ricordare il Mahatma Gandhi, il quale ha inculcato la «forza della verità» (satyagraha) che vince senza violenza, col dinamismo proprio che è intrinseco all’azione giusta?
[Papa Giovanni Paolo II, Dilecti Amici n.7]
Due atteggiamenti dei cristiani tiepidi — «mettere Dio all’angolo e lavarsene le mani» — sono pericolosi: perché «è come sfidare Dio». Se il Signore mettesse noi all’angolo «non entreremmo mai in Paradiso» e guai se poi «se ne lavasse le mani, con noi». Papa Francesco, nell’omelia della messa del mattino a Casa Santa Marta, ha riletto così lunedì 16 dicembre il Vangelo di Matteo proposto dalla liturgia: quello sul dialogo tra Gesù e i capi dei sacerdoti, che gli chiedono con quale autorità insegni nel tempio.
Gesù, ricorda il Pontefice, esortava la gente, la guariva, insegnava e faceva miracoli, e così innervosiva i capi dei sacerdoti, perché con la sua dolcezza e la dedizione al popolo attirava tutti verso di sé. Mentre loro, i funzionari, erano rispettati dalla gente, che però non li avvicinava «perché non aveva fiducia in loro». Quindi si accordano «per mettere Gesù all’angolo». E gli domandano, ha proseguito Francesco: «Con quale autorità tu fai queste cose?». Infatti «tu non sei un sacerdote, un dottore della legge, non hai studiato nelle nostre università. Non sei niente».
Gesù, con intelligenza, risponde con un’altra domanda e mette i capi dei sacerdoti “all’angolo”, chiedendo loro se Giovanni il Battista battezzava con un’autorità che gli veniva dal cielo, cioè da Dio o dagli uomini. Matteo descrive il loro ragionamento, riletto dal Pontefice «Se noi diciamo: “Dal cielo”, ci dirà: “Perché non avete creduto?”; se diciamo: “Dagli uomini”, la gente verrà contro di noi». E se ne lavano le mani e dicono: “Non sappiamo”. Questo, ha commentato il Santo Padre, «è l’atteggiamento dei mediocri, dei bugiardi della fede».
«Non solo Pilato se ne lavò le mani», ha spiegato il Papa, anche questi se ne lavano le mani: «Non sappiamo». Questo significa, ha proseguito Francesco, «non entrare nella storia degli uomini, non coinvolgersi nei problemi, non lottare per fare il bene, non lottare per guarire tanta gente che ha bisogno... “Meglio di no. Non sporchiamoci”».
Per questo, ha chiarito il Pontefice, Gesù risponde «con la stessa musica: “Neppure io vi dico con quale autorità faccio questo”». Infatti «questi sono due atteggiamenti dei cristiani tiepidi», ha ricordato Francesco, «di noi — come diceva mia nonna — “cristiani all’acqua di rosa”; cristiani così: senza consistenza». Da cui deriva, ha spiegato il Pontefice, quell’atteggiamento di «mettere nell’angolo Dio: “O mi fai questo o non andrò più in una chiesa”».
L’altro atteggiamento di tiepidezza, ha continuato il Papa, è lavarsene le mani, come «i discepoli di Emmaus quella mattina della Risurrezione»: vedono le donne «tutte gioiose perché avevano visto il Signore», ma non si fidano, perché le donne «sono troppo fantasiose»; e perciò se ne lavano le mani e così entrano nella confraternita «di San Pilato».
«Tanti cristiani — ha denunciato allora Papa Francesco — se ne lavano le mani davanti alle sfide della cultura, alle sfide della storia, alle sfide delle persone del nostro tempo; anche davanti alle sfide più piccole». Quante volte, ha ricordato, «sentiamo il cristiano tirchio davanti a una persona che chiede elemosina e non la dà: “No, no io non do perché poi questi si ubriacano”. Se ne lava le mani». E a chi replica, ha proseguito il Pontefice «“Ma non ha da mangiare... – “Fatti suoi: io non voglio che si ubriachi”. Lo sentiamo tante volte, tante volte».
«Mettere Dio all’angolo e lavarsene le mani — è stato dunque l’ammonimento del Pontefice — sono due atteggiamenti pericolosi, perché è come sfidare Dio. Pensiamo cosa accadrebbe se il Signore ci mettesse all’angolo. Mai entreremmo nel Paradiso. E cosa accadrebbe se il Signore se ne lavasse le mani con noi? Poveracci». Sono, conclude Papa Francesco, «due atteggiamenti ipocriti di educati».
«No, questo no. Non mi immischio», così il Papa ha dato voce agli educati ipocriti, «metto all’angolo la gente, perché è gente sporca», mentre «io davanti a questo me ne lavo le mani perché sono fatti loro». Da qui l’invito finale di Francesco a vedere «se in noi c’è qualcosa del genere»; e se c’è a cacciare via «questi atteggiamenti per fare strada al Signore che viene».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/12/2019]
La crisi dello spirito titanico
(Mt 11,2-11)
«Che cosa siete usciti a contemplare nel deserto? Ma che cosa siete usciti a vedere?» (vv.7.8.9).
Il Signore vuole aiutarci a prendere coscienza profonda del tratto di strada percorso e di ciò che ancora ci sta davanti.
Non siamo già in possesso della Salvezza. C’è da riflettere sul vero Esodo ancora da fare.
Battista e Gesù non hanno mai frequentato i palazzi di corte. Questo è chiaro (v.8).
Lo spirito edonista o di domesticazione blandisce e ci attrae, ma attutisce e snerva la franchezza, la vitalità di ogni cammino.
Invece Cristo propone un altro movimento di Conversione: uno scavo ulteriore, che distingue la sua proposta anche da quella del Precursore.
«In verità vi dico, non è sorto tra i nati di donne uno più grande di Giovanni, il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (v.11).
Per un percorso di crescita autentica e finalmente matura - figli nel Figlio - è opportuno liberarsi da ogni modello di perfezione.
Adottare una via unilaterale non conduce ad alcuna fioritura, piuttosto a rattrappire le cose.
Nell’itinerario positivo (e intimo) non c’è una strada sola. La vita è varietà, mutamento, esperienza di risuscitazione.
In tale orizzonte, gli intoppi maggiori nel corrispondere alla personale Chiamata per Nome nascono proprio dalle identificazioni.
I riconoscimenti risoluti sono sempre artificiosi. Essi non ci svegliano da situazioni paludose, né lasciano che ritroviamo l’oro delle misteriose, intime, sapienti inclinazioni.
L’esistenza e le stesse persone infatti non sono bianco o nero. E il percorso della Vita nello Spirito accetta le sfumature di carattere.
Esse talora possono apparire come fossero note confusionarie, tipiche di personalità da correggere. Così s’immaginava fino a non molto tempo fa; situazione che però tendeva a impoverire e livellarci.
L’idea devota antica - che tanto ci ha condizionati - era infatti legata al primato della “coerenza” morale esterna [corrispondenza tra idee e azioni].
A questo pensiero banale Cristo sostituisce tutt’altro focus: la corrispondenza tra stati interiori e loro manifestazione.
Insomma, un «piccolo nel regno dei cieli» può anche essere un disadattato e perturbante, un eccentrico e riprovevole inquieto - che però vorrebbe crescere.
Quindi non copre le proprie lotte interne.
Non di rado i sorrisi di circostanza, i moralismi, o le stesse buone maniere, velano idee, pulsioni, abitudini opposte che in qualche modo, prima o poi, troveranno una loro strada per diventare protagoniste.
Per non parlare - anche in religione - degli atteggiamenti dirigisti, i quali appunto non si sa bene quale “doppio” nascondano.
Non sono essi la vera linearità, ordine autentico; tantomeno “disciplina”.
Il Maestro sogna che i suoi apostoli si allontanino da giudizi temerari e ideali astratti. Troppo facili. Non fanno percepire in modo nitido.
Insomma, dobbiamo sospendere i luoghi comuni sull’amore verso Dio e gli altri, così l’opinione corriva su noi stessi - nonché i pareri assorbiti.
I contrasti sono naturali.
I disagi sono il linguaggio primordiale dell’anima che ci chiama a girare lo sguardo, per attivare lo spirito verso nuovi sentieri da esplorare.
Solo in tale Esodo approderemo alla Terra Promessa, terra vergine tutta da scoprire. Da rifare ogni giorno.
Non tagliando in orizzontale le Radici, bensì partendo da esse.
[3.a Domenica Avvento (anno A) Gaudete, 14 dicembre 2025]
(Mt 11,2-11)
La Crisi dello spirito titanico. Perplessità del Battista
(Mt 11,2-6)
È la cosiddetta crisi del Battista. In fondo, è il crocevia della nostra stessa esperienza nella crescita della Fede.
Il nome Giovanni significa Dio-è-misericordioso, ma qui l’ultimo dei profeti antichi e battistrada del Cristo prova scandalo per la Misericordia eccessiva: senza condizioni.
Gesù compie tutti segni positivi, di recupero. Nessuna condanna, nessun castigo: questa la Parola prodigiosa!
Il popolo dei giusti è ora di altra natura - sconcertante, in quanto si compone anche di miscredenti.
Come per Zaccheo-Matteo [Lc 19,1-10]: chi si vergogna di farsi vedere e presentarsi non è messo in castigo, ma viene riqualificato in società.
Le viscere di Misericordia di Dio pongono vita in coloro che l’hanno smarrita.
Cristo non spezza, aggiusta: persino chi si ritrova fuori strada “secondo religione” - e si sente ripugnante, repellente anche a se stesso.
Censura la vendetta (v.5) degli oracoli messianici del Primo Testamento [cf. Is 29,20s. 61,2]: perché l’autentica «Terra che darà alla luce le ombre» (Is 26,19), il vero «suolo riarso che diventa sorgenti d’acqua» [Is 35,7 - non si capisce perché escluso dalla liturgia] non sarà dirigista né forense.
Neanche noi forse ci aspetteremmo tante posizioni di premura, ma il Maestro butta tutto all’aria e sostituisce le appariscenze del Santuario di pietra.
Un rovesciamento sacrale: perché di fatto in esso si promuoveva una mentalità sleale, opportunista, corrotta, senza scrupoli.
Modo di concepire utile a commedianti astuti, ai forti e agli svelti; umiliante per i fuori del giro.
Non un Regno di Dio si rintanava lì, bensì il campo dei “grandi”, che infine piegavano dove tirava il vento - in alcuni casi di manipolazione, ancora oggi talora espropriando le persone di se stesse.
Nessuno si sarebbe atteso una ripulitura di tutte le tossine spirituali che andavano a configurare la vita pia di coloro che amano la forza.
Gesù recuperava in leggerezza, perché la sua Parola, le Opere e l’alto Discernimento risvegliavano i lati più personali.
I caratteri propri non conducevano le persone a rimpiangere reami.
L’intima vocazione invita a coinvolgersi - accendendo l’amore che cambia pagina, non che pianta rabbiosamente nelle trappole del timore.
La Chiamata per Nome svincola dalle pastoie di accalappiamenti artificiosi, che impediscono di proseguire in naturalezza.
Privo di spirito titanico, il nuovo Rabbi risvegliava risorse e coraggio che i minimi neanche sospettavano di avere in dono inespresso.
Senza posa il Maestro ne stimolava il contributo eccezionale - addirittura decisivo - alla storia della Salvezza.
Egli assecondava gli slanci di coloro che l’opinione devota comune considerava malati o squilibrati, perché non conformi - ma che avevano in dote punti davvero ricchi di sfaccettature.
Volti caldi e propulsivi.
Il giovane Maestro favoriva i sogni di trasformazione, non solo di ricovero - tutti col solito colore (pigiama, o armatura).
Accoglieva lo sprigionarsi di lati naturali e altre individuazioni, più eleganti e morbide, o strambe, affascinanti d’unicità.
Insegnava non a rinunciare e progettare e praticare, bensì ad ascoltare, accogliere e accogliersi - aspettando le nuove energie: profili suscitati dal momento di necessità, dal contatto con i propri stati profondi.
Non riduceva il senso del Mistero recato dal tempo opportuno, o dagli stessi fastidi che ci forniscono preziose indicazioni [più del boomerang di volontarismi ascetici, tanto ideali quanto artificiosi].
Faceva riscoprire il fascino convincente della bellezza della vita dai toni tenui, senza l’esagerazione di continue tinte forti.
Lacerazioni a quel tempo anche suscitate dal nazionalismo che accentuava le ferite e alterava gli equilibri della Famiglia umana, sulla quale il Padre sognava viceversa di “riposare”.
Ebbene, Cristo elogiava anche la lentezza dei meno rabbiosi. Perché il ritmo blando faceva emergere la radice interiore, la specifica Missione e sembianza anche dei senza voce.
In tal guisa, non con atti perentori di muscolo, bensì spontaneamente, da dentro.
Tutto ciò, con una trasparente e sacra genuinità - a partire dalla custodia della propria Chiamata qualitativa, portata a consapevolezza senza troppi colpi di genio o di reni.
Solo quando pronti.
Stimolava la scoperta dei codici dell’inaspettato, sapendo attendere nuove prontezze e valutando… perché chi inizia a vedere la propria vicenda con occhi nuovi, è già sulla soglia del cambiamento.
Accontentarsi tutti della vecchia canzone [o accodarsi all’inno glamour] non avrebbe sviluppato il vaglio di larghi orizzonti e modi, rigeneranti anche se solo portati in cuore.
Ci si sarebbe accontentati di qualche fantasia disincarnata, o d’un ritorno nel solito villaggio antico, ovvero poco altrove.
La pesantezza d’idee e conformismi, luoghi comuni, tradizioni, sensi di colpa, attivismi e giudizi moralisti, ingabbiava le personalità.
Mai prima di Cristo le persone sottoposte avrebbero immaginato l’Altissimo diversamente da un vampiro energetico e spirituale, ricolmo di programmi e aspettative di perfezione formale.
Invece, grazie al Figlio potevano scoprire che il Padre benedice il recupero personale e sociale degli opposti.
Proprio le eccentricità ci completano, e danno stimoli [non solo ornamentali] alla convivialità delle differenze.
Dire ad esempio: “questa è la nostra cultura e modo di fare!” oppure “bisogna fare questo e mostrarsi à la page” limita le facoltà operative e inedite, non fa trasalire né stupire nessuno.
Anzi, l’unilateralità sempre accentua l’inimicizia esterna e interiore, limita le conquiste e l’indipendenza d’azione (piantata sulle discrepanze).
Gesù ha invitato anche il Battista ad accendere il suo mondo interno e cambiare sguardo - perché fissando solo i problemi e i controlli non si vedono più le soluzioni.
Non si torna come bambini; non si trasforma gli intrusi in gioielli. Non s’incontra la propria parte infinita.
Insomma, voleva che facesse lui in prima persona quella Conversione dalla religiosità alla Fede che predicava agli altri.
Le Radici: il vero Amico, e il grande nemico
Battista, Gesù, le corti: differenze di esodo
«Che cosa siete usciti a contemplare nel deserto? Ma che cosa siete usciti a vedere?» (vv.7.8.9).
Il Signore vuole aiutarci a prendere coscienza profonda del tratto di strada percorso e di ciò che ancora ci sta davanti.
Non siamo già in possesso della Salvezza. C’è da riflettere sul vero Esodo ancora da fare.
Battista e Gesù non hanno mai frequentato i palazzi di corte. Questo è chiaro (v.8).
Lo spirito edonista o di domesticazione blandisce e ci attrae, ma attutisce e snerva la franchezza, la vitalità di ogni cammino.
Invece Cristo propone un altro movimento di Conversione: uno scavo ulteriore, che distingue la sua proposta anche da quella del Precursore.
«In verità vi dico, non è sorto tra i nati di donne uno più grande di Giovanni, il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (v.11).
Per un percorso di crescita autentica e finalmente matura - figli nel Figlio - è opportuno liberarsi da ogni modello di perfezione.
Adottare una via unilaterale non conduce ad alcuna fioritura, piuttosto a rattrappire le cose.
Nell’itinerario positivo (e intimo) non c’è una strada sola. La vita è varietà, mutamento, esperienza di risuscitazione.
In tale orizzonte, gli intoppi maggiori nel corrispondere alla personale Chiamata per Nome nascono proprio dalle identificazioni.
I riconoscimenti risoluti sono sempre artificiosi. Essi non ci svegliano da situazioni paludose, né lasciano che ritroviamo l’oro delle misteriose, intime, sapienti inclinazioni.
L’esistenza e le stesse persone infatti non sono bianco o nero. E il percorso della Vita nello Spirito accetta le sfumature di carattere.
Esse talora possono apparire come fossero note confusionarie, tipiche di personalità da correggere. Così s’immaginava fino a non molto tempo fa; situazione che però tendeva a impoverire e livellarci.
L’idea devota antica - che tanto ci ha condizionati - era infatti legata al primato della “coerenza” morale esterna [corrispondenza tra idee e azioni].
A questo pensiero banale Cristo sostituisce tutt’altro focus: la corrispondenza tra stati interiori e loro manifestazione.
Insomma, un «piccolo nel regno dei cieli» può anche essere un disadattato e perturbante, un eccentrico e riprovevole inquieto - che però vorrebbe crescere. Quindi non copre le proprie lotte interne.
Non di rado i sorrisi di circostanza, i moralismi, o le stesse buone maniere, velano idee, pulsioni, abitudini opposte che in qualche modo, prima o poi, troveranno una loro strada per diventare protagoniste.
Per non parlare - anche in religione - degli atteggiamenti dirigisti, i quali appunto non si sa bene quale “doppio” nascondano. Non sono essi la vera linearità, ordine autentico; tantomeno “disciplina”.
Il Maestro sogna che i suoi apostoli si allontanino da giudizi temerari e ideali astratti. Troppo facili. Non fanno percepire in modo nitido.
Insomma, dobbiamo sospendere i luoghi comuni sull’amore verso Dio e gli altri, così l’opinione corriva su noi stessi - nonché i pareri assorbiti.
I contrasti sono naturali. I disagi sono il linguaggio primordiale dell’anima che ci chiama a girare lo sguardo, per attivare lo spirito verso nuovi sentieri da esplorare.
Solo in tale Esodo approderemo alla Terra Promessa, terra vergine tutta da scoprire. Da rifare ogni giorno.
Non tagliando in orizzontale le Radici, bensì partendo da esse.
Un concetto diverso
1. Nelle catechesi precedenti abbiamo cercato di mostrare gli aspetti più rilevanti della verità sul Messia così come essa è stata preannunziata nell’antica alleanza, e così come è stata ereditata dalla generazione dei contemporanei di Gesù di Nazaret, entrati nella nuova tappa della rivelazione divina. Di questa generazione, coloro che hanno seguito Gesù, lo hanno fatto perché convinti che in lui si è compiuta la verità sul Messia: che proprio lui è il Messia, il Cristo. Significative sono le parole con cui Andrea, il primo degli apostoli chiamati da Gesù, annuncia a suo fratello Simone: “Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)” (Gv 1, 41).
Si deve però riconoscere che le constatazioni così esplicite sono piuttosto rare nei Vangeli. Ciò è dovuto anche al fatto che nella società israeliana di quei tempi era diffusa un’immagine di Messia al quale Gesù non volle adattare la sua figura e la sua opera, nonostante lo stupore e l’ammirazione suscitati da tutto ciò che egli “fece e insegnò” (At 1, 1).
2. Sappiamo anzi che lo stesso Giovanni Battista, il quale sulle rive del Giordano aveva indicato Gesù come “colui che doveva venire” (cf. Gv 1, 15.30), avendo con spirito profetico visto in lui “l’agnello di Dio” venuto per togliere i peccati del mondo, Giovanni che aveva preannunziato il “nuovo battesimo” che Gesù avrebbe conferito con la forza dello Spirito, quando già si trovava in prigione mandò i suoi discepoli a porre a Gesù la domanda: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?” (Mt 11, 3).
3. Gesù non lascia senza risposta Giovanni e i suoi messaggeri: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella” (Lc 7, 22). Con questa risposta Gesù intende confermare la sua missione messianica ricorrendo in particolare alle parole di Isaia (cf. Is 35, 4-5; 61, 1). E conclude: “Beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!” (Lc 7, 23). Queste ultime parole suonano come un richiamo indirizzato direttamente a Giovanni, suo eroico precursore, il quale aveva del Messia un concetto diverso.
Infatti nella sua predicazione Giovanni aveva delineato la figura del Messia come quella di un giudice severo. In questo senso aveva parlato dell’“ira imminente”, della “scure già posta alla radice degli alberi” (cf. Lc 3, 7.9), per tagliare ogni pianta “che non porta buon frutto” (Lc 3, 9). Certamente Gesù non avrebbe esitato a trattare con fermezza e anche con asprezza, quando necessario, l’ostinazione e la ribellione alla parola di Dio, ma egli sarebbe stato soprattutto l’annunziatore della “buona novella ai poveri” e con le sue opere e i suoi prodigi avrebbe rivelato la volontà salvifica di Dio, Padre misericordioso.
4. La risposta che Gesù dà a Giovanni presenta anche un altro elemento che è interessante rilevare: Egli evita di proclamarsi apertamente Messia. Nel contesto sociale del tempo, infatti, tale titolo risultava molto ambiguo: la gente comunemente lo interpretava in senso politico. Gesù preferisce perciò rimandare alla testimonianza offerta dalle sue opere, desideroso maggiormente di persuadere e di suscitare la fede.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 4 marzo 1987]
3. Nella dottrina di Giovanni, preannunciatrice di quella di Gesù, emerge una visione fondamentalmente positiva della società, delle classi e delle professioni: nessuna di esse esclude dalla salvezza, se ci s’impegna a praticare la giustizia e la carità. Tuttavia il Battista è severo, persino rude, nel suo annuncio del Cristo che verrà col ventilabro a pulire l’aia e a mettere la scure alle radici. Si tratta di un messaggio schietto e forte che delinea i nuovi rapporti di giustizia tra gli uomini.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus dicembre 1990]
La Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa
Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l'evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d'amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell'amore. Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare «le grandi opere di Dio» [41], che l'hanno convertita al Signore, e d'essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d'essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo. Il Concilio Vaticano II ha ricordato [42] e il Sinodo del 1974 ha fortemente ripreso questo tema della Chiesa che si evangelizza mediante una conversione e un rinnovamento costanti, per evangelizzare il mondo con credibilità.
[40] Cfr. Act. 2, 42-46; 4, 32-35; 5, 12-16
[41] Cfr. Ibid. 2, 11; 1 Petr. 2, 9
[42] Cfr. Ad Gentes, 5, 11, 12: AAS 58, 1966, pp. 951-952, 959-961
[Papa Paolo VI, Evangelii Nuntiandi n.15]
Il grande Battezzatore, più piccino del Minimo
E perché Elia
(Mt 11,11-15)
S. Agostino affermava: «In Vetere Testamento Nuvum latet, in Novo Testamento Vetus patet». Ma a un diverso livello.
È vero che il messaggio del secondo Patto sorge dall’humus del primo, così come il nuovo rivela il senso ed è culmine dell’antico.
È anche accertato che nell’arco della storia della Redenzione il Battista sia stato un crocevia di proposte radicali, inattese, dirimenti.
Aveva rifiutato di far parte della classe sacerdotale, corrotta e refrattaria alle novità dello Spirito.
Predicava la giustizia sociale, nonché il perdono dei peccati fuori del Tempio - grazie a un cambiamento di mentalità che si dispiegasse nella vita reale.
Già secondo Giovanni, fattore di salvezza non poteva essere un rito formale, bensì la conversione concreta e di relazione: ad es. il non pensare più solo a se stessi.
Ma non ha rivelato - come il Figlio - la profondità del cuore del Padre.
Credeva che l’opera dei nuovi profeti dovesse fare giustizia immediata (sommaria...).
Sognava di poter recuperare l’incontaminatezza e la forza antiche, rabberciando gl’ingredienti della religione dei padri; insomma, di tornare alle origini.
Tutto, purificando e aggiornando il gran Tempio - non soppiantandolo nella sua configurazione giuridico-teologica.
Secondo Gesù invece, essa permaneva radicalmente deviante, perché incline alla forza e incapace di valorizzare fragilità e insicurezze.
Il Dio delle credenze arcaiche disdegnava le contraddizioni. Veniva a sentenziare e castigare secondo un freddo codice, tanto ideale quanto distante da ciascuno [anche dei suoi stessi credenti].
Ma un Altissimo sovrano che non ha cura delle persone deboli o delle cose che non piacciono, non sembra amabile: innesca e accentua i meccanismi settari della devozione competitiva, ansiogena, avvilente.
E il problema «Dove trovo la fiducia?» non ha riscontro; non si sposta di un millimetro.
Ebbene, non possiamo trarre energia da un’impostazione severa, purista, forzata e sterilizzante; contraria alla fioritura della nostra preziosa Unicità.
Le continue mortificazioni delle eccentricità che renderebbero fantastici, demotivano.
Chiusi nelle armature che non ci appartengono, diventiamo arcigni, nemici della vita, invece che eccezionali, unici, rigogliosi.
Per questo Gesù annuncia la novità di un Regno da «accogliere».
Non da allestire con sudori e preparare con sforzo, secondo dettati culturali, legalisti, esterni, ma appunto da ospitare e includere; perché spiazza, travalica, sbalordisce.
Gli occhi nuovi per scoprire il senso di tutto un cammino sono trasmessi solo da colui che è Amico.
E Cristo lo fa non quando ci collochiamo bene o attrezziamo forte - permanendo in atteggiamento dirigista - bensì nell’ascolto totale (v.15).
In tal senso Giovanni è inferiore a qualsiasi ultimo degli ultimi e senza peso (v.11) che si presenta alla soglia delle comunità.
Costui vuol godere della vita fraterna, e apprendere come interiorizzare il passaggio dal senso religioso alla Fede, alla fioritura di sé, all’Amore.
Anche l’idea del Battezzatore circa il Messia non era quella del Cristo disposto ad abbracciare, recuperare, valorizzare e prediligere persino i senza voce, o i lontani considerati impuri.
Il nostro Maestro e Fratello è viceversa propugnatore di opere di sola vita con pienezza di Felicità (vv.2-6). Non di rudezze e cruda mortificazione - propria e dei nemici - o accuse.
Per Gesù i mikròi (v.11) - ossia i minimi, estranei e pitocchi - portano in cuore e nel Regno il germe della novità dei cieli squarciati per sempre.
Malgrado abbiano scarsa energia, essi recano la colomba di pace [Matteo 3,16; Marco 1,10; Luca 3,22].
Icona di una energia non più aggressiva, sebbene la subiscano (versetto 12) [Luca 16,16].
Per questo alla personalità distinta del grande e celebre Santo del deserto e del Giordano - incensurato conquistatore di folle - il Figlio di Dio può anteporre non un suo veterano, ma un qualsiasi inesperto, nuovo, claudicante, peccatore; reso libero perché rigenerato.
Questa la nuova era, dove più nessuno è additato e sotto assedio. Il Regno differente è quello di attese non istituzionali (talora da sbadiglio).
Gli stati creativi di qualsiasi infante - fuori dal giro, ma sensibile - sono accolti e risvegliati, invece che tirati da una parte e messi a tacere.
L’autentico motore della storia è in una dedita ma aperta e tranquilla potenza spontanea, naturale, innata.
Sia nei rovesci (anche epocali) che nella ricerca dello sviluppo umano integrale, o nell’incessante ricerca della pace, tale attitudine battesimale sa riprendere da zero.
«Se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi» [cf. enciclica Fratelli Tutti n.235] non dai già realizzati.
L’energia dimessa è infatti la tipica risorsa persino del meno capace e più irrilevante dei discepoli autentici.
Unica virtù, e impareggiabile spirito che non decurta spazio all’esistenza.
Anzi, scioglie i veri nodi e non impoverisce le cose.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa, per te significa tutto?
E valore aggiunto?
E se il più piccolo del Regno fosse Gesù stesso?
Che tu sia misero e incapace di trionfare, lo consideri un nulla... o ti blocca?
La comunità accoglie i tuoi desideri o li tira da una parte?
Perché Elia
Al tempo, nell’area palestinese le difficoltà economiche e la dominazione romana costringevano le persone a ripiegare su un modello di vita individuale.
I problemi di sussistenza e assetto sociale avevano avuto come conseguenza uno sgretolamento della vita di relazione (e legami) sia di clan che nelle stesse famiglie.
Nuclei accorpanti, che avevano sempre assicurato assistenza, sostegno e difesa concreta ai membri più deboli e in difficoltà.
Tutti si attendevano che la venuta di Elia e del Messia potesse avere un esito positivo nella ricostruzione della vita fraterna, allora intaccata.
Come si diceva: «ricondurre il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» [Mal 3,22-24 annunciava proprio l’invio di Elia] per ricostruire la convivenza disintegrata.
Ovviamente il recupero del senso d'identità interno del popolo era malvisto dal sistema di dominazione. Figuriamoci la cifra gesuana della Chiamata per Nome, che avrebbe spalancato la vita pia popolare a mille possibilità.
Giovanni aveva predicato con forza un ripensamento dell’idea di libertà conquistata (passaggio del Giordano), il riassetto delle idee religiose consolidate (conversione e perdono dei peccati nella vita reale, fuori del Tempio) e giustizia sociale.
Avendo un progetto evoluto di riforma nella solidarietà (Lc 3,7-14), in pratica era il Battezzatore stesso che aveva già svolto la missione dell’Elia atteso [Mt 17,10-12; Mc 9,11-13].
Per questo motivo era stato tolto di mezzo: poteva riassemblare tutto un popolo di estromessi - emarginati sia dal giro del potere che della religiosità verticista, accomodante, servile, e collaborazionista.
Una devozione a compartimenti stagni, che non consentiva assolutamente né il “ricordo” di se stessi, né dell’antico assetto sociale comunitario, incline alla condivisione.
Insomma, il sistema di cose, interessi, gerarchie, forzava a radicarsi in quella configurazione insoddisfacente. Ma ecco Gesù, che non si piega.
Chi ha il coraggio d’intraprendere un cammino di spiritualità biblica e di Esodo impara ad apprendere che ciascuno ha un modo differente di scendere in campo e stare nel mondo.
Allora, esiste un saggio equilibrio tra rispetto di sé, del contesto, e altrui?
Gesù viene presentato da Mt alle sue comunità come Colui che ha voluto continuare l’opera di edificazione del Regno, sia sotto il profilo della qualità vocazionale che per quanto concerne la ricostruzione della coesistenza.
Con una differenza fondamentale: rispetto al portato delle concezioni etnico-religiose, il Maestro non propone a tutti una sorta di ideologia di corpo, che finisce per spersonalizzare i Doni eccentrici dei deboli - quelli imprevedibili per una mentalità consolidata, ma che tracciano futuro.
In clima di clan rinsaldato, non di rado sono proprio i senza peso e coloro che conoscono solo abissi (e non vertici) a venire come spinti all’assenso di una conformazione rassicurante d’idee - invece che dinamica - e fucina di accoglienza più larga.
Quanti non conoscono vette ma solo povertà, proprio nei momenti di crisi sono i primi invitati dalle circostanze avverse ad oscurare il proprio sguardo sull’avvenire.
I miseri restano gl’impossibilitati a guardare in un’altra direzione e spostarsi, tracciando un diverso destino - proprio a causa di tare esterne a loro: culturali, di tradizione, di reddito, o “spirituali”.
Tutte caselle riconoscibili, forse talora non allarmanti, ma lontane dalla nostra natura.
E subito: con la condanna a portata di giudizio comune [per mancata omologazione].
Sentenza che vuole tarpare le ali, annientare l’atmosfera nascosta e segreta che appartiene davvero all'unicità personale, e condurci tutti - anche in modo esasperato.
Il Signore propone una vita assembleare di carattere, ma non ostinata né targata - non disattenta... come nella misura in cui viene costretta ad andare nella medesima rotta antica di sempre. O nella stessa direzione dei capitribù.
Cristo vuole una collaborazione più rigogliosa, che faccia utilizzare bene le risorse (interne e non) e le differenze.
Assetto per l’inedito: nel modo che ad es. le cadute o le inesorabili tensioni non vengano camuffate - anzi, diventino opportunità, sconosciute e impensabili ma assai feconde di vita.
Qui anche le crisi diventano importanti, anzi fondamentali per far evolvere la qualità dello stare accanto - nella ricchezza del «poliedro» che come scrive Papa Francesco «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» [Evangelii Gaudium n.236].
Senza rigenerarsi, solo ripetendo e ricalcando modalità collettive - da modello sfera (ibidem) - o altrui, ossia da nomenclatura, non personalmente rielaborate o valicate, non si cresce; non ci si dirige verso la propria irripetibile missione.
Non si colma il senso lacerante di vuoto.
Tentando di manipolare caratteri e personalità per guidarle al “come devono essere”, non si sta bene con se stessi e neppure fianco a fianco. Non si trasmette ai tanti diversi la percezione di stima e adeguatezza, né il senso di benevolenza - tantomeno gioia di vivere.
Le traiettorie curve o a tentativo ed errore si confanno alla Prospettiva del Padre, e alla nostra crescita irripetibile.
Differenza tra religiosità e Fede.
Per il suo Nome
(Regno di Dio, Regno messianico, Popolo divino convocato nella Chiesa)
1. Leggiamo nella Costituzione Lumen gentium del Concilio Vaticano II che “i credenti in Cristo (Dio) li ha voluti chiamare nella Santa Chiesa, la quale . . . preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza . . . è stata manifestata dalla effusione dello Spirito (Santo)” (Lumen Gentium, 2). A questa preparazione della Chiesa nell’antica Alleanza abbiamo dedicato la catechesi precedente, nella quale abbiamo visto che, nella progressiva coscienza che Israele prendeva del disegno di Dio attraverso le rivelazioni dei profeti e i fatti stessi della sua storia, si faceva sempre più chiaro il concetto di un futuro regno di Dio, ben più alto ed universale di ogni previsione circa le sorti della dinastia davidica. Oggi passiamo alla considerazione di un altro fatto storico, denso di significato teologico: Gesù Cristo dà inizio alla sua missione messianica con l’annuncio: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1, 15). Quelle parole segnano l’ingresso “nella pienezza del tempo”, come dirà San Paolo (cf. Gal 4, 4), e preparano il passaggio alla Nuova Alleanza, fondata sul mistero dell’incarnazione redentrice del Figlio e destinata ad essere Alleanza eterna. Nella vita e nella missione di Gesù Cristo il regno di Dio non solo “è vicino” (Lc 10, 9), ma è già presente nel mondo, già agisce nella storia dell’uomo. Lo dice Gesù stesso: “Il regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17, 21).
2. La differenza di livello e di qualità tra il tempo della preparazione e quello del compimento - tra l’antica e la nuova Alleanza - è fatta conoscere da Gesù stesso quando, parlando del suo precursore Giovanni Battista, così si esprime: “In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11, 11). Giovanni, dalle rive del Giordano (e dal suo carcere), certamente ha contribuito più di chiunque altro, anche più degli antichi profeti (cf. Lc 7, 26-27), alla immediata preparazione delle vie del Messia. Tuttavia egli rimane in un certo senso ancora sulla soglia del nuovo regno, entrato nel mondo con la venuta di Cristo e in via di manifestazione col suo ministero messianico. Soltanto per mezzo di Cristo gli uomini diventano i veri “figli del regno”: cioè del nuovo regno ben superiore a quello di cui i giudei contemporanei si ritenevano gli eredi naturali (cf. Mt 8, 12).
3. Il nuovo regno ha un carattere eminentemente spirituale (…)
4. Questa trascendenza del regno di Dio è data dal fatto che esso ha origine non da un’iniziativa soltanto umana, ma dal piano, dal disegno e dalla volontà di Dio stesso. Gesù Cristo, che lo rende presente e lo attua nel mondo, non è soltanto uno dei profeti mandati da Dio, ma il Figlio consostanziale al padre, che si è fatto uomo con l’Incarnazione. Il regno di Dio è dunque il regno del Padre e del suo Figlio. Il regno di Dio è il regno di Cristo; è il regno dei cieli che si sono aperti sulla terra per concedere agli uomini di entrare in questo nuovo mondo di spiritualità e di eternità (…)
Insieme con il Padre e con il Figlio, anche lo Spirito Santo opera per l’attuazione del Regno già in questo mondo. Gesù stesso lo rivela: il Figlio dell’uomo “scaccia i demoni per virtù dello Spirito di Dio”, e per questo “è certo giunto fra voi il regno di Dio” (Mt 12, 28) (…)
7. Il regno messianico, attuato da Cristo nel mondo, si rivela e precisa definitivamente il suo significato nel contesto della passione e morte in croce. Già all’entrata in Gerusalemme avviene un fatto, disposto da Cristo, che Matteo presenta come realizzazione di una predizione profetica, quella di Zaccaria sul “re che cavalca un asino, un puledro figlio di asina” (Zc 9, 9; Mt 21, 5). Nella mente del profeta, nell’intento di Gesù e nella interpretazione dell’evangelista, l’asinello significava mitezza e umiltà. Gesù era il re mite e umile che entrava nella città davidica, dove col suo sacrificio avrebbe realizzato le profezie sulla vera regalità messianica.
Questa regalità diventa ben chiara durante l’interrogatorio subìto da Gesù al tribunale di Pilato (…) quella davanti al governatore romano
8. È una dichiarazione che conclude tutta l’antica profezia che scorre lungo la storia d’Israele e diventa fatto e rivelazione in Cristo. Le parole di Gesù ci fanno afferrare i bagliori di luce che solcano l’oscurità del mistero condensato nel trinomio: Regno di Dio, Regno messianico, Popolo di Dio convocato nella Chiesa. Su questa scia di luce profetica e messianica, possiamo meglio capire e ripetere, con più chiara comprensione delle parole, la preghiera insegnataci da Gesù (Mt 6, 10): “Venga il tuo Regno”. È il regno del Padre, entrato nel mondo con Cristo; è il regno messianico che per opera dello Spirito Santo si sviluppa nell’uomo e nel mondo per risalire nel seno del Padre, nella gloria dei cieli.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 4 settembre 1991]
Cari fratelli e sorelle, accanto all’invito alla gioia, la liturgia odierna – con le parole di san Giacomo che abbiamo sentito - ci rivolge anche quello ad essere costanti e pazienti nell’attesa del Signore che viene, e ad esserlo insieme, come comunità, evitando lamentele e giudizi (cfr Gc 5,7-10).
Abbiamo sentito nel Vangelo la domanda del Battista che si trova in carcere; il Battista, che aveva annunciato la venuta del Giudice che cambia il mondo, e adesso sente che il mondo rimane lo stesso. Fa chiedere, quindi, a Gesù: “Sei tu quello che deve venire? O dobbiamo aspettare un altro? Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”. Negli ultimi due, tre secoli molti hanno chiesto: “Ma realmente sei tu? O il mondo deve essere cambiato in modo più radicale? Tu non lo fai?”. E sono venuti tanti profeti, ideologi e dittatori, che hanno detto: “Non è lui! Non ha cambiato il mondo! Siamo noi!”. Ed hanno creato i loro imperi, le loro dittature, il loro totalitarismo che avrebbe cambiato il mondo. E lo ha cambiato, ma in modo distruttivo. Oggi sappiamo che di queste grandi promesse non è rimasto che un grande vuoto e grande distruzione. Non erano loro.
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: “Sei tu?”. Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: “Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni”.
Cominciamo qui, nella nostra Parrocchia: San Massimiliano Kolbe, che si offre di morire di fame per salvare un padre di famiglia. Che grande luce è divenuto lui! Quanta luce è venuta da questa figura ed ha incoraggiato altri a donarsi, ad essere vicini ai sofferenti, agli oppressi! Pensiamo al padre che era per i lebbrosi Damiano de Veuster, il quale è vissuto ed è morto con e per i lebbrosi, e così ha portato luce in questa comunità. Pensiamo a Madre Teresa, che ha dato tanta luce a persone, che, dopo una vita senza luce, sono morte con un sorriso, perché erano toccate dalla luce dell’amore di Dio.
E così potremmo continuare e vedremmo, come il Signore ha detto nella risposta a Giovanni, che non è la violenta rivoluzione del mondo, non sono le grandi promesse che cambiano il mondo, ma è la silenziosa luce della verità, della bontà di Dio che è il segno della Sua presenza e ci dà la certezza che siamo amati fino in fondo e che non siamo dimenticati, non siamo un prodotto del caso, ma di una volontà di amore.
Così possiamo vivere, possiamo sentire la vicinanza di Dio. “Dio è vicino”, dice la Prima Lettura di oggi, è vicino, ma noi siamo spesso lontani. Avviciniamoci, andiamo alla presenza della Sua luce, preghiamo il Signore e nel contatto della preghiera diventiamo noi stessi luce per gli altri.
E questo è proprio anche il senso della Chiesa parrocchiale: entrare qui, entrare in colloquio, in contatto con Gesù, con il Figlio di Dio, così che noi stessi diventiamo una delle più piccole luci che Lui ha acceso e portiamo luce nel mondo che sente di essere redento.
Il nostro spirito deve aprirsi a questo invito e così camminiamo con gioia incontro al Natale, imitando la Vergine Maria, che ha atteso nella preghiera, con intima e gioiosa trepidazione, la nascita del Redentore. Amen!
[Papa Benedetto, omelia 12 dicembre 2010]
È signifìcativo che, quando i messi inviati da Giovanni Battista giunsero da Gesù per domandargli: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?» (Lc 7, 19), egli, rifacendosi alla stessa testimonianza con cui aveva inaugurato l'insegnamento a Nazaret, abbia risposto: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella», ed abbia poi concluso: «E beato è chiunque non si sarà scandalizzato di me!» (Lc 7, 22 s.).
Gesù, soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo ed abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la «condizione umana» storica, che in vari modi manifesta la limitatezza e la fragilità dell'uomo, sia fisica che morale. Appunto il modo e l'ambito in cui si manifesta l'amore viene denominato nel linguaggio biblico «misericordia».
Cristo quindi rivela Dio che è Padre, che è «amore», come si esprimerà nella sua prima lettera san Giovanni (1 Gv 4, 8.16); rivela Dio «ricco di misericordia», come leggiamo in san Paolo (Ef 2, 4). Tale verità, più che tema di un insegnamento, è una realtà a noi resa presente da Cristo. Il render presente il Padre come amore e misericordia è, nella coscienza di Cristo stesso, la fondamentale verifica della sua missione di Messia, lo confermano le parole da lui pronunciate prima nella sinagoga di Nazaret, poi dinanzi ai suoi discepoli ed agli inviati di Giovanni Battista.
[Dives in Misericordia n.3]
In questa terza Domenica di Avvento, detta domenica “della gioia”, la Parola di Dio ci invita da una parte alla gioia, e dall’altra alla consapevolezza che l’esistenza include anche momenti di dubbio, nei quali si fa fatica a credere. Gioia e dubbio sono entrambe esperienze che fanno parte della nostra vita.
All’esplicito invito alla gioia del profeta Isaia: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa» (35,1), si contrappone nel Vangelo il dubbio di Giovanni Battista: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). In effetti, il profeta vede al di là della situazione: egli ha davanti a sé gente scoraggiata: mani fiacche, ginocchia vacillanti, cuori smarriti (cfr 35,3-4). È la stessa realtà che in ogni tempo mette alla prova la fede. Ma l’uomo di Dio guarda oltre, perché lo Spirito Santo fa sentire al suo cuore la potenza della sua promessa, ed egli annuncia la salvezza: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, […] Egli viene a salvarvi» (v. 4). E allora tutto si trasforma: il deserto fiorisce, la consolazione e la gioia si impadroniscono degli smarriti di cuore, lo zoppo, il cieco, il muto sono risanati (cfr vv. 5-6). È ciò che si realizza con Gesù: «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5).
Tale descrizione ci mostra che la salvezza avvolge tutto l’uomo e lo rigenera. Ma questa nuova nascita, con la gioia che l’accompagna, sempre presuppone un morire a noi stessi e al peccato che è in noi. Da qui deriva il richiamo alla conversione, che è alla base della predicazione sia del Battista sia di Gesù; in particolare, si tratta di convertire l’idea che abbiamo di Dio. E il tempo dell’Avvento ci stimola a questo proprio con l’interrogativo che Giovanni Battista pone a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Pensiamo: per tutta la vita Giovanni ha atteso il Messia; il suo stile di vita, il suo stesso corpo è plasmato da questa attesa. Anche per questo Gesù lo elogia con quelle parole: nessuno è più grande di lui tra i nati di donna (cfr Mt 11,11). Eppure, anche lui ha dovuto convertirsi a Gesù. Come Giovanni, anche noi siamo chiamati a riconoscere il volto che Dio ha scelto di assumere in Gesù Cristo, umile e misericordioso.
L’Avvento è tempo di grazia. Ci dice che non basta credere in Dio: è necessario ogni giorno purificare la nostra fede. Si tratta di prepararsi ad accogliere non un personaggio da fiaba, ma il Dio che ci interpella, ci coinvolge e davanti al quale si impone una scelta. Il Bambino che giace nel presepe ha il volto dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi, dei poveri che «sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi» (Lett. ap. Admirabile signum, 6).
La Vergine Maria ci aiuti, perché, mentre ci avviciniamo al Natale, non ci lasciamo distrarre dalle cose esteriori, ma facciamo spazio nel cuore a Colui che è già venuto e vuole venire ancora a guarire le nostre malattie e a darci la sua gioia.
[Papa Francesco, Angelus 15 dicembre 2019]
Luke the Evangelist of the Poor celebrates the reversals of the situation: pharisee and tax collector, prodigal son and firstborn, samaritan and priest-levite, Lazarus and rich man, first and last place, Beatitudes and “woe to you”... so in the anthem of the Magnificat
Luca evangelista dei poveri celebra i ribaltamenti di situazione: fariseo e pubblicano, figlio prodigo e primogenito, samaritano e sacerdote-levita, Lazzaro e ricco epulone, primo e ultimo posto, Beatitudini e “guai”... così nell’inno del Magnificat
In these words we find the core of biblical truth about St. Joseph; they refer to that moment in his life to which the Fathers of the Church make special reference (Redemtoris Custos n.2)
In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa (Redemtoris Custos n.2)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situations
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses. He also teaches us that amid the tempests of life, we must never be afraid to let the Lord steer our course. At times, we want to be in complete control, yet God always sees the bigger picture» (Patris Corde, n.2)
«Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande» (Patris Corde, n.2)
Man is the surname of God: the Lord in fact takes his name from each of us - whether we are saints or sinners - to make him our surname (Pope Francis). God's fidelity to the Promise is realized not only through men, but with them (Pope Benedict).
L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome (Papa Francesco). La fedeltà di Dio alla Promessa si attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro (Papa Benedetto)
In the communities of Galilee and Syria the pagans quickly became a majority - elevated to the rank of sons. They did not submit to nerve-wracking processes, but spontaneously were recognizing the Lord
Nelle comunità di Galilea e Siria i pagani diventavano rapidamente maggioranza - elevati al rango di figli. Essi non si sottoponevano a trafile snervanti, ma spontaneamente riconoscevano il Signore
And thus we must see Christ again and ask Christ: “Is it you?” The Lord, in his own silent way, answers: “You see what I did, I did not start a bloody revolution, I did not change the world with force; but lit many I, which in the meantime form a pathway of light through the millenniums” (Pope Benedict)
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: “Sei tu?”. Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: “Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni” (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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