Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Talenti, mine - Doni del nuovo Regno
(Lc 19,11-28)
Come può una comunità rivelare la Presenza di Dio? Valorizzando e accentuando le sfaccettature della vita, difendendole, promuovendole, e rallegrando.
Perché c’è chi cresce e chi no? Per quale motivo chi avanza meno degli altri, proprio nel cammino “religioso” rischia di rovinare?
Tutti noi abbiamo punti di forza, pallini, qualità e inclinazioni esclusive. Ciascuno riceve doni da battistrada [fosse anche uno solo - come la sua Chiamata] e può inserirsi in servizi ecclesiali.
Ognuno - anche il normalmente escluso come Zaccheo (vv.1-10) - ha un bagaglio di risorse impareggiabili che può trasmettere, per l’arricchimento della comunità.
Lc narra questa parabola perché nota che alcuni convertiti delle sue assemblee hanno difficoltà a sbloccarsi e innescare un’evoluzione che riguardi anche il prossimo.
Qualcuno proprio non fiorisce, appiccicandosi al suo ministero, al personaggio, a ruoli, precedenze e gerarchie.
A dirla tutta e in modo chiaro, fra di essi nasce una competizione che concerne l’importanza degli incarichi ecclesiali [è il vero senso evangelico dei «talenti secondo capacità» del testo parallelo Mt 25,15].
Mansioni insidiate anche dall’arrembaggio dei provenienti dal paganesimo, meno intimiditi e più sciolti dei fedeli giudaizzanti un po’ da museo.
Il conseguente puntiglio irrigidisce l’atmosfera interna, accentua difficoltà a collaborare e scambiarsi doti, risorse - arricchendo gli uni gli altri.
Situazioni vanitose e competitive che conosciamo.
Tutti riceviamo qualche accento del Regno, beni da moltiplicare trasmettendo, ad esempio (come qui) la Parola di Dio.
Dono unico, ma non raro: prosperità immensa e dalle virtù propulsive di vita straordinarie... per ciascuno e tutti.
Così lo spirito di servizio e condivisione, l’attitudine al discernimento e valorizzazione delle unicità irripetibili, e tanto altro.
Beninteso, la comunità cresce non se produce, colloca in vetrina, “frutta” e rende. Essa è composta di membri che sanno collocarsi spontaneamente!
Donne e uomini di Fede non cercano meriti, non trattengono per sé; si relazionano con Dio e il prossimo in modo sapiente.
Anche non in termini e formule “corretti” - secondo libretto d’istruzione.
Purtroppo, per obbligare al rispetto di tabelloni e configurazione, e ricalcare il costume… i veterani facevano leva sull’inclinazione popolare a non mettersi nei guai.
Situazione e “percezione” a rovescio, che paralizzava la vita anche interiore.
Dai tempi di Gesù, non sono mancate situazioni dominate da gravi paure, e desiderio di evitare ricatti [diceva sbalordita mia madre dei leaders nostrani, di provincia (quelli disonesti): «Usano la religione come un’arma!»].
L’idea stessa di Dio come legislatore e giudice (vv.21-22) induceva i credenti a non crescere né trasmettere, anzi a chiudersi e allontanarsi dal progetto del Padre.
Pena l’esclusione sociale, spesso è ancora (perfino) in clima di cammino sinodale, fatto divieto di accogliere nuove esperienze di Dio…
Gravissimo, incontrare autenticamente se stessi, aprire spazi personali (persino radicalmente vocazionali), tracciare propri cammini.
Così per secoli. Identificazione e basta.
Per comprendere il senso del v.22 dove nella traduzione CEI il Re sembrerebbe ribadire l’idea meschina del lavativo diseducato, basta inserire il punto interrogativo.
I codici originali in greco non avevano punteggiatura:
«Gli dice: Dalla tua stessa bocca ti giudico, servo malvagio! Sapevi che io sono un uomo severo, che prendo quello che non ho depositato e che mieto quello che non ho seminato?».
Come dire: «Ma chi te lo ha insegnato questo, diseducando?!».
Lo stesso vale per il passo parallelo di Mt 25,26: «Ma rispondendo il suo Signore gli disse: Servo malvagio e poltrone... Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso?».
Il Signore ribadisce con forza che un’idea deforme del Cielo può incidere sulle linee portanti della personalità e rovinare l’esistenza delle persone.
Ciò se esse percepiscono la Libertà e il rischio dell’Amore come fosse una colpa e comunque un pericolo di peccato che li potrebbe condurre al deleterio di non essere più considerati “in grazia di Dio”.
Le religioni dell’antichità avevano bisogno di seguaci anche immaturi e ottusi, senza nerbo - i quali si accontentavano di evitare pericoli, e s’attaccavano alle piccine sicurezze del tran tran d’ogni giorno.
Invece, il Padre desidera cuori adulti, che intraprendono e rischiano per amore e per l’amore.
Se il Dio del folklore necessita di greggi ottuse e servili, Cristo ha bisogno di amici, famigliari e collaboratori temerari, capaci di camminare sulle loro gambe, che non disumanizzano [anche gli altri].
La pastorale del consenso - “io ti dò ciò che tu vuoi”; oppure le mode del pensiero unico à la page - presuppone masse ubbidienti e devote, deprivate di personalità e sogni.
Invece il Signore desidera Famiglia, dove nessuno è allarmato, tenuto a freno, bloccato, e messo in buca.
Magari questa inibizione viene accettata dalla gente anche per timore di perdere la quiete famigliare, il posticino che qualcuno ha, le finte sicurezze che si è ritagliato - o preso in elemosina.
Cristo non vuole che le conquiste ci spaventino e trattengano, ma che da consanguinei del nostro lato eterno siamo i primi a vibrare d'ideali profetici.
E speronare le false certezze che non inquietano [anzi, ci mettono in letargo] per stimolare ambiti ideali più grandiosi - per qualità di respiro e umanizzazione.
Anche il poco che abbiamo può essere investito - attraverso un contributo da porgere a disposizione di tutti, nella comunità che ci valorizza…
Si tratta della Chiesa ministeriale: «banca» del v.27 - la quale proietta e dilata all’infinito risorse, il Pane spezzato, i beni del Regno.
Insomma, quel che promuove le assemblee e rivela la Presenza di Dio è personale e unico, tuttavia non deve permanere raro.
Ciascuno ha un'occasione di apostolato, la sua attitudine d’amicizia e competenze irripetibili: ma esse sono da esplorare senza limiti, affinché vengano condivise, rese sapienziali e propulsive.
Come ha dichiarato il Pontefice:
«L'incapacità degli esperti di vedere i segni dei tempi è dovuta al fatto che sono chiusi nel loro sistema; sanno cosa si può e non si può fare, e stanno sicuri lì. Interroghiamoci: sono aperto solo alle mie cose e alle mie idee, oppure sono aperto al Dio delle sorprese?».
Chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa, dà un contributo - senza farsi travolgere dalla routine, dal timore, dalla fatica - vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere, fiorire.
Viceversa, nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia - estenuanti, in sé fiacche, esaurite, prive di spina dorsale e solo noiose - subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti (vv.24-26).
In questa catechesi Lc ricorda che Gesù non era un tipo che si faceva mettere sotto scorta, ma una figura coinvolta, volenterosa.
Non lasciava correre, ma entrava dentro… in merito alle questioni - né diceva: ma che figura ci faccio?
Neppure Egli ha voluto limitarsi a lottare per un cambiamento giuridico - apprezzabile e necessario - ma standosene a distanza di sicurezza.
Ha invece incarnato il dono di sé, tracciando la Via della scelta sociale in prima persona, con arduità d’intraprenderla - senza nulla collocare in cassaforte, per timore di persecuzioni e fallimento.
Parafrasando l’enciclica Fratelli Tutti (n.262) diremmo: sapeva che neppure le norme erano sufficienti «se si pensa che la soluzione ai problemi consista nel dissuadere mediante la paura».
Il Signore infatti frequentava i fuori del giro e le figure intermedie. Si teneva alla larga da ambienti invidiosi e con la puzza sotto il naso.
Agiva in modo laborioso, «artigianale» (FT n.217) e mettendoci la faccia.
Aveva alternative? Certo: non muoversi, non custodire i minimi, non proteggerli, limitarsi, tenere la bocca chiusa; eventualmente aprirla, ma solo per adulare i potenti, gli affermati e ben introdotti.
Bastava deponesse ideali e azioni di libertà:
Rinunciando a lottare e intraprendere vie tortuose, non avrebbe avuto problemi.
E se alla mediocrità comune delle guide spirituali del tempo avesse aggiunto l'omertà, avrebbe potuto benissimo fare carriera.
Vale anche per noi: il gioco al ribasso, sul sicuro, atrofizza la vita personale e sociale, non fa crescere un nuovo Regno - lo perde.
La Parola di Dio di questa domenica – la penultima dell’anno liturgico – ci ammonisce circa la provvisorietà dell’esistenza terrena e ci invita a viverla come un pellegrinaggio, tenendo lo sguardo rivolto alla meta, a quel Dio che ci ha creato e, poiché ci ha fatto per sé (cfr S. Agostino, Conf. 1,1), è il nostro destino ultimo e il senso del nostro vivere. Passaggio obbligato per giungere a tale realtà definitiva è la morte, seguita dal giudizio finale. L’apostolo Paolo ricorda che “il giorno del Signore verrà come un ladro di notte” (1 Ts 5,2), cioè senza preavviso. La consapevolezza del ritorno glorioso del Signore Gesù ci sprona a vivere in un atteggiamento di vigilanza, attendendo la sua manifestazione nella costante memoria della sua prima venuta.
Nella celebre parabola dei talenti – riportata dall’evangelista Matteo (cfr 25,14-30) – Gesù racconta di tre servi ai quali il padrone, al momento di partire per un lungo viaggio, affida le proprie sostanze. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i beni ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre si compiace dei primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto del suo operato. Con questa parabola, Gesù vuole insegnare ai discepoli ad usare bene i suoi doni: Dio chiama ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. Sarebbe da stolti pensare che questi doni siano dovuti, così come rinunciare ad impiegarli sarebbe un venir meno allo scopo della propria esistenza. Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).
Cari fratelli, accogliamo l’invito alla vigilanza, a cui più volte ci richiamano le Scritture! Essa è l’atteggiamento di chi sa che il Signore ritornerà e vorrà vedere in noi i frutti del suo amore. La carità è il bene fondamentale che nessuno può mancare di mettere a frutto e senza il quale ogni altro dono è vano (cfr 1 Cor 13,3). Se Gesù ci ha amato al punto da dare la sua vita per noi (cfr 1 Gv 3,16), come potremmo non amare Dio con tutto noi stessi e amarci di vero cuore gli uni gli altri? (cfr 1 Gv 4,11) Solo praticando la carità, anche noi potremo prendere parte alla gioia del nostro Signore. La Vergine Maria ci sia maestra di operosa e gioiosa vigilanza nel cammino verso l’incontro con Dio.
[Papa Benedetto, Angelus 13 novembre 2011]
1. “Bene, servo buono e fedele, sei rimasto fedele nel poco, ti darò autorità su molto, prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25, 23).
Avvicinandosi il termine dell’anno liturgico, la Chiesa ci fa ascoltare le parole del Signore che ci invitano a vegliare nell’attesa della parusia. Ad essa dobbiamo prepararci con una risposta semplice, ma decisa, all’appello di conversione, che Gesù ci rivolge chiamandoci a vivere il Vangelo come tensione, speranza, attesa.
Oggi, nell’odierna liturgia, il Redentore ci parla con la parabola dei talenti, per mostrarci come chi aderisce a lui nella fede e vive operosamente nell’attesa del suo ritorno, è paragonabile al “servo buono e fedele”, che in modo intelligente, alacre e fruttuoso cura l’amministrazione del padrone lontano.
Che cosa significa talento? In senso letterale indica una moneta di grande valore usata ai tempi di Gesù. In senso traslato vuol dire “le doti”, che sono partecipate a ogni uomo concreto: il complesso delle qualità, di cui un soggetto personale, nella sua interezza psicofisica, viene dotato “dalla natura”.
Tuttavia la parabola mette in evidenza che queste capacità sono al tempo stesso un dono del Creatore “dato”, trasmesso ad ogni uomo.
Queste “doti” sono diverse e multiformi. Ce lo conferma l’osservazione della vita umana, in cui si vede la molteplicità e la ricchezza dei talenti che sono negli uomini.
Il racconto di Gesù sottolinea con fermezza che ogni “talento” è una chiamata e un obbligo ad un lavoro determinato, inteso nel duplice significato di lavoro su se stessi e di lavoro per gli altri. Afferma, cioè, la necessità di un’ascesi personale unita all’operosità in favore del fratello.
3. La parola di Dio nell’odierna celebrazione permette di approfondire la consapevolezza che la parrocchia è una comunità di fratelli e sorelle, che sono chiamati ad aderire a Cristo e ad esserne la trasparenza nei luoghi dove vivono e dove lavorano.
Questo implica che ognuno di voi, con le capacità che ha avuto da Dio, lavori su di sé per convertire ogni giorno il proprio cuore in un cammino religioso fatto con costanza e decisione, con volontà e generosità.
Ognuno di voi deve sentirsi impegnato a fissare la mente e il cuore in ciò che vale. Deve condurre una vita che non sia determinata dalla stima mondana, dal rispetto umano. E ciò sarà possibile se presterete efficace ascolto alla parola di Gesù, come sorgente di virtù cristiana, e obbedirete all’esortazione dell’apostolo Paolo: “Qualsiasi cosa facciate, o in parole o in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesù rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di lui” (Col 3, 17); in tal modo, come ci ricorda la seconda lettura della messa, certi della redenzione di Cristo “sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda, edificandovi gli uni gli altri come già fate” (1 Ts 5, 9-11).
Uno dei segni più grandi di mancanza di lavoro su di sé, di assenza di ascesi è la non accettazione della propria persona, caratterizzata da quei talenti che sono da accogliere, perché dati da quel Dio di misericordia, che ci ha creati, ci tiene in vita e ci aiuta a percorrere le strade dell’esistenza.
4. Frequentemente i doni che Dio pone nel nostro essere sono talenti difficili, ma non possono essere sprecati né per disistima, né per disobbedienza, né tantomeno perché sono faticosi. La croce per Cristo non fu motivo di obiezione alla volontà del Padre, ma la condizione, il talento supremo, con il quale “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” (Prefazio pasquale). Perciò io chiedo a tutti voi, e in particolare ai malati, ai sofferenti, ai portatori di handicap, di rendere fruttuoso, mediante la preghiera e l’offerta, il difficile talento, l’impegnativo talento ricevuto.
Tenete sempre presente che l’invocazione, le preghiere e la libera accettazione delle fatiche e delle pene della vita, vi permettono di raggiungere tutti gli uomini e di contribuire alla salvezza di tutto il mondo.
5. Questo lavoro su di sé, che porta frutto a tutti gli uomini, ha la sua radice nel Battesimo, il quale ha dato inizio in ciascuno di voi alla vita nuova, mediante il dono soprannaturale della grazia e la liberazione dal peccato originale. Con tale sacramento, che vi ha resi figli di Dio, avete ricevuto quelle “doti”, che costituiscono un’autentica ricchezza interiore della vita in Cristo.
Incorporati a Gesù, conformati a lui, siete chiamati come membra vive a contribuire con tutte le vostre forze e attitudini all’incremento della vostra parrocchia, che è la porta della Chiesa romana-universale.
I talenti ricevuti con il Battesimo sono pure una chiamata alla cooperazione con la grazia, che implica un dinamismo inerente alla vita cristiana e una crescita graduale e costante in quella maturità, che viene formata dalla fede, dalla speranza, dalla carità e dai doni dello Spirito Santo.
Tale collaborazione si compie soprattutto in quel centro di comunione che è la parrocchia, comunità di uomini e donne, che mettono le loro varie capacità a servizio della crescita personale e dei fratelli vicini e lontani.
La parrocchia è Chiesa: comunità di uomini che devono sviluppare in se stessi “i talenti del Battesimo”. Tutta la sua struttura, favorendo e garantendo un apostolato comunitario, soprattutto attraverso la liturgia, la catechesi e la carità, fonde insieme le molteplici differenze umane che vi si trovano e permette che ognuno, secondo le capacità che possiede, dia fraternamente il suo contributo a ogni iniziativa missionaria della sua famiglia ecclesiale (cf. Apostolicam Actuositatem, 10).
6. La parabola dell’odierno Vangelo parla pure di un talento “nascosto sottoterra”, non utilizzato.
“Colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco qui il tuo talento” (Mt 25, 24-25). Quest’ultimo servo che ha ricevuto un solo talento mostra come si comporta l’uomo quando non vive un’operosa fedeltà nei confronti di Dio. Prevale la paura, la stima di sé, l’affermazione dell’egoismo, che cerca di giustificare il proprio comportamento con la pretesa ingiusta del padrone, che miete dove non ha seminato.
Questo atteggiamento implica da parte del Signore una punizione, perché quell’uomo è venuto meno alla responsabilità che gli era stata chiesta, e, così facendo, non ha portato a compimento ciò che la volontà di Dio esigeva, con la conseguenza sia di non realizzare se stesso, sia di non essere di utilità a nessuno.
Invece il lavoro su di sé e per il mondo è qualcosa che deve impegnare concretamente il vero discepolo di Cristo. Nelle varie e specifiche situazioni in cui il cristiano è posto, egli deve saper discernere ciò che Dio vuole da lui ed eseguirlo con quella gioia, che poi Gesù rende piena ed eterna.
7. Carissimi fratelli e sorelle, vi esorto ad unirvi con tutto il vostro spirito al sacrificio di Cristo, alla liturgia eucaristica, che rappresenta ogni volta la presenza del Salvatore nella vostra comunità.
Perseverate nell’essere e nel diventare sempre più un cuor solo e un’anima sola, per accogliere ogni giorno tra voi Cristo. Che egli entri in voi, e rimanga in voi, per portarvi la sua pienezza.
Che la Madre di Dio, Santa Maria del Popolo, introduca Gesù nella vostra comunità e l’aiuti a rimanere con il suo Figlio, per portare molto frutto.
Ecco la sintesi dell’insegnamento racchiuso nella parabola dei talenti, che insieme abbiamo ascoltato e meditato: per avere la pienezza della vita e portare frutto occorre, con appassionata vigilanza, compiere la volontà di Dio e rimanere in Cristo, con preghiera supplice e adorante.
Rimaniamo in lui! Rimaniamo in Gesù Cristo!
Rimaniamo mediante tutti i talenti della nostra anima e del nostro corpo!
Mediante i talenti della grazia santificante e operante!
Mediante tutti i talenti che comporta la partecipazione alla parola di Dio e ai sacramenti, soprattutto nell’Eucaristia!
Rimaniamo!
Rimaniamo per dare molto frutto!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 18 novembre 1984]
In questa penultima domenica dell’anno liturgico, il Vangelo ci presenta la parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30). Un uomo, prima di partire per un viaggio, consegna ai suoi servi dei talenti, che a quel tempo erano monete di notevole valore: a un servo cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno. Il servo che ha ricevuto cinque talenti è intraprendente e li fa fruttare guadagnandone altri cinque. Allo stesso modo si comporta il servo che ne ha ricevuti due, e ne procura altri due. Invece il servo che ne ha ricevuto uno, scava una buca nel terreno e vi nasconde la moneta del suo padrone.
È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: «Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra» (vv. 24-25). Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, e così si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.
Questa parabola ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui.
Gesù ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri […] ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza “sotterrare il talento”, cioè i doni che Dio ci ha affidato, e di cui ci chiederà conto.
La Vergine Santa interceda per noi, affinché restiamo fedeli alla volontà di Dio facendo fruttificare i talenti di cui ci ha dotato. Così saremo utili agli altri e, nell’ultimo giorno, saremo accolti dal Signore, che ci inviterà a prendere parte alla sua gioia.
[Papa Francesco, Angelus 19 novembre 2017]
Zaccheo: sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto
(Lc 19,1-10)
Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» (v.3): ossia, desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.
Benché abiti in ambiente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto personale diretto.
Il sicomoro è un albero molto frondoso - pensa: «Cerco di vedere senza essere visto».
Comprende di aver bisogno di un occhio immediato: deve assolutamente scartare lo sguardo moralizzatore dei conformisti.
Il turbamento indotto dai giudizi senz’appello è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore.
Una nuova percezione è allora essenziale: infatti, malgrado la gazzarra attorno a sé, Gesù vede proprio il piccolo, disprezzato e mortificato.
Se il mondo severo lo notasse, leggerebbe una macchia; la visuale di Gesù è differente. Viene attratto proprio da colui che ha persino vergogna di sé e disagio di essere scrutato.
Non solo: il Signore lo chiama per nome, e in aramaico Zachàr significa Giusto, Puro!
Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, Dio coglie in ciascuno una purezza innata e le possibilità di bene. Anche di quanti si nascondono.
Allorché il Signore si trova insieme a chi nella vita ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore, non giudice o padrone.
Allo stesso modo guarda anche Zaccheo: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).
I “piccoli di statura” possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti che vengono subito messi in riga o in buca.
Ma Chi è Dio? Colui che riposa col piccolo - deturpato più dal pregiudizio che dal suo malcostume.
Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola le sentenze della buoncostume di paese, Dio ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene, il senso di legame e giustizia.
Infatti il Padre ha fretta d’incontrarci, proprio come un innamorato perduto. Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia - oggi (vv.5.9).
Quindi non frappone il tempo delle pratiche, di trafile o adempimenti che dimostrino la conversione, prima: un Padre simile non sarebbe amabile.
Ogni disciplina tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni puntigliose.
Gesù mira il presente e l’a-capo, non il fatto distante.
Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» [cf. Fratelli Tutti n.30].
L’Altissimo punta in basso: desidera condividere la sua presenza vivificante con l'anomalo e isolato.
Ne ha bisogno subito, anche se alcuni ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).
Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.
Proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) furfante che ci possa essere, diventa l’unico cuore recuperabile.
Insomma, nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.
Anche noi, dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.
[Martedì 33.a sett. T.O. 19 novembre 2024]
Zaccheo: Sorprendersi di sé e rimettere i conti a posto
(Lc 19,1-10)
In che senso bisogna “migliorare” - e cosa devo fare? Oppure siamo segnati per sempre?
Come incontrare Cristo autenticamente? Da cosa scaturisce un percorso da salvati e la sua incomparabile gioia che si riflette nelle opere?
Come posso cambiare vita e dare un colpo d’ali? Più volte ho tentato e non riesco: la felicità è un’illusione?
E... come relazionarsi con gli esclusivisti del sacro e della disciplina [o delle idee in voga]?
Davvero il Volto del Padre ha quei tratti graffianti, spietati, forensi o unilaterali ch’essi proclamano?
La soluzione di Lc è quella di non avere a che fare coi moralismi o l’opinione corrente, perché la testa piena di vento e le manfrine ci risucchierebbero.
Bisogna sorvolare, guardando la realtà da un punto di vista inedito e non soggetto a manipolazioni - quindi cogliendo se stessi, in Cristo.
E non farsi plagiare o intralciare.
Per questo motivo l’episodio è situato a Gerico (ultima tappa dell’Esodo) che un tempo aveva fatto da soglia decisiva alla conquista della Terra Promessa.
Gesù attraversa anche la nostra città (Lc 19,1), per mostrare il volto del Padre, che persino nel [considerato] antipatico, furfante e ricco riesce a scorgere un figlio pieno di risorse.
Zaccheo sono io stesso quando mi lascio coinvolgere dalla gara dell’avere, e perciò divento un caso quasi disperato.
Avendo già molto, potrei probabilmente starmene per i fatti miei. Invece dentro sento un malessere.
L’inquietudine, l’insoddisfazione, mettono in moto: sintomi dell’anima riarsa, indizi da non tacitare.
Il traguardo professionale o ministeriale che avevo in testa forse l’ho raggiunto, ma mi accorgo che sebbene non sia un totalmente fallito, dietro la maschera che indosso resto un angosciato: mi rendo conto di aver smarrito l’obiettivo.
Il mio cuore voleva ben altro, per questo non colgo sintonie radicali con la mia essenza profonda, con l’Oro del mio dna.
Allora devo rimettermi in campo, perché qualcosa nel mio Centro non va - malgrado l’eventuale ruolo conquistato, o gioie parziali.
Non mi sento riuscito, non posso tirare avanti così. Devo smuovermi. Come iniziare?
Il Vangelo ci dice: da una rinnovata Percezione. Bisogna affinare lo sguardo!
Zaccheo vuole «vedere Gesù, chi è» [Lc 19,3 testo greco]: desidera ardentemente capire se Dio è sensibile alle sue ansie.
Benché abiti in ambiente formalmente devoto, la folla attorno non gli consente di avere un minimo rapporto franco e diretto.
La massa dei seguaci consolidati non fa che accentuare lacci e affanno, anche perché nessuno gli avrebbe consentito di salire su una scala o sul tetto della propria abitazione (in quel territorio, tutte senza falde).
Ospitando un pubblico peccatore, si credeva che la stessa abitazione divenisse impura: non poteva nemmeno sfiorarla, né calcare i pioli di una scala esterna; figuriamoci andare in terrazza.
In colui che viene socialmente additato, il problema si accentua, e con esso la convinzione che non ci sia nulla da fare, ormai.
La gente non di rado intralcia la crescita e l’esistenza altrui con fissazioni puriste o ideologiche.
Giudizi gretti che rivelano l’incapacità di accogliere, di ascoltare, comprendere, avanzare, far crescere, promuovere davvero.
Siccome a causa delle saccenti moltitudini non c’è modo per via diretta, bisogna inventarsi qualcosa - anche a costo del disonore d’una corsa avanti [in ambiente orientale, particolarmente disdicevole: v.4].
«Poiché sulla strada principale tutti hanno lo sguardo cattivo che mi fa pentire di esistere - ma voglio vedere coi miei occhi (e non solo farmelo raccontare) - cerco di vedere senza esser visto».
Il sicomoro è un albero molto frondoso - e pensa Zaccheo:
«Siccome dovrei salire ma non mi danno possibilità di raggiungere nessun ripiano (per timore che li contamini) - e poiché gli sguardi sono così cupi da infastidire e ossessionare, mi nascondo da qualche parte… anche nel fogliame... in modo che nessuno mi noti».
Il turbamento indotto dai giudizi è una barriera invalicabile per un rapporto d’amore con nostro Signore. Come regolarsi?
Semplicemente, non bisogna “regolarsi”.
Malgrado la gazzarra attorno, il Maestro vede proprio il piccolo, il disprezzato e mortificato.
Se il mondo severo lo notasse, noterebbe solo una macchia, guarderebbe senza tante sottigliezze
Lo sguardo di Gesù è differente. Non ci mortifica, né fa disperare.
Viene attratto proprio da chi ha persino imbarazzo di sé e disagio di essere notato.
Non solo: lo chiama per nome, e in aramaico «Zachàr» [ebraico «Zakkài»] significa Giusto, Puro!
Mentre tutti ravvisano l’obbrobrio, il Figlio coglie in ciascun malfermo e curioso una purezza innata e le possibilità di bene.
Anche di chi si nasconde.
Mentre le persone chic ti scansano, Dio ti cerca. Anzi, la mèta del suo passaggio è proprio la tua dimora [Lc 19,4: «doveva»].
Il Disegno su di noi è che nessuno si perda, perciò il Signore scorge sapientemente i doni e le occasioni che si celano anche dietro lati in affanno della nostra personalità.
Sembra trasgressivo?
Ma mentre i discepoli rimangono a bocca aperta di fronte allo spettacolo dei sacerdoti paludati e delle magnificenze del Tempio nella città eterna e santa, Cristo vede il gesto insignificante della vedovella (Mc 12,41-44).
Insomma, quando il Signore si trova insieme a chi nella vita è in difficoltà o ha sbagliato, è sempre in basso, perché servitore; non giudice e padrone.
Così nell’episodio dell’adultera [Gv 8,3-11 testo greco], e allo stesso modo guarda anche l’emarginato: dal basso in alto, non viceversa (Lc 19,5).
Anche le buone guide spirituali fanno lo stesso: attratte da chi soffre a causa d’una vita isolata e deturpata perché sotto condanna.
I ridicoli schematismi - quelli che invitano a innalzare impalcature esterne e scalarle - ci procurano un assurdo dispendio di energie
Lo spreco vano di attenzione, facoltà e impegni va ad incidere non solo sullo stile e i dettagli - persino sulle linee portanti della personalità.
Invece Gesù impone a Zaccheo (a tutti noi) di scendere, affinché egli - continuando a trascurare tutte le opinioni - potesse realizzare il suo destino.
Terra promessa che nell’animo già gli palpitava dentro. Senza prima le rinunce, né sforzo ascetico particolare.
«Percepire e scendere» invece di «farsi guardare e salire». Ecco la “regola” non regola, indispensabile.
Essere fedeli a se stessi, all’Amico innato - invece di lasciarsi condizionare dai “migliori” del club [capirai che straordinario beneficio e redenzione!].
Ciò che non è spazzatura di se stessi, accade spontaneamente; avviene senza artifici, né propositi inculcati.
Tutto, aderendo in modo genuino all’impulso dell’Incontro schietto.
Lasciandosi sorprendere: affacciati dal belvedere del «nuovo occhio».
Punto di svolta che trasmette come interiorizzare una vita in crescita, scandita da genesi evolutive - che preparano la Nuova Nascita.
La trasformazione poi avviene a terra, nella vita pratica - smettendo di farsi dire come avrebbe (avremmo) dovuto essere.
Del resto, un’elaborazione arcaica o una configurazione troppo sofisticata, entrambe condite d’esteriorità perbenista - ci farebbero solo ammalare.
Zaccheo non ha voluto assomigliare a nessuno degli attori intorno.
Quindi si è realizzato sul serio - accorgendosi dei suoi e altrui bisogni, spazzando via le banalità dei giudizi e i piagnistei dei luoghi comuni eticisti.
I «piccoli di statura» possono anche essere delle stanghe: nel Vangelo mikròi (v.3) sono gli incipienti, i caratterizzati da scarse conoscenze ed energie.
Coloro che hanno un briciolo di Fede, e ci provano ad affacciarsi in comunità, ma vengono subito messi in riga o in buca.
E spesso rimangono scandalizzati proprio dagli adultoidi: ossia quanti restano appiccicati alla pratica abitudinaria e impersonale - o i sofisticati à la page.
Però non sono quelli i veri discepoli, bensì massa che offusca.
Guarda caso, è gente che adempie, osserva, obbedisce, e dalla vita sì sterilizzata, ma pettegola, condizionante - e sempre di malumore (Lc 19,7).
Sebbene facciano spesso ressa attorno a Gesù, sono lì solo per abitudine, o per timore che scappi e combini qualche sproposito imprevisto - rallegrante i malfermi e fuori del “giro”.
Come con Zaccheo. I diversi dai primi della classe [loro] sono minimi cui tenersi alla larga, quelli che fanno quasi ribrezzo.
Valutati al pari di vermi striscianti, o non adeguati; pertanto indegni di venire considerati.
Invece sono Appelli alla missione, un Richiamo ad approfondire e stare più attenti.
Nell’atteggiarsi, i promotori del proprio look si comportano come fossero sfingi o intoccabili.
E in tal guisa credono l’Eterno proprio nel modo che fa rimanere perplessi.
Sembrano non avere contrasti, ma guarda caso non vedono l’ora di proiettare sui diversi le proprie voglie inespresse.
Perciò vedono colui che si occulta per vergogna di sé - non per recuperarlo, ma per sotterrarlo bene.
Illudendosi così di annientare i loro stessi volti reconditi, che però - sotto la bella reputazione - covano (e cronicizzano).
Chi è dunque Dio (cf. v.3)?
Colui che riposa col piccolo e microbo - deturpato più dal giudizio esterno che dal suo malcostume.
Dentro, i “santi” e non segnati a vita [i “vorrei ma non posso” - immacolati per una questione di perbenismo di facciata] sono uguali uguali a lui.
Una volta fatta l’esperienza della gratuità che sgretola i pregiudizi [devoti o modernissimi] e le sentenze della buoncostume di paese, Cristo ci mette un attimo a cambiarci e moltiplicare il bene.
Il Maestro ha fretta d’incontrare ogni disorientato; proprio come un innamorato perduto.
Sa che abbiamo bisogno di trovare gioia oggi (vv.5.9).
Quindi non frappone il tempo delle pratiche, delle trafile, o adempimenti che dimostrino conversione artificiosa: un Padre simile non sarebbe amabile.
Non susciterebbe trasformazione, né senso di legame e giustizia.
Dice il Tao Tê Ching (xxvii): «Chi ben lega non usa corde né vincoli, eppur non si può sciogliere».
La religione tradizionale guarda il passato e vuole innalzare l’uomo in astratto, badando a concatenazioni esterne puntigliose.
L’ideologia woke contemporanea vaneggia il futuro edonista, situazionalista, relativo, sradicato e disincarnato; senza spina dorsale, senza pensiero profondo, né bene duraturo.
Gesù mira il presente e l’a-capo. Non il fatto distante.
Egli senza condizioni accentua i «sentimenti di appartenenza a una medesima umanità» (cf. Fratelli Tutti n.30).
L’Altissimo punta nel profondo e in basso: desidera condividere la sua Presenza vivificante con l'anomalo e l’isolato.
Ne ha bisogno «subito», anche se i suoi “amici” [non di rado i più “intimi”] ristagnano attorno offesi (Lc 19,7).
Insomma, la Famiglia autentica del Signore non è fatta di persone diffidenti. Egli sta dentro e in mezzo a situazioni di Libertà.
Non osserva prima chi è già introdotto - e chi è ancora fuori. Così ci ridona statura, gratuitamente, senza condizione alcuna.
Certo, nella testa dei capi della religione antica o astratta un Dio tale non vale nulla: non sa neanche distinguere gli “amici-nostri” e i “meriti-miei”.
Le autorità e i fenomeni lo rifiutano, certo. Ma finalmente hanno capito Chi è (v.3).
Anche Zac-euro è stato curato dall’antica cecità: prima vedeva in Dio un notaio, e nel prossimo solo gente da sfruttare - tanto più perché scontrosa, sgradevole, odiosa, insopportabile.
Tutto sommato, il gabelliere era il peggior nemico di un mondo sommerso dal provincialismo, cui volentieri estorceva denaro.
Il super trasgressore si cela dunque alla vista altrui… perché nella scoperta dei codici che lo abitano, non vuole più farsi plagiare.
Desidera un occhio che veda il Volto di Dio e si guardi dentro, senza più zavorre apparentemente ovvie, ma che non gli corrispondono.
Zaccheo non vuole più guardare come e dove guardano gli altri, anzitutto quelli sicuri in sella; branco di disturbanti - che non recuperano e non consentono di riparare.
Essi non fanno realizzare alcun sogno che collimi dentro, e che possa ancora guidarci.
La persona autentica vuole allora incamminarsi sulla “sua” strada.
Rimettendo in discussione le certezze di tutti, fa scendere in campo la personale essenza recondita, il motivo per cui è nato.
Il proprio destino non vuole le certezze esterne, le vicende comuni, i giudizi e gli accadimenti che non gli appartengono davvero.
La visione intima del Zaccheo in noi non è innestata e identificata; neppure quella che avevamo forse scelto, per diventare straricchi.
Ci bastava distogliere la visuale da quello stesso progetto, come dai propositi della religiosità che si adattava, o troppo alternativa (da non sfiorare la carne).
E allontanarci persino dall’idea scontata della vita, che ci eravamo fatti - dentro la solita «angolazione».
Zaccheo [ciascuno] trova libertà solo nel suo “rifugio”.
Nascondendosi, si defila dall’obbligo di apparire. Fugge dalle passerelle conformi all’ambiente.
Palcoscenici ingannatori - perché interferiscono, e chiudono assai più che lo stare con se stessi e con l’unica Relazione fondante.
Nessun altro poteva occuparsene, a parte un Sé superiore, quello dei labirinti interiori che si percorrono in prima persona, i quali si oppongono ai conformismi.
Essi che accentuano la curiosità e il mai visto prima, anche per noi.
Sembrano allontanarci dalla scansione ordinaria dei soliti obbiettivi intermedi. Ma ci somigliano.
Zaccheo comprende che il primo dei suoi compiti era «vegliare», spalancando la percezione elementare (ma non grossolana).
Stimolando processi intuitivi; non spersonalizzanti, né cerebrali.
Senza neppure cambiare mestiere. Senza mandar via le sue emozioni: veri segnali da notare, che lo guidavano all’autenticità della sua sorte.
Cristo ha qualcosa da dirci solo se lo esploriamo senza la scorza delle precomprensioni omologanti: nulla hanno a che fare con Lui e il nostro carattere, in essenza.
Le cose del Padre vanno ricercate, colte, ospitate e comprese come sono - incontrando i disagi.
Senza neppure lottare con sforzo estremo contro i lati di sé che avrebbero dovuto non appartenerci.
È vero: elementi di discernimento raramente insegnati in modo esplicito: ad es. “come cambiare” nome e destino.
Ma il rapporto logorante con “eletti” tanto gretti facilita paradossalmente. Fa cogliere anche ciò che la nostra stessa ostinazione - unica cosa da disturbare - non ci faceva mettere a fuoco e considerare.
Cose mai sospettate, che non “conoscevamo”, mai viste... In realtà, forze che non utilizziamo.
Mentre lo Sconosciuto avanza (vv.1.4-5) affinché le scopriamo insieme a Lui, e le facciamo emergere.
A nostro favore Egli desidera prendere il timone della rotta decisiva che mai avremmo saputo tracciare. E portarci avanti, rigenerarci ancora.
Saremo posti in contatto con il Fuoco della Chiamata primordiale, che tirerà fuori meraviglie proprio dai lati sconosciuti, in penombra; dagli stati profondi e opposti.
Appello per tutti i figli che non vogliono perdersi in superficie, nel giudizio poco ampio di veterani o anteposti che smarriscono le persone, e tutto il popolo.
Interessante che anche nei racconti dei Chassidim riportati da Buber, persino in occasione dell’Annuncio della Torah si raccomandava la ricerca di una sorta di vuoto nelle idee che facesse posto a un altro Eros.
E in particolare di «non sentire più affatto se stessi [ossia la propria formazione e visione del mondo], non essere più che un orecchio che ascolta ciò che il mondo del Verbo dice in Lui. Non appena si cominciano a sentire le proprie parole, si cessi».
Ciò che non piace e mai avremmo scelto, diventa Voce che senza mortificare interroga, e umanizza.
Facendoci scoprire - attraverso gravidanze ininterrotte - la nostra e altrui dimensione piena.
Privi di cappe, faremo scattare quell’energia antica, futura e intelligente che guida al viaggio imprevedibile.
Alla Mèta della Vita totale. Alla Casa che è davvero nostra. Alla Dimora di una vita da salvati, in pienezza di essere.
Tenda che ancora fa emergere la naturalezza spontanea dei fiori che vengono su, senza sfiancarci con sudori artificiosi.
Curata la vista - sia dei pii che del caduto - proprio quello dell’escluso, il peggiore impuro e (anche religiosamente) trasgressore che ci possa essere, diventa l’unico caso recuperabile.
Gesù sgretola l’dea che costituiva la trama della profonda zavorra sacrale archetipa.
Ora nel rapporto da pari a pari col suo Logos fondante, il peccatore si accorge che non è la “perfezione” incontaminata che dà una patente d’immunità per (poi) avere diritto d’incontrare il Padre.
È il rapporto immediato e gratuito col Risorto che lo purifica, abilitando il cuore a godere già qui una vita esponenziale e feconda.
Nessun uomo deve considerarsi un caso disperato, un estraneo alla beatitudine di un nuovo Cielo sulla terra.
Tutto forse possiamo aspettarci, meno che qualcuno ci dica: dentro sei indefettibile, hai la chiave che spalanca il portone che appare serrato...
Se Zaccheo avesse preteso di “migliorare”, intossicandosi secondo un modello culturale, comportamentale e religioso, si sarebbe arenato, divenendo insignificante.
Tutta la vita precedente è stata invece recuperata e reinvestita, da un’Amicizia immediata; senza prima il cliché della “perfezione”.
La persona cruda ma spontanea non si è lasciata prendere in ostaggio da falsi maestri, che lo avrebbero introdotto nelle loro assurde etichette [i codici-labirinto su come si deve “stare al mondo”].
Anche nel caso di questo strozzino, i disagi non sono stati vinti opponendosi, ma accogliendo.
Nel loro accadere dentro, quei malumori hanno stimolato il riconoscimento di un profilo unico; della propria anima così diversa.
Sarebbe stato deleterio combatterla coi muscoli della volontà, e osservanze asettiche, dottrine cerebrali, mortificazioni, ripetizioni a fotocopia.
Quella delle deviazioni indotte da condizionamenti è una cosmesi velenosa per l’anima e per le opere che siamo chiamati a far sgorgare dalla nostra anima irripetibile.
Le altrui convinzioni guidano l’io inferiore fuori dai binari dell’orientamento che profondamente e unicamente gli appartiene.
L’essenza profonda chiama all’immediatezza, più che all’identità. Alla spontaneità (particolare ma colma) del nostro Germe, il quale matura a tappe e balzi, e farà il nostro destino dissimmetrico.
Condurrà però alla vera Mèta: non è «il problema» - come spesso s’immagina.
È tale Nido che dentro non diverge, poi a proteggerci - nell’alleanza con il sé e nell’esuberanza del nostro fiorire.
Condotti a noi stessi, sentiremo la nostra natura anche relazionale, prima soffocata dalla cappa d’un perbenismo omologante, che zampilla di suo.
Adeguarsi a una mentalità e vita religiosa da logica o chiacchiericcio esterni, spersonalizzante o convenzionale, distanzia dall’autentica purificazione e dai salti di qualità che ci equivalgono sul serio.
Essi sì innescano i codici d’una guarigione che si sviluppa non da stati parossistici, né da pratiche tutte uguali. Ma da un faccia a faccia con il nostro nocciolo costituente, colmo di forze benefiche; energetico e passionale.
Con Gesù il nostro divenire non sarà mai in un rapporto banale con ciò che siamo stati o come dovremmo essere: non una concatenazione formale.
Passeremo attraverso Genesi inattese e meravigliose, che sorvolano qualsiasi organigramma di previsioni e sviluppo lineare.
La differenza tra religiosità e Fede?
È esplicita nella vicenda imprevedibile di Zaccheo, che decide di non stare lì dove lo hanno messo, a ricalcare pedissequamente una disciplina impossibile e che non voleva.
Ha capito che non sarebbe stato in grado di “migliorare”: ha scelto di non farsi infettare tutta la vita.
È prima una inquieta insoddisfazione, poi un coinvolgente tentativo di Visione genuina, quindi un semplice Incontro da uomo a uomo, che ha preparato le sue decisioni.
Anche se non siamo considerati “pronti” [da un esperto e dal suo codice], è con immediatezza e senza troppe lotte o lacerazioni interiori che possiamo raggiungere un altro Territorio.
E far cambiare aria anche agli altri, sorelle e fratelli - partendo semplicemente dalla «percezione senza condizioni» di un nuovo Volto di Dio.
Lo scopriremo affatto ficcanaso e arcigno, né paternalista.
Egli trasmette invece quell’assurda autostima che modifica la nostra sorte, e il destino del mondo.
Dove accolti, sorprenderemo noi stessi. E rimetteremo i conti a posto.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Hai uno sguardo personale su Gesù che passa, o lo prendi in prestito dall’opinione di esperti che lacerano l’anima di accuse?
In quale occasione il Cristo ti ha trasmesso un’assurda autostima, che ha aperto nuovi spazi di vita e rimesso i conti a posto?
Antivedere: nuova Estetica che salverà chiesa e mondo
Bisogno di vederlo. Antivedere: pienezza, non bellezza tra le altre
Il cristiano, colui che vuole essere seguace di Cristo, colui che sente il bisogno di stringersi a Lui mediante i vincoli della sua autenticità e della propria certezza, avrà sempre, come uomo, come uomo specialmente del nostro tempo tanto nutrito dell’immagine visiva, il bisogno istintivo di vederlo, Lui, Gesù il Cristo, com’era nel volto, nell’aspetto, nel portamento, nella persona. L’abbiamo detto altra volta. Ma questo desiderio rimane, e ricorre quando sorgono questioni circa l’interpretazione genuina del suo messaggio, e circa il dovere d’uniformare la nostra condotta al suo insegnamento. Non è, del resto, questa aspirazione sempre presente nei personaggi del Vangelo? Prendiamo Zaccheo, nel racconto di S. Luca: «voleva vedere Gesù, chi fosse»; e, piccolo di statura come era, in mezzo alla folla non vi riusciva; salì allora sopra un albero di sicomoro; e di là vide, anzi fu visto dal Signore che lo chiamò e gli disse di discendere volendo Egli essere in quel giorno ospite suo (Luc. 19, 1 ss.).
Ma la fortuna dei contemporanei di Gesù, che lo videro con i loro occhi (Cfr. 1 Io. 1, 1) non è la nostra. Come non è di tutta l’umanità venuta dopo di Lui. Già S. Ireneo, Vescovo di Lione (alla fine del II secolo) avverte che sono apocrife le immagini corporee che fin d’allora si tentava divulgare di Cristo (Adv. Haereses, 1, 25; PG 7, 685). S. Agostino è categorico: «Noi del tutto ignoriamo» quale fosse il volto corporeo di Gesù, come pure quello della Madonna (De Trinit. 8, 5; PL 42, 952). Dobbiamo formarci la figura partendo da elementi comuni alla natura umana e dai riflessi immaginativi che le notizie da noi possedute su di Lui, leggendo il Vangelo o credendo alla sua parola, provocano nel nostro spirito. Arte e pietà si aiutano in questa non facile elaborazione.
Essa non è vana fantasia; è uno sforzo meritevole, e in certo senso indispensabile, per chiunque voglia avere di Cristo un concetto concreto e fedele, che senza mitico artificio si presenta ideale.
Proviamo noi stessi a chiederci: come ci raffiguriamo Cristo Gesù? Cioè: qual è l’aspetto caratteristico di Lui, che risulta dal Vangelo? Come, a prima vista, si presenta Gesù? Una volta ancora le sue stesse parole ci aiutano: «Io sono mite ed umile di cuore» (Matth. 11, 29). Gesù vuol essere guardato così, veduto così. Se noi lo vedessimo, ci apparirebbe così, anche se la visione, che di Lui ci dà l’Apocalisse, riempie di forma e di luce la sua figura celeste (Apoc. 1, 12 , ss.). Questo aspetto dolce, buono e soprattutto umile si impone come essenziale. Meditando si avverte che esso manifesta ed insieme nasconde un mistero fondamentale relativo a Cristo, quello dell’Incarnazione, quello del Dio umile, mistero che governa tutta la vita e tutta la missione di Cristo: «Il Christus humilis è il centro della cristologia» di S. Agostino (Cfr. POKTALIÉ, D. Th. C. 1, II, 2372); e che impronta tutto l’insegnamento evangelico a nostro riguardo: «Che cosa d’altro insegnò, se non questa umiltà? . . . in questa umiltà noi ci possiamo avvicinare a Dio», dice ancora il dottore d’Ippona (En. in Ps. 31, 18; PL 36, 270). Del resto, S. Paolo non ha un termine, che sa di assoluto, quando ci dice che Cristo si è «annientato»: semetipsum exinanivit? (Phil. 2, 7) Gesù è l’uomo buono per eccellenza; ed è per ciò ch’Egli è disceso al livello infimo anche della scala umana; si è fatto bambino, si è fatto povero, si è fatto paziente, si è fatto vittima, affinché nessuno dei suoi fratelli in umanità potesse sentirlo superiore e lontano; si è messo ai piedi di tutti. Egli è per tutti. Egli è di tutti; anzi di ciascuno di noi, al singolare; lo dice San Paolo: «Egli ha amato me e si è sacrificato per me» (Gal. 2, 20).
Non è da stupire se l’iconografia di Cristo abbia sempre cercato d’interpretare questa mansuetudine, questa estrema bontà. L’intelligenza mistica di Lui è arrivata a contemplarlo nel cuore, e a fare, per noi moderni, sentimentali e psicologi, sempre polarizzati verso la metafisica dell’amore, del culto al Sacro Cuore, il focolare ardente e simbolico della devozione e dell’attività cristiana.
Qui sorge, oggi specialmente, un’obiezione: questa immagine di Cristo, che realizza in se stesso la propria parola, cioè le beatitudini della povertà, della mitezza, della non resistenza (Cfr. Matth. 5, 38, ss.), è il Cristo vero? È il Cristo per noi? Dov’è il Cristo Pantocratore, il Cristo forte, il Re dei re, il Signore dei dominanti? (Cfr. Apoc. 19, 11, ss.) Il Cristo riformatore? («Ego autem dico vobis . . .», Matth. 5) il Cristo polemico, con le sue contestazioni (P. es. Matth. 5, 20) e con i suoi anatemi? (Cfr. Matth. 23) Il Cristo liberatore, il Cristo della violenza? (Cfr. Matth. 11, 12) Oggi non si parla del cristianesimo della violenza e della teologia della rivoluzione? Dopo tanto parlare di pace la tentazione della violenza, come suprema affermazione di libertà e di maturità, come unico mezzo di riforma e di redenzione, è così forte che si parla di teologia della violenza e della rivoluzione; e spesso alle eccitanti teorie i fatti, o almeno le tendenze della riscossa al «disordine costituito», corrispondono. Si cerca allora di avere Cristo per sé, e di giustificare certi atteggiamenti disordinati, demagogici e ribelli, con gli atteggiamenti e con le parole di Lui.
Il discorso è di molti. Noi stessi vi abbiamo altre volte accennato. Un solo consiglio per ora. Dinanzi a questa supposta contraddizione fra la figura del Cristo mite e soave, del Cristo buon Pastore, del Cristo crocifisso per amore e la figura del Cristo virile e severo, sdegnato e pugnace, occorrerà riflettere bene, e vedere come stanno le cose nei documenti originari, i Vangeli, il Nuovo Testamento, la Tradizione autentica e coerente, e nella loro genuina interpretazione. Ci sembra doveroso reclamare a tale riguardo onesta attenzione. Specialmente sulla complessità della figura di Cristo: Egli è certamente al tempo stesso mite e forte, com’è al tempo stesso uomo e Dio; e poi sulla vera reazione, non certo politica, non certo anarchica, che l’energia riformatrice di Cristo immette nel mondo decaduto e corrotto; cioè sulle vere speranze ch’Egli propone all’umanità.
Vedremo allora che la figura di Cristo presenta, sì, senza alterare l’incanto della sua misericordiosa dolcezza, anche un aspetto grave e forte, formidabile, se volete, contro la viltà, le ipocrisie, le ingiustizie, le crudeltà, ma non mai disgiunto da una sovrana irradiazione di amore.
Solo l’amore lo definisce Salvatore. E solo per le vie dell’amore lo potremo avvicinare, imitare, inserire nelle nostre anime e nella sempre drammatica vicenda della storia umana.
Sì, potremo vedere Lui, che ha abitato con noi, e ha condiviso la nostra sorte terrena, per infondere in questo il suo vangelo di salvezza, e per predisporci a questa piena salvezza; lo vedremo «pieno di grazia e di verità» (Io. 1, 14).
Fede ed amore sono gli occhi che ora a noi servono per poterlo in qualche modo vedere; cioè antivedere.
(Papa Paolo VI, Udienza Generale 27 gennaio 1971)
Cominciamo dall’acqua – come appare logico per molti versi. L’acqua è simbolo ambivalente: di vita, ma anche di morte; lo sanno bene le popolazioni colpite da alluvioni e maremoti. Ma l’acqua è anzitutto elemento essenziale per la vita. Venezia è detta la “Città d’acqua”. Anche per voi che vivete a Venezia questa condizione ha un duplice segno, negativo e positivo: comporta molti disagi e, al tempo stesso, un fascino straordinario. L’essere Venezia “città d’acqua” fa pensare ad un celebre sociologo contemporaneo, che ha definito “liquida” la nostra società, e così la cultura europea: una cultura “liquida”, per esprimere la sua “fluidità”, la sua poca stabilità o forse la sua assenza di stabilità, la mutevolezza, l’inconsistenza che a volte sembra caratterizzarla. E qui vorrei inserire la prima proposta: Venezia non come città “liquida” – nel senso appena accennato –, ma come città “della vita e della bellezza”. Certo, è una scelta, ma nella storia bisogna scegliere: l’uomo è libero di interpretare, di dare un senso alla realtà, e proprio in questa libertà consiste la sua grande dignità. Nell’ambito di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli.
[Papa Benedetto, Incontro con il mondo della cultura… Venezia 8 maggio 2011]
Gratitudine e gioia sono perciò i sentimenti che caratterizzano questo nostro incontro. Esso si svolge nello spazio sacro, colmo di arte e di memoria, della Basilica di San Marco, dove la fede e la creatività umana hanno dato origine ad una eloquente catechesi per immagini. Il Servo di Dio Albino Luciani, che fu vostro indimenticabile Patriarca, così descrisse la sua prima visita in questa Basilica, da giovane sacerdote: “Mi trovai immerso in un fiume di luce … Finalmente potevo vedere e godere con i miei occhi tutto lo splendore di un mondo di arte e di bellezza unico e irripetibile, il cui fascino ti penetra nel profondo” (Io sono il ragazzo del mio Signore, Venezia-Quarto d’Altino, 1998). Questo tempio è immagine e simbolo della Chiesa di pietre vive, che siete voi, cristiani di Venezia.
“Oggi devo fermarmi a casa tua. In fretta scese e l’accolse” (Lc 19,5-6). Quante volte, durante la Visita pastorale, avete ascoltato e meditato queste parole, rivolte da Gesù a Zaccheo! Esse sono state il motivo conduttore dei vostri incontri comunitari, offrendovi uno stimolo efficace ad accogliere Gesù Risorto, via sicura per trovare pienezza di vita e felicità. Infatti, l’autentica realizzazione dell’uomo e la sua vera gioia non si trovano nel potere, nel successo, nel denaro, ma soltanto in Dio, che Gesù Cristo ci fa conoscere e ci rende vicino. E’ questa l’esperienza di Zaccheo. Egli, secondo la mentalità corrente, ha tutto: potere e denaro. Può dirsi un “uomo arrivato”: ha fatto carriera, ha raggiunto ciò che voleva e potrebbe dire, come il ricco stolto della parabola evangelica, “anima mia hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (Lc 12,19). Per questo il suo desiderio di vedere Gesù è sorprendente. Che cosa lo spinge a ricercare l’incontro con Lui? Zaccheo si rende conto che quanto possiede non gli basta, sente il desiderio di andare oltre. Ed ecco che Gesù, il profeta di Nazaret, passa da Gerico, la sua città. Di Lui gli è giunta l’eco di alcune parole inconsuete: beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia. Parole per lui strane, ma forse proprio per questo affascinanti e nuove. Vuole vedere questo Gesù. Ma Zaccheo, seppure ricco e potente, è piccolo di statura. Perciò corre avanti, sale su un albero, un sicomoro. Non gli importa di esporsi al ridicolo: ha trovato un modo per rendere possibile l’incontro. E Gesù arriva, alza lo sguardo verso di lui, lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5). Nulla è impossibile a Dio! Da questo incontro scaturisce per Zaccheo una vita nuova: accoglie Gesù con gioia, scoprendo finalmente la realtà che può riempire veramente e pienamente la sua vita. Ha toccato con mano la salvezza, ormai non è più quello di prima e come segno di conversione si impegna a donare metà dei suoi beni ai poveri e a restituire il quadruplo a chi aveva derubato. Ha trovato il vero tesoro, perché il Tesoro, che è Gesù, ha trovato lui!
Amata Chiesa che sei in Venezia! Imita l’esempio di Zaccheo e vai oltre! Supera e aiuta l’uomo di oggi a superare gli ostacoli dell’individualismo, del relativismo; non lasciarti mai trarre verso il basso dalle mancanze che possono segnare le comunità cristiane. Sforzati di vedere da vicino la persona di Cristo, che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Come successore dell’Apostolo Pietro, visitando in questi giorni la vostra terra, ripeto a ciascuno di voi: non abbiate paura di andare controcorrente per incontrare Gesù, di puntare verso l’alto per incrociare il suo sguardo. Nel “logo” di questa mia Visita pastorale è rappresentata la scena di Marco che consegna il Vangelo a Pietro, tratta da un mosaico di questa Basilica. Oggi, simbolicamente, vengo a riconsegnare il Vangelo a voi, figli spirituali di san Marco, per confermarvi nella fede e incoraggiarvi dinanzi alle sfide del momento presente. Avanzate fiduciosi nel sentiero della nuova evangelizzazione, nel servizio amorevole dei poveri e nella testimonianza coraggiosa all’interno delle varie realtà sociali. Siate consapevoli d’essere portatori di un messaggio che è per ogni uomo e per tutto l’uomo; un messaggio di fede, di speranza e di carità.
[Papa Benedetto, chiusura della visita pastorale Venezia 8 maggio 2011]
1. "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).
San Luca, nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, ci mostra l’incontro di Gesù con un uomo chiamato Zaccheo, capo dei pubblicani, molto ricco. Dato che era basso di statura, salì su un albero per vedere Cristo. Udì allora le parole del Maestro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Gesù aveva notato il gesto di Zaccheo: interpretò il suo desiderio e anticipò l’invito. Destò perfino la meraviglia di qualcuno il fatto che Gesù andasse a trovare un peccatore. Zaccheo, felice per la visita “accolse pieno di gioia Cristo” (cfr Lc 19, 6), cioè aprì generosamente la porta della sua casa e del suo cuore all’incontro con il Salvatore.
3. “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri” ( Lc 19, 8). Desidero tornare alla lettura dal Vangelo di San Luca: Cristo “la luce del mondo” (cfr Gv 8, 12), ha portato la sua luce nella casa di Zaccheo, e in modo particolare nel suo cuore. Grazie alla vicinanza di Gesù, delle sue parole e del suo insegnamento comincia a compiersi la trasformazione del cuore di quest’uomo. Già sulla soglia della propria casa Zaccheo dichiara: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituirò quattro volte tanto” (Lc 19, 8). Sull’esempio di Zaccheo vediamo come Cristo rischiari le tenebre della coscienza umana. Alla sua luce si allargano gli orizzonti dell’esistenza: uno comincia a rendersi conto degli altri uomini e delle loro necessità. Nasce il senso del legame con l'altro, la consapevolezza della dimensione sociale dell’uomo e di conseguenza il senso della giustizia. “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità - insegna San Paolo (Ef 5, 9). La svolta verso l’altro uomo, verso il prossimo, costituisce uno dei principali frutti di una conversione sincera. L’uomo esce fuori dal suo egoistico “essere per se stesso” e si volge verso gli altri, sente il bisogno di “essere per gli altri”, di essere per i fratelli.
Una tale dilatazione del cuore nell’incontro con Cristo è il pegno della salvezza, come mostra il seguito del colloquio con Zaccheo: “Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa (...) il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto»” (Lc 19, 9-10).
Anche oggi, la descrizione che Luca fa dell’evento che ebbe luogo a Gerico, non ha perso di importanza. Porta con sé l’esortazione da parte di Cristo, che “è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1, 30). E come una volta di fronte a Zaccheo, così in questo istante Cristo si presenta davanti all’uomo del nostro secolo. Sembra presentare a ciascuno separatamente la sua proposta: “Oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).
Cari Fratelli e Sorelle, importante è questo «oggi». Costituisce come un sollecito. Nella vita ci sono delle questioni talmente importanti e talmente urgenti che non possono essere posticipate e non possono essere lasciate per il domani. Devono essere affrontate già oggi. Esclama il Salmista: “Ascoltate oggi la sua voce: «Non indurite il cuore»” (Sal 94[95], 8). “Il lamento dei poveri” (Gb 34, 28) di tutto il mondo si alza incessantemente da questa terra e giunge a Dio. E’ il grido dei bambini, delle donne, degli anziani, dei profughi, di chi ha subito torto, delle vittime di guerra, dei disoccupati. I poveri sono anche in mezzo a noi: i senza casa, i mendicanti, gli affamati, i disprezzati, i dimenticati dalle perone più care e dalla società, i degradati e gli umiliati, le vittime di vari vizi. Molti di essi tentano perfino di nascondere la loro miseria umana, ma bisogna saperli riconoscere. Ci sono anche persone sofferenti negli ospedali, i bambini orfani oppure i giovani che sperimentano le difficoltà e i problemi della loro età.
4. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3).
Sin dall’inizio della sua attività messianica, parlando nella sinagoga di Nazaret, Gesù disse: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). Riteneva i poveri i più privilegiati eredi del regno. Ciò significa che soltanto “i poveri in spirito” sono in grado di ricevere il regno di Dio con tutto il cuore. L’incontro di Zaccheo con Gesù mostra che anche un uomo ricco può diventare partecipe della beatitudine di Cristo per i poveri in spirito.
Povero in spirito è colui che è disposto ad usare con generosità la propria ricchezza a favore di chi è nel bisogno. In tal caso si vede che non è attaccato a quelle ricchezze. Si vede che comprende bene l’essenziale finalità di esse. I beni materiali infatti sono per servire gli altri, specialmente chi si trova nella necessità. La Chiesa ammette la proprietà personale di questi beni, se vengono usati a questo fine.
Oggi ricordiamo Sant’Edvige regina. E’ conosciuta la sua generosità verso i poveri. Benché fosse ricca, non dimenticava gli indigenti. E’ per noi esempio e modello, come bisogna vivere e mettere in pratica l’insegnamento di Cristo sull’amore e sulla misericordia e rendersi simili a colui che, come dice San Paolo “essendo ricco si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr 2 Cor 8, 9).
“Beati i poveri in spirito”. E’ il grido di Cristo che oggi dovrebbe ascoltare ogni cristiano, ogni uomo credente. C’è tanto bisogno di uomini poveri in spirito, cioè aperti ad accogliere la verità e la grazia, aperti alle grandi cose di Dio; di uomini dal cuore grande che non si lasciano incantare dallo splendore delle ricchezze di questo mondo e non permettono che esse abbiano il dominio sui loro cuori. Sono veramente forti, perché colmi della ricchezza della grazia di Dio. Vivono nella consapevolezza di ricevere da Dio incessantemente e senza fine.
“Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3, 6) - con queste parole gli Apostoli Pietro e Giovanni rispondono alla richiesta dello zoppo dello storpio. Gli donarono il sommo bene che egli avrebbe potuto desiderare. Poveri trasmisero al povero la più grande ricchezza: nel nome di Cristo gli restituirono la salute. Mediante ciò confessarono la verità che attraverso le generazioni è la parte dei confessori di Cristo.
Ecco i poveri in spirito, senza possedere essi stessi né argento né oro, grazie a Cristo hanno un potere maggiore di quello che possono dare tutte le ricchezze del mondo.
Davvero, sono felici e beati questi uomini, perché ad essi appartiene il regno dei cieli. Amen.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia Elk 8 giugno 1999]
Il Vangelo di oggi ci presenta un fatto accaduto a Gerico, quando Gesù giunse in città e fu accolto dalla folla (cfr Lc 19,1-10). A Gerico viveva Zaccheo, il capo dei “pubblicani”, cioè degli esattori delle tasse. Zaccheo era un ricco collaboratore degli odiati occupanti romani, uno sfruttatore del suo popolo. Anche lui, per curiosità, voleva vedere Gesù, ma la sua condizione di pubblico peccatore non gli permetteva di avvicinarsi al Maestro; per di più, era piccolo di statura, e per questo sale su un albero di sicomoro, lungo la strada dove Gesù doveva passare.
Quando arriva vicino a quell’albero, Gesù alza lo sguardo e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Possiamo immaginare lo stupore di Zaccheo! Ma perché Gesù dice «devo fermarmi a casa tua»? Di quale dovere si tratta? Sappiamo che il suo dovere supremo è attuare il disegno del Padre su tutta l’umanità, che si compie a Gerusalemme con la sua condanna a morte, la crocifissione e, al terzo giorno, la risurrezione. E’ il disegno di salvezza della misericordia del Padre. E in questo disegno c’è anche la salvezza di Zaccheo, un uomo disonesto e disprezzato da tutti, e perciò bisognoso di convertirsi. Infatti il Vangelo dice che, quando Gesù lo chiamò, «tutti mormoravano: “E’ entrato in casa di un peccatore!”» (v. 7). Il popolo vede in lui un furfante, che si è arricchito sulla pelle del prossimo. E se Gesù avesse detto: “Scendi, tu, sfruttatore, traditore del popolo! Vieni a parlare con me per regolare i conti!”. Di sicuro il popolo avrebbe fatto un applauso. Invece incominciarono a mormorare: “Gesù va a casa di lui, del peccatore, dello sfruttatore”.
Gesù, guidato dalla misericordia, cercava proprio lui. E quando entra in casa di Zaccheo dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (vv. 9-10). Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi. E questo è importante! Dobbiamo impararlo. Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi; vede la persona con gli occhi di Dio, che non si ferma al male passato, ma intravede il bene futuro; Gesù non si rassegna alle chiusure, ma apre sempre, sempre apre nuovi spazi di vita; non si ferma alle apparenze, ma guarda il cuore. E qui ha guardato il cuore ferito di quest’uomo: ferito dal peccato della cupidigia, da tante cose brutte che aveva fatto questo Zaccheo. Guarda quel cuore ferito e va lì.
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che Dio continua a vedere malgrado tutto, malgrado tutti i suoi sbagli. Questo può provocare una sorpresa positiva, che intenerisce il cuore e spinge la persona a tirare fuori il buono che ha in sé. È il dare fiducia alle persone che le fa crescere e cambiare. Così si comporta Dio con tutti noi: non è bloccato dal nostro peccato, ma lo supera con l’amore e ci fa sentire la nostalgia del bene. Tutti abbiamo sentito questa nostalgia del bene dopo uno sbaglio. E così fa il nostro Padre Dio, così fa Gesù. Non esiste una persona che non ha qualcosa di buono. E questo guarda Dio per tirarla fuori dal male.
La Vergine Maria ci aiuti a vedere il buono che c’è nelle persone che incontriamo ogni giorno, affinché tutti siano incoraggiati a far emergere l’immagine di Dio impressa nel loro cuore. E così possiamo gioire per le sorprese della misericordia di Dio! Il nostro Dio, che è il Dio delle sorprese!
[Papa Francesco, Angelus 30 ottobre 2016]
Breve Commento Letture [10.11.24]
*Prima lettura 1 Re 17,10-16
Il profeta Elia si trova lontano dalla sua terra, a Sarepta, città della costa fenicia, che all’epoca faceva parte del regno di Sidone e non del regno d’Israele. Siamo nel IX.mo secolo a. c., il re Acab aveva sposato la regina Gezabele (verso l’870), non dunque una figlia d’Israele, ma figlia del re di Sidone per attuare una politica di alleanza, esponendosi però al grave rischio dell’apostasia, perché Gezabele reca con sé usanze, preghiere, statue e i sacerdoti del culto di Baal, dio della fertilità, della pioggia, del fulmine e del vento. Il re Acab, persona molto debole, finisce così per tradire la sua religione e costruisce persino un tempio di Baal. Elia e gli ebrei fedeli provano vergogna per il tradimento della loro fede conoscendo bene il primo comandamento: “Non avrai altri dei all’infuori di me!”, che è l’a. b. c. della fede ebraica: Dio solo è Dio, tutti gli altri idoli non servono a nulla. Elia si oppone a Gezabele e, per provare la falsità degli idoli, subentrando proprio allora una forte siccità in Israele, lancia la sfida: voi ritenete Baal il dio della pioggia, ma io proverò che solo il Dio d’Israele è l’unico vero Dio, padrone di tutto, della pioggia e della siccità. Lo svolgimento di questa sfida avrà luogo, ma l’odierno testo si ferma a questo punto. Avvertito da Dio, Elia profetizza che ci saranno anni di dura siccità e, seguendo un comando divino, si rifugia presso il torrente Kerith, a est del Giordano (1 Re 17, 3-4). La siccità perdura, il torrente si prosciuga e Dio gli ordina di recarsi nella lontana Sarepta dove incontra una povera vedova alla quale, come povero mendicante, domanda “un pezzo di pane”. La donna gli confessa che non ha più pane, perché le resta solo una manciata di farina in una giara con un po’ d’olio in un orcio; raccoglierà due pezzi di legna per preparare una focaccia per lei e il figlio, la mangeranno e poi si prepareranno a morire. Il profeta le ricorda che Dio tutto può e l’invita a preparare per lui un “piccolo pane” e poi condividerà quanto resta con il figlio. Assicura che il Dio d’Israele interverrà: la giara di farina non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà fino al giorno in cui il Signore farà piovere. E così avvenne:”la giara di farina non si esaurì e l’orcio dell’olio non si svuotò”. La storia della vedova di Sarepta è analoga a quella della vedova che, come leggiamo oggi nel vangelo, nel Tempio di Gerusalemme dona a Dio tutti i suoi spiccioli, chiaro esempio di una fede semplice che si priva di tutto a si fida della parola del Dio d’Israele. Chiaro il messaggio: mentre Israele ricade nell’idolatria, una donna vedova straniera e pagana viene gratificata dal Signore per la sua grande fede. C’è inoltre un dettaglio da evidenziare: la vedova ha sentito Dio ordinarle personalmente di provvedere al profeta e questo mostra che la parola di Dio risuona dove e come vuole, anche fra i pagani. A quest’episodio si riferirà Gesù parlando ai suoi compaesani a Nazaret (Lc 4, 25-26). In verità nei testi tardivi dell’Antico Testamento (e il primo libro dei Re ne fa parte), i pagani vengono citati spesso come esempio per indicare che la salvezza è promessa all’intera umanità non essendo riservata solo a Israele. Insomma, Dio è sollecito verso chi si affida a lui e la grande lezione di questo episodio biblico è che la sollecitudine del Signore non tradisce mai chi si fida di lui.
*Salmo 145 (146), 5-6a, 6c-7ab, 8bc-9a, 9b-10
Israele con questo salmo canta la propria storia rendendo grazie a Dio per la sua protezione costante. “Oppressi, afflitti, affamati”, il popolo ha conosciuto l’oppressione in Egitto dalla quale fu liberato “con mano forte e braccio teso” come più tardi avverrà dalla deportazione a Babilonia e questo salmo fu scritto proprio al ritorno dall’esilio da Babilonia, forse per la dedicazione del Tempio restaurato dopo la sua distruzione del 587 a.C. dalle truppe del re di Babilonia, Nabucodonosor. in effetti, cinquant’anni dopo (nel 538 a.C.), Ciro, re di Persia, sconfisse Babilonia, autorizzò gli ebrei a rientrare in patria e a ricostruire il Tempio la cui dedicazione venne celebrata con gioia e fervore come leggiamo nel libro di Esdra: “I figli di Israele, i sacerdoti, i leviti e il resto dei deportati fecero con gioia la dedicazione di questa Casa di Dio” (Esd 6, 16). Un salmo dunque intriso della gioia del ritorno in patria perché, ancora una volta, Dio ha mostrato fedeltà all’Alleanza con il suo popolo del quale è il padre, il vendicatore, il suo “redentore”. Rileggendo la propria storia, Israele può testimoniare che Dio l’ha sempre accompagnato nella sua lotta per la libertà: “Il SIGNORE fa giustizia agli oppressi, rialza gli afflitti”. Israele ha conosciuto la fame, nel deserto, durante l’Esodo e Dio ha mandato la manna e le quaglie per il suo cibo: “Agli affamati dà il pane” e solo dopo ha compreso che Dio sempre riscatta gli afflitti, guarisce i malati, solleva i piccoli e gli emarginati, apre gli occhi ai ciechi e si rivela progressivamente, tramite i suoi profeti, al suo popolo che lo cerca: “Dio ama i giusti”. In questo canto si noti l’insistenza sul nome “Signore” che qui traduce il famoso NOME di Dio rivelato a Mosè sul Sinai, nel roveto ardente: sono le quattro consonanti YHVH (due inspirate e due ispirate) che indicano la presenza permanente, attiva, liberante di Dio nella vita del suo popolo (Es.3, 13-15). Inoltre nella Bibbia l’espressione “il tuo Dio” è un richiamo all’Alleanza con il popolo eletto: Alleanza alla quale il Signore non è mai venuto meno e la preghiera di Israele è rivolta al futuro per cui quando evoca il passato è per rafforzare la sua attesa e la speranza. Dio comunicò il suo nome a Mosè sul Sinai in due modi. Anzitutto con le impronunciabili quattro consonanti, YHVH, che ritroviamo spesso nella Bibbia, in particolare in questo salmo e che si traduce con “il Signore”. Esiste però una formula più elaborata, “Ehiè asher ehiè” che in italiano si rende sia con “Io sono chi sono”, oppure “Io sarò chi sarò”, un modo di esprimere l’eterna presenza di Dio accanto al suo popolo. L’insistenza sul futuro, “per sempre” rafforza l’impegno del popolo che, con questo salmo, non solo riconosce l’opera di Dio a favore d’Israele, ma vuole darsi una linea di condotta: se Dio ha agito così verso noi, dobbiamo a nostra volta fare altrettanto, diventando i primi testimoni dell’amore che il Signore nutre per i poveri e gli esclusi, amore che, attraverso Israele, intende diffondere al mondo intero. La Legge di Mosè e dei Profeti fu scritta per educare il popolo a conformarsi progressivamente alla misericordia di Dio e, per tale ragione, prevedeva numerose regole di protezione per le vedove, gli orfani, gli stranieri volendo fare di Israele un popolo libero e rispettoso della libertà altrui. Infine, i richiami dei profeti si concentrano su due punti (che forse ci sorprendono): una lotta accanita contro l’idolatria, (come fece Elia) e gli appelli alla giustizia e alla cura per gli altri, fino ad arrivare a far dire a Dio: “È la misericordia che voglio, non i sacrifici, la conoscenza di Dio, non gli olocausti” (Os 6, 6); o ancora: “Ti è stato detto, o uomo, ciò che è bene, ciò che il Signore esige da te: nient’altro che rispettare il diritto, amare la fedeltà e camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6, 8). Leggiamo infine nel libro di Ben Sira: “Le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio” (Si 35, 18). Per Israele le lacrime di tutti coloro che soffrono scorrono sulle guance di Dio…e se siamo vicini a Dio, dovrebbero scorrere anche sulle nostre guance!
*Seconda Lettura Ebr. 9, 24-28
L’autore della lettera agli Ebrei, che ci accompagna da qualche domenica, si rivolge a cristiani di origine ebraica che forse provano nostalgia per l’antico culto mentre nella pratica cristiana non ci sono più templi né sacrifici cruenti. L’autore, volendo provare che tutto ormai è superato, riprende una per una le realtà e le pratiche della religione ebraica. Parla soprattutto del Tempio, definito il “santuario” e precisa che una cosa è il vero santuario, nel quale Dio risiede, cioè il cielo stesso, altro è il tempio costruito dagli uomini che del vero santuario è solo pallida copia. Gli ebrei erano particolarmente fieri, a ragione, del magnifico Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana resta umana e quindi, debole, imperfetta, peritura. Inoltre, nessuno in Israele pretendeva di racchiudere la presenza di Dio in un tempio, per quanto immenso, come già il primo costruttore del Tempio di Gerusalemme, il re Salomone affermava: “Davvero Dio potrebbe abitare sulla terra? I cieli stessi e i cieli dei cieli non possono contenerti! Quanto meno questa Casa che ho costruito.” (1 Re 8,27). Per i cristiani, il vero Tempio, il luogo dove si incontra Dio, non è un edificio perché l’Incarnazione di Cristo ha cambiato tutto: ora il luogo di incontro tra Dio e l’uomo è Gesù Cristo, il Dio fatto uomo. L’evangelista Giovanni narra che Gesù si è permesso di cacciare dall’area del Tempio i cambiavalute e i mercanti di bestiame per i sacrifici spiegando poi: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo risusciterò” e i discepoli capirono, dopo la Risurrezione, che il Il Tempio di cui parlava era il suo corpo. (Cf. Gv 2,13-21). Nel brano odierno della Lettera agli Ebrei si dice la stessa cosa: rimaniamo innestati in Gesù Cristo, nutriamoci del suo corpo, così siamo messi alla presenza di Dio in nostro favore. Con la sua morte Cristo evidenzia il ruolo centrale della croce nel mistero cristiano e poco più avanti (Eb 10), l’autore preciserà che la morte di Cristo è solo il culmine di una vita interamente offerta e che quando si parla del suo sacrificio, bisogna intendere “l’atto sacro che fu tutta la sua vita” e non solo le ore della sua Passione. Per il momento, il testo che abbiamo davanti agli occhi parla della Passione di Cristo e del suo sacrificio, senza ulteriori dettagli. Oppone il sacrificio di Cristo a quello offerto dal sommo sacerdote di Israele, nel giorno di Yom Kippur (“Giorno del Perdono”) quando il sommo sacerdote, entrato da solo nel Santo dei Santi, pronunciava il Nome sacro (YHVH) e spargeva il sangue di un toro (per i propri peccati) e quello di un capro (per i peccati del popolo), rinnovando solennemente l’Alleanza con Dio. All’uscita del sommo sacerdote dal Santo dei Santi, il popolo, raccolto fuori, sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Ma questo rinnovamento dell’Alleanza era precario, e si doveva ripetere ogni anno, invece l’Alleanza che Gesù Cristo ha concluso con il Padre in nostro nome è perfetta e definitiva: sul Volto di Cristo in croce, i credenti scoprono il vero Volto di Dio che ama i suoi fino alla fine. Ormai non possiamo più ingannarci; Dio è Padre nostro perché Padre di Gesù e nel Cristo possiamo vivere nell’Alleanza che Dio ci propone: la Nuova Alleanza in Cristo e non c’è più spazio per la paura del giudizio di Dio perché professando “Gesù ritornerà per giudicare i vivi e i morti” (nel nostro Credo), proclamiamo che il termine “giudizio” è sinonimo di salvezza: “il Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, non più per il peccato, ma per la salvezza di coloro che lo attendono” ed è giusto affermare che Gesù Cristo è “il sommo sacerdote della felicità che viene”, come l’autore afferma nel cap. 9,11, testo che si proclama nella festa del Corpo e del Sangue di Cristo, nell’anno B.
*Vangelo Marco 12, 38-44
“Guardatevi dagli scribi…” Siamo alla conclusione del 12mo capitolo e ci avviamo verso la fine del vangelo di Marco, con il racconto della Passione e Resurrezione di Cristo. Gesù dispensa gli ultimi consigli agli apostoli: ha già detto loro di aver fede in Dio e “tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (11, 22-24). Aggiungerà poi: “Badate che nessuno vi inganni” (13,5), mentre ora esorta a stare attenti agli scribi (12,38) utilizzando il linguaggio dei profeti per stigmatizzare alcune loro attitudini senza che questo significhi una totale condanna del loro operato. All’epoca gli scribi erano molto considerati perché commentavano e interpretavano la Scrittura e predicavano, sedevano nel Sinedrio, il tribunale permanente di Gerusalemme che si riuniva nei locali del Tempio due volte a settimana; si tratta dunque di laici che avevano frequentato lo studio della Legge di Mosè in scuole specializzate, diventando esperti e alcuni tra loro venivano chiamati “dottori della legge” per cui rispettando loro si rispettava la Legge stessa. Tanto rispetto faceva montare la testa ad alcuni che esigevano i primi posti nelle sinagoghe, dando le spalle alle Tavole della Legge e rivolti verso pubblico. Nell’odierno vangelo Gesù rende omaggio allo scriba che aveva risposto saggiamente: “Non sei lontano dal Regno di Dio.” (12,34), ma aggiunge una critica più generale reagendo all’ostilità che alcuni scribi, fin dall’inizio della sua vita pubblica, gli hanno mostrato invidia e gelosia. Appare chiara nel vangelo di Marco una crescente sfiducia di Cristo nei loro confronti dato che la loro gelosia diventa odio fino a progettare di uccidere Gesù dopo la cacciata dei mercanti dal Tempio. I capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani lo assediano mentre cammina nel Tempio chiedendogli con quale autorità insegni e compia i miracoli (11,27-28) e vedremo durante la passione lo stesso Pilato rendersene conto, come annota san Marco: “Pilato sapeva che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia” (15,10). Gesù però non si lascia impressionare dal loro odio e rimprovera loro qualcosa di molto più grave e cioè che sfruttano la loro posizione esigendo di essere pagati dalle povere vedove quando queste domandano consigli giuridici: “divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa” (12,40). E’ a questo punto che appare una povera vedova (12, 42-43) in totale indigenza (12,44) perché, non avendo diritto all’eredità del marito, dipendeva dalla carità pubblica. Essa si avvicina per deporre due spiccioli e Gesù la indica come esempio ai discepoli: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno offerto del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quanto aveva per vivere” (12, 43-44). L’evangelista non fa commenti, ma si capisce che la fiducia della vedova sarà ricompensata. Naturale il parallelo con la vedova di Sarepta: come lei offrì ad Elia le sue ultime provviste, questa vedova depone tutti i suoi risparmi nel Tempio spogliandosi di tutto. Gesù invita a rifiutare il modello dell’ostentazione di alcuni scribi con la sete di onori e privilegi, ed esorta a imitare la generosità, umile e discreta, della “vedova povera” che lascia tutto ciò che ha nel Tempio. Diversi Padri della Chiesa l’hanno interpretato come un potente simbolo di fede umile e generosa e di carità autentica, non perché dona molto ma perché offre tutto ciò che ha per vivere, fidandosi di Dio. Questo racconto, oltre ad essere una lezione di carità e fiducia, è pure un richiamo all’autentica giustizia sociale, dove l’amore per Dio deve tradursi sempre in attenzione, aiuto e amore ai bisognosi.
The "widow" represents the soul of the People from whom God, the Bridegroom, has been stolen. The "poor" is such because she is the victim of a deviant teaching: a doctrine that arouses fear, more than humility or a spirit of totality. Jesus mourns the condition of she who should have been helped by the Temple instead of impoverished
La “vedova” raffigura l’anima del Popolo cui è stato sottratto Dio, lo Sposo. La “povera” è tale perché vittima di un insegnamento deviante: dottrina che suscita timore, più che umiltà o spirito di totalità. Gesù piange la condizione di colei che dal Tempio avrebbe dovuto essere aiutata, invece che impoverita
Jesus has forever interrupted the succession of ferocious empires. He turned the values upside down. And he proposes the singular work - truly priestly - of the journey of Faith: the invitation to question oneself. At the end of his earthly life, the Lord is Silent, because he waits for everyone to pronounce, and choose
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori. E propone l’opera singolare - davvero sacerdotale - del cammino di Fede: l’invito a interrogarsi. Al termine della sua vicenda terrena il Signore è Silenzioso, perché attende che ciascuno si pronunci, e scelga
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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