Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Pasqua, Ascensione. (Ci sono prove che Vive)
Qual è il destino, la traiettoria di una vita spesa nella fedeltà a una vocazione profetica? L’esito terreno di Gesù - il Figlio fedele - sembrerebbe quello dei falliti d’ogni tempo.
Allora vale la pena essere se stessi? Non sarebbe più costruttivo regolarsi sulla base di convenienze personali e opportunismi di gruppo?
Insomma, con la Pasqua e Ascensione di Gesù, cosa è cambiato?
La gente continua come prima a viaggiare o stare ferma, a comprare e vendere, a lavorare o fare festa, a gioire o piangere...
Ma come in un paesaggio caratterizzato da nebbie, all’improvviso sorge il sole e vediamo profili netti, godiamo della brillantezza di colori, persino delle sfumature.
Una Visione più nitida, nell’esperienza di Fede.
La Pasqua celebra una gioia: è la festa di coloro che si rendono conto che le sconfitte non restano lati oscuri. Nascondono Gemme sproporzionate.
Del nostro passaggio rimane una fioritura piena. E non è vero che una vita distrutta o vessata sia sciupata o finisca male, lasciandoci orfani.
Piuttosto, essa acuisce l’ascolto e tutta la percezione. Così impariamo ad accogliere l’oggettivo degli altri e la loro-nostra irripetibilità.
Apprendiamo a dialogare con la cruda realtà e anzitutto con noi stessi; così finalmente onorare Dio rispettandoci in modo integrale.
Nelle icone orientali la Pasqua è raffigurata come Discesa agli Inferi: vittoria della donna e dell’uomo comuni [riportati alla vita].
Ancora nelle icone, il Mistero dell’Ascensione è raffigurato con due angeli in bianche vesti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore, seduto in trono.
Come dire: contemplate dove è giunta una vita sprecata secondo gli uomini, ma realizzata secondo il Padre.
Obbedire alla nostra vocazione senza compromessi e in modo integrale può sembrare imprudente, temerario. Invece è pieno rispetto di sé, e ci conduce alla nostra Patria.
La natura delle nostre fibre animate dall’Amico interiore fa appello non a traguardi sociali da raggiungere, ma a ciò che siamo davvero - e il nostro Nome profondo dispiegato nel cammino di Fede accompagna infallibilmente alla Culla.
Lasciarsi influenzare e diventare esterni è perdere se stessi e smarrire la Guida, rovinando la completezza dell’essere.
Malgrado l’apparente fallimento e i rimproveri che l’inedito personale e sociale suscita, ascoltando quel Fuoco inestinguibile che ci abita, realizziamo la vita in modo integrale.
Se l'attenzione non è sullo scenario di ciò che attorno accade, trasaliamo per la nuova consapevolezza d’una genesi in atto della nostra personalità e missione: un prototipo e modalità di noi stessi che stanno misteriosamente fiorendo, e hanno valore.
A meno che non ci lasciamo condizionare e soverchiare da interferenze o calcoli esterni e circostanze dattorno, avvertiamo che c’è già un binario caratterizzante il quale chiama da dentro.
Ci si accorge che possiamo stare con noi stessi e crescere senza preclusioni d’inatteso, né codici già comunemente paradigmatici, perché Dio si esprime creando rinnovati cieli dentro di noi e sulla terra.
Il Cielo: decollare senz’allontanarsi. Non siamo soli. E il meglio deve ancora Venire.
P.S. Oggi più che mai siamo nell’era delle vetrine sociali, che palesano ogni aspetto della storia e della cronaca anche private.
Quando valorizziamo l’aspetto dell’anima che comunica con le scorze dei target, la tagliamo o squilibriamo con pensieri dominanti lasciando che venga plagiata da manipolatori - anche spirituali.
Ma il cuore che smarrisce l’Intero non traccia più il sentiero che canta il nostro Seme. Esso pretende di esprimersi. Altrimenti procederemmo a vanvera o a cliché.
Insomma, non siamo un giudizio, un’opinione, una crisi, un ricordo, bensì inventori di strade che attingono a un’acqua sempre sorgiva.
Non a un pozzo, né ad una palude, dove tutto è già accaduto, ma a una Sorgente.
[Ascensione del Signore, 1 giugno 2025]
Ascensione del Signore: non siamo orfani
(At 1,1-11)
Al termine del suo Vangelo Lc colloca l’Ascensione di Gesù nel medesimo giorno di Pasqua, a Betania e nell’atto perenne del benedirci (Lc 24,50-51) - con una forma di presentazione comprensibile secondo le conoscenze cosmologiche del tempo.
Lo stesso dicasi in At 1, dove il medesimo redattore situa l’evento dopo quaranta giorni [simbolo della continuità con l’insegnamento di Gesù: v.3] e sul Monte detto degli Ulivi (cf. v.12).
Certo, sul Calvario Gesù aveva promesso allo sventurato che lo chiama per nome: «Oggi con me sarai nel Paradiso» (Lc 23,43).
L'evangelista e autore degli Atti degli Apostoli non vuole trasmettere informazioni, bensì un insegnamento in favore delle sorti missionarie delle sue chiese - fisicamente prive del Maestro.
Lc desidera scuotere e sciogliere i dubbi affiorati nelle comunità, anzitutto circa il senso del passaggio di consegne ai discepoli, quindi della sua Presenza operante nello Spirito (vv.8.16).
Egli illumina i seguaci di terza generazione sul mistero della Pasqua del Signore, usando immagini e un genere letterario comprensibili ai suoi contemporanei, provenienti per lo più dal mondo pagano.
In un clima di attesa viva, gli scrittori apocalittici annunciavano imminente l’avvento del Regno di Dio. E nella mentalità comune l’effusione dello Spirito portava con sé l’inaugurazione del tempo ultimo.
Da tale convinzione scaturiva la speranza di una Manifestazione subitanea (limitata a Israele).
Il Veniente e il suo nuovo ordine di cose sarebbero giunti fra sconvolgimenti cosmici: diluvio, terremoti, fuoco purificatore dal cielo, risurrezione dei giusti e inizio di un mondo finalmente appagante.
Anche in alcuni fedeli si stava creando un clima di esaltazione, il quale però confliggeva con la morte del Maestro e il ritardo della sua apparizione gloriosa attesa.
Ogni speculazione sulla prossimità della fine del mondo antico si risolveva in un fiasco.
Ciò fino a esporsi a facili ironie [2Pt 3,4: «Diranno: Dov’è la sua venuta, che Egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione»].
Ma intanto in tutte le comunità si ripeteva «Vieni Signore!» (Marana tha). Però gli anni passavano e gli eventi scorrevano come prima.
La vita quotidiana - come quella dell’impero - non sembrava cambiare granché.
In tale situazione deludente, che interrogava i membri di comunità circa lo spessore della Fede, Lc si rende conto dell’equivoco: la Risurrezione ha segnato l’inizio del Regno, non la conclusione della storia.
Il mondo nuovo non si edifica attraverso scorciatoie, eventi repentini, situazioni immediate, o per procura - né sorge immaginando particolarismi, che viceversa andavano sgretolati.
I tempi erano e sono sempre lunghi, e l’impegno ricomincia da zero ogni giorno: nessuna facile età dell’oro; nessun personaggio definitivamente risolutore, garante dell’ordine e del benessere - come il Messia atteso.
Per correggere le false aspettative (i coloriti racconti degli apocrifi sono decisamente fantasiosi) At descrive l’evento d’intronizzazione regale [Ef 1,20-22; Ef 4,8-10; ebraico-cultuale in Eb 9,24-28.10,19-21; cf. Sal 110, messianico per eccellenza] in modo sobrio, e lo introduce con il dialogo fra Gesù Risorto e gli Apostoli.
La loro domanda era quella che risuonava sulle labbra dei discepoli al volgere del primo secolo: «Quando?» (v.6).
Il senso del testo: ciò non è importante, bisogna solo non perdere di vista la condizione divina del giudicato dagli uomini ma assunto a sé dal Padre.
A Dio non interessano i dibattiti e le curiosità: conta unicamente la missione universale affidata (vv.7-8).
L’esatto contrario di quanto avveniva in alcune realtà cristiane, dove alcuni avevano addirittura iniziato a trascurare i doveri di ogni giorno.
Si noti che il Risorto si rivolge ai suoi durante lo spezzare del Pane (cf. v.4) - mentre la scena dell’Ascensione si sposta al Monte degli Ulivi (vv.9-11.12).
Lc adopera quale sfondo narrativo l’icona biblica del rapimento di Elia (2Re 2,9-15) per indicare che Cristo effonde il suo Spirito e abilita i fratelli a proseguirne la missione nel mondo.
Infatti il libro dei Re narra delle opere dell’allievo Eliseo: esse avevano ricalcato le medesime del maestro, Elia.
La scenografia grandiosa usata dell'autore degli Atti non deve confondere: è per chiarire il senso del passaggio di consegne e dell’invio.
La vittoria del Risorto è il suo popolo in uscita: tale resta l’accesso alla gloria del Padre.
Nel Primo Testamento la Nube (v.9) indicava la presenza divina in un certo luogo.
Lc impiega tale immagine per indicare che la vita di Gesù non è stata fallimentare, bensì accolta da Dio.
Il mondo di Dio [i due in bianche vesti, gli stessi al sepolcro nel giorno di Pasqua: Lc 24,4-6] lo proclama in verità Signore - sebbene condannato dalle autorità come malfattore, peccatore, maledetto.
I «due uomini» (Lc 24,4) sono probabilmente Mosè ed Elia - come nella Trasfigurazione (Lc 9,30) - ossia la Legge e i Profeti, testimoni fondamentali che Cristo è l’Inviato da Dio.
Lo sguardo rivolto al cielo (vv.10-11) è invece quello dei discepoli che ancora sperano forse in un “ritorno” [termine mai adoperato nei Vangeli] di Gesù, affinché riprenda la sua opera violentemente interrotta.
Ma il messaggio «dal cielo» (v.11) chiarisce che non sarà Lui a portare a compimento il suo stesso Sogno.
Dopo i quaranta giorni [v.3: nel linguaggio del giudaismo, tempo simbolico necessario alla preparazione del discepolo] i seguaci ne hanno ricevuto lo Spirito, la forza interiore arricchita dal discernimento.
Ciò a una condizione, ben compresa dalle icone orientali, le quali nel mistero dell’Ascensione raffigurano appunto due angeli biancovestiti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore.
Come nel racconto del rapimento di Elia, è necessario che i discepoli «vedano» dove è finita una vita donata - anche disprezzata dagli uomini, eppur benedetta dal Padre.
Quindi ne vale la pena.
In tal guisa, bisogna che ciascuno la smetta di rivolgere il nasino all’insù, estraniandosi dal mondo: costi quel che costi.
Infatti, possibile solo... «Se mi vedrai» (2Re 2,10).
Nello Spirito, la Visione-Fede riempie di Cielo i nostri occhi: stacca dai giudizi della religiosità banale; dona l’intelligenza delle pieghe della storia, l’impulso per affrontare la vita faccia a faccia, la comprensione della strabiliante fecondità della Croce; la capacità di cogliere, attivare e anticipare futuro.
Da ciò deriva la «grande gioia» (Lc 24,52) degli apostoli, altrimenti incomprensibile dopo un commiato.
«Cari fratelli e sorelle, il Signore, aprendoci la via del Cielo, ci fa pregustare già su questa terra la vita divina. Un autore russo del Novecento, nel suo testamento spirituale, scriveva: “Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete” (N. Valentini - L. Žák [a cura], Pavel A. Florenskij. Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Milano 2000, p. 418)».
[Papa Benedetto, Regina Coeli 16 maggio 2010]
Ascensione del Signore
(Lc 24,46-53)
Lc interpreta la Risurrezione come compimento della Prima Alleanza (vv.44-45): tutta la storia d’Israele [come le tappe d’un cammino] riceve senso e culmine in Cristo, chiave delle Scritture.
Ora la Pasqua si espande nell’invio dello Spirito (v.49) ed è attestata nella Missione ecclesiale (vv.47-48).
La venuta dello Spirito condensa ed espande la Via del Signore. “Salendo” al Padre, il Figlio ci dona la forza di percorrerla, ed essa diventa nostra.
In particolare, la Missione è testimonianza della vicenda del Cristo; e di un cambiamento di mentalità e perdono possibili, aperti al mondo.
Tutti ricevono la grazia di percorsi che guidano alla riconciliazione con gli uomini e alla comunione con Dio. Infatti l’accento cade sulla figura di Gesù benedicente (vv.50-51).
“Ascensione” sta a dire la profondità della Pasqua, mèta dello sviluppo della storia: il messaggio del Signore e la verità della sua vicenda non sono un momento del passato.
Dall’altezza dei cieli (che appunto non ci trae dalla storia) al cammino quotidiano: il vissuto del Cristo si fa radice profonda e giudizio, fondamento e humus, verità e traguardo della nostra vicenda.
L’Ascensione (non dal mondo, ma col mondo) glorifica l'umanità. Essa raffigura la dimensione cosmica e universale della Risurrezione - nuovo modo del Cielo che Viene nello spazio dell’uomo, evento perenne.
Qual è dunque il destino di una vita spesa nella fedeltà a una vocazione profetica? L’esito terreno di Gesù - il Figlio fedele - sembrerebbe quello dei falliti d’ogni tempo e di qualsiasi cultura, filosofia o religione.
Allora vale la pena essere se stessi? Non sarebbe più costruttivo regolarsi sulla base di convenienze personali e opportunismi di cerchia?
La Pasqua celebra una gioia: è la festa di coloro che si rendono conto che le disfatte non restano lati oscuri, inutili. Nascondono Gemme sproporzionate.
Del nostro passaggio rimane una fioritura piena. E non è vero che una vita vilipesa dai prepotenti sia sciupata o finisca male.
Nelle icone orientali la Pasqua è raffigurata come Discesa agli Inferi del Cristo: vittoria della donna e dell’uomo comuni (Adamo ed Eva tratti su dai rispettivi sepolcri).
Ancora nelle icone, il Mistero dell’Ascensione è raffigurato con due angeli in bianche vesti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore, seduto in trono.
Come a dire: contemplate dove è giunta una vita sprecata secondo gli uomini ma realizzata secondo il Padre.
Obbedire alla nostra Vocazione senza compromessi e in modo integrale può sembrare imprudente e temerario. Invece è pieno rispetto di sé, e valutazione istintiva che ci porta alla nostra Patria.
La natura delle nostre fibre animate dall’Amico interiore fa appello non a traguardi sociali da raggiungere, ma a ciò che siamo davvero - e la naturalezza profonda dispiegata nel cammino di Fede conduce infallibilmente alla Culla che ci corrisponde.
Lasciarsi influenzare e diventare esterni è perdere la guida, rovinando l’interezza dell’essere in tutti quegli aspetti che il pensiero conformista considera sbagliati e invece dovranno prima o poi scendere in campo per affrontare la vita reale e completarci - anche d’inedito.
Malgrado l’apparente fallimento e i rimproveri che l’inconsueto personale (e sociale o ecclesiale) suscita, ascoltando la nostra Chiamata per Nome e quel Fuoco inestinguibile che ci abita, realizziamo noi stessi e gli altri.
Se l'attenzione non è sullo scenario di ciò che un tempo è stato o attorno accade, trasaliamo per la nuova consapevolezza d’una genesi in atto della nostra personalità e missione: un prototipo e modalità di noi stessi che stanno misteriosamente fiorendo e hanno valore.
A meno che non ci lasciamo condizionare da interferenze, soverchiare dal plagio di realtà consolidate - o calcolo di circostanze - avvertiamo che c’è un binario caratterizzante che chiama.
Ci accorgiamo di poter stare con noi stessi e crescere senza preclusioni d’inatteso o criteri già comunemente paradigmatici, perché Dio non si esprime emanando normative saccenti, ma creando rinnovati cieli dentro di noi e già sulla terra.
Il suo linguaggio è irripetibile per ciascuno: la vita nello Spirito non è questione di essere retrogradi oppure scapicollo - tifoserie infeconde.
Insomma, con la Pasqua e Ascensione di Gesù cosa è cambiato? Apparentemente nulla, perché la gente continua come prima a viaggiare o stare ferma, a comprare e vendere, a lavorare o fare festa, a gioire o piangere. La realtà è quella.
Ma come in un paesaggio caratterizzato da nebbie... d’improvviso sorge il sole e vediamo profili netti, godiamo della brillantezza di colori, persino delle sfumature. S’infrange l’isolamento personale e quello del campanile.
Infatti [prendiamo ad esempio il finale di Lc (che appare sconsolato)]: dopo che Gesù ha tentato di condurre i suoi all’Esodo di Betania (la comunità senza finti padroni delle cose di Dio; composta di soli fratelli e sorelle - addirittura coordinata da una donna, Marta) essi ritornano volentieri al culto antico, del Tempio.
Spontaneamente, gli apostoli avrebbero trovato un compromesso con l’istituzione stagnante sulla quale il Signore si era pronunciato con espressioni durissime - e che l’aveva fatto fuori con soddisfazione.
È il motivo per cui il Tempo di Pasqua non termina come forse ci si attenderebbe con l’Ascensione, ma a Pentecoste: la scoperta di un Tesoro e una Vampa vitale da non trattenere, bensì universale.
Ma intanto questa oscillazione fra un dentro e un fuori - uno stare seduti (Lc 24,49: testo greco) e un partire - ci trasmette il giusto ritmo del Cielo.
Cielo che aiuta a rientrare in se stessi ed evitare l’illusione omologante delle mode o di un club qualsiasi - non ci appartengono.
Insomma, in queste solennità pasquali siamo chiamati a scoprire periferie, regni lontani, altri modi di stare in campo... ma forse prima a svelare una radice di mistero, in quei lati nascosti di noi - o celati dall’ombra - che devono emergere per completare la personalità.
Emancipiamo dalla povertà di pensiero dell’era solita (ratificata) attorno: vale anche per il conformismo spirituale, che dall’energia paludosa dell’identificazione rassicurante vuole a tutti i costi balzare nell’esperienza piena della Fede personale.
Anche oggi in un mondo che restringe i giovani in chat e sempre più lontano dalla realtà e dalla natura, vogliamo acuire l’ascolto e tutta la percezione (che sviluppano il carattere, il desiderio di coesistere, la gioia di vivere).
Impariamo ad allargare gli ambiti, ad accogliere l’oggettivo degli altri, ma nella loro-nostra irripetibilità, accentuando i codici del mondo interno: non possiamo giocarci la vita per una missione ipotetica, ma per un’identità forte sì - e che non si sgretola al primo smottamento.
L’anima si orienta verso la sua utopia (non più ristretta) e si lascia fecondare da quell’immaginazione che prima si nutre del reale totale e poi si tuffa nei grandi ideali, persino eroici - o a punta di spillo.
Apprendiamo a dialogare con l’umano concreto e integrale: il prossimo e noi stessi. Così finalmente onorare Dio rispettandoci a tutto tondo; accettando fragilità, insicurezze e timori: interamente nostri.
Ascendere è ritrovare il Cielo in noi e nell’umanità: decollare senz’allontanarsi.
Pasqua, Ascensione. Decollare senz’allontanarsi
Ci sono prove che Vive
Qual è il destino di una vita spesa nella fedeltà a una vocazione profetica?
L’esito terreno di Gesù - il Figlio fedele - sembrerebbe quello dei falliti d’ogni tempo e di qualsiasi cultura, filosofia o religione.
Allora vale la pena essere se stessi?
Non sarebbe più costruttivo regolarsi sulla base di convenienze personali e opportunismi di gruppo?
La Pasqua celebra una gioia: è la festa di coloro che si rendono conto che le sconfitte non restano lati oscuri. Nascondono Gemme sproporzionate.
Del nostro passaggio rimane una fioritura piena. E non è vero che una vita distrutta sia sciupata o finisca male.
Nelle icone orientali la Pasqua è raffigurata come Discesa agli Inferi: vittoria della donna e dell’uomo comuni.
Ancora nelle icone, il Mistero dell’Ascensione è in genere raffigurato con due angeli in bianche vesti che indicano agli Apostoli il nimbo glorioso del Signore, seduto in trono.
Come a dire: contemplate dove è giunta una vita sprecata secondo gli uomini ma realizzata secondo il Padre.
Obbedire alla nostra Chiamata senza compromessi e in modo integrale può sembrare imprudente e temerario. Invece è pieno rispetto di sé, e ci porta alla nostra Patria.
La natura delle nostre fibre animate dall’Amico interiore fa appello non a traguardi sociali da raggiungere, ma a ciò che siamo davvero.
E la nostra identità profonda dispiegata nel cammino di Fede conduce infallibilmente alla Culla dell’essere.
Lasciarsi influenzare e diventare esterni è perdere la guida, rovinando la completezza delle capacità innate.
Malgrado l’apparente fallimento e i rimproveri che l’inedito personale e sociale suscita, ascoltando la nostra Chiamata per Nome e quel Fuoco inestinguibile che ci abita, realizziamo la vita.
Oggi più che mai siamo nell’era delle vetrine sociali, che palesano ogni aspetto della storia e della cronaca anche personali.
Ma il tronco, i rami, i fiori, i germogli e i frutti nascono dalle radici. Esse vivono ben nascoste.
Il nostro Cielo è intrecciato alla nostra terra e alla nostra polvere: sta dentro e in basso, non dietro le nuvole.
Se non c’è tempo per un’accurata percezione e un’intima riflessione, manca il modo di rinascere alla Novità di Dio.
Su tutte le pieghe dell’andare, anche spirituale, diventiamo sempre più sensibili ai commenti e giudizi che giungono in tempo reale.
Diventati membri a pieno titolo della società dell’epidermide, perdiamo la meridiana, spesso la capacità di evolvere e far crescere gli altri.
Non rinvenendo il lato segreto che c’inabita, scoraggiamo.
Perdendo lo sguardo nei meandri del giudizio diffuso e tutto esteriore, si smarrisce la capacità di gestazione del Gesù personale, e non lo si partorisce più.
Al massimo lo si farà assomigliare a una sua paradigmatica parvenza; magari convincendo che sia effettivamente quello, tutto esteriore.
In tal guisa, il Signore diventa un Gesù parere degli altri, dattorno; del gruppo, degli stendardi patronali; o quello della “diretta” [il parere di chi fa audience].
Se valorizziamo l’aspetto dell’anima che comunica con le scorze dei target, la tagliamo o squilibriamo con pensieri dominanti, lasciando che venga plagiata da manipolatori - anche spirituali.
Ma il cuore che perde l’intero non guida più l’anima in ciò che caratterizza la Vocazione e il nostro Seme.
L’intimo pretende di esprimersi. Ovvero procedemmo a vanvera, o a cliché.
Manon siamo un giudizio, un’opinione, una crisi, un ricordo, bensì inventori di strade che attingono a un’acqua sempre sorgiva.
Non a un pozzo, né ad una palude, dove tutto è già accaduto - ma a una Sorgente.
Se l'attenzione non è sullo scenario conformista di ciò che un tempo è stato o attorno accade, trasaliamo per la nuova consapevolezza d’una genesi in atto.
Una ri-nascita della nostra personalità e missione: un prototipo e modalità di noi stessi che stanno misteriosamente fiorendo e hanno valore.
A meno che non ci lasciamo condizionare e soverchiare da interferenze culturali o calcolo di circostanze, avvertiamo che c’è un binario caratterizzante che ci chiama.
Ci si accorge che possiamo stare con noi stessi e crescere senza preclusioni d’inatteso, o codici già comunemente paradigmatici.
Perché Dio non si esprime emanando normative tuttologhe, ma creando rinnovati cieli dentro di noi e già sulla terra.
Insomma, con la Pasqua e Ascensione di Gesù cosa è cambiato?
Apparentemente nulla, perché la gente continua come prima a viaggiare o stare ferma, a comprare e vendere, a lavorare o fare festa, a gioire o piangere...
Eppure, come in un paesaggio caratterizzato da nebbie, d’improvviso sorge il sole e vediamo profili netti, godiamo della brillantezza di colori, persino delle sfumature.
Si acuisce l’ascolto e tutta la percezione.
Impariamo ad accogliere l’oggettivo degli altri e la loro-nostra irripetibilità.
Apprendiamo a dialogare con la realtà e anzitutto con noi stessi; così finalmente ad onorare l’Eterno, rispettandoci in modo integrale.
Il Cielo: decollare senz’allontanarsi. Non siamo soli. E il meglio deve ancora Venire.
Nella liturgia si narra l’episodio dell’ultimo distacco del Signore Gesù dai suoi discepoli (cfr Lc 24,50-51; At 1,2.9); ma non si tratta di un abbandono, perché Egli rimane per sempre con loro - con noi - in una forma nuova. San Bernardo di Chiaravalle spiega che l’ascensione al cielo di Gesù si compie in tre gradi: “il primo è la gloria della risurrezione, il secondo il potere di giudicare e il terzo sedersi alla destra del Padre” (Sermo de Ascensione Domini, 60, 2: Sancti Bernardi Opera, t. VI, 1, 291, 20-21). Tale evento è preceduto dalla benedizione dei discepoli, che li prepara a ricevere il dono dello Spirito Santo, affinché la salvezza sia proclamata ovunque. Gesù stesso dice loro: “Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso” (cfr Lc 24,47-49).
Il Signore attira lo sguardo degli Apostoli - il nostro sguardo - verso il Cielo per indicare loro come percorrere la strada del bene durante la vita terrena. Egli, tuttavia, rimane nella trama della storia umana, è vicino a ciascuno di noi e guida il nostro cammino cristiano: è compagno dei perseguitati a causa della fede, è nel cuore di quanti sono emarginati, è presente in coloro a cui è negato il diritto alla vita. Possiamo ascoltare, vedere e toccare il Signore Gesù nella Chiesa, specialmente mediante la parola e i sacramenti. A tale proposito, esorto i ragazzi e i giovani che in questo tempo pasquale ricevono il sacramento della Cresima, a restare fedeli alla Parola di Dio e alla dottrina appresa, come pure ad accostarsi assiduamente alla Confessione e all’Eucaristia, consapevoli di essere stati scelti e costituiti per testimoniare la Verità. Rinnovo poi il mio particolare invito ai fratelli nel Sacerdozio, affinché “nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica” (Lettera di indizione dell’Anno Sacerdotale) e sappiano utilizzare con saggezza anche i mezzi di comunicazione, per far conoscere la vita della Chiesa e aiutare gli uomini di oggi a scoprire il volto di Cristo (cfr Messaggio XLVI G.M. Com. Soc., 24 gennaio 2010).
Cari fratelli e sorelle, il Signore, aprendoci la via del Cielo, ci fa pregustare già su questa terra la vita divina. Un autore russo del Novecento, nel suo testamento spirituale, scriveva: “Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete” (N. Valentini - L. Žák [a cura], Pavel A. Florenskij. Non dimenticatemi. Le lettere dal gulag del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, Milano 2000, p. 418).
[Papa Benedetto, Regina Coeli 16 maggio 2010]
1. In molti Paesi, tra i quali l'Italia, è stata posticipata ad oggi la solennità dell'Ascensione di Cristo. Con questa festa ricordiamo che Gesù, dopo la sua risurrezione, si mostrò vivo ai discepoli per quaranta giorni (At 1,3), al termine dei quali, avendoli condotti sul monte degli Ulivi, "fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo" (At 1,9). Risorto e asceso al Cielo, il Redentore costituisce per i credenti l'àncora di salvezza e di conforto nel quotidiano impegno al servizio della verità e della pace, della giustizia e della libertà. Salendo al Cielo, Egli ci riapre la via verso la Patria beata, non però per alienarci dalla storia, ma per dare al nostro cammino il respiro della speranza.
2. Ogni giorno, infatti, dobbiamo confrontarci con le realtà di questo mondo. Ce lo ricorda anche la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che quest'oggi celebriamo.
I più recenti progressi nelle comunicazioni e nelle informazioni hanno posto la Chiesa di fronte a inedite possibilità di evangelizzazione. Ho pensato, perciò, di proporre quest'anno un tema di grande attualità: "Internet: un nuovo forum per proclamare il Vangelo".
Dobbiamo entrare in questa moderna e sempre più fitta rete di comunicazione con realismo e fiducia, persuasi che, se viene utilizzata con competenza e consapevole responsabilità, può offrire opportunità valide per la diffusione del messaggio evangelico.
Non si abbia, pertanto, paura di "prendere il largo" nel vasto oceano informatico. Anche attraverso di esso la Buona Notizia può raggiungere il cuore degli uomini e delle donne del nuovo millennio.
3. Non va, tuttavia, mai dimenticato che il segreto di ogni azione apostolica è anzitutto la preghiera. E proprio in intensa preghiera, dopo l'Ascensione, i discepoli vissero nel Cenacolo attendendo lo Spirito Santo promesso da Cristo. In mezzo a loro stava anche Maria, la Madre di Gesù (At 1,14). Mentre ci prepariamo a celebrare, domenica prossima, la solenne festa della Pentecoste, invochiamo con Maria lo Spirito Santo, perché infonda nei cristiani rinnovato slancio missionario e guidi i passi dell'umanità sulla via della solidarietà e della pace.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 12 maggio 2002]
Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra l’Ascensione di Gesù al cielo, avvenuta quaranta giorni dopo la Pasqua. Contempliamo il mistero di Gesù che esce dal nostro spazio terreno per entrare nella pienezza della gloria di Dio, portando con sé la nostra umanità. Cioè noi, la nostra umanità entra per la prima volta nel cielo. Il Vangelo di Luca ci mostra la reazione dei discepoli davanti al Signore che «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (24,51). Non ci furono in essi dolore e smarrimento, ma «si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia» (v. 52). È il ritorno di chi non teme più la città che aveva rifiutato il Maestro, che aveva visto il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro, aveva visto la dispersione dei discepoli e la violenza di un potere che si sentiva minacciato.
Da quel giorno per gli Apostoli e per ogni discepolo di Cristo è stato possibile abitare a Gerusalemme e in tutte le città del mondo, anche in quelle più travagliate dall’ingiustizia e dalla violenza, perché sopra ogni città c’è lo stesso cielo ed ogni abitante può alzare lo sguardo con speranza. Gesù, Dio, è uomo vero, con il suo corpo di uomo è in cielo! E questa è la nostra speranza, è l'ancora nostra, e noi siamo saldi in questa speranza se guardiamo il cielo.
In questo cielo abita quel Dio che si è rivelato così vicino da prendere il volto di un uomo, Gesù di Nazaret. Egli rimane per sempre il Dio-con-noi – ricordiamo questo: Emmanuel, Dio con noi – e non ci lascia soli! Possiamo guardare in alto per riconoscere davanti a noi il nostro futuro. Nell’Ascensione di Gesù, il Crocifisso Risorto, c’è la promessa della nostra partecipazione alla pienezza di vita presso Dio.
Prima di separarsi dai suoi amici, Gesù, riferendosi all’evento della sua morte e risurrezione, aveva detto loro: «Di questo voi siete testimoni» (v. 48). Cioè i discepoli, gli apostoli sono testimoni della morte e della risurrezione di Cristo, in quel giorno, anche della Ascensione di Cristo. E in effetti, dopo aver visto il loro Signore salire al cielo, i discepoli ritornarono in città come testimoni che con gioia annunciano a tutti la vita nuova che viene dal Crocifisso Risorto, nel cui nome «saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» (v. 47). Questa è la testimonianza – fatta non solo con le parole ma anche con la vita quotidiana – la testimonianza che ogni domenica dovrebbe uscire dalla nostre chiese per entrare durante la settimana nelle case, negli uffici, a scuola, nei luoghi di ritrovo e di divertimento, negli ospedali, nelle carceri, nelle case per gli anziani, nei luoghi affollati degli immigrati, nelle periferie della città… Questa testimonianza noi dobbiamo portare ogni settimana: Cristo è con noi; Gesù è salito al cielo, è con noi; Cristo è vivo!
Gesù ci ha assicurato che in questo annuncio e in questa testimonianza saremo «rivestiti di potenza dall’alto» (v. 49), cioè con la potenza dello Spirito Santo. Qui sta il segreto di questa missione: la presenza tra noi del Signore risorto, che con il dono dello Spirito continua ad aprire la nostra mente e il nostro cuore, per annunciare il suo amore e la sua misericordia anche negli ambienti più refrattari delle nostre città. È lo Spirito Santo il vero artefice della multiforme testimonianza che la Chiesa e ogni battezzato rendono nel mondo. Pertanto, non possiamo mai trascurare il raccoglimento nella preghiera per lodare Dio e invocare il dono dello Spirito. In questa settimana, che ci porta alla festa di Pentecoste, rimaniamo spiritualmente nel Cenacolo, insieme alla Vergine Maria, per accogliere lo Spirito Santo.
[Papa Francesco, Regina Coeli 8 maggio 2016]
Lc 1,39-56 (46-56)
Il canto-insieme di Maria ed Elisabetta riassume e celebra la storia della salvezza. Esso riflette una lauda liturgica giudeo cristiana propria delle prime comunità di ‘anawim.
I piccoli e fedeli sperimentano il tracciato ideale della storia, della quale paradossalmente diventano motore.
Le due Donne porgono voce alle ‘chiese’ povere e minoritarie, spesso sfidate dalle forze del potere imperiale in duelli drammatici.
Raffigurano le primitive assemblee, fraternità minuscole; focolari di convivenza e vita intima.
In esse le anime credenti facevano esperienza di un Dio che non rimane impassibile nei confronti del grido dei minimi perseguitati.
In un quadro di visita famigliare e (appunto) di lode, si riflette tutta la destinazione del nuovo Popolo.
La diversità tra le due figure sottolinea lo scatto di Fede in Maria, rispetto alle attese della ‘parentela’ religiosa.
In Elisabetta il Primo Patto ha già percorso tutto il suo cammino, e non andrebbe molto oltre.
La storia degli uomini è arida, ma Dio la feconda di novità e letizia, che finalmente muta i confini.
Le vie previste sono giunte al termine; ancora cieche e sottomesse alle potenze della terra... Esse non rendono forte il debole.
La Fede trasmuta interamente i fondamenti della storia antidivina, perché consente allo Spirito d’impadronirsi della vita personale e permearla, rendendola capace di azione benedicente.
Nel modo di credere di Maria noi conosciamo ciò che non sappiamo - perché abbiamo una Visione che guida, un’immagine sacra che agisce dentro, come un istinto innato.
E possediamo già ciò che speriamo - perché la Fede è un colpo di mano, un’azione che si appropria, un atto-calamita (cf. Eb 11,1).
[Il suo vertice è scoprire stupori di recupero impossibile, a partire dai lati in ombra e perfino che detestiamo di noi - vicenda propria degli scartati].
L’Inno esprime dunque la traiettoria della vita del credente e la direzione della nostra esistenza, che ricompone l’essere malfermo nell’armonia nuova del progetto divino.
Tesi classica già del Primo Testamento: Dio solleva dalla polvere il misero e innalza il povero dalle immondizie.
Egli non s’indirizza a coloro che sono pieni di sé, ma a chi sa rivolgersi alle profondità, e come Maria le estende agli altri.
Entro tale vicenda del perdersi per ritrovarsi - incarnata sia dai discepoli che dalle chiese - si rintraccia l’esperienza del mattino di Pasqua.
Lc evangelista dei poveri celebra questo ribaltamento di situazioni in molti episodi di persone ed eventi ai margini.
Anche il Magnificat ribadisce: le scelte del Signore sono davvero estrose. Liberamente Egli passa per gli sconfitti e i derisi, che trovano guadagno nella perdita e vita dalla morte.
Maria in specie diventa figura espressiva della bassezza [ταπείνωσις (tapeínōsis, “abbassamento”), da ταπεινός (tapeinós, “basso”); v.48 testo greco] come ‘radice’ della trasformazione dell’essere - nell’Imprevedibile di Dio.
Egli è fedele.
[Visitazione B.V. Maria, 31 maggio]
(Lc 1,39-45)
‘Incarnazione’: se lo sguardo non si fissa su alcune idee ma lievemente inizia a posarsi sulla condizione umana, ecco esordire un regno di pace.
La folla esitante nel paltò antico può esultare, perché giunge quella Presenza lieve ma decisiva che libera e ci dona respiro.
Opportunità inconsueta d’un riscatto a misura di donna e uomo, persino di bimbi.
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione, malgrado la religione della mediocrità, dei soprusi - sguardi arcigni e paure.
Maria aiuta ciascuno a capire come sostituire la carezza d’un cuore di carne a tante estranee prescrizioni su fredde lastre di pietra.
La sua pace-Shalom non viene augurata al professionista del sacro. Egli omette l’unicità della Chiamata, della Sorpresa, della Persona.
Zaccaria non vive Beatitudini: è già identificato, quindi radicalmente incredulo.
Le grandi reminiscenze e il suo ruolo tipico lo rendono refrattario alla Novità dello Spirito.
Inutile persino rivolgergli la parola, benché padrone della Casa in cui si ‘ricordano’ le Promesse. Un’abitudine a fare memoria che oramai non attende più nulla.
L’Incontro decisivo? Forse ci sarà... ma chissà quando.
L’attesa mitica distrae, non coinvolge. Il riattualizzare idolatrico non rallegra; fissa, non fa danzare.
La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia; non sul set, sul serio. [Non è semplice comprenderlo nel tempo dell’esteriorità].
Maria non ambisce a essere e mostrarsi “vip”; si colloca spontaneamente fra gente normale, che soffre una condizione penosa.
Non rincorre progetti, le sue idee precedenti, qualche ticchio vincolato che gli rimbalza nel pensiero. Questa la purezza di Maria.
Chi le assomiglia non ha bisogno di mendicare o esibire un riconoscimento, traguardi, credenziali, titoli, benemerenze. Questa la sua incontaminatezza.
Non ha frainteso Dio scambiandolo con delle apparenze. Non si è lasciata ingabbiare da luoghi comuni, perché non ha ostacolato la sua identità irripetibile, pensando di essere sbagliata.
Con mente silenziosa e distacco da giudizi ha consentito al suo istinto vocazionale di rigenerarla, concepire, donare vita.
Non ha inseguito un’immagine ideale, priva di pesi (e di senso), come fosse calata in un personaggio - e conformista.
Se si è corretta non lo ha fatto ripiegando su se stessa, ma sorpassando e tirando dritto; così ha scoperto come regolarsi, ma per volare.
Non gli è andato tutto bene, come se già avesse il film della sua vita in testa. Ha avuto nascondigli e dubbi, travagli da superare.
Non pensava, non parlava, non agiva come fosse “infinita”; ma con decisione, sì.
Non aveva sempre successo, eppure non si ritraeva solo vereconda.
Affrontava i conflitti, tuttavia senza quei pesi mentali che c’imbrigliano di fissazioni [anche sacrali] che a Dio non interessano, e bloccano il cammino.
Negli eventi e dentro sé coglieva i momenti dell’insicurezza per ricordarsi della Perla da vagliare.
Ricerca appassionata che l’ha tenuta in Vita, sapendo che le cose dell’anima sono differenti.
Non era una santa buonista, conduceva battaglie - e con attività di denuncia spirituale.
Infatti non chiede autorizzazioni a intraprendere un viaggio azzardato.
Neppure ‘vede’ l’uomo dell’istituzione ufficiale: il sacerdote dalla ritualità scandita nei minimi dettagli.
Si riconosce invece in Elisabetta. Anche lei una dimenticata, ma che coltiva la promessa («Eli-shébet»: il Signore Mio-Personale ha ‘giurato’; come dire “Dio Mi è fedele”).
Zaccaria invece («zachar-Ja» il Signore sì ma non “mio” bensì d'Israele, ‘ricorda’) non riesce a passare dalla religiosità regolare alla Fede che coinvolge il suo Eros fondante.
Maria non voleva essere finta, non desiderava diventare artificiale - quindi inutile, e nel tempo frantumata.
Ambiva a piantarsi ancora e sempre meglio sulle proprie Radici.
Se non riusciva a capire qualcosa, utilizzava queste sospensioni per proiettarsi avanti, alla ricerca di tutto lo scrigno prezioso della sua destinazione.
Non dava spazio alle tossine della mente create dalla consuetudine senza sogno, dai paradigmi del suo luogo e tempo. Non ha immaginato di rimanere sempre la stessa.
Sceglie di non deporre il lato evolutivo: capisce che poteva essere stimolata proprio dalle amarezze, dagli abbandoni, dagli impatti, dalle ferite.
Arca dell’Alleanza dall’intimità visionaria e attuabile, senza (dentro) gelide tavole di legalismi; perché Dio non si esprime emanando norme, ma nell’Amore - che non demolisce.
Aveva col Cielo un rapporto d’Incarnazione; non esteriore e senz’Unicità [di pietra come per obbedienza intimidita]. Nel suo midollo: Assomigliante - da Pari a Pari.
Dalla religione dei molti subalterni alla Fede?
Non una Chiesa delle cunette: Maria è la nuova coscienza e il diverso orientamento dell’umanità.
Magnificat: parentela religiosa, e lo scatto della Fede
(Lc 1,46-55)
Sebbene il contesto in lingua greca dei primi codici alluda a un cantico proprio di Elisabetta (vv.42-46), la tradizione successiva ha voluto porre l’inno sulla bocca di Maria.
Il loro canto-insieme riassume e celebra la storia della salvezza. Esso riflette una lauda liturgica giudeo cristiana propria delle prime comunità di ‘anawim.
[Oggi come allora i piccoli e fedeli sperimentano il tracciato ideale della storia, della quale paradossalmente diventano motore].
Maria ed Elisabetta danno voce alle ‘chiese’ povere e minoritarie, spesso sfidate dalle forze del potere imperiale in duelli drammatici.
Fraternità che facevano esperienza di un Dio che non rimane impassibile nei confronti del grido dei minimi perseguitati.
In un quadro di visita famigliare e (appunto) di lode, si riflette tutta la destinazione del nuovo Popolo.
La diversità fra le due donne sottolinea lo scatto della Fede in Maria, rispetto alle attese della ‘parentela’ religiosa.
In Elisabetta il Primo Patto ha già percorso tutto il suo cammino, e non andrebbe molto oltre.
La storia degli uomini è arida, ma l’Eterno la feconda di novità e letizia, che finalmente muta i confini.
Le vie previste sono giunte al termine; ancora cieche e sottomesse alle potenze della terra - autodivinizzanti...
Ma qui si rivela che la sicurezza dei grandi è vana, inesistente; ricercatrice di soli profitti.
E malgrado i millenni, sono ancora troppi coloro che rivestono le loro posizioni di proclami apparentemente devoti - inconsistenti d’amore che aiuta e arricchisce i piccoli, che rendano forte il debole.
La Fede trasmuta interamente i fondamenti della storia antidivina, perché consente allo Spirito d’impadronirsi della vita personale e fecondarla, rendendola capace di azione benedicente.
Nel modo di credere di Maria noi conosciamo ciò che non sappiamo - perché abbiamo una Visione che guida, un’Immagine che agisce dentro come un istinto innato.
E possediamo già ciò che speriamo - perché la Fede è un colpo di mano, un’azione che si appropria, un atto-calamita (cf. Eb 11,1).
Il suo vertice sarà scoprire stupori di recupero impossibile, a partire dai lati in ombra e che detestiamo di noi [proprio degli scartati].
L’inno esprime dunque la traiettoria della vita del credente in Cristo e la direzione della nostra esistenza che poco a poco o d’improvviso ricompone l’essere malfermo, nell’armonia nuova del progetto divino.
Tesi classica già del Primo Testamento: Dio solleva dalla polvere il misero e innalza il povero - l’emarginato (con indifferenza) - dalle immondizie.
Egli non s’indirizza a coloro che sono pieni di sé e con ruoli identificati, bensì a chi sa rivolgersi alle profondità, e come Maria le estende agli altri.
Entro tale vicenda del perdersi per ritrovarsi - una logica incarnata sia dai discepoli che dalle chiese - si rintraccia l’esperienza del mattino di Pasqua, i cui Vangeli “descrivono” la Risurrezione come capacità di vedere aperte le tombe e scorgere vita persino fra segni di assenza, e nel luogo della morte.
Lc evangelista dei poveri celebra questo ribaltamento di situazioni in molti episodi: fariseo e pubblicano, figlio prodigo e primogenito, samaritano e sacerdote levita, Lazzaro e ricco epulone, primo e ultimo posto, Beatitudini e ‘guai’...
Anche il Magnificat ribadisce: le scelte del Signore sono davvero estrose per la mentalità religiosa da nomenclatura.
Liberamente Egli passa per gli sconfitti, i derisi, ritenuti stupidi, ignobili; i deboli, emarginati da cricche, rifiutati dal club degli acclamati.
Il cantico è un ‘tipo’ perfetto di questa predilezione, che trova guadagno nella perdita e vita dalla morte, in persone ed eventi ai margini.
Maria in specie diventa figura espressiva della bassezza [ταπείνωσις (tapeínōsis, “abbassamento”), da ταπεινός (tapeinós, “basso”); v.48 testo greco] come ‘radice’ della trasformazione dell’essere - nell’Imprevedibile di Dio.
In Maria ed Elisabetta gli ‘anawim contemplavano la festa del trionfo dei figli, delle creature che ripetono in sé la Pasqua del Cristo.
Accadimento e proposta che anche nel tempo dell’emergenza fa rifiorire la vita dal fallimento delle mitologie del potere e della forza.
Nel Risorto che mostra sempre le piaghe, ovunque i credenti si sono resi conto: la povertà del cuore e di vita vissuta dal Cristo e dalla (Chiesa) Madre è la vera forza dirompente della storia.
Dio è fedele.
«L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché ha rivolto il suo sguardo alla bassezza della sua serva» (Lc 1,46b-48a).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ritieni la munificenza divina una proprietà?
Come proclami le tue consapevolezze personali ed ecclesiali - di compimento in Cristo - delle Promesse dell’Alleanza?
[…] Meditando i misteri della luce del santo Rosario, siete saliti su questo colle ove avete rivissuto spiritualmente, nel racconto dell’evangelista Luca, l'esperienza di Maria, che da Nazaret di Galilea "si mise in viaggio verso la montagna" (Lc 1,39) per raggiungere il villaggio della Giudea dove abitava Elisabetta col marito Zaccaria.
Che cosa ha spinto Maria, giovane ragazza, ad affrontare quel viaggio? Che cosa, soprattutto, l'ha spinta a dimenticare se stessa, per spendere i primi tre mesi della sua gravidanza al servizio della cugina bisognosa di assistenza? La risposta sta scritta in un Salmo: "Corro per la via dei tuoi comandamenti, [Signore,] / perché hai dilatato il mio cuore" (Sal 118,32). Lo Spirito Santo, che rese presente il Figlio di Dio nella carne di Maria, dilatò il suo cuore alle dimensioni di quello di Dio e la spinse sulla via della carità. La Visitazione di Maria si comprende alla luce dell’evento che immediatamente precede nel racconto del Vangelo di Luca: l'annuncio dell'Angelo e il concepimento di Gesù ad opera dello Spirito Santo. Lo Spirito scese sulla Vergine, la potenza dell'Altissimo stese su di Lei la sua ombra (cfr Lc 1,35). Quello stesso Spirito la spinse ad "alzarsi" e a partire senza indugio (cfr Lc 1,39), per essere di aiuto all'anziana parente. Gesù ha appena incominciato a formarsi nel seno di Maria, ma il suo Spirito ha già riempito il cuore di Lei, così che la Madre inizia già a seguire il Figlio divino: sulla via che dalla Galilea conduce in Giudea è lo stesso Gesù a "spingere" Maria, infondendole lo slancio generoso di andare incontro al prossimo che ha bisogno, il coraggio di non mettere avanti le proprie legittime esigenze, le difficoltà, le preoccupazioni, i pericoli per la sua stessa vita. E’ Gesù che l’aiuta a superare tutto lasciandosi guidare dalla fede che opera mediante la carità (cfr Gal 5,6).
Meditando questo mistero, noi vediamo bene che cosa significhi che la carità cristiana è una virtù "teologale". Vediamo che il cuore di Maria è visitato dalla grazia del Padre, è permeato dalla forza dello Spirito e spinto interiormente dal Figlio; vediamo cioè un cuore umano perfettamente inserito nel dinamismo della Santissima Trinità. Questo movimento è la carità, che in Maria è perfetta e diventa modello della carità della Chiesa, come manifestazione dell'amore trinitario (cfr Enc. Deus caritas est, 19). Ogni gesto di amore genuino, anche il più piccolo, contiene in sé una scintilla del mistero infinito di Dio: lo sguardo di attenzione al fratello, il farsi vicino a lui, la condivisione del suo bisogno, la cura delle sue ferite, la responsabilità per il suo futuro, tutto, fin nei minimi dettagli, diventa "teologale" quando è animato dallo Spirito di Cristo. Ci ottenga Maria il dono di saper amare come Lei ha saputo amare. A Maria affidiamo questa singolare porzione di Chiesa che vive e lavora in Vaticano; Le affidiamo la Curia Romana e le istituzioni ad essa collegate, perché lo Spirito di Cristo animi ogni compito ed ogni servizio. Ma da questo colle allarghiamo lo sguardo a Roma e al mondo intero, e preghiamo per tutti i cristiani, perché possano dire con san Paolo: "l'amore di Cristo ci spinge", e con l'aiuto di Maria sappiano diffondere nel mondo il dinamismo della carità.
Vi ringrazio ancora per la vostra devota e calorosa partecipazione. Portate il mio saluto ai malati, agli anziani e a ciascuno dei vostri cari. A tutti imparto di cuore la mia Benedizione.
[Papa Benedetto, 31 maggio 2007]
"Maria si mise in viaggio verso la montagna..." (Lc 1,39).
Risuonano nel nostro cuore le parole dell'evangelista Luca: "Appena ebbe udito il saluto di Maria,... Elisabetta fu piena di Spirito Santo" (1,41).
L'incontro tra la Madonna e la cugina Elisabetta è come una sorta di "piccola Pentecoste". Vorrei sottolinearlo questa sera alla vigilia ormai della grande solennità dello Spirito Santo.
Nel racconto evangelico, la Visitazione segue immediatamente l'Annunciazione: la Vergine Santa, che porta in grembo il Figlio concepito per opera dello Spirito Santo, irradia intorno a sé grazia e gaudio spirituale. E' la presenza in Lei dello Spirito che fa sussultare di gioia il figlio di Elisabetta, Giovanni, destinato a preparare la via al Figlio di Dio fatto uomo.
Dove c'è Maria, c'è Cristo; e dove c'è Cristo, c'è il suo Spirito Santo, che procede dal Padre e da Lui nel mistero sacrosanto della vita trinitaria. Gli Atti degli Apostoli sottolineano a ragione la presenza orante di Maria, nel Cenacolo, insieme con gli Apostoli riuniti in attesa di ricevere la "potenza dall'Alto". Il "sì" della Vergine attira sull'umanità il Dono di Dio: come nell'Annunciazione, così nella Pentecoste. Così continua ad avvenire nel cammino della Chiesa.
Riuniti in preghiera con Maria, invochiamo una copiosa effusione dello Spirito Santo sulla Chiesa intera, perché a vele spiegate prenda il largo nel nuovo millennio. In modo particolare, invochiamolo su quanti operano quotidianamente al servizio della Sede Apostolica, affinché il lavoro di ciascuno sia sempre animato da spirito di fede e di zelo apostolico.
Si chiude il nostro pellegrinaggio mariano nella quiete della sera e questo ci induce anche a pensare all'orizzonte ultimo della nostra esistenza. La Vergine Maria cammina con la Chiesa pellegrinante e, al tempo stesso, regna nel Paradiso tra gli Angeli e i Santi. Ella ci insegni, con la sua Visitazione, che la gioia si trova spendendo la vita per Cristo. E' così, infatti, che ci si prepara ad entrare con Lui nella gloria del Padre celeste. Possa lo Spirito Santo rafforzare i nostri passi su questa via, che ci conduce al Cielo.
Con questi sentimenti, tutti di cuore vi benedico.
E’ molto significativo che l’ultimo giorno di maggio ci porti la festa della Visitazione. Con questa conclusione è come se volessimo dire che ogni giorno di questo mese è stato una sorta di visitazione. Abbiamo vissuto durante il mese di maggio una continua visitazione, così come l’hanno vissuta Maria ed Elisabetta. Siamo grati a Dio che questo fatto biblico oggi ci sia riproposto dalla Liturgia.
A tutti voi, qui riuniti così numerosi, auguro che la grazia della visitazione mariana, vissuta durante il mese di maggio e specialmente in quest’ultima serata, si prolunghi nei giorni che verranno.
[Papa Giovanni Paolo II, 31 maggio 2001]
“It is part of the mystery of God that he acts so gently, that he only gradually builds up his history within the great history of mankind; that he becomes man and so can be overlooked by his contemporaries and by the decisive forces within history; that he suffers and dies and that, having risen again, he chooses to come to mankind only through the faith of the disciples to whom he reveals himself; that he continues to knock gently at the doors of our hearts and slowly opens our eyes if we open our doors to him” [Jesus of Nazareth II, 2011, p. 276) (Pope Benedict, Regina Coeli 22 maggio 2011]
«È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”» (Gesù di Nazareth II, 2011, 306) [Papa Benedetto, Regina Coeli 22 maggio 2011]
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athenagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
This is to say that Jesus has put himself on the level of Peter, rather than Peter on Jesus' level! It is exactly this divine conformity that gives hope to the Disciple, who experienced the pain of infidelity. From here is born the trust that makes him able to follow [Christ] to the end: «This he said to show by what death he was to glorify God. And after this he said to him, "Follow me"» (Pope Benedict)
Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Papa Benedetto)
Unity is not made with glue [...] The great prayer of Jesus is to «resemble» the Father (Pope Francis)
L’Unità non si fa con la colla […] La grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre (Papa Francesco)
Divisions among Christians, while they wound the Church, wound Christ; and divided, we cause a wound to Christ: the Church is indeed the body of which Christ is the Head (Pope Francis)
Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo (Papa Francesco)
The glorification that Jesus asks for himself as High Priest, is the entry into full obedience to the Father, an obedience that leads to his fullest filial condition [Pope Benedict]
La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale [Papa Benedetto]
All this helps us not to let our guard down before the depths of iniquity, before the mockery of the wicked. In these situations of weariness, the Lord says to us: “Have courage! I have overcome the world!” (Jn 16:33). The word of God gives us strength [Pope Francis]
don Giuseppe Nespeca
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