Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Lc 23,35-43)
Il Figlio è crocifisso tra criminali. Per il potere politico e religioso, lui era un pericolo assai peggiore.
Secondo Lc solo uno lo oltraggiava; l’altro chiama Gesù per nome e gli si affida (v.42).
All’inizio del Vangelo la venuta del Signore è collocata fra gli ultimi della terra.
Egli sin dall’inizio si manifesta al mondo tra gente impura e persone disprezzate [addirittura sicure di dover essere fatte fuori dal Messia giudice, e che quindi ne avevano timore] non fra i giusti e santi del Tempio.
Poi tutta la sua vita si svolge in mezzo a pubblicani e peccatori, perché venuto per loro.
Infatti: chi riporta in casa del Padre? Uno qualunque, che rappresenta tutti noi - un malfattore che aveva compiuto omicidi - perché tutti i peccati consistono nel togliere vita e gioia di vivere a qualcuno.
Così quell’assassino ci rappresenta. E il Cristo inizia a edificare Famiglia proprio con un criminale accanto, che siamo noi: peccatori recuperati dal suo amore senza condizioni.
Quali proposte ci offrono una spinta valida e non amputano parti preziose di noi stessi?
Cosa riteniamo possa divinizzarci, portando vicini alla vita completa?
Chi è amico che non s’interrompe, e chi nemico - in grado di farci crescere (o disumanizzare)?
In Lc la folla è allo sbando.
La gente non insulta il Fedele accusato dalle autorità religiose, ma rimane perplessa, non capisce.
Il popolo non ha avuto guide spirituali sane, in grado di far riconoscere il proprio del mondo di Dio - e viceversa, ciò che lo rende caricaturale.
Quello di Re universale è un titolo che oggi reca con sé non pochi equivoci - quando attribuito al Cristo autentico, ridotto a zero.
Ciò perché confuso con benemerenze fatue, grandezze artificiose, magnificenze da teatro e di sola appariscenza [per lo più ridicole].
La regalità dei credenti in Lui è inapparente, ma tutta sostanza. Potenza che apre nuove possibilità, persino in dimensione buia.
Nulla a che fare con le tentazioni di realizzarsi pensando in modo banale, precipitoso, esteriore, confortevole, e promuovendo unicamente se stessi (vv.37.39).
Nei Vangeli - infatti - il male si presenta non come avversario cattivo e antagonista, ma come consigliere affabile e compiacente, che sembra trasmettere sicurezza dagli imprevisti, e farci conquistare posizioni.
Amico che ci vuol bene e tutela, perciò dà le dritte per farsi valere, imporre, riuscire. E pur affermare nelle cose di rilievo sociale [ma epidermico] degradanti la personale vocazione.
Anche (così è sembrato spesso, purtroppo) in campo spirituale.
Ma centrarsi sulle parvenze finisce per farci ignorare e non comprendere i percorsi profondi dell’anima.
Sul Calvario il Signore realizza una regalità, un modo di coronare la vita, un innalzamento di sé, diametralmente opposto a quanto suggerito dal maligno.
E rieccolo all’appuntamento cruciale fissato sin dall’inizio della sua vicenda pubblica (Lc 4,1-13), nel momento della debolezza estrema!
Insomma, vogliamo essere grandi, capaci di sorpassare, e ben considerati, anche nella vita spirituale.
Ma per diventare capi-villaggio bisogna farsi astuti o confondersi nel branco, e seguire criteri che con la vita di Gesù nulla hanno a che fare.
Allearsi con gente che conta, introdursi, farsi conoscere, imparare a sedurre, essere svelti, ammanicati, lesti, abili.
In tal guisa, anche nel Cammino verso Dio cediamo alla tentazione del ruolo, del calibro, della notorietà, della considerazione, della visibilità, dell’agio. E bocche cucite, altrimenti niente carriera.
La spinta della pancia raccomanda: “Dài che insieme riusciamo a fare qualcosa di grosso, e sarai il dominante del nido. Invece che un fallito qualsiasi; diventerai qualcuno da riverire”.
Ma la dimensione del Regno è capovolta.
Alla parola «regno», Pilato pensava immediatamente quello di Tiberio (vv.2-4).
Invece, al termine della vita, il trono di Gesù qual è stato? E i servi ossequienti?
Sotto aveva una platea che lo insultava e sfidava.
Le guardie del corpo? Dove sono finiti i ministri arrembanti, i generali e colonnelli, quelli che scattano ai suoi ordini?
Due sventurati, sfigurati dai propri errori, che ci rappresentano.
Ma qualcuno recita sino alla fine il mantra: «Salvati!».
Cristo e i suoi intimi non intendono distruggere l’anima, perciò non scendono dal patibolo, anzi lo riconoscono “proprio”: opportunità suprema.
Non vogliamo aggiungere più anni, ma più intensità di vita.
Non adeguiamo il cuore alla regalità antica, quella di coloro che intimidiscono, mostrano i muscoli, usano le proprie capacità e persino la parvenza devota solo per tornaconto - edificando situazioni di cartapesta, senza nerbo.
Gente pericolosissima: sono i gendarmi del mondo ambizioso, concorrenziale, cinico. Abituati al servilismo adulatore che fa chinare il capo a tutti.
Essi porgono «aceto», vino inacidito (v.36): la corruzione dell’amore e della festa.
Il loro prodotto amaro è quel voler bene al sistema delle cose, e ad una caricatura di felicità legata al potere che “conta”.
Se approvati, rischiano di farci rinunciare al desiderio d’un mondo alternativo, e ripiegare su noi stessi.
Invece il malfattore lo chiama per Nome, riconoscendolo compagno di viaggio, confidente e alleato naturale.
Uno che si fa accanto, e in grado di creare sintonie di bellezza dentro; una strada più silenziosa.
Allora, come si correlano in noi Vittoria e Pace?
È un “tempo” che forse ancora non conosciamo, malgrado il virtuosismo degli adempimenti devoti (che a volte radicano nei disturbi peggiori).
Diventando sempre più attenti e amabili, meno lontani e competitivi, forse risponderemmo in modo sorprendente a un tale quesito:
È il prevalere che reca senso di armonia, brio e completezza, o viceversa?
Cosa distrae dal gorgo degli idoli che sviano l’esistenza e confondono la destinazione?
La Salvezza viene da ciò che nella nostra vita è considerato insulso e un nulla, eppure spalanca l’infinito che già ci abita - lo sconfinato dell’Amico primordiale, presente e finale.
Egli riverbera in cuore, e indirizza - Eterno che intimamente risuona, anche in situazioni tragiche.
Ciò Viene addirittura da chi - Gesù benevolo oppresso - è stato valutato un maledetto da Dio e considerato feccia della società à la page.
Viceversa, Presenza amica; che ci fa “vedere” e sblocca.
La differenza radicale tra religiosità e Fede? Il senso di un Mistero intimo e sorprendente, che ci desta.
Il Dio delle religioni scaccia la donna e l’uomo contraddittori e inadeguati dal Paradiso. Il Padre li accoglie.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
I capi deridono: “Tu hai capacità: pensa a te, affermati, disinteressati; devi sovrastare, o almeno galleggiare. Non preoccuparti d’altro!”.
In quale personaggio ti riconosci?
Nel momento della debolezza, ti si ripresentano le tentazioni del potere, o vedi dentro e meglio - proprio attraversando la tua inadeguatezza?
Nel Vangelo si vede che tutti chiedono a Gesù di scendere dalla croce. Lo deridono, ma è anche un modo per discolparsi, come dire: non è colpa nostra se tu sei lì sulla croce; è solo colpa tua, perché se tu fossi veramente il Figlio di Dio, il Re dei Giudei, tu non staresti lì, ma ti salveresti scendendo da quel patibolo infame. Dunque, se rimani lì, vuol dire che tu hai torto e noi abbiamo ragione. Il dramma che si svolge sotto la croce di Gesù è un dramma universale; riguarda tutti gli uomini di fronte a Dio che si rivela per quello che è, cioè Amore. In Gesù crocifisso la divinità è sfigurata, spogliata di ogni gloria visibile, ma è presente e reale. Solo la fede sa riconoscerla: la fede di Maria, che unisce nel suo cuore anche questa ultima tessera del mosaico della vita del suo Figlio; Ella non vede ancora il tutto, ma continua a confidare in Dio, ripetendo ancora una volta con lo stesso abbandono “Ecco la serva del Signore” (Lc 1,38). E poi c’è la fede del buon ladrone: una fede appena abbozzata, ma sufficiente ad assicurargli la salvezza: “Oggi con me sarai nel paradiso”. Decisivo è quel “con me”. Sì, è questo che lo salva. Certo, il buon ladrone è sulla croce come Gesù, ma soprattutto è sulla croce con Gesù. E, a differenza dell’altro malfattore, e di tutti gli altri che li scherniscono, non chiede a Gesù di scendere dalla croce né di farlo scendere. Dice invece: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Lo vede in croce, sfigurato, irriconoscibile, eppure si affida a Lui come ad un re, anzi, come al Re. Il buon ladrone crede a ciò che c’è scritto su quella tavola sopra la testa di Gesù: “Il re dei Giudei”: ci crede, e si affida. Per questo è già, subito, nell’“oggi” di Dio, in paradiso, perché il paradiso è questo: essere con Gesù, essere con Dio.
[Papa Benedetto, omelia al Concistoro 21 novembre 2010]
Il testo del Vangelo di san Luca, ora proclamato, ci riporta col pensiero alla scena altamente drammatica che si svolge nel “luogo detto Calvario” (Lc 23,33) e ci presenta, intorno a Gesù crocifisso, tre gruppi di persone che variamente discutono della sua “figura” e della sua “fine”. Chi è, in realtà, colui che sta lì crocifisso? Mentre la gente comune ed anonima resta piuttosto incerta e si limita a guardare, “i capi invece lo schernivano, dicendo: Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto”. Come si vede, la loro arma è l’ironia negatrice e demolitrice. Ma anche i soldati - il secondo gruppo - lo deridevano e, quasi in tono di provocazione e di sfida, gli dicevano: “Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso”, prendendo forse lo spunto dalle parole stesse della scritta, che vedevano posta sopra il suo capo. C’erano, poi, i due malfattori in contrasto tra loro nel giudicare il compagno di pena: mentre uno lo bestemmiava, raccogliendo e ripetendo le espressioni sprezzanti dei soldati e dei capi, l’altro dichiarava apertamente che Gesù “non aveva fatto nulla di male” e, rivolgendosi a lui, così l’implorava: “Signore, ricordati di me, quando sarai nel tuo regno”.
Ecco come, nel momento culminante della crocifissione, proprio quando la vita del profeta di Nazaret sta per essere soppressa, noi possiamo raccogliere, sia pure nel vivo di discussioni e contraddizioni, queste arcane allusioni al re ed al regno.
2. Tale scena vi è ben nota, fratelli e figli carissimi, e non ha bisogno di altri commenti. Ma quanto è opportuno e significativo e, direi, quanto è giusto e necessario che l’odierna festa di Cristo re sia inquadrato appunto sul Calvario. Possiamo dire senz’altro che la regalità di Cristo, quale anche oggi noi celebriamo e meditiamo, deve esser sempre riferita all’evento, che si svolge su quel colle, ed esser compresa nel mistero salvifico, ivi operato da Cristo: dico l’evento ed il mistero della redenzione dell’uomo. Cristo Gesù - dobbiamo rilevare - si afferma re proprio nel momento in cui, tra i dolori e gli strazi della croce, tra le incomprensioni e le bestemmie degli astanti, agonizza e muore. Davvero, una regalità singolare è la sua, tale che solo l’occhio della fede può riconoscerla: “Regnavit a ligno Deus”!
3. La regalità di Cristo, che scaturisce dalla morte sul Calvario e culmina con l’evento da essa indissociabile della risurrezione, ci richiama a quella centralità, che a lui compete in ragione di quel che è e di quel che ha fatto. Verbo di Dio e Figlio di Dio, innanzitutto e soprattutto, “per mezzo del quale - come tra poco ripeteremo nel “credo” - tutte le cose sono state create”, egli ha un intrinseco, essenziale ed inalienabile primato nell’ordine della creazione, rispetto alla quale è la suprema causa esemplare. E dopo che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14), anche come uomo e figlio dell’uomo, egli consegue un secondo titolo nell’ordine della redenzione, mediante l’ubbidienza al disegno del Padre, mediante la sofferenza della morte ed il conseguente trionfo della risurrezione.
Convergendo in lui questo duplice primato, noi abbiamo, dunque, non solo il diritto e il dovere, ma anche la soddisfazione e l’onore di confessare l’eccelsa sua signoria sulle cose e sugli uomini, che con termine non certo improprio né metaforico può esser chiamata regalità. “Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte ed alla morte di croce. Per questo, Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e negli inferi; ed ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore” (Fil 2,8-11).
Ecco il nome di cui ci parla l’apostolo: è il nome di Signore e vale a designare l’impareggiabile dignità, la quale spetta a lui solo e pone lui solo - come ho scritto, all’inizio della mia prima enciclica - al centro, anzi al vertice del cosmo e della storia. “Ave Dominus noster! Ave rex noster”!
4. Ma volendo considerare, oltre ai titoli ed alle ragioni, anche la natura e l’ambito della regalità di Cristo nostro Signore, noi non possiamo fare a meno di risalire a quella potestà che egli stesso, sul punto di lasciare questa terra, definì totale ed universale, ponendola alla base della missione confidata agli apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,18-20). In queste parole non c’è solo - com’è evidente - l’esplicita rivendicazione di un’autorità sovrana, ma è altresì indicata, nell’atto stesso in cui essa viene partecipata agli apostoli, una sua ramificazione in distinte, pur se coordinate, funzioni spirituali. Se, infatti, Cristo risorto dice ai suoi di andare e ricorda ciò che ha già comandato, se dà loro l’incarico sia di ammaestrare che di battezzare, ciò si spiega perché egli stesso, proprio in forza della somma potestà che gli appartiene, possiede in pienezza tali diritti ed è abilitato ad esercitare tali funzioni, come re, maestro e sacerdote.
Non è certo il caso di chiederci quale sia il primo di questi tre titoli, perché, nel contesto generale della missione salvifica che Cristo ha ricevuto dal Padre, a ciascuno di essi corrispondono funzioni ugualmente necessarie e importanti. Tuttavia, anche per mantenerci aderenti al contenuto dell’odierna liturgia, è opportuno insistere sulla funzione regale e concentrare il nostro sguardo, illuminato dalla fede, sulla figura di Cristo come re e signore.
Al riguardo, ovvia appare l’esclusione di qualsiasi riferimento di natura politica o temporalistica.
Alla formale domanda fattagli da Pilato: “Sei tu il re dei giudei?” (Gv 18,33), Gesù risponde esplicitamente che il suo regno non è di questo mondo e, dinanzi all’insistenza del procuratore romano, afferma: “Tu lo dici: io sono re”, aggiungendo subito dopo: “Per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). In tal modo, egli dichiara quale sia l’esatta dimensione della sua regalità e la sfera in cui si esercita: è la dimensione spirituale che comprende, in primo luogo, la verità da annunciare e da servire. Il suo regno, anche se comincia quaggiù sulla terra, nulla ha però di terreno e trascende ogni umana limitazione, proteso com’è verso la sua consumazione oltre il tempo, nell’infinità dell’eterno.
5.È a questo regno che Cristo Signore ci ha chiamato, facendoci dono di una vocazione che è partecipazione a quei suoi poteri che ho già ricordato. Noi tutti siamo al servizio del regno e, nello stesso tempo, in forza della consacrazione battesimale, siamo investiti di una dignità e di un ufficio regale, sacerdotale e profetico, al fine di poter efficacemente collaborare alla sua crescita ed alla sua diffusione. Questa tematica, sulla quale ha tanto provvidenzialmente insistito il Concilio Vaticano nella costituzione sulla Chiesa e nel decreto sull’apostolato dei laici (cf. Lumen Gentium, 31-36; Apostolicam Actuositatem, 2-3), vi è certamente familiare, carissimi fratelli e figli della diocesi di Roma che mi state ascoltando. Ma oggi, proprio nella circostanza della festa di Cristo re, desidero richiamarla e raccomandarla vivamente alla vostra attenzione e sensibilità.
Voi, infatti, siete venuti a questa sacra assemblea, come rappresentanti e primi responsabili del laicato romano, che più direttamente è impegnato nell’azione apostolica. Chi più e meglio di voi, anche per il dovere dell’esemplarità che incombe sui cristiani dell’urbe, in una ricorrenza così significativa è sollecitato a riflettere circa il modo di concepire e di svolgere un tale lavoro? Si tratta realmente di un servizio del regno, e proprio questo è il motivo per cui oggi vi ho convocato nella Basilica vaticana, per incoraggiare i vostri animi a prestare un sempre vigile, concreto e generoso servizio al regno di Cristo.
So che, in vista del nuovo anno pastorale, state studiando il tema “comunità e comunione”, ed avete posto a base delle vostre riflessioni le note parole rivolte dall’apostolo Giovanni ai primi battezzati, le quali possono esser considerate come il programma dinamico di ogni comunità cristiana: “Ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita,... noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1Gv 1,1.3).
Ecco enunciato, carissimi, il vostro schema di vita e di lavoro: voi, credenti e cristiani, laici e sacerdoti impegnati, raccogliendo la testimonianza degli apostoli, avete già visto il Cristo redentore e re, vi siete con lui incontrati nella realtà della sua presenza umana e divina, storica e trascendente, siete entrati in comunicazione con lui, con la sua grazia, con la verità e con la salvezza da lui portate, ed ora, in base a questa forte esperienza, intendete annunciarlo alla città di Roma, alle persone, alle famiglie, alle comunità che in essa vivono. È questo un grande compito, un alto onore, un dono ineffabile: servire Cristo re ed impegnare tempo, fatica, intelligenza e fervore per farlo conoscere, amare, seguire, nella certezza che solo in Cristo - via, verità e vita (Gv 14,6) - la società e il singolo potranno trovare il vero significato dell’esistenza, il codice dei valori autentici, la giusta linea morale, la necessaria forza nelle avversità, la luce e la speranza circa le realtà metastoriche. Se grande è la vostra dignità e magnifica è la vostra missione, siate sempre pronti e lieti nel servire Cristo re in ogni luogo, in ogni momento, in ogni ambiente.
Conosco bene le gravi difficoltà che si trovano nella società moderna e, in modo particolare, nelle città popolose e febbrili, come è la Roma d’oggi. Nonostante certe situazioni complicate e a volte ostili, io vi esorto a non perdervi mai d’animo. Coraggio! Lavorate con zelo nell’ambito dell’intera diocesi e delle singole parrocchie e comunità, portando dappertutto l’entusiasmo della vostra fede e del vostro amore per un servizio puntuale e fedele a Cristo Signore. Così sia.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 23 novembre 1980]
Nell’ultima domenica dell’anno liturgico, uniamo le nostre voci a quella del malfattore che, crocifisso con Gesù, lo riconobbe e lo proclamò re. Lì, nel momento meno trionfante e glorioso, in mezzo alle grida di scherno e di umiliazione, quel delinquente è stato capace di alzare la voce e fare la sua professione di fede. Queste sono le ultime parole che Gesù ascolta e, a loro volta, sono le ultime parole che Lui pronuncia prima di consegnarsi al Padre: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Il tortuoso passato del ladro sembra, per un istante, assumere un nuovo significato: accompagnare da vicino il supplizio del Signore; e questo istante non fa altro che confermare la vita del Signore: offrire sempre e dovunque la salvezza. Il Calvario, luogo di smarrimento e di ingiustizia, dove l’impotenza e l’incomprensione sono accompagnate dalla mormorazione sussurrata e indifferente dei beffardi di turno davanti alla morte dell’innocente, si trasforma, grazie all’atteggiamento del buon ladrone, in una parola di speranza per tutta l’umanità. Le burle e le grida di “salva te stesso” di fronte all’innocente sofferente non saranno l’ultima parola; anzi, susciteranno la voce di quelli che si lasciano toccare il cuore e scelgono la compassione come vero modo per costruire la storia.
Oggi qui vogliamo rinnovare la nostra fede e il nostro impegno. Conosciamo bene la storia dei nostri fallimenti, peccati e limiti, come il buon ladrone, ma non vogliamo che sia questo a determinare o definire il nostro presente e futuro. Sappiamo che non di rado possiamo cadere nel clima pigro che fa dire con facilità e indifferenza “salva te stesso”, e perdere la memoria di ciò che significa sopportare la sofferenza di tanti innocenti. Queste terre hanno sperimentato, come poche altre, la capacità distruttiva a cui può giungere l’essere umano. Perciò, come il buon ladrone, vogliamo vivere l’istante in cui poter alzare le nostre voci e professare la nostra fede a difesa e a servizio del Signore, l’Innocente sofferente. Vogliamo accompagnare il suo supplizio, sostenere la sua solitudine e il suo abbandono, e ascoltare, ancora una volta, che la salvezza è la parola che il Padre vuole offrire a tutti: «Oggi sarai con me nel paradiso».
Salvezza e certezza che hanno testimoniato coraggiosamente con la vita San Paolo Miki e si suoi compagni, come pure le migliaia di martiri che segnano la vostra eredità spirituale. Sulle loro orme vogliamo camminare, sui loro passi vogliamo andare per professare con coraggio che l’amore dato, sacrificato e celebrato da Cristo sulla croce è in grado di vincere ogni tipo di odio, egoismo, oltraggio o cattiva evasione; è in grado di vincere ogni pessimismo indolente o benessere narcotizzante, che finisce per paralizzare ogni buona azione e scelta. Ce lo ricordava il Concilio Vaticano II: sono lontani dalla verità coloro che, sapendo che non abbiamo qui una città permanente ma siamo protesi a quella futura, pensano che per questo possiamo trascurare i nostri doveri terreni, senza accorgersi che, proprio per la fede stessa che professiamo, siamo tenuti a compierli così da attestare e manifestare la nobiltà della vocazione alla quale siamo stati chiamati (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 43).
La nostra fede è nel Dio dei viventi. Cristo è vivo e agisce in mezzo a noi, guidandoci tutti alla pienezza della vita. È vivo e ci vuole vivi. Cristo è la nostra speranza (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 1). Lo imploriamo ogni giorno: venga il tuo Regno, Signore. E così facendo vogliamo anche che la nostra vita e le nostre azioni diventino una lode. Se la nostra missione come discepoli missionari è di essere testimoni e araldi di ciò che verrà, essa non ci permette di rassegnarci davanti al male e ai mali, ma ci spinge a essere lievito del suo Regno dovunque siamo: in famiglia, al lavoro, nella società; ci spinge ad essere una piccola apertura in cui lo Spirito continua a soffiare speranza tra i popoli. Il Regno dei cieli è la nostra meta comune, una meta che non può essere solo per il domani, ma la imploriamo e iniziamo a viverla oggi, accanto all’indifferenza che circonda e fa tacere tante volte i nostri malati e disabili, anziani e abbandonati, rifugiati e lavoratori stranieri: tutti loro sono sacramento vivo di Cristo, nostro Re (cfr Mt 25,31-46); perché «se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49).
Quel giorno, sul Calvario, molte voci tacevano, tante altre deridevano; solo quella del ladrone seppe alzarsi e difendere l’innocente sofferente: una coraggiosa professione di fede. Spetta ad ognuno di noi la decisione di tacere, di deridere o di profetizzare. Cari fratelli, Nagasaki porta nella propria anima una ferita difficile da guarire, segno della sofferenza inspiegabile di tanti innocenti; vittime colpite dalle guerre di ieri ma che ancora oggi soffrono per questa terza guerra mondiale a pezzi. Alziamo qui le nostre voci, in una preghiera comune per tutti coloro che oggi stanno patendo nella loro carne questo peccato che grida in cielo, e perché siano sempre di più quelli che, come il buon ladrone, sono capaci di non tacere né deridere, ma di profetizzare con la propria voce un regno di verità e di giustizia, di santità e di grazia, di amore e di pace.
[Papa Francesco, omelia Nagasaki 24 novembre 2019]
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà.
Ma se Dio ci crea e chiama incessantemente per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai farisei e - sembra - anche a Gesù.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita, e nella Torah pareva loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
In effetti i Farisei credevano alla risuscitazione dei morti in senso molto banale: una sorta di miglioramento e sublimazione delle (medesime) condizioni di essere naturale.
Per loro la vita dell’aldilà non era che un prolungamento accentuato, nobilitato e imbellito di questa nostra forma d’esistere.
Invece la vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta. Paragonabile all’immediatezza dell’amore.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
‘Risurrezione della carne’ designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste forme di vita: (traslitterando) Bìos e Zoe Aiònios [Vita dell’Eterno] che non ha a che vedere con la realtà solo biologica [v.36: «uguali agli angeli»].
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di ‘comunicazione diretta’.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un ‘essere-con e per’ gli altri; prontamente, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù. Egli ammutolisce pure i Sadducei facendoli riflettere; e trae il fondamento della Risurrezione (ma come la intende Lui) proprio da Esodo.
Così mostra che già nella Legge c’è una presentazione di Dio incompatibile con un destino d’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi. Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica l’Altissimo prendeva nome dalla regione o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi, non della polvere o del nulla.
Questo il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”.
[Sabato 33.a sett. T.O. 22 novembre 2025]
E Dio che lega il suo cuore all’umanità
(Lc 20,27-40)
La sconfitta della morte è il destino crudele che ha ottenebrato la mente di tutte le civiltà, infondendo disorientamento e angoscia di pensieri sul senso della vita, sul motivo per cui ciascuno di noi esiste.
Se Dio ci crea e chiama incessantemente, per entrare in dialogo con noi, poi cosa rimane? La mèta di tutte le nostre agitazioni è una fossa?
I Sadducei vogliono ridicolizzare la dottrina della risurrezione cara ai Farisei e - sembra - anche a Gesù.
Egli però riteneva che il Padre era ben altro che un Vivente… il quale infine si metteva a risuscitare cadaveri!
[È il motivo per cui chiamiamo «defunti» i nostri cari scomparsi - non “morti”].
Nella mentalità semitica la norma del ‘levirato’ era specchio di un’idea fiacca dell’esistenza dopo la morte - relegata alla semplice continuità del nome.
I membri della classe sacerdotale non credevano a un’altra vita: predicavano la religione che serviva a ottenere benedizioni per esistere su questa terra in modo agiato - e tanto loro bastava.
Insomma concepivano la relazione con Dio nella dimensione della vita sulla terra.
I sadducei il loro “paradiso” se l’erano già costruito in città e fuori.
Le loro ampie ville con corte interna e piscina privata per le abluzioni erano proprio sulla collina dirimpetto al Tempio di Gerusalemme, dalla parte opposta del Monte degli Ulivi (ossia verso ovest).
Le loro seconde case - dove passavano l’inverno - erano a Gerico.
Anche per interesse diretto nell’attività sacrificale che svolgevano, ritenevano comunque che i testi profetici non avessero dignità di Scrittura sacra: solo la Legge rispecchiava la volontà di Dio.
E nella Torah sembrava loro che non ci fosse alcuna nota sulla risurrezione dei morti.
Così tentano d’incastrare anche Gesù, con un paradosso costruito ad arte, per evidenziare le contraddizioni di questa credenza - apparsa solo dal 2° sec. a.C. nel libro di Daniele e in Maccabei.
Essi la ritenevano assurda - quindi intendevano screditare il «Maestro» [termine con cui lo designano per metterlo in ridicolo: v.28].
In effetti l’appiglio c’era, perché i Farisei credevano alla risuscitazione nel senso banale. Una sorta di accentuazione, miglioramento o sublimazione delle (medesime) condizioni di vita - e legami - naturali.
Quindi non una forma definitiva, senza confini, qualitativamente indistruttibile.
In sostanza, nel ‘mondo di là’ ognuno avrebbe goduto completamente degli affetti famigliari e di clan della precedente forma di vita - e così via.
‘L’aldilà’ non doveva essere che un prolungamento sublimato, nobilitato e imbellito di questo nostro modo di esistere; senza malattie, sofferenze, problemi vari.
[Insomma, vita solo progredita; forse come ci è stata un tempo trasmessa da catechisti volenterosi... ma poco attenti alla Parola di Dio].
Così appunto i sadducei - conservatori - che accettavano unicamente il Pentateuco - ove sostenevano appunto che non si accenna a un’altra vita, ulteriore.
In tal guisa, essi avevano gioco facile a smascherare la fragilità di quella credenza popolare, cui i leaders del fariseismo erano viceversa legati.
Tuttavia il Maestro non applica categorie di questo mondo, provvisorie, a dimensioni che vanno oltre.
Anche i legami vanno concepiti nel rilievo della realtà divina.
Nell’ambiente latino, tuttora, il modo d’intendere la Risurrezione risente non poco delle modalità rappresentative della tradizione pittorica.
Leggendo le raffigurazioni cui siamo abituati… notiamo che subito il Risorto mette a terra i gendarmi e spaventa tutti.
Esce dal sepolcro con il vessillo di vittoria, forte e muscoloso. Irrompe come tornando di qua per battere gli avversari.
Pretese descrittive e naturalistiche che non rendono merito alla Fede e quasi ridicolizzano i Vangeli.
Viceversa, nelle icone orientali la Risurrezione è intesa e figurata in modo sostanziale, misterico: la Discesa agli Inferi.
Non è un trionfo di Dio, che s’impone al mondo. Egli non ne ha bisogno alcuno.
Piuttosto l’evento teologico resta a sostegno della vittoria dei suoi figli, i quali ricevono vita direttamente dal Padre.
Ecco il riscatto della donna e dell’uomo qualunque [Adamo ed Eva] che vengono tratti dai sepolcri dalla forza divina - non naturale - del Cristo Risorto.
Il mondo definitivo stravolge l’idea dello Sheôl e lo scardina totalmente, sgombrando il buio - e quel grande dramma dell’umanità.
Si entra nel mondo di Dio; non si torna di qua - magari per vivere meglio: ringiovaniti e sani invece che malati, in villa con giardino piuttosto che in monolocale.
La vita «nell’era quella» [v.35 testo greco] non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, ma una condizione indescrivibile e nuova - come di comunicazione diretta.
Paragonabile all’immediatezza dell’amore: un essere-con e per gli altri. Collimante al modo di esistere degli Angeli (v.36): essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma da Dio stesso.
Il corpo decade, si ammala e va incontro alla dissoluzione: è un ciclo naturale.
“Risurrezione della carne” designa l’accesso a un’esistenza intima di Relazione pura, all’intimità stessa di Dio - nella nostra debolezza e precarietà, assunte.
Ovviamente non si può credere di venire introdotti nella Condizione Divina se durante il corso terreno non abbiamo sperimentato un costante vettore esistenziale morte-risurrezione.
È l’esperienza del guadagno nella sconfitta; in particolare, la scoperta di una vita impensabile, che ci ha fatto trasalire di Felicità. Per lo Stupore: nella provvidenziale trasmutazione dei nostri lati deboli e oscuri, da fiacche parvenze a punti di forza.
Diventati evolutivi, forse il meglio di noi.
Gli evangelisti usano due termini per indicare la differenza tra queste due forme di essere: (traslitterando dal greco) Bìos, e Zoè Aiònios.
La Zoe, Vita stessa dell’Eterno, è acutamente relazionale e sperimentabile - ma non ha a che vedere con l’esistenza biologica e la nostra carcassa [«uguali agli angeli» v.36].
Ciò che non muore non è il dna del corpo, bensì il dna celeste, che abbiamo ricevuto in dono dal Padre.
L’Oro divino ci abita e - se vogliamo - può affiorare già, in un’esistenza piena, di realizzazione della propria Vocazione, in clima di Comunione.
La vita «nell’era quella» non è un esistere potenziato rispetto a questa modalità di esistenza, bensì una condizione indescrivibile e nuova - appunto, come di comunicazione diretta.
Paragonabile al tu per tu d’Amicizia: un essere-con e per gli altri; con prontezza, ovunque.
Collimante al modo di esistere degli Angeli: essi non hanno una vita trasmessa da genitori, ma appunto da Dio stesso.
«A proposito del Roveto...» - ribatte Gesù.
Egli ammutolisce pure i sadducei, facendoli riflettere, trattandoli da incompetenti.
Trae infatti il fondamento della “dottrina” della Risurrezione [ma come la intende Lui] proprio dal libro dell’Esodo.
Così mostra che sin dai rotoli della Legge c’è una presentazione dell’Eterno incompatibile col destino di un’umanità votata allo sterminio.
Il Padre non cerca il dialogo coi figli per poi farli cadere sul più bello.
Sin dalla creazione Egli si bea di passeggiare con l’uomo, e sin dai patriarchi cerca empatia con noi.
Il suo Amore non abbandona.
Nella mentalità religiosa arcaica ogni santuario prendeva nome dalla divinità, specificata dal suo territorio o dalle alture nei suoi confini [es. Baal di Gad, Baal di Saphon, Baal di Peor, etc.].
Un brutto vizio pagano che purtroppo abbiamo ereditato.
Il Dio d’Israele già dal Primo Testamento lega il suo cuore all’uomo - non più a un territorio: il «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».
Ai tre Patriarchi era stato possibile avere discendenza, non per concatenazione naturale.
In quella mentalità, unica possibilità di perpetuare la vita di generazione in generazione era di poter trasmettere il proprio nome al primogenito maschio.
Ciò era accaduto invece per intervento dall’alto, mentre le mogli erano sterili [matriarche infertili: Sara, Rebecca, Rachele, a lungo senza eredi].
Il Padre della vita suscita ogni intesa, Alleanze, e se l’alleato potesse essere annientato la stessa identità divina verrebbe sgretolata.
Tutte le Scritture lo attestano: è un Dio di viventi - non di morti (della polvere, dell’inconsistenza, del nulla).
I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr Mt 22,31-32). Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano il nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi; i vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio. E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il Suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.
Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio; in un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.
[Papa Benedetto, Lectio 11 giugno 2012]
1. Riprendiamo quest’oggi, dopo una pausa piuttosto lunga, le meditazioni tenute già da tempo e che abbiamo definito riflessioni sulla teologia del corpo.
Nel continuare, conviene, questa volta, riportarci alle parole del Vangelo, in cui Cristo fa riferimento alla risurrezione: parole che hanno un’importanza fondamentale per intendere il matrimonio nel senso cristiano e anche "la rinuncia" alla vita coniugale "per il regno dei cieli".
La complessa casistica dell’Antico Testamento nel campo matrimoniale non soltanto spinse i Farisei a recarsi da Cristo per porgli il problema dell’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ) ma anche, un’altra volta, i Sadducei, per interrogarlo sulla legge del cosiddetto levirato (questa legge, contenuta nel Dt 25,7-10 , riguarda i fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto. Se uno di essi moriva senza lasciare figli, il fratello del defunto doveva prendere in moglie la vedova del fratello morto. Il bambino nato da questo matrimonio era riconosciuto figlio del defunto, affinché non fosse estinta la sua stirpe e venisse conservata in famiglia l’eredità [cf. Dt 3,9-4,12 ]). Tale colloquio è riportato concordemente dai sinottici (cf. Mt 22,24-30 ; Mc 12,18-27 ; Lc 20,27-40 ). Sebbene tutte e tre le redazioni siano quasi identiche, tuttavia si notano tra loro alcune differenze lievi, ma, nello stesso tempo, significative. Poiché il colloquio è riferito in tre versioni, quelle di Matteo, Marco e Luca, si richiede un’analisi più approfondita, in quanto esso comprende contenuti che hanno un significato essenziale per la teologia del corpo.
Accanto agli altri due importanti colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al "principio" (cf. Mt 19,3-9 ; Mc 10,2-12 ), e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al "cuore"), indicando il desiderio e la concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cf. Mt 5,27-32 ), il colloquio, che ci proponiamo ora di sottoporre ad analisi, costituisce, direi, la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo stesso: trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo. In questo colloquio Gesù si richiama alla risurrezione, svelando così una dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo.
2.
La rivelazione di questa dimensione del corpo, stupenda nel suo contenuto – e pur collegata col Vangelo riletto nel suo insieme e fino in fondo – emerge nel colloquio con i Sadducei, "i quali affermano che non c’è risurrezione" (1); essi sono venuti da Cristo per esporgli un argomento che – a loro giudizio – convalida la ragionevolezza della loro posizione. Tale argomento doveva contraddire "l’ipotesi della risurrezione". Il ragionamento dei Sadducei è il seguente: "Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello" ( Mc 12,19 ). I Sadducei si richiamano qui alla cosiddetta legge del levirato (cf. Dt 25,5-10 ), e riallacciandosi alla prescrizione di questa antica legge, presentano il seguente "caso": "C’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo ugualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza. Infine, dopo tutti morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come moglie" ( Mc 12,20-23 . I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio.
3.
La risposta di Cristo è una delle risposte-chiave del Vangelo, in cui viene rivelata – appunto a partire dai ragionamenti puramente umani e in contrasto con essi – un’altra dimensione della questione, cioè quella che corrisponde alla sapienza e alla potenza di Dio stesso. Analogamente, ad esempio, si era presentato il caso della moneta del tributo con l’immagine di Cesare e del rapporto corretto fra ciò che nell’ambito della potestà è divino e ciò che è umano ("di Cesare") (cf. Mt 22,15-22 ). Questa volta Gesù risponde così: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli" ( Mc 12,24-25 ). Questa è la risposta basilare del "caso", cioè al problema che vi è racchiuso. Cristo, conoscendo le concezioni dei Sadducei, ed intuendo le loro autentiche intenzioni, riprende, in seguito, il problema della possibilità della risurrezione, negata dai Sadducei stessi: "A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei viventi" ( Mc 12,26-27 ). Come si vede, Cristo cita lo stesso Mosè a cui hanno fatto riferimento i Sadducei, e termina con l’affermare: "Voi siete in grande errore" ( Mc 12,27 ).
4.
Questa affermazione conclusiva, Cristo la ripete anche una seconda volta. Infatti la prima volta la pronunciò all’inizio della sua esposizione. Disse allora: "Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio": così leggiamo in Matteo ( Mt 22,29 ). E in Marco: "Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?" ( Mc 12,24 ). Invece, la stessa risposta di Cristo, nella versione di Luca ( Lc 20,27-36 ), è priva di accento polemico, di quel "siete in grande errore". D’altronde egli proclama la stessa cosa in quanto introduce nella risposta alcuni elementi che non si trovano né in Matteo né in Marco. Ecco il testo: "Gesù risponde: i figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito: e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" ( Lc 20,34-36 ). Riguardo alla possibilità stessa della risurrezione, Luca – come i due altri sinottici – si riferisce a Mosè, ossia al passo del Libro dell’Esodo 3,2-6, in cui infatti si narra che il grande legislatore dell’Antica Alleanza aveva udito dal roveto, che "ardeva nel fuoco e non si consumava", le seguenti parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" ( Es 3,6 ). Nello stesso luogo, quando Mosè aveva chiesto il nome di Dio, aveva udito la risposta: "Io sono colui che sono" ( Es 3,14 ).
Così dunque, parlando della futura risurrezione dei corpi, Cristo si richiama alla potenza stessa del Dio vivente.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 novembre 1981]
A pochi giorni di distanza dalla solennità di Tutti i Santi e dalla Commemorazione dei fedeli defunti, la Liturgia di questa domenica ci invita ancora a riflettere sul mistero della risurrezione dei morti. Il Vangelo (cfr Lc 20,27-38) presenta Gesù a confronto con alcuni sadducei, i quali non credevano nella risurrezione e concepivano il rapporto con Dio solo nella dimensione della vita terrena. E quindi, per mettere in ridicolo la risurrezione e in difficoltà Gesù, gli sottopongono un caso paradossale e assurdo: una donna che ha avuto sette mariti, tutti fratelli tra loro, i quali uno dopo l’altro sono morti. Ed ecco allora la domanda maliziosa rivolta a Gesù: quella donna, nella risurrezione, di chi sarà moglie (v. 33)?
Gesù non cade nel tranello e ribadisce la verità della risurrezione, spiegando che l’esistenza dopo la morte sarà diversa da quella sulla terra. Egli fa capire ai suoi interlocutori che non è possibile applicare le categorie di questo mondo alle realtà che vanno oltre e sono più grandi di ciò che vediamo in questa vita. Dice infatti: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito» (vv. 34-35). Con queste parole, Gesù intende spiegare che in questo mondo viviamo di realtà provvisorie, che finiscono; invece nell’aldilà, dopo la risurrezione, non avremo più la morte come orizzonte e vivremo tutto, anche i legami umani, nella dimensione di Dio, in maniera trasfigurata. Anche il matrimonio, segno e strumento dell’amore di Dio in questo mondo, risplenderà trasformato in piena luce nella comunione gloriosa dei santi in Paradiso.
I “figli del cielo e della risurrezione” non sono pochi privilegiati, ma sono tutti gli uomini e tutte le donne, perché la salvezza portata da Gesù è per ognuno di noi. E la vita dei risorti sarà simile a quella degli angeli (cfr v. 36), cioè tutta immersa nella luce di Dio, tutta dedicata alla sua lode, in un’eternità piena di gioia e di pace. Ma attenzione! La risurrezione non è solo il fatto di risorgere dopo la morte, ma è un nuovo genere di vita che già sperimentiamo nell’oggi; è la vittoria sul nulla che già possiamo pregustare. La risurrezione è il fondamento della fede e della speranza cristiana! Se non ci fosse il riferimento al Paradiso e alla vita eterna, il cristianesimo si ridurrebbe a un’etica, a una filosofia di vita. Invece il messaggio della fede cristiana viene dal cielo, è rivelato da Dio e va oltre questo mondo. Credere alla risurrezione è essenziale, affinché ogni nostro atto di amore cristiano non sia effimero e fine a sé stesso, ma diventi un seme destinato a sbocciare nel giardino di Dio, e produrre frutti di vita eterna.
La Vergine Maria, regina del cielo e della terra, ci confermi nella speranza della risurrezione e ci aiuti a far fruttificare in opere buone la parola del suo Figlio seminata nei nostri cuori.
[Papa Francesco, Angelus 6 novembre 2016]
The human race – every one of us – is the sheep lost in the desert which no longer knows the way. The Son of God will not let this happen; he cannot abandon humanity in so wretched a condition. He leaps to his feet and abandons the glory of heaven, in order to go in search of the sheep and pursue it, all the way to the Cross. He takes it upon his shoulders and carries our humanity (Pope Benedict)
L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità (Papa Benedetto)
"Too bad! What a pity!" “Sin! What a shame!” - it is said of a missed opportunity: it is the bending of the unicum that we are inside, which every day surrenders its exceptionality to the normalizing and prim outline of common opinion. Divine Appeal of every moment directed Mary's dreams and her innate knowledge - antechamber of her trust, elsewhere
“Peccato!” - si dice di una occasione persa: è la flessione dell’unicum che siamo dentro, che tutti i giorni cede la sua eccezionalità al contorno normalizzante e affettato dell’opinione comune. L’appello divino d’ogni istante orientava altrove i sogni di Maria e il suo sapere innato - anticamera della fiducia
It is a question of leaving behind the comfortable but misleading ways of the idols of this world: success at all costs; power to the detriment of the weak; the desire for wealth; pleasure at any price. And instead, preparing the way of the Lord: this does not take away our freedom (Pope Francis)
Si tratta di lasciare le strade, comode ma fuorvianti, degli idoli di questo mondo: il successo a tutti i costi, il potere a scapito dei più deboli, la sete di ricchezze, il piacere a qualsiasi prezzo. E di aprire invece la strada al Signore che viene: Egli non toglie la nostra libertà (Papa Francesco)
Inside each woman and man resides a volcano of potential energies which are not to be smothered and aligned. The Lord doesn’t level the character; he doesn’t wear out the creatures. He doesn't make them desolate. The Kingdom is Near: it reinstates the imbalances. It does not mortify them, it convert them and enhances them
Dentro ciascuna donna e uomo risiede un vulcano di energie potenziali che non devono essere soffocate e allineate. Il Signore non livella il carattere; non sfianca le creature. Non le rende desolate. Il Regno è Vicino: reintegra gli squilibri. Non li mortifica, li tramuta e valorizza
The Person of Christ opens up another panorama to the perception of the two short-sighted (because ambitious) disciples. But sometimes it is necessary to take a leap in the dark, to contact one's vocational Seed; heal the gaze of the soul, recognize himself, flourish; make true Communion
La Persona di Cristo spalanca alla percezione dei due discepoli miopi (perché ambiziosi) un altro panorama. Ma talora bisogna fare un salto nel buio, per contattare il proprio Seme vocazionale; guarire lo sguardo dell’anima, riconoscersi, fiorire; fare vera Comunione
«Too pure water has no fish». Accepting ourselves will complete us: it will make us recover the co-present, opposite and shadowed sides. It’s the leap of profound Faith. And seems incredible, but the Rock on which we build the way of being believers is Freedom
«L’acqua troppo pura non ha pesci». Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda. Sembra incredibile, ma la Roccia sulla quale edifichiamo il modo di essere credenti è la Libertà
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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