Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
1. “Paenitemini et date eleemosynam” (cf. Mc 1,15 e Lc 12,33).
La parola “elemosina” oggi non l’ascoltiamo volentieri. Sentiamo in essa qualcosa di umiliante. Questa parola sembra supporre un sistema sociale in cui regna l’ingiustizia, l’ineguale distribuzione dei beni, un sistema che dovrebbe essere cambiato con riforme adeguate. E se tali riforme non venissero compiute, si delineerebbe all’orizzonte della vita sociale la necessità di cambiamenti radicali, soprattutto nell’ambito dei rapporti tra gli uomini. La stessa convinzione troviamo nei testi dei Profeti dell’Antico Testamento, ai quali attinge spesso la Liturgia nel tempo di Quaresima. I Profeti considerano questo problema a livello religioso: non vi è vera conversione a Dio, non può esserci autentica “religione” senza riparare ingiurie e ingiustizie nei rapporti tra gli uomini, nella vita sociale. Eppure in tale contesto i Profeti esortano l’elemosina.
Non usano nemmeno la parola “elemosina” che del resto in ebraico è “sedaqah”, cioè proprio “giustizia”. Chiedono aiuto per quelli che subiscono ingiustizia e per i bisognosi: non tanto in virtù della misericordia, quanto piuttosto in virtù del dovere della carità operante. “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: / sciogliere le catene inique, / togliere i legami del giogo, / rimandare liberi gli oppressi / e spezzare ogni giogo? / Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, / nell’indurre in casa i miseri, senza tetto, / nel vestire uno che vedi nudo, / senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” (Is 58,6-7).
La parola greca “eleemosyne” si trova nei tardivi libri della Bibbia e la pratica dell’elemosina è una verifica di una autentica religiosità. Gesù fa dell’elemosina una condizione dell’accesso al suo regno (cf. Lc 12,32-33) e della vera perfezione (Mc 10,21 e par.). D’altra parte, quando Giuda – di fronte alla donna che ungeva i piedi di Gesù – pronunciò la frase: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari, per poi darli ai poveri?” (Gv 12,5), Cristo difese la donna rispondendo: “I poveri... li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12,8). L’una e l’altra frase offrono motivo di grande riflessione.
2. Che cosa significa la parola “elemosina”.
La parola greca “eleemosyne” proviene da “eleos” che vuol dire compassione e misericordia; inizialmente indicava l’atteggiamento dell’uomo misericordioso e, in seguito, tutte le opere di carità verso i bisognosi. Questa parola trasformata è rimasta quasi in tutte le lingue europee.
In francese: “aumône”; spagnolo: “limosna”; portoghese: “esmola”; tedesca: “Almosen”; inglese: “alms”. Perfino l’espressione polacca “jalmuzna” è la trasformazione della parola greca.
Dobbiamo qui differenziare il significato oggettivo di questo termine dal significato che gli diamo nella nostra coscienza sociale. Come risulta da ciò che abbiamo già detto in precedenza, al termine “elemosina” attribuiamo spesso, nella nostra coscienza sociale, un significato negativo. Diverse sono le circostanze che vi hanno contribuito e vi contribuiscono anche oggi. Invece, l’“elemosina” in se stessa, come aiuto a chi ne ha bisogno, come “il fare partecipare gli altri ai propri beni”, non suscita assolutamente simili associazioni negative. Possiamo non esser d’accordo con chi fa l’elemosina, per il modo in cui la fa. Possiamo anche non consentire con chi tende la mano chiedendo l’elemosina, in quanto non si sforza di guadagnarsi la vita da sé. Possiamo non approvare la società, il sistema sociale, in cui ci sia necessità di elemosina. Tuttavia il fatto stesso di prestare aiuto a chi ne ha bisogno, il fatto di condividere con gli altri i propri beni deve suscitare rispetto.
Vediamo quanto nell’intendere le espressioni verbali bisogna liberarsi dall’influsso delle varie circostanze accidentali: circostanze spesso improprie, che gravano sul loro significato ordinario. Queste circostanze sono del resto alle volte in se stesse positive (ad esempio, nel nostro caso: l’aspirazione ad una società giusta, in cui non vi sia necessità di elemosina, perché vi regni la giusta distribuzione dei beni).
Quando il Signore Gesù parla di elemosina, quando chiede di praticarla, lo fa sempre nel senso di portare aiuto a chi ne ha bisogno, di condividere i propri beni con i bisognosi, cioè nel senso semplice ed essenziale, che non ci permette di dubitare del valore dell’atto denominato con il termine “elemosina”, anzi ci sollecita ad approvarlo: come atto buono, come espressione di amore verso il prossimo e come atto salvifico.
Inoltre, in un momento di particolare importanza, Cristo pronuncia queste parole significative: “I poveri... li avete sempre con voi” (Gv 12,8). Con tali parole non intende dire che i cambiamenti delle strutture sociali ed economiche non valgano e che non si debba tentare diverse vie per eliminare l’ingiustizia, l’umiliazione, la miseria, la fame. Vuole soltanto dire che nell’uomo ci saranno sempre delle necessità, le quali non potranno essere altrimenti soddisfatte se non con l’aiuto al bisognoso e col far partecipare gli altri ai propri beni... Di quale aiuto si tratta? Di quale partecipazione? Forse soltanto di “elemosina”, intesa sotto forma di denaro, di soccorso materiale?
3. Certamente Cristo non toglie l’elemosina dal nostro campo visivo. Egli pensa anche all’elemosina pecuniaria, materiale, ma a modo suo. Più di ogni altro eloquente, a questo proposito, è l’esempio della vedova povera, che deponeva nel tesoro del tempio alcuni spiccioli: dal punto di vista materiale, un’offerta difficilmente paragonabile alle offerte che davano gli altri. Tuttavia Cristo disse: “Questa vedova... ha dato tutto quanto aveva per vivere” (Lc 21,3-4). Quindi conta soprattutto il valore interiore del dono: la disponibilità a condividere tutto, la prontezza a dare se stessi.
Ricordiamo qui San Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze... ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,3). Anche Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 125, 5) scrive bene a questo proposito: “Se stendi la mano per donare, ma nel cuore non hai misericordia, non hai fatto nulla; se invece nel cuore hai misericordia, anche quando non avessi nulla da donare con la tua mano, Dio accetta la tua elemosina”.
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro”. Proprio tale atteggiamento è un fattore indispensabile della “metànoia”, cioè della conversione, così come sono anche indispensabili la preghiera e il digiuno. Infatti ben si esprime Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 42, b): “Quanto celermente sono accolte le preghiere di chi opera il bene! E questa è la giustizia dell’uomo nella vita presente: il digiuno, l’elemosina, l’orazione”: la preghiera, quale apertura verso Dio; il digiuno, quale espressione del dominio di sé anche nel privarsi di qualcosa, nel dire “no” a se stessi; e infine l’elemosina, quale apertura “verso gli altri”. Tale quadro delinea chiaramente il Vangelo quando ci parla della penitenza, della “metànoia” Solo con un atteggiamento totale – nel rapporto con Dio, con se stesso e con il prossimo – l’uomo raggiunge la conversione e permane nello stato di conversione.
L’“elemosina” così intesa ha un significato in un certo senso decisivo per una tale conversione. Per convincersene, basta ricordare l’immagine del giudizio finale che Cristo ci ha dato: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35-40). E i Padri della Chiesa diranno poi con San Pietro Crisologo (S. Pietro Crisologo, Sermo VIII, 4): “La mano del povero è il gazofilacio di Cristo, poiché tutto ciò che il povero riceve è Cristo che lo riceve”, e con San Gregorio di Nazianzo (S. Gregorio di Nazianzo, De pauperum amore, XI): “Il Signore di tutte le cose vuole la misericordia, non il sacrificio; e noi la diamo attraverso i poveri”.
Pertanto, questa apertura agli altri, che si esprime con l’“aiuto”, con il “dividere” il cibo, il bicchiere d’acqua, la buona parola, il conforto, la visita, il tempo prezioso, ecc., questo dono interiore offerto all’altro uomo giunge direttamente a Cristo, direttamente a Dio. Decide dell’incontro con lui. È la conversione.
Nel Vangelo, e anche in tutta la Sacra Scrittura, possiamo trovare molti testi che lo confermano. L’“elemosina” intesa secondo il Vangelo, secondo l’insegnamento di Cristo, ha nella nostra conversione a Dio un significato definitivo, decisivo. Se manca l’elemosina, la nostra vita non converge ancora pienamente verso Dio.
4. Nel ciclo delle nostre riflessioni quaresimali, occorrerà riprendere questo tema. Oggi, prima di concludere, fermiamoci ancora un momento sul vero significato dell’“elemosina”. È molto facile, infatti, falsificarne l’idea, come abbiamo già avvertito all’inizio. Gesù dava ammonimenti anche rispetto all’atteggiamento superficiale, “esteriore” dell’elemosina (cf. Mt 6,2-4; Lc 11,41). Questo problema è sempre vivo. Se ci rendiamo conto del significato essenziale che l’“elemosina” ha per la nostra conversione a Dio e per tutta la vita cristiana, dobbiamo evitare, ad ogni costo, tutto ciò che falsifica il senso dell’elemosina, della misericordia, delle opere di carità: tutto ciò che può deformarne l’immagine in noi stessi. In questo campo, è molto importante coltivare la sensibilità interiore verso i bisogni reali del prossimo, per sapere in che cosa dobbiamo aiutarlo, come agire per non ferirlo, e come comportarci, affinché ciò che diamo, che portiamo nella sua vita, sia un dono autentico, un dono non aggravato dal senso ordinario negativo della parola “elemosina”.
Vediamo dunque quale campo di lavoro – ampio e insieme profondo – si apre davanti a noi, se vogliamo mettere in pratica il richiamo: “Paenitemini et date eleemosynam” (cf. Mc 1,15; Lc 12,33). È un campo di lavoro non soltanto per la Quaresima, ma per ogni giorno. Per tutta la vita.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 marzo 1979]
Papa Francesco, questa mattina nell’omelia a Casa Santa Marta, ha detto che bisogna «vivere la vita come un dono, non come un tesoro da conservare». Ce lo ha insegnato, per primo, lo stesso Gesù, quando ha detto che «nessuno ha un amore più forte di questo: dare la sua vita». L’esatto contrario, ha sottolineato il pontefice, di quanto fatto da Giuda, «che aveva proprio l’atteggiamento contrario», e infatti «non mai ha capito cosa fosse un dono».
«Pensiamo a quel momento della Maddalena – ha spiegato papa Francesco -, quando lava i piedi di Gesù con il nardo, tanto costoso: è un momento religioso, un momento di gratitudine, un momento di amore. E lui, si distacca e fa la critica amara: “Ma questo potrebbe essere usato per i poveri!”. Questo è il primo riferimento che ho trovato io, nel Vangelo, della povertà come ideologia. L’ideologo non sa cosa sia l’amore, perché non sa darsi».
L’errore di Giuda era di essere impermeabile e distante dall’amore di Cristo: una solitudine che lo ha portato al tradimento. Chi ama, invece, «dà la vita come dono, dà la vita per amore, mai è solo: sempre è in comunità, è in famiglia». Del resto, ha avvertito il Pontefice, colui che «isola la sua coscienza nell’egoismo» alla fine «la perde».
[Papa Francesco, omelia s. Marta 14/05/2013: https://www.tempi.it/papa-francesco-vivete-la-vita-come-dono-satana-e-un-cattivo-pagatore-sempre-ci-truffa-sempre/]
(Mt 21,1-11; Mc 11,1-10; Lc 19,28-40; Gv 12,12-16)
Nei Vangeli il Signore non si lascia identificare con l’Aquila di Gv, sebbene sia Lui che viene dall’alto - e ‘vede’ oltre l’immediato.
Non è un essere spirituale alato [come il simbolo di Mt] bensì pienamente incarnato, malgrado sia l’Angelo autentico, ossia Inviato del Padre per eccellenza.
Gesù non viene associato al ‘leone’ [Mc], re della foresta e delle bestie, benché sia l’unico uomo riuscito e maestosamente regale - la Persona vera e totalmente ‘presente’ secondo Dio.
Tanto meno lo accostiamo al ‘bue’ [Lc], icona dell’antica devozione tradizionalmente sacrificale.
Su base evangelica non è possibile neanche immaginare la figura e la proposta del Maestro con il tipico “bestiario” d’omaggio e rispettosità con cui nell’Oriente antico venivano idealizzati sovrani e dignitari, tutti i potenti e gli eletti anche della casta religiosa ufficiale.
I Vangeli non riconoscono Gesù quale ‘rapace’ maestoso: fanno coincidere la stabilità, la qualità e l’azione del suo Spirito nell’icona della «colomba».
Poi con una figura che fa proprio ridere i polli: la ‘gallina’, la quale si duole delle scelte rovinose della sua nidiata (Mt 23,37).
In luogo della potenza del ‘leone’ [di Babilonia o della tribù di Giuda] ecco: mansuetudine d’Agnello che dona tutto di sé, pelle compresa.
In luogo delle rinunce ascetiche, o d’animali destinati all’offertorio necessario a placare gli dei, un «uomo dal cuore di carne e non di belva» con ideale di Comunione; vita strappata al preumano.
Come dire: è una trama d’essere (se stessi, anche piccoli) e di relazioni qualitative, che soppianta e sublima le arcaiche pratiche sacrificali [sacrum-facere] con cui anticamente si cercava il contatto e un rapporto di reciprocità con la Vita celeste.
Ora essa s’identifica con la pienezza umana.
Invece della strafottenza focosa d’un destriero che incalza e si rende protagonista di grandi imprese, collaborando appieno a rendere illustre il suo condottiero, vediamo un simbolo di laboriosità instancabile, calato nella vita comune di tutti: il ‘somarello’!
Quella dell’«asinello» è una fragorosa proposta di vita dimessa, su misura per discepoli ancora distratti, imbambolati da sogni di solennità, prestigio, gloria mondana, e smanie competitive.
Vuol dire: dentro ciascuno di noi c’è una «profezia di servizio» incessante che dev’essere “slegata”.
Come se nell’intimo dimorasse un essere sorgivo inespresso che può e vuol venire «sciolto» dai molti legacci delle aspettative di successo facile, di grandezza, di consenso.
Speranze prima indifferenti o sdegnate - per aver dato credito a un Messia dimesso.
Tale il livello della Fede che surclassa il comune senso religioso.
Per questo lo stesso popolo che acclama acclama, attendendosi una celebrazione trionfale, sublimi riconoscimenti e facili scorciatoie - poi si accoda al rifiuto di Cristo.
[Domenica delle Palme]
(Lc 22,14-23,56)
Gesù introduce nel mondo una novità totale, principio di vita: l’amore senza condizioni.
I fatti narrati nei racconti di Passione sono fondamentalmente gli stessi, ma ogni autore sottolinea temi di catechesi ritenuti urgenti per la sua comunità.
Sebbene collocata in una tensione di anticipazione ecclesiale (Regno), dal tono della narrazione di Lc è evidente che la Cena abbia avuto un qualche carattere di continuazione dei pasti che Gesù consumava coi suoi.
Qui Egli già trasmette la totalità di se stesso: «Questo sono io». Unica Via che unisce al Padre è la sua Persona e la sua vicenda storica, che condensano il mistero dell’alleanza.
Altre strade come ad es. quelle tracciate dai Patti d’Israele non riescono più a contenere la sua proposta d’Amore e Vita piena.
Mt Mc Lc situano l’istituzione dell’Eucaristia all’interno della cena pasquale giudaica. Una rielaborazione teologica per affermare (nella Fede) il senso dell’autentica Pasqua di Liberazione in Cristo.
Rispetto ai primi tre, il quarto Vangelo è più aderente al senso del Pane Spezzato come fonte di Vita per tutti.
Gv “anticipa” la morte del Signore al momento in cui i sacerdoti sgozzavano gli agnelli destinati alla cena di Pasqua, sulla spianata del Tempio.
Quindi il sacrificio della Croce - contemporaneo a quest’ultimo evento - è giustamente collocato da Gv nelle ore precedenti la cena “pasquale” dei Sinottici.
In effetti, la Cena del Signore che celebriamo non ha avuto origine dalla celebrazione popolare dell’Esodo (del Primo Testamento) nell’aprile dell’anno 30 (Gesù aveva 37 anni).
L’Eucaristia infatti non ha mai avuto a che fare con gl’ingredienti tipici della mensa di Pasqua ebraica, quali spezie o salse, erbe dolci e amare, differenti calici di vino e così via.
Il senso originale del gesto rituale del Maestro coi suoi - che introduce il racconto della Passione - è quella gioiosa dello Zebah-Todah (Lv 7,11ss: unico culto votivo che poteva essere celebrato fuori del Tempio di Gerusalemme, in casa, con amici e famigliari).
Da ciò il doppio termine (comune) con cui si designa ancora il segno efficace che Cristo ci ha lasciato: Comunione (Zebah) ed Eucaristia (Ringraziamento: Todah).
Todah era un sacrificio di grande lode, uno dei vari generi specifici del sacrificio di Comunione. Ne rinveniamo diverse tracce nella Preghiera Eucaristica prima.
L’azione cerimoniale del Ringraziamento era inteso in senso molto forte, perché celebrava la Vita ritrovata, dopo una grave malattia o uno scampato pericolo di morte.
Buona parte dei Salmi - forse più di un terzo - in diversi punti esprimono la medesima gioia finale (scongiurata minaccia mortale, e l’esperienza di ritrovarsi salvati insieme ai propri cari, per Dono divino).
Il senso di quest’inneggiare nel quotidiano era infatti inizialmente anche per la Chiesa Cattolica (per quasi tutto il primo millennio, al pari della Chiesa Ortodossa) celebrato con pane lievitato (Lv 7,13), per indicarne il valore domestico e reale.
Esso ricalca i toni propri di tale antico culto di rendimento di grazie in focolare - purtroppo, difficile da tradurre nel senso delle formule proprie, percepibili solo ad un orecchio specialmente allenato (o nel testo originale in lingua ebraica).
L’atmosfera lieta e famigliare con cui si celebrava il rito di Comunione e Ringraziamento sembra qui intaccata dal dramma dell’infedeltà. È un forte richiamo alla vigilanza per tutti noi.
Gesù si porge ai suoi in forma di eredità e di tesoro. «Fate questo in mia memoria»: fra gli evangelisti solo Lc riferisce tali parole.
Il senso non riguarda le ripetizioni liturgiche. Il segno del Pane spezzato è riassuntivo - e un invito a fare nostra la sua proposta di esistenza, segnata dalla fedeltà a se stesso, alla vocazione, ai malfermi.
Il gesto del Signore c’introduce nel senso della libertà personale e nel servizio; in una forma di comunità a criteri rovesciati.
Il trattenere viene soppiantato dal dare, il salire diviene libertà di scendere, il comandare viene sostituito dal dialogo e dall’aiuto reciproco; la smania di apparire svanisce.
Coloro che signoreggiano pretendono persino di essere chiamati «Benefattori»? «Fra voi non così» (vv.25-26).
Chi ha ricevuto in dono la pienezza dimostra attitudine al superamento delle brame di precedenza e riconoscimenti.
Proprio durante la Cena Lc inserisce la discussione su quale discepolo fosse il più grande, perché Cristo la ritiene questione centrale.
L’evangelista la colloca nel momento del testamento di Gesù: è richiesta inviolabile.
Dove - malgrado le grandi apparenze - persiste la voglia di vincere e accapigliarsi non c’è nulla del mistero aperto sognato da Gesù.
La Chiesa caratterizzata da un tessuto di opposizioni, poteri, interessi, predominio di cerchie e lotta costante non manifesta nulla di divino.
«Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione, e alla morte» - ovviamente per finta (come mostra la negazione di Pietro stesso) e comunque per vincere.
Nel momento decisivo il “capo” non c’è, e se c’è fa mille piroette.
È vero pure che la vita della Chiesa e il senso della Passione si tengono su un piano misterioso, ma le persone cercano testimoni, non direttori.
Certo, i responsabili di comunità che abbandonano non vengono a loro volta respinti ed emarginati dal Signore, purché prima o poi si mettano in testa di «pascere i Suoi agnelli» (Gv 21,16), ossia nutrirli come si deve, con cibo sano.
Ma il rinnegato può diventare il prototipo di tutti i leaders che conoscono i propri limiti.
Bisogna capire la debolezza. Gesù non sottolinea l’errore del discepolo che tradisce. L’imputazione scosta da ogni cammino. Chi non si sente accolto finisce per ripiegarsi su di sé.
Quindi è opportuno non aggredire, e non solo rimediare ai guai. Prendersi cura (v.51) aiuta a crescere e liberare dalle schiavitù.
Lo sguardo rivolto a Pietro coglie l’intimo (v.61: en-blepein) del discepolo rinnegato: dietro le parole vili e i gesti codardi Gesù vede il bene - malgrado in alcuni momenti possiamo allontanarci.
Il Vangelo di Lc dipende molto da Mc, eppure nel racconto della Passione notiamo più punti di contatto con il quarto Vangelo.
Come Gv, infatti, Lc presenta la Passione d’amore di Cristo al pari d’uno scontro - già annunciato a termine delle tentazioni nel deserto (4,13).
Agonia è un termine che compare solo nel terzo Vangelo, a indicare la competizione, il combattimento interiore di colui che dev’essere fedele alla propria Chiamata.
Il sudore di sangue (v.44) esprime il tremito di chi si concentra nella lotta intima.
Quando le cose si prendono sul serio, ecco affacciarsi le notti di vero terrore - che possono essere anche nostre.
«Entrato in agonia, pregava più intensamente» (v.44). Cristo non si prepara recitando formule. Si mette in ascolto del Padre per cogliere e fare propri i suoi progetti.
Se - sopraffatto - Gesù fosse fuggito, le autorità lo avrebbero lasciato andare.
La figura dell’Angelo (Dio che si comunica a noi) è la rivelazione interiore che fa comprendere il valore della scelta di permanere.
«Alla destra della potenza di Dio» (v.69): aspetto sorprendente del paradosso cristiano è appunto scoprire nella propria esperienza il potere della vita che si riattualizza.
Ma la vita divina di qualità indistruttibile ha specie contraria... totalmente imprevedibile nelle sue dinamiche di principio... sia a paragone delle condanne sentenziose, che dei giudizi da tribunale religioso.
Insuperabile è la narrazione dell’incontro con Erode (23,6-11).
Il tetrarca della Galilea era a Gerusalemme in occasione della Pasqua, e poiché Pilato voleva sbarazzarsi del problema manda Gesù al suo re.
Il figlio di Erode il Grande desiderava incontrare Gesù da tempo. La sua prima reazione - nota Lc - è stata quella di una grande gioia, perché si aspettava d’incontrare un mago, un indovino, un esperto di arti occulte. Magari di fronte a lui il Nazareno si sarebbe finalmente convinto a compiere qualche gesto straordinario (una di quelle guarigioni di cui aveva sentito parlare).
L’evangelista nota che Gesù non lo degnò di risposta.
Di contro il sovrano «lo annientò» (23,11), ossia lo considerò un niente...
Non poteva avere maggiore delusione che quella di non vedere compiere alcun miracolo.
Il Messaggio è chiaro: meglio non cercare Gesù come facitore di prodigi: non riceveremo risposta.
Qua e là forse troveremo ciò che si cerca di norma nella religione, ma il Signore non si presta.
Cristianesimo è il luogo dell’ascolto della Parola della vita: una proposta per costruire secondo Dio; non il mercato dei miracoli portato avanti da opportunisti.
Per questo il Figlio è crocifisso tra criminali. Per il potere politico e religioso, lui era un pericolo assai peggiore.
Secondo Lc solo uno lo oltraggiava; l’altro chiama Gesù per nome e gli si affida (v.42).
All’inizio del Vangelo la venuta del Signore è collocata fra gli ultimi della terra.
Egli sin dall’inizio si manifesta al mondo tra gente impura e persone disprezzate [addirittura sicure di dover essere fatte fuori dal Messia giudice, e che quindi ne avevano timore] non fra i giusti e santi del Tempio.
Poi tutta la sua vita si svolge in mezzo a pubblicani e peccatori, perché venuto per loro.
Infatti: chi riporta in casa del Padre? Uno qualunque, che rappresenta tutti noi - un malfattore che aveva compiuto omicidi - perché tutti i peccati consistono nel togliere vita e gioia di vivere a qualcuno.
Così quell’assassino ci rappresenta. E il Cristo inizia a edificare Famiglia proprio con un criminale accanto, che siamo noi: peccatori recuperati dal suo amore senza condizioni.
Le «figlie di Gerusalemme» piangono perché il popolo rimane solo, interdetto fra i sogni violenti di Barabba e il realismo politico di Roma. Accettando la proposta di Cristo, la città santa poteva spezzare le catene dell’azione e reazione, dell’offesa-e-ritorsione, dello spirito di vendetta che pende sul mondo.
Ma sul Golgota si rivela il potere definitivo della Grazia - fondamento della vita - sulle vecchie linee del mondo morto:
«Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (23,34): le ultime parole di Gesù, anch’esse riferite solo da Lc.
Il discepolo di Cristo non conosce il linguaggio dell’imprecazione, della maledizione, di chi invoca castighi.
Anche nei momenti più drammatici d’ingiustizia e vessazione siamo chiamati a pronunciare solo amore: cedere, fonte di energie nuove e recuperi inspiegabili.
Piattaforma dell’esistenza nuova della Chiesa.
(Mt 21,1-11; Mc 11,1-10; Lc 19,28-40; Gv 12,12-16)
A scuola i ragazzi avevano sempre difficoltà a distinguere due artisti senesi, Simone Martini e il suo maestro Duccio - meno cortigiano e più inquietante - sino a quando il catechista non fece notare un particolare dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme sulla Maestà di Siena; primo grande polittico della storia.
Duccio di Buoninsegna aveva arricchito la scena con simboli pasquali come l’albero dietro il capo di Cristo che allude al patibolo vitale, nonché la cupola di colore chiarissimo che svetta ancor sopra [icona del corpo del Risorto come “tempio ricostruito”].
Ma ciò che faceva riflettere era il netto contrasto fra le due porte del lato destro del pannello - anch’esse sul medesimo asse compositivo - a sottolineare la divergenza di situazioni.
Nel dipinto l’accesso grande della città sovrasta nobilmente una folla che acclama, mentre la porticina in primo piano in basso allude all’ingresso nell’orto del Getsemani.
Uscio inferiore e recinto delimitano un terreno desertico. Elementi che s’incuneano in modo spigoloso e quasi maldestro nell’armonia della bella (ma paradossale) composizione.
È vivo il contrasto fra l’ampio varco gremito di moltitudine assiepata in festa, e la soglia con quello spazio rimasti disattesi; icone del senso di abbandono, mestizia e solitudine di chi accede e l’attraversa.
Raffigurazione stridente, se comparata con l’inneggiare delle calche cittadine - malgrado, tutto il settore dei notabili rimanga a osservare perplesso.
Insomma, l’idea comune d’un ingresso messianico nella città santa reso scorrevole e trionfante sull’onda del momento vantaggioso, è incrinata e disturbata da dettagli incongrui.
Ingredienti-spia, che invitano a un genere di riflessioni ancora purtroppo assenti nell’immaginario popolare, inchiodato su luoghi comuni più scenografici e direttamente piacevoli della festa delle Palme.
Un approfondimento biblico indusse la comunità parrocchiale a scrutare le tematiche inedite che via via sorgevano da una lettura attenta dei testi.
Anche i ragazzi si accorsero: l’atmosfera naturale, il ripetersi scandito che crea abitudine, e l’allestimento del culto, potevano fare brutti scherzi, veicolando significati persino a vanvera - alcuni addirittura opposti al richiamo dei Vangeli.
Man mano ci si rendeva conto del motivo per cui dopo la proclamazione dell’Ingresso e la festante processione condita di Osanna e graziosi rametti in mano - la Liturgia della Parola imponesse il momento faticoso discorde, della proclamazione del Passio.
Anche il Vangelo d’esordio della Liturgia venne reinterpretato dal parroco in un modo che sbalordì la comunità vivacemente riunita.
Il sacerdote chiese ai giovani increduli quali fossero gli “animali” preferiti dalla sacra Scrittura per descrivere Gesù e la sua proposta.
Iniziò allora una provocazione, che però fece riflettere circa le abitudini pittoresche e alcune frasi fatte; nonché, ponderare gli stereotipi troppo concordisti e armonici.
Insomma, ancora oggi, nel “villaggio” delle tradizioni antiche bisogna che i discepoli recuperino e liberino la profezia della sua Persona dimessa. È l’unica cosa di cui il Signore ha bisogno.
Egli viene per proporre un diverso Volto di Dio, non dominatore violento - e una differente relazione del popolo dei figli che vogliono crescere, rispetto a quanto ci si attendeva: potere e tranquillità.
Nessuna regalità mondana, né guerre da fare - questo il senso del gesto di deporre il mantello sulla cavalcatura modesta.
In tal guisa, i discepoli autentici sono d’accordo con il profilo basso del Messia di pace.
Ma l’adesione non è condivisa. Gran parte degli astanti si umiliano a stendere i mantelli sulla strada [a quel tempo segno di subordinazione]: essi preferiscono la soggezione a un Re glorioso.
E purtroppo, nei secoli non pochi credenti hanno anteposto la sottomissione all’amore, rischiosa gestione della propria libertà di essere e fare.
I rami tagliati? Alludono alla festa delle Capanne, durante la quale avrebbe dovuto apparire il Messia... immaginato Grande, vendicatore, propugnatore d’un facile benessere a spese di altri popoli.
Così Gesù si trova costretto e come preso in ostaggio fra due ali di folla: un gruppo che dirige, per indicargli la strada del potere - e uno che lo pressa, come per non lasciarselo scappare, né fargli fare di testa sua.
Troppo pericoloso.
Purtroppo l’equivoco è durato fino a oggi, ed è ancora assai tenace da estirpare. L’immaginario di tale Domenica particolare confonde il senso della scenografia festosa.
Anche noi rischiamo di scambiare ancora il Figlio dell’uomo immagine del Padre col figlio di Davide - l’abile condottiero che mille anni prima aveva riunito militarmente le tribù e dato lustro imperiale alla nazione.
Nei Vangeli il Signore non si lascia identificare con l’aquila di Gv, sebbene sia Lui che viene dall’alto e vede oltre l’immediato.
Non è un essere spirituale alato [simbolo di Mt] bensì pienamente incarnato, malgrado sia l’Angelo autentico, ossia l’Inviato del Padre per eccellenza.
Gesù non viene associato al leone [Mc], re della foresta e delle bestie, benché sia l’unico uomo riuscito e maestosamente regale - Persona vera e totalmente ‘presente’ secondo Dio.
Tanto meno lo accostiamo al bue [Lc] icona dell’antica devozione tradizionalmente sacrificale.
Su base evangelica non è possibile neanche immaginare la figura e la proposta del Maestro con il tipico bestiario d’omaggio e rispettosità con cui nell’Oriente antico venivano idealizzati sovrani e dignitari, tutti i potenti e gli eletti, anche della casta religiosa ufficiale.
I Vangeli non riconoscono Gesù quale rapace maestoso: fanno coincidere la stabilità, la qualità e l’azione del suo Spirito nell’icona della ‘colomba’.
Ancora, con una figura che fa proprio ridere i polli: la ‘gallina’, la quale si duole delle scelte rovinose della sua nidiata (Mt 23,37).
In luogo della potenza del leone [di Babilonia o della tribù di Giuda] ecco: mansuetudine d’Agnello che dona tutto di sé, pelle compresa.
Invece delle rinunce ascetiche, o d’animali destinati all’offertorio necessario a placare gli dei: un uomo dal cuore di carne e non di belva, con ideale di Comunione. Vita di coesistenza, strappata al preumano.
Come dire: è una trama d’essere (se stessi, anche piccoli) e di relazioni qualitative, che soppianta e sublima le arcaiche pratiche sacrificali [sacrum-facere] con cui anticamente si cercava il contatto e un rapporto di reciprocità con la vita celeste.
Ora essa s’identifica con la pienezza umana.
In alternativa eloquente alla strafottenza focosa d’un destriero che incalza e si rende protagonista di grandi imprese, collaborando appieno a rendere illustre il suo condottiero, ecco il simbolo della laboriosità instancabile, calato nella vita comune e di tutti: il ‘somarello’!
Questa dell’asinello è una fragorosa proposta di vita dimessa, su misura per discepoli ancora distratti, imbambolati nei sogni di solennità, prestigio, gloria mondana, smanie competitive [sembrava un’ovvietà del cuore].
Vuol dire: dentro ciascuno di noi c’è una profezia di servizio incessante che dev’essere “slegata”.
Come se nell’intimo dimorasse un essere sorgivo inespresso che può e vuol venire sciolto dai molti legacci delle aspettative di successo facile, di grandezza, di consenso.
Speranze prima indifferenti o sdegnate, per aver dato credito a un Messia dimesso.
Tale il livello della Fede che surclassa il comune senso religioso.
Facilmente esso volge l’entusiasmo in tristezza e l’adesione in abbandono, coprendo a monte le potenze oscure dei nostri blocchi.
Per questo [ed è storia ancora contemporanea, di sequela e tradimento] lo stesso popolo che acclama acclama, attendendosi una celebrazione trionfale, sublimi riconoscimenti e facili scorciatoie - poi si accoda al rifiuto di Cristo.
Gocce di commozione, Preghiera ed Energia vitale
Il pianto sulla città eterna, con lacrime di padre, di madre, di figlio
(Lc 19,41-44)
Ci piace essere sulla scia della moda o dell’opportunismo, ma respingere la Chiamata del Signore è grande responsabilità.
Bisogna riconoscere la Sua Visita, in Presenza, nell’ispirazione che emerge.
E scrutare i segni, cogliere i momenti di grazia invece di chiudersi ostilmente; non voltare le spalle.
Tutto questo cambia la vita in radice - guida al cuore della storia.
Gesù vuole espugnare le porte chiuse di ogni cittadella; anzitutto dell’osso più duro: Gerusalemme, la città santa.
Il territorio “eterno” è meno capace di accogliere le proposte del Signore - anche quelle sbandierate agli altri ma vissute in proprio con comportamenti qua e là aberranti (che costringono a ripetuti appelli).
Lì, gli estremisti del tornaconto antico o supermoderno restano tutti protesi a presidiare e coprire interessi, privilegi, abitudini, comodità.
Situazione che trascina i problemi stessi - i quali via via diventano cronici.
Non di rado i responsabili astuti rimangono seduti e chiusi nella difesa del mondo che vede solo se stesso, nella perfetta cupidità di ogni cosa vana.
Altro che fermento di conversione, motore della società, germe di vita nuova!
Risultato: la Verità tanto sbandierata rimane spesso ostaggio delle ingiustizie più bieche, che nel quotidiano consumano allegramente i peggiori tradimenti.
Anche Gesù si accorgeva della medesima situazione, immarcescibile, la quale produceva degrado e disumanizzazione.
Talora infatti ricerca del divino e tensione umana sono rese vane, a causa di un mondo ufficiale esclusivo, snob o settario - quello del sacro - che sembra sotto il segno di tutt’altra divinità.
Da parte dei direttori, la scelta di una ideologia di potere pasce d’illusioni.
Guida al proselitismo duro, ma conduce al disastro l’intero popolo - vessato, disprezzato, emarginato.
Offuscando lo sguardo, ciò non consente di liberarsi degli idoli più insidiosi che deturpano l’esistenza e la mente.
In tal guisa, l’ottica dirigista, superficiale e violente, confonde e travia il cammino verso lo Shalôm.
Impossibile rendersi conto della Visita di Dio, nella città perenne della religiosità antica o dell’ideologia élitaria, disincarnata.
Un tempo, ecco trincee, uccisioni e distruzione delle mura e delle case da parte di Nabucodonosor, poi quella romana del 70 cui allude più direttamente il testo.
Ma la previsione lugubre si estende, e forse l’immagine del mucchio di rovine ci riguarda. Fondo storico, meditazione ecclesiale e pastorale.
Non di rado l’autorità competente ha continuato purtroppo a condannare Gesù-Pace come un malfattore da espellere.
Ma in filigrana il Cristo oggi si staglia nella posizione di Re, che a malincuore pronuncia una sentenza definitiva.
Forse lo fa persino sui suoi intimi, quando si lasciano andare al compromesso, al degrado ideale, alla corruzione venale (all’adorazione degli idoli).
Dove la salvezza è preparata, offerta e riproposta in modo così intenso ma invano, il rifiuto diventa più doloroso - così per noi e per questo Figlio appassionato, commovente, quasi affranto.
Eppure il ceto degli eletti ed esclusivisti sceglie ugualmente di cadere e rovinare, in tal guisa autodistruggendo la propria gente.
Ricevendo in cambio solo il becchime mondano d’un titolo da appuntarsi.
E nello stesso “spirito di permanenza”, rigettando il Messia servitore.
Misconoscendo anche nel tempo l’opera di Bene dei suoi testimoni autentici.
Pertanto, la Città delle città - il grande centro religioso - continuerà a perdere il suo speciale carattere di segno salvatore.
Ci sarà un compimento comunque, ma l’anticipazione si realizza ora.
Dunque: siamo col Redentore [resistenza all’oppressione e attività profetica senza acquiescenze] o con Gerusalemme [deviazioni coperte da docilità, amicizia del sovrano, notorietà, premi in denaro]?
Anche oggi è tempo di Visita del Maestro, che bussa e chiede il permesso di entrare, per aprire i sigilli dei grandi interrogativi della storia e della vita.
Il monito è globale, comunitario e personale; di nuovo con lacrime di padre, di madre e di figlio.
Appello tuttora in fieri - per l’attuale tendenza culturale al nulla, alla resa e all’effimero.
L’enciclica Fratelli Tutti denuncia appunto il regresso di un mondo stravagante che - con un senso del qui e ora rattrappito - sembra aver imparato poco dalle tragedie del Novecento, sino a riaccendere conflitti anacronistici (nn.11.13).
Il Padre ha riservato alla Chiesa un Regno alternativo, e dove essa cerca di occupare il posto di altri, finisce solo per vivere di elemosine da rotocalco, e far stare i suoi figli più stretti.
Meglio non rovinare l’amore. Il farsi valere è maschera di nanerottoli, non virtù dei forti - né di famigliari.
Ma accorgendoci anche dei luoghi di rottura, e recuperando il passo sociale, è con nuovo acume evangelico che potremo rendere il Dio-per-tutti davvero operante e vivo, invece che affranto su di noi.
Ciò con migliore profitto a partire dal suo Popolo: dall’anima delle sue Fraternità di silenziosi agnelli, impegnati non a gestire posizioni, bensì nell’artigianato sine glossa della vita reale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ritieni sia nascosto ai tuoi occhi, ma precedentemente annunziato - e che piange amaro?
Con quale orientamento sei disposto a vivere nell’artigianato della Pace, anche famigliare o sociale, mettendo da parte le inimicizie e l’effimero [cf. Fratelli Tutti nn. 57. 100. 127. 176. 192. 197. 216-217. 225-236. 240-243. 254-262. 271-272. 278-285]?
Pace, nella Verità
11. Dinanzi ai rischi che l'umanità vive in questa nostra epoca, è compito di tutti i cattolici intensificare, in ogni parte del mondo, l'annuncio e la testimonianza del « Vangelo della pace », proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace. Dio è Amore che salva, Padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a servizio del bene comune della famiglia umana. Dio è inesauribile sorgente della speranza che dà senso alla vita personale e collettiva. Dio, solo Dio, rende efficace ogni opera di bene e di pace. La storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l'umanità, impaurita e impoverita, verso scelte che non hanno futuro. Ciò deve spronare i credenti in Cristo a farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un'ampia collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti gli uomini di buona volontà.
[Papa Benedetto, Messaggio per la XXXIX Giornata Mondiale per la Pace, 2006]
Cari Fratelli e Sorelle,
in preghiera, con animo raccolto e commosso, abbiamo percorso questa sera il cammino della Croce. Con Gesù siamo saliti al Calvario e abbiamo meditato sulla sua sofferenza, riscoprendo quanto profondo sia l’amore che Egli ha avuto e ha per noi. Ma in questo momento non vogliamo limitarci ad una compassione dettata solo dal nostro debole sentimento; vogliamo piuttosto sentirci partecipi della sofferenza di Gesù, vogliamo accompagnare il nostro Maestro condividendo la sua Passione nella nostra vita, nella vita della Chiesa, per la vita del mondo, poiché sappiamo che proprio nella Croce del Signore, nell’amore senza limiti, che dona tutto se stesso, sta la sorgente della grazia, della liberazione, della pace, della salvezza.
I testi, le meditazioni e le preghiere della Via Crucis ci hanno aiutato a guardare a questo mistero della Passione per apprendere l’immensa lezione di amore che Dio ci ha dato sulla Croce, perché nasca in noi un rinnovato desiderio di convertire il nostro cuore, vivendo ogni giorno lo stesso amore, l’unica forza capace di cambiare il mondo.
Questa sera abbiamo contemplato Gesù nel suo volto pieno di dolore, deriso, oltraggiato, sfigurato dal peccato dell’uomo; domani notte lo contempleremo nel suo volto pieno di gioia, raggiante e luminoso. Da quando Gesù è sceso nel sepolcro, la tomba e la morte non sono più luogo senza speranza, dove la storia si chiude nel fallimento più totale, dove l’uomo tocca il limite estremo della sua impotenza. Il Venerdì Santo è il giorno della speranza più grande, quella maturata sulla Croce, mentre Gesù muore, mentre esala l’ultimo respiro, gridando a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Consegnando la sua esistenza “donata” nelle mani del Padre, Egli sa che la sua morte diventa sorgente di vita, come il seme nel terreno deve rompersi perché la pianta possa nascere: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Gesù è il chicco di grano che cade nella terra, si spezza, si rompe, muore e per questo può portare frutto. Dal giorno in cui Cristo vi è stato innalzato, la Croce, che appare come il segno dell’abbandono, della solitudine, del fallimento è diventata un nuovo inizio: dalla profondità della morte si innalza la promessa della vita eterna. Sulla Croce brilla già lo splendore vittorioso dell’alba del giorno di Pasqua.
Nel silenzio di questa notte, nel silenzio che avvolge il Sabato Santo, toccati dall’amore sconfinato di Dio, viviamo nell’attesa dell’alba del terzo giorno, l’alba della vittoria dell’Amore di Dio, l’alba della luce che permette agli occhi del cuore di vedere in modo nuovo la vita, le difficoltà, la sofferenza. I nostri insuccessi, le nostre delusioni, le nostre amarezze, che sembrano segnare il crollo di tutto, sono illuminati dalla speranza. L’atto di amore della Croce viene confermato dal Padre e la luce sfolgorante della Risurrezione tutto avvolge e trasforma: dal tradimento può nascere l’amicizia; dal rinnegamento, il perdono; dall’odio, l’amore.
Donaci, Signore, di portare con amore la nostra croce, le nostre croci quotidiane, nella certezza che esse sono illuminate dal fulgore della tua Pasqua. Amen.
[Papa Benedetto, Via Crucis al Colosseo 2 aprile 2010]
1. "Pueri Hebraeorum, portantes ramos olivarum...
I giovani ebrei, portando rami d'ulivo, / andarono incontro al Signore".
Così canta l'antifona liturgica, che accompagna la solenne processione con i rami d'ulivo e di palma in questa Domenica, detta appunto delle Palme e della Passione del Signore. Abbiamo rivissuto quel che avvenne quel giorno: in mezzo alla folla esultante intorno a Gesù, che in groppa ad un'asina entrava in Gerusalemme, moltissimi erano i ragazzi. Alcuni farisei avrebbero voluto che Gesù li facesse tacere, ma Egli rispose che, se essi avessero taciuto, avrebbero gridato le pietre (cfr Lc 19,39-40).
Anche oggi, grazie a Dio, i giovani sono in gran numero qui in Piazza San Pietro. I "giovani ebrei" sono diventati ragazzi e ragazze di ogni nazione, lingua e cultura. Benvenuti, carissimi! A ciascuno di voi il mio più cordiale saluto. L'odierno appuntamento ci proietta verso la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, che si svolgerà a Toronto, città canadese tra le più cosmopolite del mondo. Là si trova già la Croce dei Giovani che un anno fa, in occasione della Domenica delle Palme, i giovani italiani consegnarono ai loro coetanei canadesi.
2. La Croce è al centro dell'odierna liturgia. Voi, cari giovani, con la vostra attenta ed entusiastica partecipazione a questa solenne celebrazione, mostrate che non vi vergognate della Croce. Voi non temete la Croce di Cristo. Anzi, l'amate e la venerate, perché è il segno del Redentore morto e risorto per noi. Chi crede in Gesù crocifisso e risuscitato porta la Croce in trionfo, come prova indubitabile che Dio è amore. Con il dono totale di sé, con la Croce appunto, il nostro Salvatore ha vinto definitivamente il peccato e la morte. Per questo acclamiamo festanti: "Gloria e lode a Te, o Cristo, che con la tua Croce hai redento il mondo!".
3. "Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, / e alla morte di croce. / Per questo Dio l'ha esaltato / e gli ha dato il nome che è sopra ogni altro nome" (Acclamaz. al Vangelo). Con queste parole dell'apostolo Paolo, già risuonate nella seconda lettura, abbiamo poc'anzi elevato la nostra acclamazione prima dell'inizio del racconto della Passione. Esse esprimono la nostra fede: la fede della Chiesa.
La fede in Cristo non è però mai scontata. La lettura della sua Passione ci pone di fronte a Cristo, vivente nella Chiesa. Il mistero pasquale, che nei giorni della Settimana Santa rivivremo, è sempre attuale. Noi siamo oggi i contemporanei del Signore e, come la gente di Gerusalemme, come i discepoli e le donne, siamo chiamati a decidere se stare con Lui o fuggire o rimanere semplici spettatori della sua morte.
Si riapre ogni anno, nella Settimana Santa, la grande scena in cui si decide il dramma definitivo non soltanto per una generazione, ma per l'intera umanità ed ogni singola persona.
4. Il racconto della Passione mette in luce la fedeltà di Cristo, in contrasto con l'umana infedeltà. Nell'ora della prova, mentre tutti, anche i discepoli e persino Pietro, abbandonano Gesù (cfr Mt 26,56), Egli rimane fedele, pronto a versare il sangue per portare a compimento la missione affidatagli dal Padre. Accanto gli resta Maria, silenziosa e sofferente.
Cari giovani! Imparate da Gesù e dalla sua e nostra Madre. La vera forza dell'uomo si vede nella fedeltà con cui egli è capace di rendere testimonianza alla verità, resistendo a blandizie e minacce, ad incomprensioni e ricatti, e persino alla persecuzione dura e spietata. Ecco la strada nella quale ci chiama a seguirlo il nostro Redentore.
Solo se sarete disposti a fare questo, diventerete ciò che Gesù si attende da voi, e cioè "sale della terra" e "luce del mondo" (Mt 5,13-14). E' proprio questo, come sapete, il tema della prossima Giornata Mondiale della Gioventù. L'immagine del sale "ci ricorda che, mediante il battesimo, tutto il nostro essere è stato profondamente trasformato, perché «condito» con la vita nuova che viene da Cristo (cfr Rm 6,4)" (Messaggio per la XVII Giornata Mondiale della Gioventù, 2).
Cari giovani, non perdete il vostro sapore di cristiani, il sapore del Vangelo! Mantenetelo vivo, meditando costantemente il mistero pasquale: la Croce sia la vostra scuola di sapienza. Di nient'altro vantatevi, se non di questa sublime cattedra di verità e di amore.
5. La liturgia ci invita a salire verso Gerusalemme con Gesù acclamato dai giovani ebrei. Tra poco Egli "dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno" (Lc 24,46). San Paolo ci ha ricordato che Gesù "spogliò se stesso assumendo la condizione di servo" (Fil 2,7) per ottenere a noi la grazia della filiazione divina. E' da qui che scaturisce la vera sorgente della pace e della gioia per ciascuno di noi! Sta qui il segreto della gioia pasquale, che nasce dal travaglio della Passione.
A questa gioia auguro che prenda parte ognuno di voi, cari giovani amici. Colui che avete scelto come Maestro non è un mercante d'illusioni, non è un potente di questo mondo, né un astuto e abile ragionatore. Voi sapete chi avete scelto di seguire: è il Crocifisso risorto! Cristo morto per voi, Cristo risorto per voi.
E io vi assicuro che non rimarrete delusi. Nessun altro, al di fuori di Lui, vi può infatti dare quell'amore, quella pace e quella vita eterna a cui anela profondamente il vostro cuore. Beati voi, giovani, se sarete fedeli discepoli di Cristo! Beati voi se, in ogni circostanza, sarete disposti a testimoniare che veramente quest'uomo è Figlio di Dio! (cfr Mt 27,39).
Vi guidi ed accompagni Maria, Madre del Verbo incarnato, pronta ad intercedere per ogni uomo che viene sulla faccia della terra.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia delle Palme 24 marzo 2002]
Le acclamazioni dell’ingresso in Gerusalemme e l’umiliazione di Gesù. Le grida festose e l’accanimento feroce. Questo duplice mistero accompagna ogni anno l’ingresso nella Settimana Santa, nei due momenti caratteristici di questa celebrazione: la processione con i rami di palma e di ulivo all’inizio e poi la solenne lettura del racconto della Passione.
Lasciamoci coinvolgere in questa azione animata dallo Spirito Santo, per ottenere quanto abbiamo chiesto nella preghiera: di accompagnare con fede il nostro Salvatore nella sua via e di avere sempre presente il grande insegnamento della sua passione come modello di vita e di vittoria contro lo spirito del male.
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo, ma è abbandono fiducioso al Padre e alla sua volontà di salvezza, di vita, di misericordia; e, in tutta la sua missione, è passato attraverso la tentazione di “fare la sua opera” scegliendo Lui il modo e slegandosi dall’obbedienza al Padre. Dall’inizio, nella lotta dei quaranta giorni nel deserto, fino alla fine, nella Passione, Gesù respinge questa tentazione con la fiducia obbediente nel Padre.
Anche oggi, nel suo ingresso in Gerusalemme, Lui ci mostra la via. Perché in quell’avvenimento il maligno, il Principe di questo mondo aveva una carta da giocare: la carta del trionfalismo, e il Signore ha risposto rimanendo fedele alla sua via, la via dell’umiltà.
Il trionfalismo cerca di avvicinare la meta per mezzo di scorciatoie, di falsi compromessi. Punta a salire sul carro del vincitore. Il trionfalismo vive di gesti e di parole che però non sono passati attraverso il crogiolo della croce; si alimenta del confronto con gli altri giudicandoli sempre peggiori, difettosi, falliti… Una forma sottile di trionfalismo è la mondanità spirituale, che è il maggior pericolo, la tentazione più perfida che minaccia la Chiesa (De Lubac). Gesù ha distrutto il trionfalismo con la sua Passione.
Il Signore ha veramente condiviso e gioito con il popolo, con i giovani che gridavano il suo nome acclamandolo Re e Messia. Il suo cuore godeva nel vedere l’entusiasmo e la festa dei poveri d’Israele. Al punto che, a quei farisei che gli chiedevano di rimproverare i suoi discepoli per le loro scandalose acclamazioni, Egli rispose: «Se questi taceranno, grideranno le pietre» (Lc 19,40). Umiltà non vuol dire negare la realtà, e Gesù è realmente il Messia, è realmente il Re.
Ma nello stesso tempo il cuore di Cristo è su un’altra via, sulla via santa che solo Lui e il Padre conoscono: quella che va dalla «condizione di Dio» alla «condizione di servo», la via dell’umiliazione nell’obbedienza «fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). Egli sa che per giungere al vero trionfo deve fare spazio a Dio; e per fare spazio a Dio c’è un solo modo: la spogliazione, lo svuotamento di sé. Tacere, pregare, umiliarsi. Con la croce, fratelli e sorelle, non si può negoziare, o la si abbraccia o la si rifiuta. E con la sua umiliazione Gesù ha voluto aprire a noi la via della fede e precederci in essa.
Dietro di Lui, la prima a percorrerla è stata sua Madre, Maria, la prima discepola. La Vergine e i santi hanno dovuto patire per camminare nella fede e nella volontà di Dio. Di fronte agli avvenimenti duri e dolorosi della vita, rispondere con la fede costa «una particolare fatica del cuore» (cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris Mater, 17). È la notte della fede. Ma solo da questa notte spunta l’alba della risurrezione. Ai piedi della croce, Maria ripensò alle parole con cui l’Angelo le aveva annunciato il suo Figlio: «Sarà grande […]; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33). Maria sul Golgota si trova di fronte alla smentita totale di quella promessa: suo Figlio agonizza su una croce come un malfattore. Così il trionfalismo, distrutto dall’umiliazione di Gesù, è stato ugualmente distrutto nel cuore della Madre; entrambi hanno saputo tacere.
Preceduti da Maria, innumerevoli santi e sante hanno seguito Gesù sulla via dell’umiltà e sulla via dell’obbedienza. Oggi, Giornata Mondiale della Gioventù, voglio ricordare i tanti santi e sante giovani, specialmente quelli “della porta accanto”, che solo Dio conosce, e che a volte Lui ama svelarci a sorpresa. Cari giovani, non vergognatevi di manifestare il vostro entusiasmo per Gesù, di gridare che Lui vive, che è la vostra vita. Ma nello stesso tempo non abbiate paura di seguirlo sulla via della croce. E quando sentirete che vi chiede di rinunciare a voi stessi, di spogliarvi delle vostre sicurezze, di affidarvi completamente al Padre che è nei cieli, allora, cari giovani, rallegratevi ed esultate! Siete sulla strada del Regno di Dio.
Acclamazioni festose e accanimento feroce; è impressionante il silenzio di Gesù nella sua Passione, vince anche la tentazione di rispondere, di essere “mediatico”. Nei momenti di oscurità e grande tribolazione bisogna tacere, avere il coraggio di tacere, purché sia un tacere mite e non rancoroso. La mitezza del silenzio ci farà apparire ancora più deboli, più umiliati, e allora il demonio, prendendo coraggio, uscirà allo scoperto. Bisognerà resistergli in silenzio, “mantenendo la posizione”, ma con lo stesso atteggiamento di Gesù. Lui sa che la guerra è tra Dio e il Principe di questo mondo, e che non si tratta di mettere mano alla spada, ma di rimanere calmi, saldi nella fede. È l’ora di Dio. E nell’ora in cui Dio scende in battaglia, bisogna lasciarlo fare. Il nostro posto sicuro sarà sotto il manto della Santa Madre di Dio. E mentre attendiamo che il Signore venga e calmi la tempesta (cfr Mc 4,37-41), con la nostra silenziosa testimonianza in preghiera, diamo a noi stessi e agli altri «ragione della speranza che è in [noi]» (1 Pt 3,15). Questo ci aiuterà a vivere nella santa tensione tra la memoria delle promesse, la realtà dell’accanimento presente nella croce e la speranza della risurrezione.
[Papa Francesco, omelia delle Palme, XXXIV GMG 14 aprile 2019]
(Gv 11,45-56)
Cristo è tutto quello che le feste ebraiche avevano promesso e proclamato.
Esse decifravano autorevolmente, ma in modo incosciente [i vv.47-52 si compiacciono di parole a doppio senso].
Il sommo sacerdote parlava infatti in nome di Dio: interpretava la situazione in modo divinamente ispirato.
In Cristo ci si avviava alla realizzazione della promessa fatta ad Abramo: si chiudeva l’epoca della dispersione degli uomini.
La Croce avrebbe realizzato la vocazione del Tempio: la ricomposizione del popolo e l’unità dell’essere umano dalla terra arida e lontana, nella condivisione e gratuità.
Ma quale poteva essere anche per Gesù il punto di partenza (energetico) per non ritirarsi dentro i limiti del proprio ambiente fin nei dettagli, e attivare un cammino di rinascita?
La comunità di Betania [«casa dei poveri»] è immagine delle prime realtà di fede, indigenti e composte di soli fratelli e sorelle.
A misura di persona. Dove ci si “guardava” e si potevano sciogliere quei legami che impedivano di andare oltre il già conosciuto.
Nido di relazioni sane, che riusciva a dare senso anche alle ferite.
La «casa dei poveri» è il solo luogo in cui Gesù si trovava a suo agio, ossia l’unica realtà in cui lo possiamo ancora riconoscere vivo e presente ‘in mezzo’ - disponibile, equidistante. Sorgente di vita per modesti e bisognosi.
Stride nel passo di Vangelo il confronto con la volgare astuzia dei direttori e la dimensione fuori-scala dei luoghi e feste comandate.
Come se lì nessuna linfa scorresse tra Santità di Dio e vita reale delle persone dimesse.
Malgrado il Maestro compisse il bene - come in tutti i regimi, non mancavano i delatori (v.46).
D’altro canto, buona parte degli abitanti di Gerusalemme trovavano nell’indotto delle attività del Tempio il loro sostentamento materiale.
Figuriamoci se i primi della classe si sarebbero convinti a seguire uno sconosciuto che intendeva soppiantare l’istituzione ufficiale e le posizioni di privilegio, con una utopia disadorna.
Il trono dei prìncipi della Casa fraterna era viceversa privo di ‘cuscini’, e la coordinatrice della comunità una donna: Marta [«signora»]. Leader a rovescio, servizievole.
In tal guisa, Betania dava spunti di vita nuova, a motivo della sua stessa composizione, e ‘spirito intimo’.
Focolare privo di standard e ruoli da primato.
Realtà scevra di lotte, difese, posizioni, interessi consolidati: tutte tensioni a “sistemare” le cose che ancora ci segnano al ribasso, verso la sciatteria.
Sotto Domiziano queste piccole realtà alternative - premurose verso i piccoli e lontani - dovettero vivere come Gesù: clandestine.
Pagavano l’unità con la croce. Ma rinnovavano la vita dell’impero.
[Sabato 5.a sett. Quaresima, 12 aprile 2025]
"Ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore" (Gv 10, 16). È la stessa cosa che Giovanni ripete dopo la decisione del sinedrio di uccidere Gesù, quando Caifa disse che sarebbe stato meglio se uno solo fosse morto per il popolo piuttosto che la nazione intera perisse. Giovanni riconosce in questa parola di Caifa una parola profetica e aggiunge: "Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (11, 52). Si rivela la relazione tra Croce e unità; l'unità si paga con la Croce. Soprattutto però emerge l'orizzonte universale dell'agire di Gesù. Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani. La missione di Gesù riguarda l'umanità intera, e perciò alla Chiesa è data una responsabilità per tutta l'umanità, affinché essa riconosca Dio, quel Dio che, per noi tutti, in Gesù Cristo si è fatto uomo, ha sofferto, è morto ed è risorto. La Chiesa non deve mai accontentarsi della schiera di coloro che a un certo punto ha raggiunto, e dire che gli altri stiano bene così: i musulmani, gli induisti e via dicendo. La Chiesa non può ritirarsi comodamente nei limiti del proprio ambiente. È incaricata della sollecitudine universale, deve preoccuparsi per tutti e di tutti.
[Papa Benedetto, omelia 7 maggio 2006]
We see that the disciples are still closed in their thinking […] How does Jesus answer? He answers by broadening their horizons […] and he confers upon them the task of bearing witness to him all over the world, transcending the cultural and religious confines within which they were accustomed to think and live (Pope Benedict)
Vediamo che i discepoli sono ancora chiusi nella loro visione […] E come risponde Gesù? Risponde aprendo i loro orizzonti […] e conferisce loro l’incarico di testimoniarlo in tutto il mondo oltrepassando i confini culturali e religiosi entro cui erano abituati a pensare e a vivere (Papa Benedetto)
The Fathers made a very significant commentary on this singular task. This is what they say: for a fish, created for water, it is fatal to be taken out of the sea, to be removed from its vital element to serve as human food. But in the mission of a fisher of men, the reverse is true. We are living in alienation, in the salt waters of suffering and death; in a sea of darkness without light. The net of the Gospel pulls us out of the waters of death and brings us into the splendour of God’s light, into true life (Pope Benedict)
I Padri […] dicono così: per il pesce, creato per l’acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all’uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita (Papa Benedetto)
We may ask ourselves: who is a witness? A witness is a person who has seen, who recalls and tells. See, recall and tell: these are three verbs which describe the identity and mission (Pope Francis, Regina Coeli April 19, 2015)
Possiamo domandarci: ma chi è il testimone? Il testimone è uno che ha visto, che ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi che ne descrivono l’identità e la missione (Papa Francesco, Regina Coeli 19 aprile 2015)
There is the path of those who, like those two on the outbound journey, allow themselves to be paralysed by life’s disappointments and proceed sadly; and there is the path of those who do not put themselves and their problems first, but rather Jesus who visits us, and the brothers who await his visit (Pope Francis)
C’è la via di chi, come quei due all’andata, si lascia paralizzare dalle delusioni della vita e va avanti triste; e c’è la via di chi non mette al primo posto se stesso e i suoi problemi, ma Gesù che ci visita, e i fratelli che attendono la sua visita (Papa Francesco)
So that Christians may properly carry out this mandate entrusted to them, it is indispensable that they have a personal encounter with Christ, crucified and risen, and let the power of his love transform them. When this happens, sadness changes to joy and fear gives way to missionary enthusiasm (John Paul II)
Perché i cristiani possano compiere appieno questo mandato loro affidato, è indispensabile che incontrino personalmente il Crocifisso risorto, e si lascino trasformare dalla potenza del suo amore. Quando questo avviene, la tristezza si muta in gioia, il timore cede il passo all’ardore missionario (Giovanni Paolo II)
This is the message that Christians are called to spread to the very ends of the earth. The Christian faith, as we know, is not born from the acceptance of a doctrine but from an encounter with a Person (Pope Benedict))
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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