Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Il Signore ci benedica e la Vergine ci protegga!
VII Domenica del tempo Ordinario anno C (23 febbraio 2025)
Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)
Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. I testi dicono che «nessun figlio d’Israele era più bello di lui, e superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1 Sam 9,2). Era un contadino, originario di una famiglia semplice della tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Saul fu consacrato con l’unzione dell’olio e portava il titolo di “messia”. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11). Perché la Bibbia racconta questo episodio? Ci sono certamente diversi motivi. Anzitutto, l’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni. Davide risparmia un nemico pericoloso perché questi è stato, a suo tempo, l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato ovunque perché in lui è segnata l’immagine di Dio. Siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.
*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13
Questo salmo s’incontra più volte nei tre anni liturgici e possiamo ammirare il parallelismo dei versetti, una sorta di alternanza dei versi che si rispondono l’un l’altro. Sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, riga per riga o a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.” Più volte lo abbiamo notato: una delle grandi scoperte della Bibbia è che Dio è solo amore e perdono. Ed è proprio per questo che è così diverso da noi e costantemente ci sorprende. Quando il profeta Isaia afferma: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, dice Dio; le vostre vie non sono le mie vie” (55,6-8), invita a cercare il Signore mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. Invita l’empio ad abbandonare la sua via e l’uomo perverso i suoi pensieri, e aggiunge: “Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui, al nostro Dio che largamente perdona” - e aggiunge - ”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento. Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa accettare di rivedere quella persona, tendergli la mano, accoglierla comunque alla nostra tavola o nella nostra casa; significa rischiare un sorriso; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna, non è né dimenticanza né cancellazione di quanto è successo perché nulla lo cancellerà, sia che si tratti di un bene o di un male. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)
Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Solo nel Messia abita pienamente lo Spirito stesso di Dio, che guida ogni sua azione. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi, nella quale legge la vocazione dell’umanità, ma non la interpreta in modo storico. Per lui Adamo è un tipo di uomo o, meglio, un tipo di comportamento. Questa lettura può sembrarci insolita, ma dobbiamo abituarci a leggere i testi della creazione nella Genesi non come un resoconto degli eventi, bensì come racconti di vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato perché la Bibbia parla molto di più di Dio Creatore che della Creazione; parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” nel primo racconto (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” nel secondo racconto (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo ( cioè il Cristo) divenne spirito datore di vita.”
Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio. Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti”. E san Giovanni osserva: “Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1 Gv 3,2). L’immagine perfetta di Dio in Gesù Cristo, gli apostoli l’hanno vista sul volto di Cristo durante la Trasfigurazione.
Nota: il serpente strisciante per terra tenta l’umanità (Adamo – adam uomo collegato a adamah terra, non è il nome di una persona ma indica l’umanità intera fatta di terra Gn1,26-27) e il nome del serpente è nahash parola che può significare sia serpente che il dragone dell’Apocalisse: Gn3,15; Ap 12)
*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)
“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi. Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente, perché, come dice san Pietro , un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (cf 2 Pt 3,8) ed educa il suo popolo con tanta pazienza, come leggiamo nel Deuteronomio: “Come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te” (Dt 8,5). Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Riprendiamo il racconto del giardino dell’Eden: Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. Dio aveva infatti concepito Adamo come il re della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. Domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gn 1,26). E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore: «L’uomo diede un nome a tutti gli animali, agli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche; ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20). L’uomo non trovò il suo pari. Ma due capitoli dopo, troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»… «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio». E così il finale ci sorprende un po’: fino a questo punto, sebbene non fosse facile, almeno era logico. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate. Quanto alla frase: «La vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo», essa esprime la meraviglia che sperimentano coloro che si conformano all’ideale cristiano della mitezza e del perdono. È la profonda trasformazione che avviene in loro: perché hanno aperto la porta allo Spirito di Dio, e lui abita in loro e li ispira sempre di più. A poco a poco vedono compiersi in loro la promessa formulata dal profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26).
+Giovanni D’Ercole
Sintesi su richiesta: Commento breve.
Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)
Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. Era un contadino, originario di una famiglia semplice della tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11). L’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni e Davide risparmia un nemico pericoloso perché come re è l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato perché siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.
*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13
Questo salmo sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Perché Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe …”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento. Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)
Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi e vede Adamo come un tipo di comportamento perché il racconto della creazione nella Genesi non è il resoconto degli eventi, bensì il racconto di una vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato ma parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo ( cioè il Cristo) divenne spirito datore di vita.”
Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio. Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti.
*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)
“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi. Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente ed educa il suo popolo con tanta pazienza. Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore e non trovò il suo pari. Ma dopo troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»…. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate.
+Giovanni D’Ercole
(Mt 16,13-19)
Gesù guida i suoi intimi lontano dal territorio dell’ideologia di potere e dal centro sacro dell’istituzione religiosa ufficiale, affinché prendano distanza da condizionamenti e apprezzamenti.
[Il relativo successo ottenuto dal Maestro in Galilea aveva ravvivato le speranze degli apostoli].
Il territorio di Cesarea di Filippo, all’estremo nord della Palestina, era incantevole; celebre per fertilità e pascoli rigogliosi - zona famosa per la bellezza del contesto e la fecondità di greggi e armenti.
Anche i discepoli sono affascinati dal paesaggio e dalla vita agiata degli abitanti della regione; per non dire della magnificenza dei palazzi.
Cristo chiede agli apostoli - in pratica - cosa la gente si aspettasse da Lui - e così vuole si rendano conto degli effetti nefasti della loro stessa predicazione.
Il richiamo del contesto allude alle agiatezze che la religione pagana propone, e imbambolava i Dodici.
Mentre gli dèi mostrano di saper colmare di beni i loro devoti - e una sfarzosa vita di corte che (appunto) ammaliava tutti - Cristo cosa offre?
Il Maestro si accorge che i discepoli erano ancora fortemente condizionati dalla propaganda del governo politico e religioso (cf. vv.6.11), che assicurava benessere (vv.5-12; cf. Mt 15,32-38).
Gesù li istruisce ancora, affinché almeno i suoi più intimi possano superare la cecità, la crisi prodotta dalla sua Croce (v.21) e dall’impegno richiesto nell’ottica del dono di sé.
Egli non è solo un continuatore dell’atteggiamento limpido del Battista, mai incline al compromesso nei confronti delle corti e dell’opulenza; né uno dei tanti restauratori della legge di Mosè, con lo zelo di Elia.
Neppure voleva limitarsi a purificare la religione da elementi spuri, bensì ‘sostituirsi’ al Tempio (Mt 21,12-17.18-19.42; 23,2.37-39; 24,30) - luogo dell’incontro tra il Padre e i suoi figli.
Su tale questione, in quel momento erano particolarmente vive le distanze non solo col paganesimo, ma anche le contrapposizioni tra giudei convertiti al Signore e osservanti secondo tradizione.
Infatti, nei libri sacri del giudaismo tardivo si parlava di grandi personaggi che avevano lasciato un’impronta nella storia d’Israele, e avrebbero dovuto riapparire per inaugurare i tempi messianici.
Ma anche all’interno delle comunità perseguitate di Galilea e Siria di Mt si constatava una scarsa capacità di comprensione, e tutta la difficoltà d’abbracciare la nuova proposta che non garantiva gloria, né traguardi materiali.
Ci si rendeva conto che la Fede non si accordava facilmente con i primi impulsi umani: era sconcertante per le vedute ovvie e le sue pulsioni.
Così Gesù contraddice lo stesso Pietro (vv.20.23), la cui opinione restava legata all’idea conformista e popolaresca de «il» (vv.16.20: «quel») Messia atteso.
Da ciò il ‘segreto messianico’ imposto a chi lo predica in quel modo equivoco (v.20).
Il capo degli apostoli - debole nella Fede - deve smetterla di indicare a Cristo quale strada percorrere «dietro» lui (v.23), deviandoLo!
Simone - ciascuno dei responsabili di chiesa - deve ricominciare a fare l’allievo; piantarla di tracciare strade, sequestrando Dio in nome di Dio.
Egli è stato costretto dal Signore a rendersi conto in prima persona della Novità di Dio.
Le sue «Chiavi» non sono dunque per chiudere il Regno, bensì per spalancare le sue Porte, ossia far diventare la Chiesa una Comunità umanizzante, aperta; libera da condizionamenti unilaterali.
Ecco il nuovo compito della ‘Cattedra di Pietro’: aiutare i credenti a uscire da un canovaccio di aspettative scontate, o élitarie, normalizzanti e artificiali, incapaci di rigenerare il mondo.
[Cattedra di s. Pietro, 22 febbraio]
Chi sono per voi, e le Chiavi della comunità aperta
(Mt 16,13-20)
A oltre metà della sua vita pubblica Gesù non ha ancora dato formule, ma fa una domanda impegnativa - che ha la pretesa di chiederci molto più delle usuali espressioni con struttura di legge.
Globalmente la folla può averlo accostato a personaggi eminenti come il Battista (colui che ha dimostrato di essere estraneo alle cortigianerie) o Elia (per la sua attività di denuncia degli idoli) o Geremia (l’oppositore della compravendita di benedizioni).
Ma Egli non è venuto - come i profeti antichi - a migliorare la situazione o rabberciare devozioni, né a purificare il Tempio, bensì a sostituirlo!
Le immagini della tradizione raffigurano Cristo in molti modi (per gli atei un filantropo), il più diffuso dei quali è ancora quello di un Signore antico, garante di comportamenti convenzionali.
Egli invece - per farci riflettere - porta i discepoli in un ambiente di cantiere [a nord della Palestina, Cesarea di Filippo era in costruzione], lontano dalla nomenclatura interessata della Città “santa”.
La mentalità comune valutava la riuscita della vita - e la verità di una religione - sulla base del successo, del dominio, dell’arricchimento, delle sicurezze in genere.
Il quesito che Gesù pone ai suoi fa trapelare una novità che soppianta tutto il sistema: la Chiamata si rivolge a ogni singola persona.
È una proposta di confine, al pari del luogo geografico simbolico della capitale del regno di Filippo (uno dei tre figli eredi di Erode il Grande): in alta Galilea, il punto più lontano dal centro della religiosità riconosciuta.
Il Volto del Figlio dell’uomo è riconoscibile solo ponendo la massima distanza da schemi veterani - altrimenti anche noi non saremmo in grado di percepirne la luce personale.
Nella comunità di Mt si stava appunto facendo esperienza di una sempre più larga partecipazione di pagani, che prima si sentivano degli esclusi e man mano si integravano.
Per la nostra mentalità, le “chiavi di casa” servono a chiudere e serrare il portone, per non far entrare i malintenzionati. In quella semitica, erano invece icona dell’apertura dell’uscio.
Nel celebre capolavoro del Perugino sulla parete nord della Cappella Sistina, Gesù consegna al capo della Chiesa due chiavi: quella d’oro del Paradiso e quella d’argento del Purgatorio.
Ma il senso del brano non è l’Aldilà - anzi, non è neppure istituzionale [come indicherebbero le fastose architetture degli archi trionfali e del tempio sul fondo, nell’affresco].
In ebraico il termine «chiave» - maftéach - è derivante dal verbo patàch, che significa aprire: massimo compito missionario dei responsabili di comunità è tenere il Regno dei Cieli spalancato, ossia garantire una Chiesa accogliente!
Pietro non deve ricalcare il tipo del monarca arrogante, immagine dell’autorità [sostitutiva dell’imperatore].
Simone deve farsi primo responsabile dell’accettazione di coloro che sono fuori.
Sembra strano per qualsiasi proposta del passato, ove si supponeva che Dio temesse di rendersi impuro nel contatto col mondo.
Il Padre è Colui che osa di più.
La Fede non è un paracadute [come fosse un “credere dottrinale”] ma una Relazione d’amore che non intasa la mentalità e ci permette di affrontare il flusso arricchente della vita.
La Provvidenza creativa - a tutto tondo e senza confini, oggi particolarmente sconvolgente ogni assetto abitudinario - è reale espressione e autentica Rivelazione del Mistero.
Questo il motivo per cui Gesù impone severamente un totale silenzio messianico (v.20) alle labbra e al cervello antico degli Apostoli.
Pietro e i discepoli volevano tornare all’idea consueta de «il» Messia (cf. testo greco) atteso da tutti: un canovaccio troppo normale, incapace di rigenerarci.
La Fede di Pietro
Come accennato sopra, Gesù guida i suoi lontano dal territorio dell’ideologia di potere e dal centro sacro dell’istituzione religiosa ufficiale - la Giudea - affinché prendano distanza da limitazioni e apprezzamenti.
[Il relativo successo ottenuto dal Maestro in Galilea aveva ravvivato le speranze di gloria unilaterale degli apostoli].
Il territorio di Cesarea di Filippo, all’estremo nord della Palestina, era incantevole; celebre per fertilità e pascoli rigogliosi - zona famosa per la bellezza del contesto e la fecondità di greggi e armenti.
Anche i discepoli restano affascinati dal paesaggio e dalla vita agiata degli abitanti della regione; per non dire della magnificenza dei palazzi.
Il richiamo del contesto allude alle agiatezze che la religione pagana in genere propone; prosperità eccessiva, che imbambolava i Dodici.
Cristo chiede agli apostoli - in pratica - cosa la gente si aspettasse da Lui - e così vuole si rendano conto degli effetti nefasti della loro stessa predicazione, che volentieri confondeva benedizioni materiali e spirituali.
Mentre gli Dei mostrano di saper colmare di beni i loro devoti - e una sfarzosa vita di corte che [appunto] ammaliava tutti - Cristo cosa offre?
Il Maestro si accorge che i discepoli erano ancora fortemente condizionati dalla propaganda del governo politico e religioso (vv.6.11) che assicurava benessere (vv.5-12; cf. Mt 15,32-38).
E Gesù li istruisce ancora, affinché almeno i suoi più intimi possano superare la cecità e la crisi prodotta dalla sua Croce (v.21), dall’impegno richiesto nell’ottica del dono di sé.
Egli non è solo un continuatore dell’atteggiamento limpido del Battista, mai incline al compromesso nei confronti delle corti e dell’opulenza; né uno dei tanti restauratori della legge di Mosè, con lo zelo di Elia.
Neppure voleva limitarsi a purificare la religione da elementi spuri, ma addirittura sostituirsi al Tempio (Mt 21,12-17.18-19.42; 23,2.37-39; 24,30) - luogo dell’incontro tra il Padre e i suoi figli.
Su tale questione, in quel momento erano particolarmente vive le distanze non solo col paganesimo, ma anche le contrapposizioni tra giudei convertiti al Signore e osservanti secondo tradizione.
Infatti, nei libri sacri del giudaismo tardivo si parlava di grandi personaggi che avevano lasciato un’impronta nella storia d’Israele, e avrebbero dovuto riapparire per inaugurare i tempi messianici.
Anche all’interno delle comunità perseguitate di Galilea e Siria, Mt constata una scarsa capacità di comprensione, e tutta la difficoltà di abbracciare la nuova proposta - la quale non garantiva successo e riconoscimenti, né traguardi immediati.
[Sin dalle prime generazioni ci si rendeva conto che la Fede non si accorda facilmente con i primi impulsi umani: è invece sconcertante, per le vedute ovvie e le sue pulsioni].
Così il Maestro contraddice lo stesso Pietro (vv.20.23), la cui opinione restava legata all’idea conformista e popolaresca de «il» (vv.16.20: «quel») Messia atteso.
Insomma, il capo degli apostoli - così debole nella Fede - deve smetterla di indicare a Cristo quale strada percorrere «dietro» a lui (v.23), deviandoLo!
Simone deve ricominciare a fare l’allievo; piantarla di tracciare a tutti vie riconosciute e opportuniste, non umanizzanti; élitarie o unilaterali - sequestrando Dio in nome di Dio.
Una speciale nota sul tema del Nome:
Mentre per la nostra cultura è spesso un’etichetta, fra i popoli orientali il nome è tutt’uno con la persona, e la designa in modo speciale.
Per quanto si evince ad es. nel “secondo” comandamento, la forza del Nome ha un grande peso: è un conoscere il Soggetto (divino) nell’essenza e nel senso dell’agire; quasi un impossessarsi del suo potere.
Anche nella nostra tradizione orante, spirituale e mistica, il Nome proprio [es. Gesù] è stato spesso considerato quasi un’icona acustica della persona, comprensiva delle sue virtù; evocativa della sua presenza e potenza.
Nelle culture antiche, pronunciare il nome significava riuscire a cogliere il seme, il nucleo pregnante e globale della figura di riferimento.
Non di rado, anche nella nostra mentalità ha voluto esprimere un presagio, un mandato, un augurio, una benedizione, una vocazione, un destino, un compito, una chiamata, una missione (nomen est omen).
Ma qui si misura la differenza tra mentalità sacrale e Fede. Nelle religioni il nome proprio che il maestro o fondatore dona al discepolo è una sorta di cartello: colui il quale non avesse acume o fortuna, forza e coraggio di realizzarlo, sminuirebbe in dignità.
Invece Cristo coi suoi appellativi ci chiama a percorrere una strada, ma profondamente commisurata all’essenza. Egli stimola all’esodo - non secondo modelli - perché prima fa rientrare la persona in se stessa. Affinché tutti ci mettiamo in gioco nel profondo e sino all’estremo che corrisponde.
Primo passo: incontrarci a tutto tondo; nei diversi versanti, anche sorprendenti, inespressi o sconosciuti - in genere, caratteri inimmaginabili secondo regola e nomenclature.
Persino i nostri modi di essere eccentrici, ambigui, in ombra o addirittura rifiutati in prima persona: si riveleranno lungo la Via i lati migliori di noi stessi.
Solo in questo binario plurale troviamo la strada per un’avventura densa di senso; non meccanica, né ripetitiva - bensì somigliante alla vita: sempre nuova e autentica. Non a partire dalle esteriorità di facciata o di calcolo: c’è una firma d’Autore che precede, nella edificazione di noi stessi e del mondo.
Passando fra i diversi cantieri della città di Filippo, Gesù ha invece voluto paragonare Simone ai materiali inerti e accatastati (in modo anche confusionario) che si trovava di fronte.
Quella condizione coglieva la radice delle aspettative apostoliche! I discepoli non davano ancora spazio al Mistero in loro stessi, all’idea di una salvezza segreta, che erompe con energia propria, innata; che supera i sogni comuni.
Cefa deriva infatti dall’aramaico Kefas: pietra da costruzione; qualcosa di duro: praticamente, un testardo come tanti; nulla di speciale, anzi. Gesù affibbia a Simone un soprannome negativo!
Infatti il termine greco petros (v.18) non è nome proprio: indica un sasso (raccolto da terra) che può essere sì utile a una costruzione - se ovviamente si lascia compaginare - e che non solo sostiene, ma è sostenuto; che non solo aggrega, ma viene aggregato.
E il termine greco petra (v.18) non è il femminile di petros: indica roccia, e si riferisce alla Persona di Cristo unica sicurezza (assieme alla Fede in Lui), appellativo che cambia imprevedibilmente tutta una vita. Solo l’Amico interiore infatti trae dal nostro cattivo bagaglio l’imprevedibile che sgorga.
Ciascuno di noi viene cesellato dal Signore secondo il nome Pietro, nel senso di tassello particolare, elemento individuo e speciale - collocato in modo singolare ma in un grande mosaico: quello della storia della salvezza, dove ciascuno è contemporaneamente se stesso e in continua fase di rigenerazione.
Unico sentimento di appartenenza delle molte pietre da costruzione tutte viventi: la convivialità delle differenze, la comunione delle disparate membra fraterne nella Chiesa ministeriale; nessuna per sempre, ma ovunque [incessantemente] nuclei pulsanti di un’istituzione tutta raccolta da terra... e liberata gratis.
"Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa" (Mt 16, 18). Che cosa dice propriamente il Signore a Pietro con queste parole? Quale promessa gli fa con esse e quale incarico gli affida? E che cosa dice a noi – al Vescovo di Roma, che siede sulla cattedra di Pietro, e alla Chiesa di oggi? Se vogliamo comprendere il significato delle parole di Gesù, è utile ricordarsi che i Vangeli ci raccontano di tre situazioni diverse in cui il Signore, ogni volta in un modo particolare, trasmette a Pietro il compito che gli sarà proprio. Si tratta sempre dello stesso compito, ma dalla diversità delle situazioni e delle immagini usate diventa più chiaro per noi che cosa in esso interessava ed interessa al Signore.
Nel Vangelo di san Matteo che abbiamo ascoltato poco fa, Pietro rende la propria confessione a Gesù riconoscendolo come Messia e Figlio di Dio. In base a ciò gli viene conferito il suo particolare compito mediante tre immagini: quella della roccia che diventa pietra di fondamento o pietra angolare, quella delle chiavi e quella del legare e sciogliere. In questo momento non intendo interpretare ancora una volta queste tre immagini che la Chiesa, nel corso dei secoli, ha spiegato sempre di nuovo; vorrei piuttosto richiamare l'attenzione sul luogo geografico e sul contesto cronologico di queste parole. La promessa avviene presso le fonti del Giordano, alla frontiera della terra giudaica, sul confine verso il mondo pagano. Il momento della promessa segna una svolta decisiva nel cammino di Gesù: ora il Signore s'incammina verso Gerusalemme e, per la prima volta, dice ai discepoli che questo cammino verso la Città Santa è il cammino verso la Croce: "Da allora Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno" (Mt 16, 21). Ambedue le cose vanno insieme e determinano il luogo interiore del Primato, anzi della Chiesa in genere: continuamente il Signore è in cammino verso la Croce, verso la bassezza del servo di Dio sofferente e ucciso, ma al contempo è sempre anche in cammino verso la vastità del mondo, nella quale Egli ci precede come Risorto, perché nel mondo rifulga la luce della sua parola e la presenza del suo amore; è in cammino perché mediante Lui, il Cristo crocifisso e risorto, arrivi nel mondo Dio stesso. In questo senso Pietro, nella sua Prima Lettera, si qualifica "testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi" (5, 1). Per la Chiesa il Venerdì Santo e la Pasqua esistono sempre insieme; essa è sempre sia il grano di senapa sia l'albero fra i cui rami gli uccelli del cielo si annidano. La Chiesa – ed in essa Cristo – soffre anche oggi. In essa Cristo viene sempre di nuovo schernito e colpito; sempre di nuovo si cerca di spingerlo fuori del mondo. Sempre di nuovo la piccola barca della Chiesa è squassata dal vento delle ideologie, che con le loro acque penetrano in essa e sembrano condannarla all'affondamento. E tuttavia, proprio nella Chiesa sofferente Cristo è vittorioso. Nonostante tutto, la fede in Lui riprende forza sempre di nuovo. Anche oggi il Signore comanda alle acque e si dimostra Signore degli elementi. Egli resta nella sua barca, nella navicella della Chiesa. Così anche nel ministero di Pietro si rivela, da una parte, la debolezza di ciò che è proprio dell'uomo, ma insieme anche la forza di Dio: proprio nella debolezza degli uomini il Signore manifesta la sua forza; dimostra che è Lui stesso a costruire, mediante uomini deboli, la sua Chiesa.
[Papa Benedetto, omelia 29 giugno 2006]
Cari fratelli e sorelle!
La Liturgia latina celebra oggi la festa della Cattedra di San Pietro. Si tratta di una tradizione molto antica, attestata a Roma fin dal secolo IV, con la quale si rende grazie a Dio per la missione affidata all'apostolo Pietro e ai suoi successori. La "cattedra", letteralmente, è il seggio fisso del Vescovo, posto nella chiesa madre di una Diocesi, che per questo viene detta "cattedrale", ed è il simbolo dell'autorità del Vescovo e, in particolare, del suo "magistero", cioè dell'insegnamento evangelico che egli, in quanto successore degli Apostoli, è chiamato a custodire e trasmettere alla Comunità cristiana. Quando il Vescovo prende possesso della Chiesa particolare che gli è stata affidata, egli, portando la mitra e il bastone pastorale, si siede sulla cattedra. Da quella sede guiderà, quale maestro e pastore, il cammino dei fedeli, nella fede, nella speranza e nella carità.
Quale fu, dunque, la "cattedra" di san Pietro? Egli, scelto da Cristo come "roccia" su cui edificare la Chiesa (cfr Mt 16, 18), iniziò il suo ministero a Gerusalemme, dopo l'Ascensione del Signore e la Pentecoste. La prima "sede" della Chiesa fu il Cenacolo, ed è probabile che in quella sala, dove anche Maria, la Madre di Gesù, pregò insieme ai discepoli, un posto speciale fosse riservato a Simon Pietro. Successivamente, la sede di Pietro divenne Antiochia, città situata sul fiume Oronte, in Siria, oggi in Turchia, a quei tempi terza metropoli dell'impero romano dopo Roma e Alessandria d'Egitto. Di quella città, evangelizzata da Barnaba e Paolo, dove "per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani" (At 11, 26), dove quindi è nato il nome cristiani per noi, Pietro fu il primo vescovo, tanto che il Martirologio Romano, prima della riforma del calendario, prevedeva anche una specifica celebrazione della Cattedra di Pietro ad Antiochia. Da lì, la Provvidenza condusse Pietro a Roma. Quindi abbiamo il cammino da Gerusalemme, Chiesa nascente, ad Antiochia, primo centro della Chiesa raccolta dai pagani e ancora unita con la Chiesa proveniente dagli Ebrei. Poi Pietro si recò a Roma, centro dell'Impero, simbolo dell'"Orbis" - l'"Urbs" che esprime l'"Orbis" la terra - dove concluse con il martirio la sua corsa al servizio del Vangelo. Per questo la sede di Roma, che aveva ricevuto il maggior onore, raccolse anche l'onere affidato da Cristo a Pietro di essere al servizio di tutte le Chiese particolari per l'edificazione e l'unità dell'intero Popolo di Dio.
La sede di Roma, dopo queste migrazioni di San Pietro, venne così riconosciuta come quella del successore di Pietro, e la "cattedra" del suo Vescovo rappresentò quella dell'Apostolo incaricato da Cristo di pascere tutto il suo gregge. Lo attestano i più antichi Padri della Chiesa, come ad esempio sant'Ireneo, Vescovo di Lione, ma che veniva dall'Asia Minore, il quale, nel suo trattato Contro le eresie, descrive la Chiesa di Roma come "più grande e più antica, conosciuta da tutti; ... fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo"; e aggiunge: "Con questa Chiesa, per la sua esimia superiorità, deve accordarsi la Chiesa universale, cioè i fedeli che sono ovunque" (III, 3, 2-3). Tertulliano, poco più tardi, da parte sua, afferma: "Questa Chiesa di Roma, quanto è beata! Furono gli Apostoli stessi a versare a lei, col loro sangue, la dottrina tutta quanta" (La prescrizione degli eretici, 36). La cattedra del Vescovo di Roma rappresenta, pertanto, non solo il suo servizio alla comunità romana, ma la sua missione di guida dell'intero Popolo di Dio.
Celebrare la "Cattedra" di Pietro, come facciamo oggi, significa, perciò, attribuire ad essa un forte significato spirituale e riconoscervi un segno privilegiato dell'amore di Dio, Pastore buono ed eterno, che vuole radunare l'intera sua Chiesa e guidarla sulla via della salvezza. Tra le tante testimonianze dei Padri, mi piace riportare quella di san Girolamo, tratta da una sua lettera scritta al Vescovo di Roma, particolarmente interessante perché fa esplicito riferimento proprio alla "cattedra" di Pietro, presentandola come sicuro approdo di verità e di pace. Così scrive Girolamo: "Ho deciso di consultare la cattedra di Pietro, dove si trova quella fede che la bocca di un Apostolo ha esaltato; vengo ora a chiedere un nutrimento per la mia anima lì, dove un tempo ricevetti il vestito di Cristo. Io non seguo altro primato se non quello di Cristo; per questo mi metto in comunione con la tua beatitudine, cioè con la cattedra di Pietro. So che su questa pietra è edificata la Chiesa" (Le lettere I, 15, 1-2).
Cari fratelli e sorelle, nell'abside della Basilica di san Pietro, come sapete, si trova il monumento alla Cattedra dell'Apostolo, opera matura del Bernini, realizzata in forma di grande trono bronzeo, sorretto dalle statue di quattro Dottori della Chiesa, due d'occidente, sant'Agostino e sant'Ambrogio, e due d'oriente, san Giovanni Crisostomo e sant'Atanasio. Vi invito a sostare di fronte a tale opera suggestiva, che oggi è possibile ammirare decorata da tante candele, e pregare in modo particolare per il ministero che Iddio mi ha affidato. Alzando lo sguardo alla vetrata di alabastro che si apre proprio sopra la Cattedra, invocate lo Spirito Santo, affinché sostenga sempre con la sua luce e la sua forza il mio quotidiano servizio a tutta la Chiesa. Di questo, come della vostra devota attenzione, vi ringrazio di cuore.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 22 febbraio 2006]
La festa liturgica della Cattedra di san Pietro ci vede raccolti per celebrare il Giubileo della Misericordia come comunità di servizio della Curia Romana, del Governatorato e delle Istituzioni collegate con la Santa Sede. Abbiamo attraversato la Porta Santa e siamo giunti alla tomba dell’Apostolo Pietro per fare la nostra professione di fede; e oggi la Parola di Dio illumina in modo speciale i nostri gesti.
In questo momento, ad ognuno di noi il Signore Gesù ripete la sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Una domanda chiara e diretta, di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Ma in essa non c’è nulla di inquisitorio, anzi, è piena di amore! L’amore del nostro unico Maestro, che oggi ci chiama a rinnovare la fede in Lui, riconoscendolo quale Figlio di Dio e Signore della nostra vita. E il primo chiamato a rinnovare la sua professione di fede è il Successore di Pietro, che porta con sé la responsabilità di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32).
Lasciamo che la grazia plasmi di nuovo il nostro cuore per credere, e apra la nostra bocca per compiere la professione di fede e ottenere la salvezza (cfr Rm 10,10). Facciamo nostre, dunque, le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Il nostro pensiero e il nostro sguardo siano fissi su Gesù Cristo, inizio e fine di ogni azione della Chiesa. Lui è il fondamento e nessuno ne può porre uno diverso (1 Cor 3,11). Lui è la “pietra” su cui dobbiamo costruire. Lo ricorda con parole espressive sant’Agostino quando scrive che la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, «non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome. Non è la pietra che trae il suo nome da Pietro, ma è Pietro che lo trae dalla pietra; così come non è il nome Cristo che deriva da cristiano, ma il nome cristiano che deriva da Cristo. […] La pietra è Cristo, sul fondamento del quale anche Pietro è stato edificato» (In Joh 124, 5: PL 35, 1972).
Da questa professione di fede deriva per ciascuno di noi il compito di corrispondere alla chiamata di Dio. Ai Pastori, anzitutto, viene richiesto di avere come modello Dio stesso che si prende cura del suo gregge. Il profeta Ezechiele ha descritto il modo di agire di Dio: Egli va in cerca della pecora perduta, riconduce all’ovile quella smarrita, fascia quella ferita e cura quella malata (34,16). Un comportamento che è segno dell’amore che non conosce confini. È una dedizione fedele, costante, incondizionata, perché a tutti i più deboli possa giungere la sua misericordia. E, tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la profezia di Ezechiele prende le mosse dalla constatazione delle mancanze dei pastori d’Israele. Pertanto fa bene anche a noi, chiamati ad essere Pastori nella Chiesa, lasciare che il volto di Dio Buon Pastore ci illumini, ci purifichi, ci trasformi e ci restituisca pienamente rinnovati alla nostra missione. Che anche nei nostri ambienti di lavoro possiamo sentire, coltivare e praticare un forte senso pastorale, anzitutto verso le persone che incontriamo tutti i giorni. Che nessuno si senta trascurato o maltrattato, ma ognuno possa sperimentare, prima di tutto qui, la cura premurosa del Buon Pastore.
Siamo chiamati ad essere i collaboratori di Dio in un’impresa così fondamentale e unica come quella di testimoniare con la nostra esistenza la forza della grazia che trasforma e la potenza dello Spirito che rinnova. Lasciamo che il Signore ci liberi da ogni tentazione che allontana dall’essenziale della nostra missione, e riscopriamo la bellezza di professare la fede nel Signore Gesù. La fedeltà al ministero bene si coniuga con la misericordia di cui vogliamo fare esperienza. Nella Sacra Scrittura, d’altronde, fedeltà e misericordia sono un binomio inseparabile. Dove c’è l’una, là si trova anche l’altra, e proprio nella loro reciprocità e complementarietà si può vedere la presenza stessa del Buon Pastore. La fedeltà che ci è richiesta è quella di agire secondo il cuore di Cristo. Come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Pietro, dobbiamo pascere il gregge con “animo generoso” e diventare un “modello” per tutti. In questo modo, «quando apparirà il Pastore supremo» potremo ricevere la «corona della gloria che non appassisce» (1 Pt 5,14).
[Papa Francesco, omelia al Giubileo della Curia romana 22 febbraio 2016]
Buona giornata sotto lo sguardo materno della B.V. di Lourdes.
Commento alle Letture della VI Domenica del Tempo Ordinario anno C [16 Febbraio 2025].
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)
Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica tradotta con “maledetto” nei profeti è “arur” (אָרוּר), che compare spesso nella Bibbia ebraica e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Nella mentalità biblica, Dio è fonte di vita e benedizione (berakha), e l’allontanamento da Lui porta automaticamente alla ’arur (rovina, sterilità, fallimento). Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore. Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè ha fede nell’uomo. La parola chiave è confida/ ha “fede”, un termine assai forte che indica fare affidamento, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini, come ci si arrocca su una roccia. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua. Facile capire l’importanza dell’acqua per un popolo che camminava nel deserto e Geremia parla per esperienza avendo sotto gi occhi la strada che da Gerusalemme va a Gerico in un deserto completamente arido per gran parte dell’anno. Rinverdisce soltanto e fiorisce con le piogge primaverili, e così, attingendo a esempi e immagini dalla vita quotidiana dei suoi ascoltatori, il profeta offre saggi consigli di vita spirituale. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.
Una nota: Geremia probabilmente sta denunciando i due errori/peccati fatali dei re, dei capi religiosi e dell’intero popolo: l’idolatria e le alleanze. Per quanto concerne l’idolatria molti hanno introdotto in Israele vari culti idolatrici e offerto sacrifici agli idoli e Geremia lo stigmatizza: “Il mio popolo mi ha dimenticato per bruciare offerte a chi è un nulla.” ( 18,15). Quanto invece alle alleanze, il profeta critica la politica dei re che invece di contare sulla protezione di Dio, hanno moltiplicato manovre diplomatiche, alleandosi di volta in volta con ciascuna delle potenze del Medio Oriente ricavandone solo guerre e disgrazie. Così è avvenuto per Sedecia che, affidandosi a manovre diplomatiche e alla sua forza militare, è andato incontro al fallimento con massacri, umiliazioni per sé e per il popolo (Gr 39,1-10).
*Salmo Responsoriale (1)
Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso si apre con questa parola: Beato! “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia deriva dall’ebraico “ashré”, che esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento. Per questo, molti studiosi, come André Chouraqui, traducono beato con “in cammino”, immagine che invita a considerare la storia dell’umanità come un lungo viaggio, durante il quale gli uomini sono continuamente chiamati a scegliere la strada che porta alla vera felicità.
Qualche nota per meglio entrare nella Parola:
1. Nei pochi versetti del salmo troviamo un’insistenza particolare sulla parola via: “via dei peccatori…cammino dei giusti…via dei malvagi” ed emerge il tema delle due vie: la via giusta e la via sbagliata, il bene e il male. L’immagine è chiara: la nostra vita è come un incrocio, dove dobbiamo decidere quale direzione prendere. Se imbocchiamo la strada giusta, ogni passo ci avvicinerà alla meta; se scegliamo la direzione sbagliata, ogni passo ci allontanerà sempre di più dal traguardo. L’intera Rivelazione biblica ha lo scopo di indicare all’umanità il cammino della felicità che Dio desidera per noi e per tale motivo offre tanti segnali come le espressioni beato/maledetto o felice/infelice che sono indicatori del cammino. Quando Geremia nella prima Lettura dice “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… o Isaia proclama “Guai a coloro che promulgano leggi inique” (10,1), non stanno giudicando o condannando le persone in modo definitivo, ma stanno lanciando un allarme, come chi grida per avvertire un passante del pericolo di un burrone. Al contrario, espressioni come “Benedetto l’uomo che confida nel Signore (Ger 17,7) o “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei peccatori” (Sal 1) sono un incoraggiamento: siete sulla strada giusta!
2. Il tema delle due vie ci ricorda che siamo liberi e il desiderio di felicità è inscritto nel cuore di ogni uomo, ma spesso si sbaglia direzione e la legge di Dio non è altro che una guida per la nostra libertà, un aiuto per scegliere la via giusta. Israele sa che la Torah è un dono di Dio, un segno del suo desiderio di felicità per noi e per questo “la sua legge medita giorno e notte”.
3. Quando il salmo parla di giusti e malvagi, si riferisce a comportamenti, non a persone perché non esistono uomini perfettamente giusti o completamente malvagi e in verità dentro di noi convivono entrambe le tendenze. Ogni sforzo per ascoltare la Parola di Dio è un passo sulla via del vero bene. Ecco perché il salmo dice: ”Beato l’uomo che nella legge del Signore trova la sua gioia”. Infine si capisce che la stessa costruzione letteraria del salmo sottolinea l’importanza della scelta giusta: il salmo non è infatti simmetrico e contrappone due atteggiamenti, quello dei giusti e quello dei peccatori, ma dedica la maggior parte a descrivere la felicità dei giusti per dirci che ciò che merita attenzione è il bene, non il male. Questo salmo è dunque un invito a scegliere consapevolmente il cammino della fedeltà a Dio e non è un caso che il salterio inizi proprio con questa parola: Beato l’uomo che confida nel Signore!
*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)
Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana, Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”. In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione?
Da questa premessa san Paolo trae le conseguenze argomentando così: poiché Cristo è risorto e molti lo hanno visto vivo e lo possono testimoniare, egli è davvero il Salvatore del mondo ed è vero tutto ciò che ha detto e promesso. Con il battesimo noi siamo diventati tempio dello Spirito e questo significa che lo Spirito vive in noi, ma se lo Spirito d’amore è l’opposto del peccato, essendo il peccato mancanza di amore per Dio e per gli altri, lo Spirito Santo ci libera dal peccato e noi siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, per cui risorgeremo come lui. Ciò che è stato tempio dello Spirito può essere trasformato, ma non può essere distrutto. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere.
Note per meglio capire il testo:
1.L’apostolo aggiunge “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. Nel testo greco il termine utilizzato significa primizia nel senso di inizio di una lunga serie. Nell’Antico Testamento, le primizie erano i primi frutti della terra che segnavano l’inizio del raccolto. Dire che Gesù è risorto come “primizia di coloro che sono morti” significa affermare che è il fratello maggiore dell’umanità, il primo nato, come dice altrove Paolo: “Egli è il capo del corpo… Egli è il principio, il primogenito di coloro che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose…” (Col 1,18).
2. In definitiva, occorre sempre tornare al progetto misericordioso di Dio che è quello di riunire tutta l’umanità in Gesù Cristo come leggiamo nella Lettera agli Efesini ( cf. Ef 1,9-10). E Dio non ha certo previsto di riunire dei morti, ma dei vivi e Gesù nella sua discussione con i Sadducei: ebbe a spiegare: “Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,31-32).
3. C’è un aspetto del mistero dell’Incarnazione da non dimenticare: Dio prende sul serio la nostra umanità, il nostro corpo perché il Verbo si è fatto carne diventando in tutto simile agli uomini, così simile che il suo destino è diventato il nostro: se è risorto, anche noi risorgeremo. La risurrezione di Cristo non è dunque solo il felice epilogo della sua storia personale ma l’alba della vittoria dell’umanità sulla morte. La morte non è più un muro, ma una porta… e noi vi entriamo dietro di lui. Da qui si capisce l’inconciliabilità della fede cristiana con qualsiasi idea di reincarnazione. La dignità dell’essere umano arriva fino a questo punto: anche se il nostro corpo a volte è fragile e segnato dalla sofferenza, Dio non lo tratta mai come una cosa da gettare e sostituire; la nostra persona è un tutt’uno. Può capitare che ci disprezziamo, ma agli occhi di Dio, siamo ognuno unico e insostituibile. Il nostro intero essere è chiamato a vivere per sempre accanto a Lui.
*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)
Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Gesù cerca di educare lo sguardo dei discepoli e della folla riprendendo il doppio linguaggio del profeta presente nella prima lettura. Geremia afferma: voi che ponete la vostra fiducia nelle ricchezze materiali, nella vostra posizione sociale, voi che siete ben considerati, presto non vi invidieranno più e per questo non siete sulla strada giusta. Se lo foste, non sareste così ricchi e così ben visti. Un vero profeta si espone al rischio di non piacere, e Gesù lo sa bene. Un vero profeta non ha né il tempo né la preoccupazione di accumulare denaro o curare la propria immagine. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia: e noi sappiamo che “misericordia” etimologicamente significa viscere che fremono di compassione. In definitiva questo è il messaggio: lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). Isaia arriva persino a dire: “Nella sofferenza che schiaccia il suo servo, Dio lo ama con un amore di predilezione” (Is 53,10). I poveri, i perseguitati, coloro che hanno fame e che piangono, Dio si china su di loro con predilezione: non per un loro merito, ma per la loro stessa condizione. E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino.
Una nota per meglio entrare nella Parola:
Ricordo che André Chouraqui afferma che la parola “beati” significa anche “in cammino”. Cita l’esempio del popolo guidato da Mosè che trovò la forza di affrontare la lunga marcia nel deserto nella certezza della costante presenza di Dio. Ancora una volta, la contrapposizione tra beatitudini e maledizioni non divide l’umanità in due gruppi distinti: da una parte quelli che meritano parole di conforto, dall’altra quelli che meritano solo rimproveri. Tutti, a seconda dei momenti della vita, possiamo trovarci nell’uno o nell’altro gruppo. E a ciascuno di noi Cristo dice: “In cammino…Sarete saziati, consolati, rallegratevi ed esultate”. Tutto questo era già presente nel linguaggio dell’Antico Testamento per descrivere la felicità che avrebbe portato il Messia. I discepoli conoscevano bene queste espressioni e capiscono subito cosa Gesù sta annunciando loro: Voi che siete usciti dalla folla per seguirmi, non lo avete fatto per raccogliere onori o ricchezze, ma avete fatto la scelta giusta, perché avete saputo riconoscere in me il Messia.
Commento Breve:
*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)
Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica che compare spesso nella Bibbia e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore. Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè mette tutta la sua fiducia nell’uomo, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.
*Salmo Responsoriale (1)
Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso si apre con questa parola: Beato! “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento.
*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)
Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana. In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione? Da questa premessa san Paolo trae la conclusione che, se con il battesimo siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, risorgeremo come lui. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere.
*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)
Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia. Lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino.
La cattiva reputazione è normale tra i Profeti
(Mc 8,34-9,1)
La Croce è normale fra i Profeti, i quali non hanno certo un grande riscontro di folle inneggianti, nel costruire la propria limpida città.
Essa non permane mai a dimensione d’idoli facili. Ma è questa la paradossale forma di «comunione» che misteriosamente attira l’umano.
Convivialità che trascina i cuori, malgrado attorno non si attenuino gli scontri per ambizione, o il gioco degli opportunismi.
Neppure oggi sembra placarsi il caos dei rovesci, mentre si affacciano crisi e commistioni, anche nel positivo intreccio dei paradigmi culturali.
Cosa fare?
«Sollevare» (v.34 testo greco) il braccio orizzontale del patibolo e caricarselo sulle spalle significava perdere la reputazione.
È un problema capitale, inscindibile dall’atteggiamento motivato e responsabile.
Infatti, se un seguace aspirasse alla gloria, tenesse alla propria onorabilità, non accettasse la solitudine… non potrebbe farsi autentico testimone del Cristo.
Sarebbe un pezzo di mondanità prolungata.
Invece la sorte del Maestro coinvolge anche quella dei discepoli.
Vale in ogni tempo, e per noi: il dono sino in fondo non viene sulla terra passando attraverso fama, successo, considerazione; l’essere costantemente accompagnato, approvato e sostenuto.
Simone attendeva non un esito problematico, tagliente, bensì consensi facili: uno svincolo, come tra amici di merende che si danno pacche sulle spalle.
Sognava una sequela conclamata, quindi un futuro di riconoscimenti - e rimane disorientato.
Non capendo il progetto, Pietro [«presolo con»] afferra Gesù come fosse un suo ostaggio.
E «cominciò a esorcizzarlo» (v.32 testo greco) affinché proprio il Maestro mettesse finalmente la testa a posto, e gli stesse dietro.
Qui trapela la base storica di tale “gesto” del capo degli apostoli - ossia il tentativo a lungo perpetrato dalla prima comunità di Gerusalemme, di trovare un compromesso col potere sacerdotale e politico d’allora.
Ebbene, tutto questo non è «salvare la vita» (v.35): in senso biblico, raggiungere pienezza umana e somiglianza alla condizione divina.
La mistica dozzinale successiva, suggestionata da filosofie cerebrali, su tale espressione ha messo tra parentesi l’avventura di Fede e inventato un netto contrasto tra vita corporale e spirituale.
Convincimento banale, che ha come vivisezionato le stesse persone ignare, indirizzate talora al masochismo.
Ma qui Gesù non parla di pene artificiose da accollarsi, né mai ha imposto mortificazione alcuna. Tantomeno in grado di produrre una qualche ‘salvezza dell’anima’ staccata dalla realtà.
«Sollevare positivamente la Croce»: affinché subentrino diverse energie, altre relazioni, situazioni imprevedibili, che ci fanno spostare lo sguardo e le attività.
Non in vista d’una qualche giusta retribuzione, ma per il nocciolo irriducibile d’ogni credente (o non) e di qualsivoglia questione.
Da ciò l’esigenza di non estraniarsi dai Vangeli, per la compiutezza di sé, una testimonianza viva, e la soluzione dei problemi - attraversati a partire ‘da dentro’.
Insomma, di Gesù possiamo annunciare la proposta, i criteri, e la stessa Presenza... nei fatti e nella integrità della vita - non chissà quando dopo la morte (Mc 8,38-9,1).
Altra definitività.
[Venerdì 6.a sett. T.O. 21 febbraio 2025]
(Mc 8,27-9,1)
La vita agiata e non
Il Dio vero, la natura, e l’uomo autentico
(Mc 8,27-33)
Gesù guida i suoi intimi lontano dal territorio dell’ideologia di potere e dal centro sacro dell’istituzione religiosa ufficiale, affinché si distacchino dal loro stesso bagaglio culturale.
L’ambiente della terra di Giuda era tutto condizionante, ormai privo di onda vitale, già normalizzato nelle sue linee costituenti; diventato una sorta di fortino, refrattario ad ogni sorpresa.
A paragone, verso nord, il territorio di Cesarea di Filippo era meno artificioso, più naturale e quasi sublime; incantevole, celebre per fertilità e pascoli rigogliosi - zona famosa per la fecondità di greggi e armenti.
Quella sorta di paradiso terrestre alle sorgenti del Giordano, tanto era umanamente attraente che Alessandro Magno la ritenne dimora del dio Pan e delle Ninfe.
Anche i discepoli erano affascinati dal paesaggio e dalla vita agiata degli abitanti della regione; per non dire della magnificenza dei palazzi.
Ma ecco irrompere nel gruppo un quesito quasi spiacevole.
Cristo chiede agli apostoli - in pratica - cosa la gente si aspettasse da Lui. E il richiamo del contesto allude alle agiatezze che la religione pagana proponeva.
Mossa da curiosità e desiderosa di realizzazione temporale, la turba di gente stupefatta intorno al Figlio di Dio creava un gran rumore, solo apparente.
Ora c’è una svolta: l’atmosfera cambia, aumenta l’opposizione e si accumulano interrogativi; la folla va diradandosi e il Maestro si ritrova sempre più solo.
Mentre gli dèi mostravano di saper colmare di beni i loro devoti - e una sfarzosa vita di corte che ammaliava tutti - il Signore cosa offre?
Insomma, gli apostoli continuavano a essere influenzati dalla propaganda del governo politico e religioso, che assicurava benessere.
Gesù li “istruisce”, affinché potessero superare la cecità e la crisi prodotta dalla sua Croce, impegno richiesto nell’ottica del dono di sé.
[Il Figlio di Dio non è solo un continuatore dell’atteggiamento limpido del Battista, mai incline al compromesso nei confronti delle corti e dell’opulenza; né uno dei tanti restauratori della legge di Mosè… con lo zelo di Elia].
Su alcune questioni di fondo, nelle prime comunità cristiane erano vive le distanze col paganesimo, ma si registravano anche particolari contrapposizioni col mondo delle sinagoghe.
Attriti di non poco conto erano quelli che sorgevano tra giudei convertiti al Signore e semiti osservanti secondo tradizione.
Infatti, nei libri sacri del giudaismo tardivo si parlava di grandi personaggi che avevano lasciato un’impronta nella storia d’Israele, e avrebbero dovuto riapparire per inaugurare i tempi messianici.
Ma in tutti si constatava una scarsa capacità di comprensione. E difficoltà di saper abbracciare la nuova proposta, che sembrava non garantisse gloria, né traguardi materiali.
La Fede non si accorda facilmente con i primi impulsi umani: è sconcertante per le vedute ovvie e le sue pulsioni.
Così nel passo di Vangelo il Maestro contraddice lo stesso Pietro, la cui opinione restava legata all’idea conformista e popolaresca de «il» (v.29: «quel») Messia atteso.
Il capo degli apostoli deve smetterla di indicare a Cristo quale strada percorrere «dietro» (v.33) a lui!
Simone può ricominciare a fare l’allievo; piantarla di tracciare strade, sequestrando Dio in nome di Dio!
In effetti, tutti i Dodici - ancora plagiati da idee molto radicate nella mentalità antica - aspettavano un sovrano [«Messia politico»], re d’Israele della casa di Davide.
Oppure attendevano un sommo sacerdote [«Messia di Aronne»] finalmente fedele al ruolo e capace di scoprire il senso genuino della Parola.
Per alcuni doveva essere un grande taumaturgo, un dottore; per altri un capo della guerriglia, o un giudice [«Maestro di giustizia»]; un Profeta, di calibro pari agli antichi.
Ma la Persona del Cristo non è quella d’un comune precursore - grande o secondario, purché riconoscibile - capo affermato.
Da ciò il «segreto messianico» imposto a chi lo predica in quel modo equivoco (v.30).
Il Figlio di Dio non ci assicura successo mondano, assenza di conflitti, e vita confortevole, né la semplice purificazione dei luoghi di culto o il rabberciamento dell’antica pratica di devozioni.
Solo garantisce libertà da ogni vincolo col potere, e Amore che rigenera.
Profondità anche di sapienza naturale:
Dice il Tao Tê Ching (xxviii): «Chi sa d’esser maschio e si mantiene femmina è la forza del mondo». Commenta il maestro Wang Pi: «Chi sa d’essere il primo del mondo deve porsi per ultimo».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Chi è e quanto conta per te Gesù?
Sollevare la Croce, Figlio dell’uomo e Chiesa nell’integrità della vita
La cattiva reputazione è normale tra i Profeti
(Mc 8,34-9,1)
La Croce è normale fra i Profeti, i quali non hanno certo un grande riscontro di folle inneggianti, nel costruire la propria limpida “città”.
Essa non permane mai a dimensione d’idoli facili. Ma è questa la paradossale forma di «comunione» che misteriosamente attira l’umano.
Convivialità che trascina i cuori, malgrado attorno non si attenuino gli scontri per ambizione, o il gioco degli opportunismi.
Neppure oggi sembra placarsi il caos dei rovesci, mentre si affacciano crisi e commistioni, anche nel positivo intreccio dei paradigmi culturali.
Cosa fare?
«Sollevare» [v.34 testo greco] il braccio orizzontale del patibolo e caricarselo sulle spalle significava perdere la reputazione.
È un problema capitale, inscindibile dall’atteggiamento motivato e responsabile.
Infatti, se un seguace aspirasse alla gloria, tenesse alla propria onorabilità, non accettasse la solitudine… non potrebbe farsi autentico testimone del Cristo.
Sarebbe un pezzo di mondanità prolungata.
Invece la sorte del Maestro coinvolge anche quella dei discepoli.
Vale in ogni tempo, e per noi: il dono sino in fondo non viene sulla terra passando attraverso fama, successo, considerazione; l’essere costantemente accompagnato, approvato e sostenuto.
Simone (vv. 32-33) attendeva non un esito problematico, tagliente, bensì consensi facili: uno svincolo, come tra amici di merende che si danno pacche sulle spalle.
Sognava una sequela conclamata, quindi un futuro di riconoscimenti - e rimane disorientato.
Ma lo spirito di dono che Gesù gli chiede viene dall’accogliere, non dal conquistare.
Empatia dimessa, a partire dai propri lati opposti: non esiste senza un’alleanza intima.
Certo, il mondo delle tabelle attorno scatena l’aspetto belluino, piuttosto che il rinnegamento armonico, integrato, degli istinti di affermazione: comandare, dominare, soggiogare.
Ma col tipico linguaggio di chi ama sul serio, Cristo parla chiaro - affinché anche in noi si realizzi il suo Mistero.
Non per accomodarci nell’opinione sociale, bensì per fare di ogni malfermo e insicuro un essere completo, e diventare tutti beati e salvatori, con Lui.
Pietro non comprende la figura del «Figlio dell’uomo» (v.38), denominazione principale adoperata dagli evangelisti e tema cruciale per la comprensione del Signore.
Egli ancora oggi Viene per rendere presente il divino insito, e le sue energie generative.
«Figlio dell’uomo» sta a indicare l’obbiettivo eminente del Padre: quello di umanizzarci e migliorare l’esistenza.
È il senso di una santità possibile e trasmissibile, non erratica o già formulata, né legata a concatenazioni in regime di esteriorità.
Mentre la religione comune spesso convince d’inadeguatezza e blocca ogni sviluppo, Dio nei suoi è comunicazione diretta, spinta di vita, per una totalità umanizzante.
Quintessenza innata che appunto giunge a coincidere e fondersi con la condizione suprema: in un’accentuata capacità di evolvere, porgersi, incidere, comunicare pienezza di essere.
Non capendo il progetto del Cielo, Pietro [«presolo con»] afferra Gesù come fosse un suo ostaggio…
E «cominciò a esorcizzarlo» (v.32 testo greco) affinché proprio il Maestro mettesse finalmente la testa a posto, e gli stesse dietro.
Qui trapela la base storica di tale “gesto” del capo degli apostoli - ossia il tentativo a lungo perpetrato dalla prima comunità di Gerusalemme, di trovare un compromesso col potere sacerdotale e politico d’allora.
Era nato così il Messianismo giudeo-cristiano. Teologia di compromesso col Tempio e le Tradizioni dei padri, ancora ben viva nelle fraternità di seconda-terza generazione [quelle di Mc].
Il fatto è: la tensione che ci separa dai vertici della devozione ufficiale non sta in piedi per caso.
Esiste purtroppo una cristologia deviante e “nemica” - qui rappresentata proprio da Pietro che sproloquia (v.33) - la quale immagina e trasmette Cristo come sacerdote potente, e alleato del potere egemonico.
È il motivo per cui oggi persino al pontefice vescovo di Roma non sfugge la radice del problema ecclesiale: il clericalismo.
In sostanza, alla cristologia aberrante può corrispondere una ecclesiologia che devasta le anime.
Essa presenta la comunità dei figli sotto caricatura d’una istituzione piramidale compromessa con chi accentua l’esibizionismo, attribuisce titoli, e distribuisce favori.
Tutto questo non è «salvare la vita» (v.35): in senso biblico, raggiungere pienezza umana e somiglianza alla condizione divina.
La mistica dozzinale successiva, suggestionata da filosofie cerebrali, su tale espressione ha messo tra parentesi l’avventura di Fede e inventato un netto contrasto tra vita corporale e spirituale.
Convincimento banale, che ha come vivisezionato le stesse persone ignare, indirizzate talora al masochismo.
Ma qui Gesù non parla di pene artificiose da accollarsi, né mai ha imposto mortificazione alcuna. Tantomeno in grado di produrre una qualche “salvezza dell’anima” staccata dalla realtà - o lo stare “in grazia di Dio” (immobili) intimiditi dal castigo perenne.
La vicenda del Cristo porta in una direzione affatto diversa: i segni sacri non si adattano alle direttive del potere stabilito; sono tutti liberatori nel concreto, non riscontrabili in un distacco inerte e vago.
I suoi richiami nella Chiesa fanno comprendere che le caratteristiche essenziali del discepolo sono: amore che rischia e distacco dalla reputazione
Nonché mancanza di attaccamento a una qualche funzione o direzione politica di successo, più o meno celata.
Seguire il Signore non è predisporsi a una carica [e guadagnarci su: v.36], bensì corrispondere all’Appello crudo.
Richiamo che investe ciascuna persona in sequela, nonché la stessa figura del Figlio dell’uomo, e il popolo di Dio.
«Sollevare positivamente la Croce»: affinché subentrino diverse energie, altre relazioni, situazioni imprevedibili, che ci fanno spostare lo sguardo e le attività.
Non in vista d’una qualche giusta retribuzione, ma per il nocciolo irriducibile d’ogni credente (o non) e di qualsivoglia questione.
Da ciò l’esigenza di non estraniarsi dai Vangeli, per la compiutezza di sé, una testimonianza viva, e la soluzione dei problemi - attraversati a partire da “dentro”.
Insomma, di Gesù possiamo annunciare la proposta, i criteri, e la stessa Presenza... nei fatti e nella integrità della vita - non chissà quando dopo la morte (Mc 8,38-9,1).
Altra definitività.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che genere di appello senti risuonare in te?
Partendo dal centro
6. Come dobbiamo configurarci concretamente questo cammino di ascesa e di purificazione? Come deve essere vissuto l'amore, perché si realizzi pienamente la sua promessa umana e divina? Una prima indicazione importante la possiamo trovare nel Cantico dei Cantici, uno dei libri dell'Antico Testamento ben noto ai mistici. Secondo l'interpretazione oggi prevalente, le poesie contenute in questo libro sono originariamente canti d'amore, forse previsti per una festa di nozze israelitica, nella quale dovevano esaltare l'amore coniugale. In tale contesto è molto istruttivo il fatto che, nel corso del libro, si trovano due parole diverse per indicare l'« amore ». Dapprima vi è la parola « dodim » — un plurale che esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola « ahabà », che nella traduzione greca dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono « agape » che, come abbiamo visto, diventò l'espressione caratteristica per la concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza dell'amore che diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione nell'ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca.
Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività — « solo quest'unica persona » — e nel senso del « per sempre ». L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è « estasi », ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: « Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17, 33), dice Gesù — una sua affermazione che si ritrova nei Vangeli in diverse varianti (cfr Mt 10, 39; 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24; Gv 12, 25). Gesù con ciò descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in genere.
[Papa Benedetto, Deus Caritas est]
Da Figlio di Davide a Figlio dell’uomo
La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.
[Papa Benedetto, allocuzione al Concistoro 24 novembre 2012]
At this moment, the Lord repeats his question to each of us: “who do you say that I am?” (Mt 16:15). A clear and direct question, which one cannot avoid or remain neutral to, nor can one remand it or delegate the response to someone else. In this question there is nothing inquisitional (Pope Francis)
In questo momento, ad ognuno di noi il Signore Gesù ripete la sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Una domanda chiara e diretta, di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Ma in essa non c’è nulla di inquisitorio (Papa Francesco)
Love is indeed “ecstasy”, not in the sense of a moment of intoxication, but rather as a journey, an ongoing exodus out of the closed inward-looking self towards its liberation through self-giving, and thus towards authentic self-discovery and indeed the discovery of God (Deus Caritas est n.6)
Sì, amore è « estasi », ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio (Deus Caritas est n.6)
Before asking them, the Twelve, directly, Jesus wants to hear from them what the people think about him, and he is well aware that the disciples are very sensitive to the Teacher’s renown! Therefore, he asks: “Who do men say that I am?” (v. 27). It comes to light that Jesus is considered by the people as a great prophet. But, in reality, he is not interested in the opinions and gossip of the people (Pope Francis)
Prima di interpellare direttamente loro, i Dodici, Gesù vuole sentire da loro che cosa pensa di Lui la gente – e sa bene che i discepoli sono molto sensibili alla popolarità del Maestro! Perciò domanda: «La gente, chi dice che io sia?» (v. 27). Ne emerge che Gesù è considerato dal popolo un grande profeta. Ma, in realtà, a Lui non interessano i sondaggi e le chiacchiere della gente (Papa Francesco)
In the rite of Baptism, the presentation of the candle lit from the large Paschal candle, a symbol of the Risen Christ, is a sign that helps us to understand what happens in the Sacrament. When our lives are enlightened by the mystery of Christ, we experience the joy of being liberated from all that threatens the full realization (Pope Benedict)
Nel rito del Battesimo, la consegna della candela, accesa al grande cero pasquale simbolo di Cristo Risorto, è un segno che aiuta a cogliere ciò che avviene nel Sacramento. Quando la nostra vita si lascia illuminare dal mistero di Cristo, sperimenta la gioia di essere liberata da tutto ciò che ne minaccia la piena realizzazione (Papa Benedetto)
And he continues: «Think of salvation, of what God has done for us, and choose well!». But the disciples "did not understand why the heart was hardened by this passion, by this wickedness of arguing among themselves and seeing who was guilty of that forgetfulness of the bread" (Pope Francis)
E continua: «Pensate alla salvezza, a quello che anche Dio ha fatto per noi, e scegliete bene!». Ma i discepoli «non capivano perché il cuore era indurito per questa passione, per questa malvagità di discutere fra loro e vedere chi era il colpevole di quella dimenticanza del pane» (Papa Francesco)
[Faith] is the lifelong companion that makes it possible to perceive, ever anew, the marvels that God works for us. Intent on gathering the signs of the times in the present of history […] (Pope Benedict, Porta Fidei n.15)
don Giuseppe Nespeca
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