Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
XXIX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [19 Ottobre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ancora un forte richiamo a come vivere la fede in ogni situazione della vita.
Prima Lettura dal libro dell’Esodo (17,8-13)
La prova della fede. Nel cammino di Israele nel deserto, l’incontro con gli Amaleciti segna una tappa decisiva: è la prima battaglia del popolo liberato dall’Egitto, ma anche la prima grande prova della sua fede. Gli Amaleciti, discendenti di Esaù, rappresentano nella tradizione biblica il nemico ereditario, figura del male che tenta di impedire al popolo di Dio di raggiungere la terra promessa. La loro aggressione improvvisa contro gli ultimi della carovana — i più deboli e stanchi — manifesta la logica del male: colpire dove la fede vacilla, dove la stanchezza e la paura aprono la breccia del dubbio. Questo episodio avviene a Refidim, lo stesso luogo di Massa e Meriba, dove Israele aveva già mormorato contro Dio per la mancanza d’acqua. Là il popolo aveva sperimentato la prova della sete, ora vive la prova del combattimento: in entrambi i casi, la tentazione è la stessa — pensare che Dio non sia più con lui. Ma ancora una volta Dio interviene, mostrando che la fede si purifica attraverso la lotta e che la fiducia deve restare salda anche nel pericolo. Mosè, mentre Giosuè combatte nella pianura, sale sul monte con in mano il bastone di Dio — segno della sua presenza e del suo potere. Il racconto non insiste sui movimenti delle truppe, ma sul gesto di Mosè: le mani levate verso il cielo. Non è un gesto magico: è la preghiera che sostiene il combattimento, la fede che diventa forza per tutto il popolo. Quando le braccia di Mosè si abbassano, Israele perde; quando restano alzate, Israele vince. La vittoria dipende dunque non solo dalla forza delle armi, ma dalla comunione con Dio e dalla preghiera perseverante. Mosè si stanca, Aronne e Cur gli sostengono le mani: ecco l’immagine della fraternità spirituale, della comunità che porta insieme il peso della fede. Così la preghiera non è isolamento, ma solidarietà: chi prega sostiene gli altri, e chi combatte attinge forza dalla preghiera dei fratelli. Questo episodio diventa quindi un paradigma della vita spirituale: Israele, fragile e ancora in cammino, impara che la vittoria non viene dalla forza umana, ma dalla fiducia in Dio. La preghiera, rappresentata dalle mani levate di Mosè, non sostituisce l’azione ma la accompagna e la trasfigura. L’orante e il combattente sono due volti dello stesso credente: uno lotta nel mondo, l’altro intercede davanti a Dio ed entrambi partecipano all’unica opera della salvezza. Infine, la comunità orante diventa il segno vivente della presenza di Dio che opera nel suo popolo e quando un credente non ha più la forza di pregare, la fede dei fratelli lo sostiene. La storia di Amalek a Refidim non è solo una pagina di cronaca, bensì un’icona della vita cristiana: viviamo tutti le nostre battaglie sapendo che la vittoria appartiene a Dio e la preghiera è sorgente di ogni forza e garanzia della presenza divina.
Salmo responsoriale (120/121)
Il Salmo 120/121 appartiene al gruppo dei “Salmi delle ascensioni” (Sal 120-134), composti per accompagnare i pellegrinaggi del popolo d’Israele verso Gerusalemme, la città santa situata in alto, simbolo del luogo dove Dio abita in mezzo al suo popolo. Il verbo “salire” indica non solo l’ascesa geografica ma anche e soprattutto un movimento spirituale, una conversione del cuore che porta il credente ad avvicinarsi a Dio. Ogni pellegrinaggio rappresentava per Israele un segno dell’Alleanza e un atto di fede: il popolo, in cammino da ogni parte del paese, rinnovava la propria fiducia nel Signore. Quando il salmo parla in prima persona — “alzo gli occhi verso i monti” — in realtà dà voce al “noi” collettivo di tutto Israele, il popolo in marcia verso Dio. Questo cammino è immagine dell’intera storia d’Israele, una lunga marcia nella quale si intrecciano fatica, attesa, pericolo e fiducia. Le vie che conducono a Gerusalemme, oltre ad essere strade di pietra, sono vie spirituali segnate da prove e rischi. La stanchezza, la solitudine, le minacce esterne — briganti, animali, sole cocente, notti fredde — diventano simboli delle difficoltà della fede. In questa situazione, la parola del salmo è una professione di fiducia assoluta: “Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra.” Con queste parole si afferma che il vero aiuto non viene da potenze umane né da idoli muti, ma dal Dio vivente, Creatore dell’universo, che non dorme e non abbandona il suo popolo. Egli è chiamato “Custode d’Israele”: colui che veglia continuamente, che accompagna, che si fa vicino come un’ombra che protegge dal sole e dalla luna. L’espressione ebraica “alla tua destra” indica una presenza intima e fedele, come quella di un compagno inseparabile. Il popolo che prega questo salmo ricorda così la colonna di nube e di fuoco che guidava Israele nel deserto, segno di Dio che protegge di giorno e di notte, mentre accompagna il cammino e custodisce la vita. Perciò il salmista può dire: “Il Signore ti custodirà da ogni male, egli custodirà la tua vita. Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri da ora e per sempre” . Il pellegrino che “sale” a Gerusalemme diventa l’immagine del credente che si affida a Dio solo, rinunciando agli idoli e alle false sicurezze. Questo movimento è la conversione: distogliersi da ciò che è vano per orientarsi al Dio che salva. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso ha potuto pregare questo salmo mentre “saliva a Gerusalemme” (Lc 9,51). Egli compie il cammino di Israele e di ogni uomo, affidando la propria vita al Padre. Le parole “Il Signore custodirà la tua vita” trovano il loro pieno compimento nella Pasqua, quando il ritorno del pellegrino diventa risurrezione perché è ritorno alla vita nuova e definitiva. Così, il Salmo 121 è molto più di una preghiera di viaggio: è la confessione di fede di un popolo in cammino, la proclamazione che Dio è fedele e che la sua presenza accompagna ogni passo dell’esistenza. In esso si uniscono la memoria storica, la fiducia teologica e la speranza escatologica. Israele, il credente e Cristo stesso condividono la stessa certezza: Dio custodisce la vita e ogni salita, anche la più faticosa, conduce alla comunione con Lui.
Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo a Timoteo (3, 14 - 4, 2)
In questo brano della seconda lettera a Timoteo (3,14-4,2), Paolo consegna al suo discepolo l’eredità più preziosa: la fedeltà alla Parola di Dio. È un testo scritto in un momento difficile, segnato da confusioni dottrinali e da tensioni nella comunità di Efeso. Timoteo è chiamato a essere “custode della Parola”, in mezzo a un mondo che rischia di smarrire la verità ricevuta. Le prime parole, “Tu rimani saldo in quello che hai imparato”, fanno capire che altri hanno abbandonato l’insegnamento apostolico: la fedeltà diventa allora un atto di resistenza spirituale, un rimanere ancorati alla sorgente. Paolo parla dell’“abitare” nella Parola: la fede non è un oggetto da possedere, ma un ambiente in cui vivere. Timoteo vi è entrato fin da bambino grazie alla madre Eunice e alla nonna Loide, donne credenti che gli hanno trasmesso l’amore per le Scritture. Abbiamo qui un richiamo al carattere comunitario e tradizionale della fede: nessuno scopre da sé la Parola, ma sempre nella Chiesa. L’accesso alla Scrittura avviene dentro la Tradizione viva, quella “catena” che parte da Cristo, passa attraverso gli apostoli e continua nei credenti. “Tradere” in latino significa “trasmettere”: ciò che si riceve, si dona. In questa fedeltà, la Scrittura è sorgente d’acqua viva che rigenera il credente e lo radica nella verità. Paolo afferma che le Sacre Scritture possono istruire per la salvezza che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù (v.15). L’Antico Testamento è cammino che conduce a Cristo: l’intera storia di Israele prepara il compimento del mistero pasquale. “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio”: prima ancora che diventasse dogma, era la convinzione profonda del popolo d’Israele, da cui nasce il rispetto per i Libri santi custoditi nelle sinagoghe. L’ispirazione divina non annulla la parola umana, ma la trasfigura, facendone strumento dello Spirito. La Scrittura, dunque, non è un libro tra altri, ma una presenza viva di Dio che forma, educa, corregge e santifica: grazie a essa, l’uomo di Dio sarà perfetto, equipaggiato per ogni opera buona (vv16-17). Da questa sorgente nasce la missione e Paolo affida a Timoteo il comando decisivo: “Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno”(v.4,2) perché l’annuncio del Vangelo è una necessità, non un compito facoltativo. Il riferimento solenne al giudizio di Cristo sui vivi e sui morti mostra la gravità della responsabilità apostolica. Proclamare la Parola significa rendere presente il Logos, cioè Cristo stesso, Parola vivente del Padre. È Lui che si comunica attraverso la voce del predicatore e la vita del testimone. Ma l’annuncio esige coraggio e pazienza: occorre parlare quando è comodo e quando non lo è, ammonire, correggere, incoraggiare, sempre con spirito di carità e desiderio di edificare la comunità. La verità, senza amore, ferisce; l’amore, senza verità, svuota la Parola. Per Paolo, la Scrittura non è solo memoria, ma dinamismo dello Spirito. Essa modella la mente e il cuore, forma il giudizio, ispira le scelte. Chi vi dimora diventa “uomo di Dio”, cioè persona plasmata dalla Parola e resa capace di servire. Timoteo è invitato non solo a custodire la dottrina, ma a farne sorgente di vita per sé e per gli altri. Così la Parola, accolta e vissuta, diventa luogo d’incontro con Cristo e sorgente di rinnovamento per la Chiesa. L’apostolo non fonda nulla di suo, ma trasmette ciò che ha ricevuto; allo stesso modo, ogni credente è chiamato a diventare anello di questa catena viva, perché la Parola continui a scorrere nel mondo come acqua che disseta, purifica e feconda. In sintesi: La Scrittura è la sorgente della fede, la Tradizione ne è il fiume che la trasmette, la proclamazione ne è il frutto che alimenta la vita della Chiesa. Restare nella Parola significa restare in Cristo; proclamarla significa lasciarLo agire e parlare attraverso di noi. Solo così l’uomo di Dio diventa pienamente formato e la comunità cresce nella verità e nella carità.
Dal Vangelo secondo Luca (18,1-8)
Il contesto di questa parabola è quello della “fine dei tempi”: Gesù cammina verso Gerusalemme, verso la Passione, morte e Risurrezione. I discepoli percepiscono l’epilogo tragico e misterioso, sentono la necessità di maggiore fede (“Aumenta in noi la fede”) e sono ansiosi di comprendere la venuta del Regno di Dio. Il termine “Figlio dell’uomo”, già presente in Daniele (7), indica colui che viene sulle nubi, riceve la regalità universale e eterna, e rappresenta in senso originale anche un essere collettivo, il popolo dei Santi dell’Altissimo. Gesù lo adopera per riferirsi a sé stesso, rassicurando i discepoli sulla vittoria definitiva di Dio, pur in un contesto di difficoltà imminenti. Il riferimento al giudizio e al Regno sottolinea la prospettiva escatologica: Dio farà giustizia ai suoi eletti, il Regno è già iniziato, ma sarà pienamente realizzato alla fine. La parabola della vedova ostinata è al cuore del messaggio: davanti a un giudice ingiusto, la vedova non si scoraggia perché la sua causa è giusta. Quest’esempio unisce due virtù essenziali per il cristiano: umiltà, riconoscendo la propria povertà (prima beatitudine: “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio”), e perseveranza, l’insistenza fiduciosa nella preghiera e nella giustizia. L’ostinazione della vedova diventa paradigma per la fede in attesa del Regno: anche la nostra causa, fondata sulla volontà di Dio, richiede tenacia. Il testo richiama inoltre il legame con l’episodio dell’Antico Testamento: durante la battaglia contro gli Amaleciti, Mosè prega con ostinazione sulla collina mentre Giosuè combatte in pianura. La vittoria del popolo dipende dalla presenza e dall’intervento di Dio, sostenuto dalla preghiera perseverante di Mosè. La parabola della vedova ha la stessa funzione: ricordare ai credenti, di ogni tempo, che la fede è un combattimento continuo, una prova di resistenza davanti alle difficoltà, alle opposizioni e ai dubbi. La domanda conclusiva di Gesù, “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?”, è un monito universale: la fede non va mai data per scontata, deve essere custodita, nutrita e protetta. Dal primo mattino della Risurrezione fino alla venuta definitiva del Figlio dell’uomo, la fede è una lotta di costanza e fiducia, anche quando il Regno sembra lontano. La vedova insegna come affrontare l’attesa: umili, ostinati, fiduciosi, consapevoli della propria debolezza ma certi della giustizia e della volontà salvifica di Dio che mi delude le attese di chi in lui confida totalmente. Luca sembra scrivere a una comunità minacciata dallo scoraggiamento, come suggerisce la frase finale: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?”. Questa frase, pur apparendo pessimistica, è in realtà un monito alla vigilanza: la fede va custodita e alimentata, non data per scontata. Il testo forma un’inclusione: la prima frase insegna cosa sia la fede — “Bisogna pregare sempre senza scoraggiarsi” — e la frase finale invita alla perseveranza. Tra le due, l’esempio della vedova ostinata, trattata ingiustamente ma che non si arrende, mostra concretamente come praticare questa fede. L’insegnamento complessivo è chiaro: la fede è un impegno costante, una resistenza attiva, che richiede ostinazione, umiltà e fiducia nella giustizia di Dio, anche di fronte alle difficoltà e all’apparente assenza di risposta.
+ Giovanni D’Ercole
Lo scandalo dell’attesa
(Lc 18,1-8)
Negli anni 80 le comunità dell’Asia Minore subiscono persecuzione per il fatto che l’imperatore di Roma [il divo Domiziano] pretendeva farsi venerare.
L’istituzione religiosa ufficiale - servile e adulatrice - si adegua. I cristiani no - consapevoli della propria dignità e progetto di mondo alternativo.
Lc intende incoraggiare fedeli e comunità vittime di soprusi mettendo in evidenza come giungere alla disposizione più efficace, in grado d’intaccare i ricatti dell’allontanamento sociale.
Il ‘silenzio di Dio’ sugli abusi e il dominio dei prepotenti poneva quesiti e faceva avanzare riserve di fede.
Ma nella parabola, il giudice irresponsabile non è il Padre! L’ingiusto è un’icona che drammatizza la condizione in cui si vengono a trovare i discepoli privati del Maestro, in un mondo di astuti.
Ecco la «vedova»: la comunità dei nuovi ‘Anawim, poveri di Yahweh [nei Vangeli «ptōchôis»] ossia indifesi, esposti a soprusi - che hanno quale unica speranza il Signore.
Essi non restano alla scorza delle situazioni. Colgono i segni del nuovo Regno - di un’umanità alternativa - e li bramano.
Dice Lc: unico mezzo per ritrovarsi e non perdere la propria energia fondante è la Preghiera. Essa non è un ripiegamento (vv.3.7).
L’orazione dei figli è piuttosto un’azione in avanti. Una sorta di balzo che diventa magnetico e infine s’impadronisce con forza del suo desiderio profondo.
Un’appropriazione indebita. Come diceva s. Bernardo: «Quanto mi manca lo usurpo dal costato di Cristo».
Insomma, la preghiera cristiana ha il medesimo passo della Fede, e le sue poliedriche sfaccettature.
Quindi non ci pianta sul posto: diventa una Fonte che induce gesti temerari.
Perché? In certi momenti le cose cambiano. Nel “mondo”, solo per calcolo - ma detto questo, anche i più banali interessi muovono qualcosa (vv.4-5).
Vi sono aspetti del nostro Dialogo con Dio caratterizzati da tratti di assenso. Ma la parte “colorata” dell’orazione giunge quando si entra in clima sponsale - di ascolto, intuizione; anche di lotta e litigio personale.
Essi sfociano in una sorta di lettura del peso della propria vicenda, del genio del tempo e degli appigli per un’attualizzazione, che ci porta fuori dalla mediocrità: prendere o lasciare.
Insomma, l’orazione è un gesto concreto. Pone in contatto con una ‘visione’ che dona indicazioni. Vocazione a tutti i costi.
Una sorta di energia primordiale, che si riaffaccia per curare e dirigere situazioni.
Non solo è il grande strumento per non perdere la testa, e un mezzo per non scoraggiare.
Piuttosto, un’azione pungente e seccante, con effetto attrattivo - ‘calamita’.
Il nido dinamico, poco rassicurante, dell’orazione, ci riporta al Nucleo dell’essenza, al Sé eminente; nel regno della Chiamata per Nome.
Si fa Lettura e Intuizione che incontra gli stati profondi.
È in tale spostamento di sguardo e Visione che attualizziamo il futuro.
In tal guisa, la preghiera stessa ci guida alla realizzazione del nostro essere individuale e ministeriale-ecclesiale.
Essa infatti crea: pone d’improvviso (v.8) le condizioni calzanti, i momenti acuti della svolta - perché vive Altrove, e nella base dell’anima.
Scorge Dio nei solchi della storia, perciò attiva le energie del divenire: trascina la realtà, l’attira.
Sancisce e attualizza ciò che ‘viene’; interroga e smuove l’istituzione che tende a inaridire.
Col suo Timone, anche fra troppe nebbie solca i marosi delle tossine invecchianti, sorvola le angherie, dischioda il mondo e tutta la nostra vita.
[29.a Domenica (anno C), 19 Ottobre 2025]
Lo scandalo dell’attesa e il sequestro dei prelati
(Lc 18,1-8)
Negli anni 80 le comunità dell’Asia Minore subiscono persecuzione per il fatto che l’imperatore di Roma [il divo Domiziano] pretendeva farsi venerare.
L’istituzione religiosa ufficiale - servile e adulatrice - si adegua ai diktat del Cesare di turno.
I cristiani no - consapevoli della propria dignità e progetto di mondo alternativo, legato a un nuovo volto di Dio: non più legislatore e giudice ma Creatore e Redentore della nostra intelligenza, sviluppo e libertà.
Le assemblee dei primi credenti si trovano così di fronte a fatiche, discriminazioni e stanchezze forse ben superiori alle forze, ma non alla coscienza.
Lc incoraggia fedeli e comunità vittime di soprusi, con una catechesi narrativa che mette in evidenza come giungere alla disposizione più efficace, in grado d’intaccare i ricatti dell’allontanamento sociale.
Di fatto, una sorta di emarginazione (subdola più che violenta) imposta dalle autorità religiose e politiche, da tutte le cricche al potere.
Se il nostro sguardo è oscurato da convenzioni, il “silenzio di Dio” di fronte agli abusi e al dominio dei prepotenti pone quesiti e fa avanzare riserve di fede.
[Oggi anche per il tipo di Chiesa nostalgica di Costantino, o viceversa à la page; del cinismo successivo o di sovrapposizioni disincarnate, e di tante nebbie - non delle catacombe].
Certo la preghiera non forza il Padre a obbedirci, ma la nostra insistenza è segno d’un rapporto vivo, non formale.
Ciò anche quando può capitare di coglierci sfiniti e (pur restando in superficie) di non considerare il Creatore del tutto innocente di fronte al male e al degrado.
Ma tale impostazione ci farebbe perdere la rotta del Re che si rivela dentro… celandosi nei solchi degli eventi, e affiorando nei cuori.
Nella parabola, il giudice irresponsabile non è il Padre!
L’ingiusto “giurista” - uomo di potere - è un’icona che drammatizza la condizione in cui si vengono a trovare i discepoli, privati del Maestro.
I testimoni autentici si ritrovano in un mondo di astuti, impregnato d’ideologia e pratica dell’avere, potere, apparire. Configurazioni che soffocano ogni anelito di vita genuina.
Ecco la «vedova»: la comunità dei nuovi ‘Anawim, poveri di Yahweh [nei Vangeli «ptōchôis»] ossia indifesi, esposti a soprusi, privi di appoggi mondani - che hanno quale unica speranza il Signore.
Malgrado la condizione malferma, le masse pur private di energia non desiderano il conformismo. Non permangono nell’adattarsi alle astuzie - smarrendo se stesse - senza un Fuoco, un’onda vitale; senza dentro un compagno di viaggio da percepire, accogliere, ascoltare.
Esse ragionano e agiscono a partire dal nocciolo nascosto dell’essere e dell’evolvere. Non restano alla scorza delle situazioni. Desiderano rinascere.
Colgono i segni del nuovo Regno che spunta - di un’umanità alternativa - e li bramano, così la loro partita non è tutta a portata di mano.
Allorché dovessero smarrire il nucleo, il senso, dovrebbero tornare a imparare a vedere in ogni cosa una chiamata, un infinito, un fuori del tempo.
E un modo di guardare se stessi differente da quello del senso comune. Anche noi: come se tutti fossimo sdraiati sull’energia fondante del nostro Sogno - unico, personale, integrale - che ci appartiene davvero.
Dice Lc: unico mezzo per ritrovarsi e non perdere la partita della propria identità caratteriale di figli e testimoni critici è la Preghiera.
Non si tratta della cantilena devota, prevedibile, che ci metterebbe a dormire (vv.3.7). Neppure intesa come dovere di religione: prestazione, formula, obbligo snervante; riconoscimento dell’onore dovuto al Padrone, o ripiegamento.
Si evince dal tono della narrazione: il tu-per-tu dei figli non è una valanga di emozioni pie, piuttosto un’azione in avanti.
Una sorta di balzo che diventa magnetico e infine s’impadronisce con forza del suo desiderio profondo.
Un’appropriazione indebita, ma corroborata; non già allestita, o per nostri meriti, bensì attraverso quelli di Cristo - per l’intuizione tenace che infonde.
Come diceva s. Bernardo: «Quanto mi manca lo usurpo dal costato di Cristo»!
Ricordo il racconto di un grande parroco romano ordinato sacerdote da Paolo VI che mi confidava di aver partecipato a un blitz proprio negli spazi del Seminario che ben conosco. Al termine della celebrazione di una Eucaristia (!) con ospiti di rilievo, gli allievi in rivolta contro i prelati e professori tradizionalisti del Laterano - per niente intimiditi dal rango dei sequestrati - li chiusero a chiave in sagrestia, per costringere i diversi bei nomi presenti a cedere alle loro richieste di libertà [di letture e altro]. Vinsero la partita con sfrontatezza, senza tanti complimenti - e alcuni dei professoroni presenti cambiarono linea seduta stante (cf. v.8). Oggi quegli ex seminaristi sono punti di riferimento della capitale, tutti in posizione di avanguardia pastorale, gente decisa a seguire la propria Chiamata. Vere facce toste, che non si rassegnano. Impertinenti, che però impongono gli sviluppi appropriati, per tutti. Essi sanno: perdere di vista la propria missione significherebbe smarrire il senso della vita, non saper più stare con se stessi, con gli altri e la realtà; infine, ammalarsi, perché si sceglierebbe altrimenti di vivere in palude, obbligatoriamente assopiti.
La Preghiera cristiana ha il medesimo passo della Fede, non solo pacificamente dialogante - e in tali tratti nodali può essere descritta mediante le sue stesse poliedriche sfaccettature.
Quindi non ci pianta sul posto: diventa una Fonte che induce azioni temerarie, sfacciate e inopportune; totalmente fuori luogo.
Perché? In certi momenti le cose cambiano. Nel “mondo”, solo per calcolo - ma detto questo, anche i più banali interessi muovono qualcosa (vv.4-5).
Vi sono aspetti del nostro rapporto con Dio caratterizzati da tratti di assenso.
Ma la parte colorata dell’orazione giunge quando si entra in clima sponsale - di ascolto, intuizione; anche di lotta e litigio personale.
Tali momenti veri, sfociano in una sorta di lettura del peso della propria vicenda, del genio del tempo, degli appigli per un’attualizzazione.
Visione e “polso” che ci porta fuori dalla mediocrità. Dinamica di Esodo avvalorata da sensibilità e inclinazioni irripetibili.
Insomma, non siamo qualunquisti, né buonisti, bensì noi stessi: prendere o lasciare.
Quand’anche nella preghiera non scattasse una pia disposizione ma una rabbia, quell’accanirsi ci s’incarnerà fra le mani.
Quella stessa “ira” diverrà energia per costruire il presente profetico - e anticipare criticamente il futuro - senza però «incattivire» [v.1 testo greco].
Insomma, l’orazione è un gesto concreto: pone appunto in contatto con una Visione che dona indicazioni.
La Preghiera viva ci accosta al mondo, attraverso lo sguardo interiore: nella percezione di un’Immagine innata che è il nostro specchio terso e Vocazione a tutti i costi.
Qui sorge una sorta di energia primordiale, che si riaffaccia; per curare e dirigere situazioni.
Non solo essa è il grande strumento per non perdere la testa, e un mezzo per non scoraggiare.
Piuttosto del ripiego, ecco un’azione pungente e seccante, che recupera tutto l’essere disperso in mille vicende di ricerca, con effetto attrattivo, positivamente edificante - calamita.
Il nido dinamico, poco rassicurante, dell’orazione, ci riporta al Nucleo dell’essenza, al Sé eminente; nel regno della Chiamata per Nome.
Si fa Lettura e Intuizione che incontra gli stati profondi.
È in tale spostamento di sguardo e Visione che attualizziamo il futuro.
In tal guisa, la preghiera stessa ci guida alla realizzazione del nostro essere individuale e ministeriale-ecclesiale [o para-ecclesiale].
Essa infatti crea: pone d’improvviso [v.8 testo greco] le condizioni calzanti, i momenti acuti della svolta - perché vive Altrove, e nella base dell’anima.
Scorge Dio nella storia, perciò attiva le energie del divenire: trascina la realtà, l’attira.
Sancisce e attualizza ciò che viene; interroga e smuove l’istituzione che tende a inaridire.
Col suo Timone, anche fra troppe nebbie solca i marosi delle tossine invecchianti, sorvola le angherie, dischioda il mondo e tutta la nostra vita.
«Questo dono, infatti, è assai grande, mentre noi siamo tanto piccoli e limitati per accoglierlo… Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d'uomo (Cfr 1Cor 2,9), perché è là che il cuore dell'uomo deve entrare. Lo riceveremo con tanta maggiore capacità, quanto più salda sarà la nostra fede, più ferma la nostra speranza, più ardente il nostro desiderio. Noi dunque preghiamo sempre in questa stessa fede, speranza e carità, con desiderio ininterrotto. Ma in certe ore ed in determinate circostanze, ci rivolgiamo a Dio anche con le parole, perché, mediante questi segni, possiamo stimolare noi stessi ed insieme renderci conto di quanto abbiamo progredito nelle sante aspirazioni, spronandoci con maggiore ardore ad intensificarle. Quanto più vivo, infatti, sarà il desiderio, tanto più ricco sarà l'effetto. E perciò, che altro vogliono dire le parole dell'Apostolo: “Pregate incessantemente” (1Ts 5,17) se non questo: Desiderate, senza stancarvi, da colui che solo può concederla, quella vita beata, che niente varrebbe se non fosse eterna?».
S. Agostino, «Lettera a Proba»
Preghiera Continua: condizione di grazia e di forza, che non svia.
Venir meno senza venir meno: lotta incessante con noi stessi e con Dio
(Mt 7,7-12)
A volte mettiamo il Padre sul banco degli imputati, perché sembra lasciar andare le cose come le orienta la nostra libertà.
Ma il suo Disegno non è far funzionare il mondo alla perfezione dei transistor (di una volta) o dei circuiti integrati (nei rispettivi “package”) o “chip” [vari “pezzetti”]…
Dio vuol farci acquisire una mentalità da Nuova Creazione. La sua Azione ci modella sul Figlio, trasformando progetti, idee, desideri, parole, comportamenti standard.
All’inizio forse la preghiera può sembrare venata di sole richieste. Più si procede nell’esperienza dell’orazione nello Spirito del Cristo, meno si chiede.
Le domande si attenuano, sino a cessare quasi del tutto.
I desideri di accumulo, o rivalsa e trionfo, lasciano il posto all’ascolto e alla percezione.
L’occhio che penetra si accorge di quanto è a portata di mano e dell’inusitato - nell’accoglienza sempre più cosciente, che si fa contemplazione e unione reali.
Non sappiamo quanto tempo, ma il “risultato” subentra improvviso: non solo certo, bensì sproporzionato.
Ma come estratto da un processo d’incandescenza continua, dove non esistono reti logiche, né facili scorciatoie.
Riceviamo il Dono massimo e completo. E possiamo ospitarlo con dignità. Una nuova Creazione nello Spirito, un diverso aspetto.
Un Volto insperato - non semplicemente quello fantasticato o ben sistemato (come trasmesso dalla famiglia o atteso a contorno).
Dio lascia che gli eventi seguano un loro corso, apparentemente distante da noi; quindi la preghiera può assumere toni drammatici e suscitare l’irritazione - come fosse una disputa aperta fra noi e Lui.
Ma Egli sceglie di non farsi garante dei nostri sogni esterni. Non si lascia introdurre nei limiti piccini.
Vuole coinvolgerci in ben altro che le nostre mète, di frequente troppo conformi a quello che abbiamo sotto il naso.
Inventa orizzonti dilatati, ma in questo travaglio dev’essere chiaro che non bisogna venir meno a noi stessi. Ossia al carattere della nostra essenza e vocazione.
Tutto ciò, proprio venendo meno a noi stessi - ossia cedendo il punto di vista rigido e dialogando coi nostri strati profondi.
Tale processo sposta l’accento condizionato.
Non è che Dio si compiace di farsi senza posa pregare e ripiegare dai poveretti.
Siamo noi ad aver bisogno di tempo per incontrare la nostra stessa anima e lasciarci introdurre in un altro genere di programmi che non siano conformisti e scontati.
Leggere gli accadimenti secondo visioni totalmente “inadeguate”, eccentriche o eccessive, meno contratte dentro le solite armature (e così via) può aprire la mente.
L’espansione dello sguardo accresce l’intuizione, modifica i sentimenti, trasforma, attiva. Coglie altri disegni, spalanca differenti orizzonti - con risultati intermedi già prodigiosi, sicuramente imprevedibili.
Quando qualcuno crede di aver capito il mondo, già si condiziona auspici ulteriori, più intensi, che vorrebbero invadere il nostro spazio.
Questa “natura” artificiale di assetti spuri, esterni o altrui, blocca l’itinerario che va verso la natura del carattere, la vera chiamata e missione personale.
La preghiera dev’essere insistente, perché è come una visuale posata su di sé; non come avevamo pensato: autenticamente.
L’occhio interiore serve a fare una sorta di spazio sgombro e individuale dentro, che apre alla nostra e altrui Presenza, tutta da guardare (nel modo che conta).
Sarà il più sapiente, forte e affidabile compagno di viaggio… che porta la nostra identità-carattere e non tira altrove l’io essenziale della persona.
Lo svuotamento consapevole dalle cianfrusaglie accatastate (da noi stessi o altri) dev’essere colmato nel tempo mediante una intensità di Relazione.
Ecco il dialogo-Ascolto interpersonale con la Fonte dell’essere.
In essa è annidato il nostro Seme particolare: lì è come seduta e in fieri la differenza di volto che ci appartiene.
Sarà la profondità radicale del rapporto con la nostra Radice - forse smarrita in troppe aspettative regolarissime, anche elevate o funzionanti - che conferisce un’altra Via, più convincente.
E farà scoprire la tendenza e destinazione unica che ci appartiene, per la Felicità che non pensavamo.
Obbiettivi, propositi, discipline, memorie del passato, sogni di futuro, ricerche dei punti di riferimento, valutazioni abitudinarie di possibilità, cumuli di merito... talora sono zavorre.
Essi distraggono dalla terra dell’anima, dove il nostro grano vorrebbe attecchire per divenire ciò che è in cuore.
E dal Nocciolo far comprendere la proposta di Missione ricevuta - non conquistata, né posseduta - affinché conceda un’altra caratura prodigiosa (non: visibilità).
Spesso il sistema mentale e affettivo si riconosce in un album di pensieri, definizioni, gesti, forme, problemi, titoli, mansioni, personaggi, ruoli e cose già morte.
Tale morfologia d’interdizione smarrisce il presente autentico, dove viceversa attecchisce il Sogno divino che completa - realizzandoci nella specificità.
Allora, ecco la terapia dell’assoluto presentimento nell’Ascolto - della non pianificazione; a partire da ciascuno.
Ciò nella lacuna consapevole di quella parte di noi che cerca sicurezze, approvazioni, e asseconda banalità.
Attraverso il dialogo incessante col Padre nell’orazione, facciamo spazio alle radici dell’Essere, che (nel frattempo) ci sta già colmando di visuali e occasioni per una sorte differente.
Riattivando la carica esplorativa soffocata negli ingranaggi, creiamo la giusta intercapedine e ripartiamo nell’Esodo.
Accontentarsi, fermarsi, installarsi in un punto, tramuterebbe le conquiste anche qualitative in una terra di nuove schiavitù.
Obbligherebbe a recitare e ripercorrere tappe ormai acquisite - che viceversa siamo per vocazione richiamati a valicare.
Esodo… all’interno di una Relazione sorgiva, cosmica e identificativa, singolarmente fondante.
Grazie all’Ascolto protratto nella preghiera, noi figli acquisiamo il sapere dell’anima e del Mistero.
Dimoriamo a lungo nella Casa della nostra essenza molto speciale.
Così la piantiamo - o radichiamo ancor più a fondo - per capirla e recuperarla completamente, nitida e colma.
Ormai affrancata dal destino tracciato in ambiente di ristrettezze, già segnato ma privo di sogni.
Quando saremo pronti, l’Unicità scenderà in campo con una nuova soluzione, anche stravagante.
Essa partorirà ciò che siamo davvero, al meglio - dentro quel caos che risolve i veri problemi. E di onda in onda balzerà a Traguardo.
Via le definizioni e aspirazioni da nomenclatura, in una sorta di venir meno di noi stessi - in uno stato “scarico” ma colmo di energie potenziali - daremo spazio al nuovo Germe che la sa più lunga di tutti.
Già qui e ora la nostra Pianta caratteristica e inconfondibile vuole sfiorare la condizione divina.
La preghiera continua (ascolto e percezione incessanti) scava e smaltisce in questo spazio il volume dei banali pensieri ridondanti.
In tale interstizio e “vuoto” si spalancano opportunità. Si crea la pulizia interiore affinché giunga il Dono - non di seconda mano.
Vogliamo una decisiva conversione? Desideriamo il richiamo alla totalità dell’esistenza umanizzante, senza limitazioni e nella nostra unicità?
[Allora l’azione divina può raggiungere chiunque? Attecchisce in qualsiasi volto? E come si fa a non spezzarla?].
Perché non ora il nuovo inizio? La preghiera e il “nuovo pieno” dello Spirito diventano per noi - figli in fase di crescita - il latte dell’anima.
Meditando sulle Letture bibliche di questa domenica e pensando alla realtà di Napoli, sono rimasto colpito dal fatto che oggi la Parola di Dio ha come tema principale la preghiera, anzi, "la necessità di pregare sempre senza stancarsi", come dice il Vangelo (cfr Lc 18,1). A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi come la vostra. Ma, riflettendoci, si comprende che questa Parola contiene un messaggio certamente controcorrente, destinato tuttavia ad illuminare in profondità la coscienza di questa vostra Chiesa e di questa vostra Città. Lo riassumerei così: la forza, che in silenzio e senza clamori cambia il mondo e lo trasforma nel Regno di Dio, è la fede - ed espressione della fede è la preghiera. Quando la fede si colma d’amore per Dio, riconosciuto come Padre buono e giusto, la preghiera si fa perseverante, insistente, diventa un gemito dello spirito, un grido dell’anima che penetra il cuore di Dio. In tal modo la preghiera diviene la più grande forza di trasformazione del mondo. Di fronte a realtà sociali difficili e complesse, come sicuramente è anche la vostra, occorre rafforzare la speranza, che si fonda sulla fede e si esprime in una preghiera instancabile. E’ la preghiera a tenere accesa la fiaccola della fede. Domanda Gesù, come abbiamo sentito alla fine del Vangelo: "Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terrà?" (Lc 18,8). È una domanda che ci fa pensare. Quale sarà la nostra risposta a questo inquietante interrogativo? Quest’oggi, vogliamo insieme ripetere con umile coraggio: Signore, la tua venuta tra noi in questa celebrazione domenicale ci trova radunati con la lampada della fede accesa. Noi crediamo e confidiamo in te! Accresci la nostra fede!
Le Letture bibliche che abbiamo ascoltato ci presentano alcuni modelli a cui ispirarci in questa nostra professione di fede che è sempre anche professione di speranza, perché la fede è speranza, apre la terra alla forza divina, alla forza del bene. Sono le figure della vedova che incontriamo nella parabola evangelica e quella di Mosè di cui parla il libro dell’Esodo. La vedova del Vangelo (cfr Lc 18,1-8) fa pensare ai "piccoli", agli ultimi, ma anche a tante persone semplici e rette, che soffrono per le sopraffazioni, si sentono impotenti di fronte al perdurare del malessere sociale e sono tentate di scoraggiarsi. A costoro Gesù ripete: osservate questa povera vedova con quale tenacia insiste e alla fine ottiene ascolto da un giudice disonesto! Come potreste pensare che il vostro Padre celeste, buono e fedele, e potente, il quale desidera solo il bene dei suoi figli, non vi faccia a suo tempo giustizia? La fede ci assicura che Dio ascolta la nostra preghiera e ci esaudisce al momento opportuno, anche se l’esperienza quotidiana sembra smentire questa certezza. In effetti, davanti a certi fatti di cronaca, o a tanti quotidiani disagi della vita di cui i giornali non parlano neppure, sale spontaneamente al cuore la supplica dell’antico profeta: "Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non soccorri?" (Ab 1,2). La risposta a questa invocazione accorata è una sola: Dio non può cambiare le cose senza la nostra conversione, e la nostra vera conversione inizia con il "grido" dell’anima, che implora perdono e salvezza. La preghiera cristiana non è pertanto espressione di fatalismo e di inerzia, anzi è l’opposto dell’evasione dalla realtà, dell’intimismo consolatorio: è forza di speranza, massima espressione della fede nella potenza di Dio che è Amore e non ci abbandona. La preghiera che Gesù ci ha insegnato, culminata nel Getsemani, ha il carattere dell’"agonismo" cioè della lotta, perché si schiera decisamente al fianco del Signore per combattere l’ingiustizia e vincere il male con il bene; è l’arma dei piccoli e dei poveri di spirito, che ripudiano ogni tipo di violenza. Anzi rispondono ad essa con la non violenza evangelica, testimoniando così che la verità dell’Amore è più forte dell’odio e della morte.
Questo emerge anche dalla prima Lettura, il celebre racconto della battaglia tra gli Israeliti e gli Amaleciti (cfr Es 17,8-13a). A determinare le sorti di quel duro conflitto fu proprio la preghiera rivolta con fede al vero Dio. Mentre Giosuè e i suoi uomini affrontavano sul campo gli avversari, Mosè stava sulla cima della collina con le mani alzate, nella posizione della persona in preghiera. Queste mani alzate del grande condottiero garantirono la vittoria di Israele. Dio era con il suo popolo, ne voleva la vittoria, ma condizionava questo suo intervento alle mani alzate di Mosè. Sembra incredibile, ma è così: Dio ha bisogno delle mani alzate del suo servo! Le braccia levate di Mosè fanno pensare a quelle di Gesù sulla croce: braccia spalancate ed inchiodate con cui il Redentore ha vinto la battaglia decisiva contro il nemico infernale. La sua lotta, le sue mani alzate verso il Padre e spalancate sul mondo chiedono altre braccia, altri cuori che continuino ad offrirsi con il suo stesso amore, fino alla fine del mondo.
[Papa Benedetto, omelia Napoli 21 ottobre 2007]
A tutte le persone di buona volontà che si sentono parte viva ed operante della comunità parrocchiale dico: non stancatevi di cercare tutte le occasioni che il Signore vi offre per allargare contatti e portare avanti quell’opera di promozione fondata sulla verità, sulla giustizia e sul rispetto della persona altrui, che costituisce, per chi si sente lontano dalla fede, il preambolo necessario alla conoscenza di Cristo, che voi avete la fortuna di professare con la vostra vita e con la pratica dei sacramenti della fede.
9. Siate lode vivente di Dio agli occhi di chi cerca il Signore, ma non lo ha ancora trovato. Ripetete col salmista: “Loda, anima mia, il Signore, tuo creatore”.
Cari fratelli e sorelle!
Imparate a lodare Dio; rendete gloria a lui a nome di tutte le creature.
Imparate a farlo nello spirito della “povera vedova” dell’odierna liturgia, perché il sacrificio della gloria trovi la sua “risonanza” evangelica nel cuore di Cristo.
Imparate - sempre nuovamente - imparate a partecipare all’Eucaristia perché la vostra vita cristiana maturi e s’arricchisca mediante “la povertà in spirito”.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 6 novembre 1988]
La parabola evangelica che abbiamo appena ascoltato (cfr Lc 18,1-8) contiene un insegnamento importante: «La necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (v. 1). Dunque, non si tratta di pregare qualche volta, quando mi sento. No, Gesù dice che bisogna «pregare sempre, senza stancarsi». E porta l’esempio della vedova e del giudice.
Il giudice è un personaggio potente, chiamato ad emettere sentenze sulla base della Legge di Mosè. Per questo la tradizione biblica raccomandava che i giudici fossero persone timorate di Dio, degne di fede, imparziali e incorruttibili (cfr Es 18,21). Al contrario, questo giudice «non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno» (v. 2). Era un giudice iniquo, senza scrupoli, che non teneva conto della Legge ma faceva quello che voleva, secondo il suo interesse. A lui si rivolge una vedova per avere giustizia. Le vedove, insieme agli orfani e agli stranieri, erano le categorie più deboli della società. I diritti assicurati loro dalla Legge potevano essere calpestati con facilità perché, essendo persone sole e senza difese, difficilmente potevano farsi valere: una povera vedova, lì, sola, nessuno la difendeva, potevano ignorarla, anche non darle giustizia. Così anche l’orfano, così lo straniero, il migrante: a quel tempo era molto forte questa problematica. Di fronte all’indifferenza del giudice, la vedova ricorre alla sua unica arma: continuare insistentemente a importunarlo, presentandogli la sua richiesta di giustizia. E proprio con questa perseveranza raggiunge lo scopo. Il giudice, infatti, a un certo punto la esaudisce, non perché è mosso da misericordia, né perché la coscienza glielo impone; semplicemente ammette: «Dato che questa vedova mi dà fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi» (v. 5).
Da questa parabola Gesù trae una duplice conclusione: se la vedova è riuscita a piegare il giudice disonesto con le sue richieste insistenti, quanto più Dio, che è Padre buono e giusto, «farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui»; e inoltre non «li farà aspettare a lungo», ma agirà «prontamente» (vv. 7-8).
Per questo Gesù esorta a pregare “senza stancarsi”. Tutti proviamo momenti di stanchezza e di scoraggiamento, soprattutto quando la nostra preghiera sembra inefficace. Ma Gesù ci assicura: a differenza del giudice disonesto, Dio esaudisce prontamente i suoi figli, anche se ciò non significa che lo faccia nei tempi e nei modi che noi vorremmo. La preghiera non è una bacchetta magica! Essa aiuta a conservare la fede in Dio ad affidarci a Lui anche quando non ne comprendiamo la volontà. In questo, Gesù stesso – che pregava tanto! – ci è di esempio. La Lettera agli Ebrei ricorda che «nei giorni della sua vita terrena Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7). A prima vista questa affermazione sembra inverosimile, perché Gesù è morto in croce. Eppure la Lettera agli Ebrei non si sbaglia: Dio ha davvero salvato Gesù dalla morte dandogli su di essa completa vittoria, ma la via percorsa per ottenerla è passata attraverso la morte stessa! Il riferimento alla supplica che Dio ha esaudito rimanda alla preghiera di Gesù nel Getsemani. Assalito dall’angoscia incombente, Gesù prega il Padre che lo liberi dal calice amaro della passione, ma la sua preghiera è pervasa dalla fiducia nel Padre e si affida senza riserve alla sua volontà: «Però – dice Gesù – non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). L’oggetto della preghiera passa in secondo piano; ciò che importa prima di tutto è la relazione con il Padre. Ecco cosa fa la preghiera: trasforma il desiderio e lo modella secondo la volontà di Dio, qualunque essa sia, perché chi prega aspira prima di tutto all’unione con Dio, che è Amore misericordioso.
La parabola termina con una domanda: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (v. 8). E con questa domanda siamo tutti messi in guardia: non dobbiamo desistere dalla preghiera anche se non è corrisposta. E’ la preghiera che conserva la fede, senza di essa la fede vacilla! Chiediamo al Signore una fede che si fa preghiera incessante, perseverante, come quella della vedova della parabola, una fede che si nutre del desiderio della sua venuta. E nella preghiera sperimentiamo la compassione di Dio, che come un Padre viene incontro ai suoi figli pieno di amore misericordioso.
[Papa Francesco, Udienza Generale 25 maggio 2016]
E smuovere i vicini
(Lc 10,1-9)
Gesù constata che gli Apostoli non sono persone libere (cf. Lc 9). Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.
La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire, valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Signore si vede costretto a chiamare i samaritani [gli eretici della religione] raccolti altrove, non provenienti da osservanze “corrette”, ma in grado di camminare, comprendere e non fare gli schizzinosi.
I nuovi inviati vanno sulla strada indifesi. Non potendo contare sulle consuete astuzie, vengono sicuramente danneggiati, defraudati e - se toccano tutti i nervi scoperti - sbranati.
Ma il loro essere dimesso e poco saccente fa pensare, suscita nuovi saperi e consapevolezze. Così la loro amicizia spontanea e innocente.
Poi, in situazioni bloccate sarà questo “disordine” di nuovi stupefatti a introdurre rinnovato fascino, evocare potenzialità, allargare occasioni espressive e il campo d’azione di tutti.
Giunti in un territorio, sarà bene non passare di casa in casa: da una sistemazione di fortuna all’appartamento, alla villa e poi al palazzo, perché la ricerca di migliori agi fa sparire la Novità di Dio.
La cura dei malati e delle devianze è punto fermo della Missione, perché proprio dalle insicurezze o eccentricità germoglia un regno diverso, quello che si accorge e si fa carico - nell’amore di chi non abbandona.
E non si perda tempo a pettinare l’ambiente seduto: anche un volontario allontanamento educa alla gratuità.
Lo slancio della vita desterà le coscienze e prevarrà sul negativo: nel cammino che ci appartiene le accuse conteranno sempre meno.
A differenza dell’azione infruttuosa degli Apostoli (Lc 9 passim), il ritorno dei nuovi evangelizzatori è pieno di gioia e risultati (vv.17-20).
Sono gli ultimi e diversi a far cadere dal “cielo” - e sostituire - i nemici dell’umanità e della nostra Letizia (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalom] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci completano e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza (vita da salvati) che fiorisce è a portata di mano di tutti (v.9), non più un privilegio.
I lati giudicati pazzeschi, estranei o materialmente inconcludenti stanno apprestando i nostri nuovi percorsi.
Nel grande Mistero di percepirsi come un ‘essere nel Dono’ - «due a due» (v.1) per vivere in pienezza - il sé comprende le opposte polarità della sua essenza.
Solo così ‘dilatati’ diventiamo un essere con e per l'altro. In cammino sulla Via, nella forma di Croce.
[San Luca, Evangelista, 18 ottobre]
Chiama i lontani, per smuovere i vicini
(Lc 10,1-12.17-20)
E io e Te
«La Verità non è affatto ciò che ho. Non è affatto ciò che hai. Essa è ciò che ci unisce nella sofferenza, nella gioia. Essa è figlia della nostra Unione, nel dolore e nel piacere partoriti. Né io né Te. E io e Te. La nostra opera comune, stupore permanente. Il suo nome è Saggezza».
(Irénée Guilane Dioh)
Gesù constata che gli Apostoli non sono persone libere, per questo non emancipano nessuno e addirittura impediscono qualsiasi svolta (cf. Lc 9).
Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.
La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire e valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Signore si vede costretto a chiamare i samaritani (gli eretici della religione) raccolti altrove, non provenienti da osservanze “corrette” - ma in grado di camminare, comprendere e non fare gli schizzinosi.
Almeno loro non smentiscono la Parola che proclamano con una vita dietro le quinte: quello che vedi, sono.
È praticamente indotto a sorvolare i Dodici, con «72» insicuri ma trasparenti, nell’incertezza dei (molti) lupi che si sentono destabilizzati.
I nuovi inviati vanno sulla strada indifesi. Non potendo contare sulle consuete astuzie, vengono sicuramente danneggiati, defraudati e - se toccano tutti i nervi scoperti - sbranati.
Ma il loro essere dimesso e poco saccente fa pensare, suscita nuovi saperi e consapevolezze. Così la loro amicizia spontanea e innocente.
Poi, in situazioni bloccate sarà questo “disordine” di nuovi stupefatti a introdurre rinnovato fascino; evocare potenzialità, allargare le possibili inclinazioni espressive, e il campo d’azione di tutti.
Sono i testimoni critici a trasmutare il mondo e guidare le persone alla lode (perché magari si sono semplicemente riappropriati di risorse che neanche sapevano di possedere o avevano perso di vista).
Coloro che non cessano di sorprendere devono stare attenti ai falsi e profittatori che si sentono disturbati dal sorriso dei nuovi ingenui - e molto attenti. Solo qui bisogna fare i difficili: non ci siano altri scrupoli!
Giunti in un territorio, sarà bene non passare di casa in casa: da una sistemazione di fortuna all’appartamento, alla villa, poi al palazzo, perché la ricerca di migliori agi fa sparire la Novità di Dio.
La cura dei malati e delle devianze è punto fermo della Missione, perché è proprio dalle insicurezze o eccentricità che germoglia un regno diverso, quello che si accorge e si fa carico - nell’amore di chi non abbandona.
E non si perda tempo a pettinare l’ambiente seduto sulla falsa ideologia tronetto-altare: anche un volontario allontanamento educa alla gratuità. Anzi fa sbalordire e riflettere proprio i capi religiosi [all’antica e non] e i loro devoti di cerchia, che restano legati a posizioni di visibilità sociale, all’idolo del posto, alla malattia del titolo (senza il quale non si sentono personaggi).
Sono manipolatori, e ci riempiono la testa di venticelli.
Lo spione del sovrano - il «satana» [i suoi accoliti sono molti e insospettabili] nemico del progresso dell’umanità - non avrà più rilievo.
Lo slancio della vita desterà le coscienze e prevarrà sul negativo: nel cammino che ci appartiene le accuse dei sorveglianti interessati conteranno sempre meno.
A differenza dell’azione scrupolosa ma triste e deviante degli Apostoli [Lc 9 passim] il ritorno dei nuovi evangelizzatori aggregati per Chiamata diretta e senza ritualità intermedie è pieno di brio e risultati (vv.17-20).
Sono gli ultimi e diversi - non i più noti e autoreferenziali aggregati - a far cadere dal “cielo” e sostituire i satana-funzionari, nemici dell’umanità e della Gioia inclusiva (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalôm] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci compiono e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza che fiorisce [vita da salvati, conclusiva] è per tutti a portata di mano (v.9), non più un privilegio.
I lati giudicati malaticci, squilibrati, sofferenti, invalidi, pazzeschi o materialmente inconcludenti stanno apprestando i nostri nuovi percorsi.
Nella dinamica vocazionale il punto fermo non risiede in una soddisfacente adesione a criteri di ragione, né in qualche geniale elaborazione di novità.
Neppure si colloca nella eroicità o fissità di comportamenti conformi, pur convinti.
La nostra certezza stupisce d’una sorpresa che Viene.
Essa ci desta, ma risiede unicamente in una percezione dell’occhio interiore: nella leggera immagine ricorrente che c’inabita e misteriosamente si affaccia, trascina e guida.
E cura le paure.
Unica sicurezza sarà quella lieve visione che - corrispondendo e ribadendo le sue venute - volge ciascuno al suo desiderio personale inespresso, tessendo un dialogo ineffabile con l’anima e la sua Via.
Il Dono s’impone allo scenario intimo, per volgere ogni Nome a destinazione.
Per attirare e attualizzare Futuro. Beninteso: non il ritorno alla situazione precedente che molti propugnano; oggi, anche in tempo di crisi globale.
Non esiste altro punto fermo che la nostra Chiamata.
Essa giunge per allacciare una relazione sponsale con l’opera imprevedibile e inedita della personale Fede-calamita.
Attrazione che seduce l'anima, la libera dalle insicurezze infondendole passione, e chiede di farsi rispettare.
Solo in senso vocazionale e intimamente forte, l’appello del Sogno che affiora alla percezione del cuore, ci fa tenaci.
E rianima un’esistenza vagante tra le bufere - come quella d’un pianeta alla deriva - intrecciando la vita al Cristo.
È la nostra Pace nel caos, che pure invita all’introspezione.
“Magnete-contro” nell’artificio esterno del farsi condurre da obbiettivi altrui.
Non basta neppure trovare un antidoto moderno alla frenesia che ci punge, ancora peggiorando il nostro vagabondare.
Né imponendosi uno stile conflittuale con l’indipendenza dello spirito personale.
Non è sufficiente una parentesi per annientare la tensione della vita contemporanea.
Tutto sommato non ci manca un’oasi per riflettere sul mondo, comprendere se stessi, e gli amici o i lontani.
«Non ho pace» - ci sentiamo ripetere da persone che si sentono alla deriva. E questo sentimento è contagioso; oggi dilagante.
Come proclamare armonia e conciliazione nelle case (v.5), in un mondo assediato da provocazioni, da malanni e competizioni globali, che se considerate in modo responsabile fanno subito tremare i polsi?
In un discorso di auguri d’inizio anno al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II sintetizzò quattro emergenze epocali per il nuovo millennio:
«Vita, pane, pace e libertà: ecco le grandi sfide dell’umanità di oggi».
Un fuori scala per la nostra natura.
Come può l’uomo di Fede annunciare equilibrio e prosperità, se la debolezza non è protetta, se il criterio di natura sembra oggi volatile, se il nutrimento non è abbondante e vario per tutti, se la fraternità non si scorge neppure in ambienti protetti [al massimo viene scambiata per generica simpatia a scopo pubblicitario, in una chiesa degli eventi - come dice Papa Francesco], o se il belligerare può avere motivazioni teologiche (pur di non accettare le esigenze vitali altrui)… se non si riconosce a ciascuno di potersi realizzare «in maniera rispondente alla sua natura»?
Quest’ultimo a mio parere il punto cardine: prerogativa della Vocazione e dell’immaginario interiore che suscita; della nostra risposta di fiducia sponsale personale e creativa.
Diceva Giovanni Paolo: la libertà è luce «perché permette di scegliere responsabilmente le proprie mete e la via per raggiungerle».
Non un lume che abbaglia, bensì che si posa, e tesse trame.
Una luce redenta, che diviene rapporto, possibilità di condivisione; Presenza che trasmette senso.
Il libero arbitrio impallidisce, a braccetto col nostro volontarismo, e non ci basta neppure la capacità di autodeterminarci per il bene. Lo sappiamo da sempre.
Nella sua seconda Satira, Giovenale scrive:
«Le pratiche t’han dato questa tigna/
E a molti la daran, come di pecore/
O di porci in un branco un sol comunica/
A tutti gli altri la scabbia e la forfora/
E basta un chicco per guastare un grappolo/
Da questa moda a più brutte faccende/
Adagio adagio passerai: la scala/
Dei vizi non discendesi d’un salto/
In breve ti faranno uno dei loro/
Quelli che in casa cingonsi la fronte».
Bisogna vivere di Comunione, anche con se stessi, o non c’è autentica vita.
Nel grande Mistero di percepirsi come un “essere nel Dono” - «due a due» (v.1) - per godere pienezza, il sé comprende le opposte polarità della sua essenza.
Solo così dilatati diventiamo un essere “con” e “per” l'altro.
Non di rado la proposta sacrale ci isola o colloca in compartimenti stagni unilaterali, che troncano i sogni [non le fantasie disincarnate, che ne sono corollario].
I bei costumi antichi, o gli schemi di sociologia astratta, e stilemi o costumi locali, determinano i binari della nostra corsa: i soliti totem di costume. O le mode altrui; i manierismi esterni.
Gesù (appunto) nota l’insuccesso dei suoi, che non riescono a liberare le persone - e addirittura pretendono d’impedirlo [Lc 9].
Così chiama anche i samaritani (v.1), ossia i male indottrinati, meticci e bastardi.
Insomma, allarga l’orizzonte delle tribù designate, facendo appello a nazioni pagane, per un compito universale.
Il Signore sa che la Fede “laicale” non è di cerchia.
Essa non si adegua volentieri a modelli senza forza intima; quindi non blocca l’evoluzione, perché fa vivere di Relazione e carattere.
Ciò, in mezzo a tutte le sfaccettature dell’essere e della storia: appunto con e per gli altri, ma non all’esterno - bensì saldi in se stessi.
In tal guisa, nell’amicizia di sé e del prossimo, diventiamo per Grazia e genuinamente assai più affidabili di coloro che sono animati da articolate convinzioni o forti volontarismi di club.
Queste i ultimi spesso illusioni pericolosissime, se non riconoscono come valore assoluto il bene concreto dell’uomo reale, il diritto alla sua Felicità.
Totalità o integrazione derivante dal benessere d’un completamento nell’essere, non più ridotto.
Presenza Messianica [Annuncio dello Shalôm] che non svaluta; non permane unilaterale.
Lo spione che cade, e i piccoli cervelli
Lo spione del “sovrano” - il «satana» [i suoi accoliti sono molti e insospettabili], nemico del progresso dell’umanità - non avrà più rilievo.
Detronizzato dalla condizione di potere sugli uomini, esso precipita nel baratro (v.18).
Significa che grazie alla missione in Cristo, lo slancio della vita prevarrà sul negativo.
Nel cammino che ci appartiene, le accuse dei sorveglianti interessati conteranno zero.
I vecchi Re e Profeti avevano solo sospirato la pienezza del Messia. Si sentivano dei grandi, ma non avevano incontrato l’Eterno in sovrabbondanza di Persona.
Erano ancora schiavi di elementi cosmici, talora sottomessi al potere irrazionale del male; spesso vinti dal pensiero comune, dalla miseria propria e altrui, dalle attrattive della realtà mondana circostante.
I «piccoli» invece anche oggi restano aperti al Mistero e ricevono un essere rinnovato.
I sapientoni suppongono che l’unica vita si trovi dalla loro parte; si pensano potenti e convincenti. Non hanno bisogno di luce, né di un Amico.
Su questo piano viene formulata una delle rivelazioni definitive sull’Uomo autentico che manifesta la condizione divina.
Il Figlio benedice il Padre per il dono concesso agli insignificanti della società, e scopre il punto nodale del Mistero della nostra comunicazione con l’Altissimo: lo spirito di sapersi in Famiglia, a pieno titolo.
La santità religiosa antica poggiava sulla separazione [Qadosh-Santo: è attributo del Dio che dimora in luoghi distinti, remoti, inaccessibili] non sull’essenza.
Il nuovo nome della santità (domestica) riflessa nella Persona del Cristo e in quella dei suoi fratelli non è più sinonimo di “tagliato dagli altri e messo a parte”, bensì «Unito».
Malgrado le stampelle che porta, resta in sé “dignitoso” e addirittura “chiamato”; quindi abilitato a essere promosso, senza ulteriori condizioni di purità ideologica o cultuale.
Padre e Figlio costituiscono un Mistero di reciprocità e dedizione nel quale penetrano solo coloro che vogliono ricevere e accogliersi nella scaturigine - in Dio, per lasciarsi avvolgere da una Amicizia che raggranella tutto l’essere.
Dialogo ch’espande le pur minime qualità, sublima in Perle i lati ignoti e oscuri della personalità; per dilatare l’onda dell’esistere, senza inseguire le voci del mondo esterno [solo apparentemente vitale].
Così l’Invio e Missione hanno come nucleo il dispiegamento della qualità intensa, della stessa realtà intima e indistruttibile divina: l’Amore.
Unico Fuoco che annienta le potenze logoranti, nelle persone, nelle nazioni, nella storia.
Appunto, a differenza dell’opera scrupolosa ma triste e deviante degli Apostoli [Lc 9 passim], il ritorno dei nuovi evangelizzatori aggregati per Chiamata diretta e senza ritualità intermedie è pieno di gioia e risultati (vv.17-20).
Ricordiamo Tagore: «Se i cristiani fossero come il loro Maestro, avrebbero tutta l’India ai loro piedi».
Sono gli ultimi e diversi - i nuovi protagonisti dell’Annuncio.
Non i più noti e autoreferenziali cooptati riescono a far cadere dal cielo e sostituire i satana-funzionari, nemici dell’umanità e della nostra Gioia democratica (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalôm] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci completano, includono e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza [vita da salvati] che fiorisce è a portata di mano di tutti coloro che hanno spirito attento e virtù da famigliari. Non più privilegio di cerchie che si sentono sicure [ma perdono l’unicità].
Ancora Tagore: «Benignamente, volutamente fattoti piccolo, vieni in questa piccola dimora [...] Come amico, come padre, come madre fattoti piccolo, vieni nel mio cuore. Io pure con le mie mani mi farò piccolo davanti al padrone dell’universo; con la mia piccola intelligenza ti conoscerò e ti farò conoscere».
Il Mistero resiste ai «dotti» che fanno professione di alta saggezza (v.21).
Viceversa il Regno si apre ai non imprigionati da idee conformi e interposte - schiavi di pensieri e convenzioni.
Ecco l’Inno di Giubilo (vv.21-24) che introduce il Comandamento dell’Amore (vv.25ss).
Ricordo il mio professore agostiniano di Patristica: insisteva nel ripeterci che uno dei nomignoli conquistati dai primi cristiani era quello di «piccoli cervelli».
Erano persone semplici ma ricolme di attitudini alla pienezza, e di sapienti nuove consapevolezze, che sbalordivano i professori e i filosofi del mondo antico.
Anche noi ci chiediamo: cosa fa tornare vicini a ciò che siamo chiamati a fare?
Ebbene, forse ne abbiamo già contezza: la sufficienza di coloro che fanno professione di dottrina cerebrale - in realtà - conduce solo a precipitare dal cielo.
Annienta l’umile percezione di sé, fa impallidire la capacità di accorgersi; chiude al perdono, all’accoglienza benevolente, all’ascolto dell’anima e degli altri, alla disponibilità. Perfino all’acume dei saperi innati, quelli che ci appartengono e risolverebbero i veri problemi.
Proprio i lati giudicati pazzeschi o materialmente inconcludenti - anche nella trama di piccole cose - farebbero affrontare gli eventi esterni che attanagliano… come occasioni di crescita.
Stanno infatti preparando i nostri nuovi percorsi, e un germe di società alternativa.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa è successo in te quando hai accettato la modesta (e piena) condizione di figlio?
Quali nuove consapevolezze di te stesso e del mondo hai acquisito?
Hai scoperto anche slanci di gratuità, oltre che di gratitudine?
La Missione (Effusione) raggiunge tutte le frontiere
Perché l’Annuncio, senza nodi alla gola
(Lc 10,13-16)
La differenza tra religiosità e Fede è nel Soggetto, della Vita nello Spirito: non siamo noi a disporre, allestire, cieli e terra nuovi - bensì la Grazia che silenziosamente dissoda e precede.
Ecco perché nell’Annuncio non siamo orfani, e con tanti nodi alla gola.
Il Maestro stesso non è solo. La testimonianza anche dei non discepoli si inserisce nella Via del Cristo verso il Padre.
Strada che Viene. Non è l’impegno “interno” assodato che edifica un mondo più autentico, dai tratti divini.
È piuttosto il Regno - effusivo in se stesso - che dà origine al cammino verso i “lontani”, e attiva scenari impensabili.
Essi giungono a noi come proposta di Pace: apertura a un Disegno più vasto, e giustizia interumana.
L’esperienza variegata, l’ambiente pieno di sorprese dei non seguaci, genera fioriture, di ciascuno - nella scoperta del limite, dei propri stati profondi - per la comunione.
Nessuna riserva elettiva; nessun diritto di prelazione. Salvezza secondo il Padre, non “a modo nostro”.
Il Vangelo supera le barriere di popoli e se necessario lascia indietro la sua culla di culture attenuanti, chiuse in una mentalità ingessata, forse intollerante; seccata di tutto.
Chi in piena avvertenza e deliberato consenso rigetta la Parola perché il mondo non sarà più “come prima”, si ritrova d’improvviso senza speranza, senza figli, senza possibilità di vita e d’espandersi.
Senza Presenza, senza la Spiritualità del Patto - che concatena ogni testimone al Figlio e al Padre. E solo Dio può superare la forza degli ostacoli; potenze interne ed esterne.
Unicamente nella fiaccola della condizione divina [autentica Sorgente, misura che Cristo vive e ci stupisce] si apprende il senso del nostro essere, comunicare, andare.
L’inaccessibile interroga, e diventa vicinissimo. Annienta le zavorre esclusive, che permangono invano.
Così l’Annuncio scatena lo Spirito, spalanca porte inusitate: anche una finestra sul mondo interiore. Dove gli opposti hanno già diritto di esistere. Anzi, chiamano all’Alleanza nuova, che insegna a stare coi lati che non piacciono.
In tal guisa indagheremo e scopriremo: la lotta dei blocchi, delle paure di ciò che non vogliamo vedere all’esterno e dentro di noi, deve cessare.
Le tendenze che pensavamo dovessero essere negate diventano fonte imprevedibile di altre luci e virtù, intime e nei rapporti.
Anche e soprattutto le ombre chiamano l’Esodo, un nuovo Patto - dove non siamo assolutamente soli e unilaterali, bensì più completi.
Insomma, il Mistero che ci abita oltrepassa i lacci delle convinzioni, ci rende meno divisi. A partire dalla scaturigine dell’essere.
Si fa trascendenza-immanenza reale, stringente; per tutti. Consapevolezza di Vita Nuova.
«Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me ma chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato» (v.16).
«Il Padre infatti non giudica nessuno ma ha dato ogni giudizio al Figlio affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato» (Gv 5,22-23).
Scienziati e Piccoli
(Lc 10,21-24)
A differenza dell’azione infruttuosa degli Apostoli [Lc 9 passim], il ritorno dei nuovi evangelizzatori è pieno di gioia e risultati (vv.17-20). Perché?
I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.
Ciò che rimane vincolato a costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Maestro si rallegra della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto, e capace di comprendere le profondità del Regno, nelle cose comuni.
Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.
Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.
In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto e non attendeva più nulla che potesse destare le abitudini.
Poi comprende, loda e benedice il disegno del Padre: la persona autentica nasce dai bassifondi, e possiede «lo spirito del vicinato» (FT n.152).
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.
L’Eterno non è il padrone del creato: è Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca, si fa attento al linguaggio del cuore.
Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.21) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.
Così il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: coloro che sono dotati di un’attitudine da famigliari (v.22).
Insignificanti e invisibili privi di grandi doti, ma che si abbandonano alle proposte della vita provvidente che viene, come bimbi in braccio a dei genitori.
Con Spirito di pietas che favorisce chi si lascia colmare di saggezza innata. Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.
Sapienza che trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere accogliere ritemprare personalmente la Verità come Dono, e l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.
Una preghiera di benedizione semplice, per i semplici - questa di Gesù (v.21) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi.
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalom] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci completano e realizzano anche spiritualmente.
Bisogna vivere di Comunione, pur con il “piccolo” di sé, o non c’è autentica vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»?
Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?
Cari fratelli e sorelle,
oggi il Vangelo (cfr Lc 10, 1-12.17-20) presenta Gesù che invia settantadue discepoli nei villaggi dove sta per recarsi, affinché predispongano l'ambiente. È questa una particolarità dell'evangelista Luca, il quale sottolinea che la missione non è riservata ai dodici Apostoli, ma estesa anche ad altri discepoli. Infatti - dice Gesù - "la messe è molta, ma gli operai sono pochi" (Lc 10, 2). C'è lavoro per tutti nel campo di Dio. Ma Cristo non si limita ad inviare: Egli dà anche ai missionari chiare e precise regole di comportamento. Anzitutto li invia "a due a due", perché si aiutino a vicenda e diano testimonianza di amore fraterno. Li avverte che saranno "come agnelli in mezzo a lupi": dovranno cioè essere pacifici nonostante tutto e recare in ogni situazione un messaggio di pace; non porteranno con sé né vestiti né denaro, per vivere di ciò che la Provvidenza offrirà loro; si prenderanno cura dei malati, come segno della misericordia di Dio; dove saranno rifiutati, se ne andranno, limitandosi a mettere in guardia circa la responsabilità di respingere il Regno di Dio. San Luca mette in risalto l'entusiasmo dei discepoli per i buoni frutti della missione, e registra questa bella espressione di Gesù: "Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi: rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli" (Lc 10, 20). Questo Vangelo risvegli in tutti i battezzati la consapevolezza di essere missionari di Cristo, chiamati a preparargli la strada con le parole e con la testimonianza della vita.
[Papa Benedetto, Angelus 8 luglio 2007]
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
At first sight, this might seem a message not particularly relevant, unrealistic, not very incisive with regard to a social reality with so many problems […] (Pope John Paul II)
A prima vista, questo potrebbe sembrare un messaggio non molto pertinente, non realistico, poco incisivo rispetto ad una realtà sociale con tanti problemi […] (Papa Giovanni Paolo II)
There is work for all in God's field (Pope Benedict)
C'è lavoro per tutti nel campo di Dio (Papa Benedetto)
The great thinker Romano Guardini wrote that the Lord “is always close, being at the root of our being. Yet we must experience our relationship with God between the poles of distance and closeness. By closeness we are strengthened, by distance we are put to the test” (Pope Benedict)
Il grande pensatore Romano Guardini scrive che il Signore “è sempre vicino, essendo alla radice del nostro essere. Tuttavia, dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova” (Papa Benedetto)
The present-day mentality, more perhaps than that of people in the past, seems opposed to a God of mercy, and in fact tends to exclude from life and to remove from the human heart the very idea of mercy (Pope John Paul II)
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia (Papa Giovanni Paolo II)
«Religion of appearance» or «road of humility»? (Pope Francis)
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? (Papa Francesco)
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore [Giovanni Paolo II]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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