don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

L’autorevolezza di Gesù e nostra

(Mt 21,23-27)

 

«Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?» (Mt 21,23).

Nell’ambiente tradizionale giudaizzante delle prime comunità rimbalzavano domande circa l’autorevolezza di Cristo nel porre sotto assedio il sistema religioso ordinario, e il suo distinguersi perfino da profeti riconosciuti come il Battista.

Unica risposta: la potenza di Dio che si esprimeva nel segno dei tempi - fermentando le coscienze.

La missione di Gesù non è stata regolare: sconcertava l’atmosfera, quindi la sua Parola viva e tagliente andava circoscritta a ogni costo.

Un comportamento così audace sarebbe sembrato irriverente, perfino se adottato dal Messia atteso in persona.

E un senza-terra non poteva che essere un suo falso pretendente...

 

I leaders religiosi che il Signore fronteggiava - radicati in schemi di pensiero e strategie consolidate - si accontentavano sempre di adattare il Cielo entro canovacci chiusi.

Mt tenta di aiutare le sue comunità di Galilea e Siria: dovevano continuare impavide, e non lasciarsi sedurre da pratiche religiose ufficiali, né inquinare dall’ideologia imperiale.

L’evangelista sembra anche suggerire ai fedeli in Cristo di evitare diatribe puntigliose, con i rappresentanti di un mondo solo in apparenza stabile - viceversa destinato a implodere sulle proprie contraddizioni.

 

Dopo la cacciata dei venditori e usurai-profanatori dal Tempio (Mt 21,12ss), la sorte di Gesù è segnata.

Ma attraverso i suoi intimi, il nuovo Regno - slegato - si deve proporre nello spirito di disinteresse, e come Sorpresa.

Solo il Padre può aver gestione di seme, radici e sviluppo.

Nessun uomo può dare “autorizzazione” a una qualsiasi persona di poter essere riflessiva e disciolta.

C’è un percorso imprevedibile anche per chi è abituato a sentirsi dirigere in ogni vicenda. Mentre le garanzie ingombrano le menti e intasano le vie che poi sfociano in esperienze di frontiera.

In tal guisa, palesiamo indipendenza e libertà perché Gesù stesso l’ha dimostrate, sorvolando qualsiasi aspettativa e proposito.

 

Prima o poi i capi sarebbero rimasti costernati da chi non sopporta le ratifiche, riconoscendo infine la loro ignoranza.

Si sarebbero incagliati definitivamente, da soli - persino a motivo della volontà di non esporsi (vv.25-27a). Perplessità tattica, che rivela incredulità - tiepidezza - mancanza totale di Fede.

Insomma, il ‘silenzio’ di quanti gradiscono una Chiesa più attenta e meno esteriore è spesso l’eco giusto di Dio, più eloquente di tante brillanti disquisizioni (v.27b).

Così Gesù evita l’ambiguità della restrizione mentale o della semantica evasiva: in Lui la non-risposta ai dirigenti si trasforma in domanda.

 

Il Signore resta silente, ma senza sviare il quesito.

 

 

[Lunedì 3.a sett. Avvento, 16 dicembre 2024]

L’autorevolezza di Gesù e nostra

(Mt 21,23-27)

 

«Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?» (Mt 21,23).

Nell’ambiente tradizionale giudaizzante delle prime comunità rimbalzavano domande circa l’autorevolezza di Cristo nel porre sotto assedio il sistema religioso ordinario, e il suo distinguersi perfino da profeti riconosciuti come il Battista.

Unica risposta: la potenza di Dio che si esprimeva nel segno dei tempi - fermentando le coscienze.

La missione di Gesù non è stata regolare: sconcertava l’atmosfera, quindi la sua Parola viva e tagliente andava circoscritta a ogni costo.

Un comportamento così audace sarebbe sembrato irriverente nei confronti delle autorità, perfino se adottato dal Messia atteso in persona. E un senza-terra non poteva che essere un suo falso pretendente...

I leaders religiosi che il Signore fronteggiava - radicati in schemi di pensiero e strategie consolidate, pure di moneta - si accontentavano sempre di adattare il Cielo entro canovacci chiusi.

Anche i fedeli delle comunità di Mt sembravano sotto la tutela d’interessi, strade, parole e gesti imposti dal clima dispotico.

Negli anni 70-80 i giudei convertiti al Signore erano perseguitati, perché resistevano ai costumi e alle pressioni delle guide religiose costituite e al sistema di potere.

Alcuni avevano già sconsideratamente tentato la strada diplomatica, provando a conciliare Fede e Impero.

Come diceva Paolo, ormai tristemente consapevole della sconfitta della sua teologia: «Quelli che vogliono fare bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere, solo per non essere perseguitati a causa della croce di Cristo».

Mt tenta di aiutare le sue comunità di Galilea e Siria: dovevano continuare impavide, e non lasciarsi sedurre da pratiche religiose ufficiali, né inquinare dall’ideologia corriva, dei vari Cesari.

L’evangelista sembra anche suggerire ai fedeli in Cristo di evitare diatribe puntigliose, con i rappresentanti di un mondo solo in apparenza stabile - viceversa destinato a implodere sulle proprie contraddizioni.

 

Scrive il Tao Tê Ching (v): «Parlar molto e scrutar razionalmente, val meno che mantenersi vuoto». E il maestro Wang Pi commenta: «Chi non parla e non fa ragionamenti sicuramente scruta la ragione delle cose».

 

Dopo la cacciata dei venditori e usurai-profanatori dal Tempio (Mt 21,12ss), la sorte di Gesù è segnata.

Non si tocca il vero dio delle antiche alture: il sacchetto dei “maestri” e il tesoro dei sacerdoti implicati.

I massimi responsabili degli affari in nero del recinto sacro apparivano credenti e leali, ma solo se scrutati dal di fuori.

Il loro occhio interiore e la loro attività ben celata sotto i mantelli e dietro le quinte si posava su tutt’altro che i beni spirituali.

Erano padroni di tutto, quindi nessuno doveva prendere iniziativa alcuna senza loro placet. Figuriamoci intaccare il commercio religioso.

Chi mai ha dato l’imprimatur a un figlio di falegname di contrapporsi a lauti guadagni, e intaccarne il prestigio?

Le convinzioni utili e i proventi ormai abitudinari erano “diritto acquisito”.

Purtroppo, la storia delle religioni è punteggiata di episodi di plagio e compromesso, anche nei tempi in cui la situazione economica e sociale diventava difficile o complessa (come oggi).

Laddove i ceti meno abbienti declinavano i rischi, più volentieri si appaltava la difficile gestione della libertà personale - lasciando campo aperto ai soci in affari con Dio, manipolatori di coscienza.

Ma qui - a furia di permessi da chiedere con deferenza, procedimenti analoghi (e “cordate” di contrabbando) - mancava infine quella freschezza piena di stupore, tipica dell'anima aperta all’avventura e alla passione d'amore.

 

Pertanto, secondo Gesù nessun uomo può dare “autorizzazione” a una qualsiasi persona di poter essere riflessiva e disciolta.

C’è un percorso imprevedibile anche per chi è abituato a sentirsi dirigere in ogni vicenda.

Il seme portato dal vento dello Spirito fa la sua pianta, che non necessariamente somiglia a quelle circostanti: non si vincola nella sua espressività particolare, e vola anche fuori confine.

Sebbene le autorità costituite non volessero assolutamente perdere il controllo delle cose e imponessero la solita vita pia standard - coi suoi tornaconti - secondo il Cristo, Dio solo poteva aver gestione di seme, radici e sviluppo.

Attraverso i suoi intimi, il nuovo Regno - slegato - si deve proporre al mondo intero, nello spirito di disinteresse… e come Sorpresa.

Attributi imprevisti e sgombri, che il Figlio svela nella sua vicenda di cura dei malfermi, e di contrapposizione agli astuti; nella sua Persona.

 

Palesiamo indipendenza e libertà, perché Gesù stesso l’ha dimostrate, sorvolando qualsiasi aspettativa e proposito.

Il Maestro non era un qualunquista con coloro che ordivano trame di mestiere e pretendevano pure il nullaosta.

Egli, senza ricercare concordismi lessicali, sottolineava che l’ortodossia non si doveva confondere con la ripetizione.

Le garanzie del passato ingombrano spesso le menti e intasano le vie che poi sfociano in esperienze di frontiera.

In tal guisa, prima o poi i capi sarebbero rimasti costernati da chi non sopporta le ratifiche, riconoscendo infine la loro ignoranza.

Si sarebbero incagliati definitivamente, da soli - soverchiati dai loro stessi imbrogli e dall’ansia di non perdere il potere sulla gente [sempre più insofferente ai “visti”].

Ciò, persino a motivo della volontà di non esporsi (vv.25-27a). 

Perplessità tattica, che rivela incredulità - tiepidezza - mancanza totale di Fede.

 

Come ha sottolineato Papa Francesco:

 

Gesù, con intelligenza, risponde con un’altra domanda e mette i capi dei sacerdoti “all’angolo”, chiedendo loro se Giovanni il Battista battezzava con un’autorità che gli veniva dal cielo, cioè da Dio o dagli uomini. Matteo descrive il loro ragionamento, riletto dal Pontefice «Se noi diciamo: “Dal cielo”, ci dirà: “Perché non avete creduto?”; se diciamo: “Dagli uomini”, la gente verrà contro di noi». E se ne lavano le mani e dicono: “Non sappiamo”. Questo, ha commentato il Santo Padre, «è l’atteggiamento dei mediocri, dei bugiardi della fede».

«Non solo Pilato se ne lavò le mani», ha spiegato il Papa, anche questi se ne lavano le mani: «Non sappiamo». Questo significa, ha proseguito Francesco, «non entrare nella storia degli uomini, non coinvolgersi nei problemi, non lottare per fare il bene, non lottare per guarire tanta gente che ha bisogno... “Meglio di no. Non sporchiamoci”».

Per questo, ha chiarito il Pontefice, Gesù risponde «con la stessa musica: “Neppure io vi dico con quale autorità faccio questo”». Infatti «questi sono due atteggiamenti dei cristiani tiepidi», ha ricordato Francesco, «di noi — come diceva mia nonna — “cristiani all’acqua di rosa”; cristiani così: senza consistenza».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/12/2019]

Nel commento al Tao (LXV) il maestro Ho-Shang Kung scrive: «L’uomo che possiede la misteriosa virtù è così profondo da non poter essere sondato, così imperscrutabile da non aver limite».

Il silenzio di coloro che in Cristo stanno tuttora educando i protagonisti dei luoghi sacri è spesso l’eco giusto di Dio, più eloquente di tante brillanti disquisizioni (v.27b).

Così Gesù evita l’ambiguità della restrizione mentale o della semantica evasiva: in Lui la non risposta ai dirigenti si trasforma in domanda.

 

Il Signore resta silente, ma senza sviare il quesito.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Dimostri autonomia ed emancipazione da coloro che ambiscono controllare la tua personalità, per farti poi diventare solo un operaietto (con licenza) del (loro) tempio?

Secondo te: malgrado le fastose apparenze di rango, le pressappochiste guide spirituali del popolo e i funzionari del Tempio, avevano a che fare con Colui che celebravano?

Talora, forse - anche noi - poco o nulla?

 

 

Traduzione della potenza in umiltà

 

La parola che Gesù rivolge agli uomini apre immediatamente l’accesso al volere del Padre e alla verità di se stessi. Non così, invece, accadeva agli scribi, che dovevano sforzarsi di interpretare le Sacre Scritture con innumerevoli riflessioni (…)

L’autorità divina non è una forza della natura. È il potere dell’amore di Dio che crea l’universo e, incarnandosi nel Figlio Unigenito, scendendo nella nostra umanità, risana il mondo corrotto dal peccato. Scrive Romano Guardini: «L’intera esistenza di Gesù è traduzione della potenza in umiltà… è la sovranità che qui si abbassa alla forma di servo» (Il Potere, Brescia 1999, 141.142).

Spesso per l’uomo l’autorità significa possesso, potere, dominio, successo. Per Dio, invece, l’autorità significa servizio, umiltà, amore; significa entrare nella logica di Gesù che si china a lavare i piedi dei discepoli (cfr Gv 13,5), che cerca il vero bene dell’uomo, che guarisce le ferite, che è capace di un amore così grande da dare la vita, perché è Amore. In una delle sue Lettere, santa Caterina da Siena scrive: «E’ necessario che noi vediamo e conosciamo, in verità, con la luce della fede, che Dio è l’Amore supremo ed eterno, e non può volere altro se non il nostro bene» (Ep. 13 in: Le Lettere, vol. 3, Bologna 1999, 206).

[Papa Benedetto, Angelus 29 gennaio 2012]

La parola che Gesù rivolge agli uomini apre immediatamente l’accesso al volere del Padre e alla verità di se stessi. Non così, invece, accadeva agli scribi, che dovevano sforzarsi di interpretare le Sacre Scritture con innumerevoli riflessioni (…)

L’autorità divina non è una forza della natura. È il potere dell’amore di Dio che crea l’universo e, incarnandosi nel Figlio Unigenito, scendendo nella nostra umanità, risana il mondo corrotto dal peccato. Scrive Romano Guardini: «L’intera esistenza di Gesù è traduzione della potenza in umiltà… è la sovranità che qui si abbassa alla forma di servo» (Il Potere, Brescia 1999, 141.142).

Spesso per l’uomo l’autorità significa possesso, potere, dominio, successo. Per Dio, invece, l’autorità significa servizio, umiltà, amore; significa entrare nella logica di Gesù che si china a lavare i piedi dei discepoli (cfr Gv 13,5), che cerca il vero bene dell’uomo, che guarisce le ferite, che è capace di un amore così grande da dare la vita, perché è Amore. In una delle sue Lettere, santa Caterina da Siena scrive: «E’ necessario che noi vediamo e conosciamo, in verità, con la luce della fede, che Dio è l’Amore supremo ed eterno, e non può volere altro se non il nostro bene» (Ep. 13 in: Le Lettere, vol. 3, Bologna 1999, 206).

[Papa Benedetto, Angelus 29 gennaio 2012]

Due atteggiamenti dei cristiani tiepidi — «mettere Dio all’angolo e lavarsene le mani» — sono pericolosi: perché «è come sfidare Dio». Se il Signore mettesse noi all’angolo «non entreremmo mai in Paradiso» e guai se poi «se ne lavasse le mani, con noi». Papa Francesco, nell’omelia della messa del mattino a Casa Santa Marta, ha riletto così lunedì 16 dicembre il Vangelo di Matteo proposto dalla liturgia: quello sul dialogo tra Gesù e i capi dei sacerdoti, che gli chiedono con quale autorità insegni nel tempio.

Gesù, ricorda il Pontefice, esortava la gente, la guariva, insegnava e faceva miracoli, e così innervosiva i capi dei sacerdoti, perché con la sua dolcezza e la dedizione al popolo attirava tutti verso di sé. Mentre loro, i funzionari, erano rispettati dalla gente, che però non li avvicinava «perché non aveva fiducia in loro». Quindi si accordano «per mettere Gesù all’angolo». E gli domandano, ha proseguito Francesco: «Con quale autorità tu fai queste cose?». Infatti «tu non sei un sacerdote, un dottore della legge, non hai studiato nelle nostre università. Non sei niente».

Gesù, con intelligenza, risponde con un’altra domanda e mette i capi dei sacerdoti “all’angolo”, chiedendo loro se Giovanni il Battista battezzava con un’autorità che gli veniva dal cielo, cioè da Dio o dagli uomini. Matteo descrive il loro ragionamento, riletto dal Pontefice «Se noi diciamo: “Dal cielo”, ci dirà: “Perché non avete creduto?”; se diciamo: “Dagli uomini”, la gente verrà contro di noi». E se ne lavano le mani e dicono: “Non sappiamo”. Questo, ha commentato il Santo Padre, «è l’atteggiamento dei mediocri, dei bugiardi della fede».

«Non solo Pilato se ne lavò le mani», ha spiegato il Papa, anche questi se ne lavano le mani: «Non sappiamo». Questo significa, ha proseguito Francesco, «non entrare nella storia degli uomini, non coinvolgersi nei problemi, non lottare per fare il bene, non lottare per guarire tanta gente che ha bisogno... “Meglio di no. Non sporchiamoci”».

Per questo, ha chiarito il Pontefice, Gesù risponde «con la stessa musica: “Neppure io vi dico con quale autorità faccio questo”». Infatti «questi sono due atteggiamenti dei cristiani tiepidi», ha ricordato Francesco, «di noi — come diceva mia nonna — “cristiani all’acqua di rosa”; cristiani così: senza consistenza». Da cui deriva, ha spiegato il Pontefice, quell’atteggiamento di «mettere nell’angolo Dio: “O mi fai questo o non andrò più in una chiesa”».

L’altro atteggiamento di tiepidezza, ha continuato il Papa, è lavarsene le mani, come «i discepoli di Emmaus quella mattina della Risurrezione»: vedono le donne «tutte gioiose perché avevano visto il Signore», ma non si fidano, perché le donne «sono troppo fantasiose»; e perciò se ne lavano le mani e così entrano nella confraternita «di San Pilato».

«Tanti cristiani — ha denunciato allora Papa Francesco — se ne lavano le mani davanti alle sfide della cultura, alle sfide della storia, alle sfide delle persone del nostro tempo; anche davanti alle sfide più piccole». Quante volte, ha ricordato, «sentiamo il cristiano tirchio davanti a una persona che chiede elemosina e non la dà: “No, no io non do perché poi questi si ubriacano”. Se ne lava le mani». E a chi replica, ha proseguito il Pontefice «“Ma non ha da mangiare... – “Fatti suoi: io non voglio che si ubriachi”. Lo sentiamo tante volte, tante volte».

«Mettere Dio all’angolo e lavarsene le mani — è stato dunque l’ammonimento del Pontefice — sono due atteggiamenti pericolosi, perché è come sfidare Dio. Pensiamo cosa accadrebbe se il Signore ci mettesse all’angolo. Mai entreremmo nel Paradiso. E cosa accadrebbe se il Signore se ne lavasse le mani con noi? Poveracci». Sono, conclude Papa Francesco, «due atteggiamenti ipocriti di educati».

«No, questo no. Non mi immischio», così il Papa ha dato voce agli educati ipocriti, «metto all’angolo la gente, perché è gente sporca», mentre «io davanti a questo me ne lavo le mani perché sono fatti loro». Da qui l’invito finale di Francesco a vedere «se in noi c’è qualcosa del genere»; e se c’è a cacciare via «questi atteggiamenti per fare strada al Signore che viene».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/12/2019]

Ecco un contributo per entrare nella parola di Dio di domenica prossima. Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

[15 Dicembre 2024] 3a Domenica di Avvento 2024

 

*Prima Lettura Sof 3, 14-18

Fin dall’VIII secolo a.C. (con Osea), i profeti compresero e annunciavano che Dio è amore sviluppando il tema dell’Alleanza come nozze tra il Signore e il popolo che si è scelto. Quando tornano a parlare dell’infedeltà d’Israele è per denunciare il rischio costante del ritorno all’idolatria e richiamano sempre la promessa del Messia, che suona come annuncio di speranza. Nel libro del profeta Zaccaria leggiamo: “Non temere, poiché io sono in mezzo a te dice il Signore” (2,15), e in Osea: “Non temere…Io sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te.” (11,9). E alcuni secoli dopo l’angelo Gabriele dirà a Maria: “Rallegrati, Maria… Il Signore è con te” e la Vergine darà alla luce Gesù, l’Emmanuele, il Dio con noi.  Oggi la prima lettura ci fa incontrare Sofonia che circa un secolo dopo Osea utilizza i due linguaggi abituali dei profeti: le minacce contro chi compie il male e l’incoraggiamento per quanti s’impegnano a restare fedeli all’Alleanza: “Il Signore gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia” (Sof 3,17-18). Basta questa frase, che conclude l’odierna prima lettura, per comprendere che già nell’Antico Testamento i profeti avevano annunciato che Dio è amore. Non è pertanto esatto affermare che solo nel Nuovo Testamento si parla di Dio che è amore. Le parole di Sofonia non sono nuove anche se ci sono voluti alcuni secoli di rivelazione biblica, cioè di pedagogia divina, per arrivare a tale comprensione. All’inizio dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, l’immagine delle nozze per indicare l’Alleanza sarebbe stata ambigua e per questo In un primo tempo, fu essenziale scoprire il Dio completamente Altro rispetto gli dei delle nazioni limitrofe e al tempo stesso affermare la necessità di instaurare un’Alleanza con Lui. Fu Osea (VIII secolo a.C.) il primo a parlare dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo come un vero e proprio legame d’amore, simile a quello del fidanzamento, seguito dai profeti successivi: il Primo Isaia, Geremia, Ezechiele,  Zaccaria, il Secondo e il Terzo Isaia, i quali ricorrono al linguaggio tipico del fidanzamento e delle nozze con nomi affettuosi, citando abiti nuziali, corone da sposa, fedeltà. Il cosiddetto Terzo Isaia (VI secolo a.C.) giunse a impiegare il termine “desiderio” (nel senso di desiderio amoroso) per descrivere i sentimenti di Dio verso il suo popolo. Pensiamo poi al Cantico dei Cantici (tra VI e III secolo a.C. anche se qualche parte è anteriore), lungo dialogo d’amore composto da sette poemi, dove non si identificano mai chiaramente chi sono i due innamorati.  Israele però l’interpreta come il dialogo tra Dio e il suo popolo e lo proclama durante la celebrazione della Pasqua, festa dell’Alleanza tra Dio e Israele. Se il popolo d’Israele è paragonato a una sposa, ogni infedeltà all’Alleanza diventa non solo una violazione di un contratto, ma un vero e proprio adulterio ed ecco perché i profeti  ricorrono a termini come gelosia, ingratitudine, tradimento e riconciliazione: ogni infedeltà è un ritorno all’idolatria. In questo contesto va situato Sofonia (VII secolo a.C.) vissuto a Gerusalemme durante il regno di Giosia (nel 640 a.C.) e il suo libro è composto solo di cinque pagine, ma denso e ricco di messaggi celebri. Egli esorta il re e il popolo alla conversione (cf. 2,3), urgente sotto i regni di Manasse e Amon segnati da idolatria, violenza, frodi, menzogne, ingiustizie sociali, arroganza dei potenti e oppressione dei poveri. Sofonia denuncia chi si prostra davanti al Signore e poi giura per il proprio dio, l’idolo  Milkom identificato spesso con Moloch (cf.1,5)  e condanna il sincretismo religioso; condanna  pure coloro che riempiono la casa del Signore con frutti di violenza e d’inganno (cf.1,9). Ben chiari i due linguaggi profetici: Minacce contro i malvagi, come nel celebre canto del “Dies Irae” tratto dai suoi testi e incoraggiamento per i fedeli umili, come nel brano che leggiamo oggi. Sofonia si rivolge a Gerusalemme “figlia di Sion” con parole di gioia e speranza: “Rallegrati, figlia di Sion… Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un Salvatore potente”. Malgrado l’infedeltà d’Israele l’amore di Dio persevera verso il suo popolo.  Sofonia lo invita alla conversione annunciando una nuova Gerusalemme, terra di umili e fedeli, dove Dio porrà la sua residenza per sempre e anticipa così il messaggio che verrà ripreso da altri (come Gioele e Zaccaria). Messaggio che si realizzerà pienamente nel Nuovo Testamento, quando l’angelo dirà a Maria: “Rallegrati, piena di grazia… Il Signore è con te” (Lc 1,28) e nel vangelo di Giovanni: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”  (Gv 1,14). L’invito alla gioia risuona in tutta la liturgia di questa domenica che si chiama “domenica Gaudete” (gioite) perché Dio si fa uomo e nasce a Betlemme: ci rende scosì possibile condividere la sua stessa vita, che il peccato dei progenitori aveva precluso e perduto.

 

*Salmo responsoriale Isaia 12, 2-6

“Mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza”. Ecco il canto che Isaia prevede per il giorno in cui il popolo sarà salvato, ma che possiamo già cantare oggi nel cuore delle difficoltà perché proprio nella debolezza possiamo sperimentare la vera fonte della nostra forza. San Paolo scriverà che la potenza del Signore appare in pienezza nella nostra debolezza (cf.2 Cor 12, 9). Questo cantico, pur non facendo parte del Salterio, può benissimo considerarsi un vero salmo  perché è intriso di fiducia e di ringraziamento, in un periodo decisamente cupo per Israele che si trovava  tra le minacce dell’impero assiro come pure  dei due re vicini.  In quel tempo Isaia cantava parole di speranza annunciando la non remota fine dell’Assiria e la liberazione di Giuda con uno stile che rassomiglia molto al canto di ringraziamento di Mosè dopo la liberazione dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso (Es 15). Come allora Mosè, anche Isaia canta la sua fede in un Dio liberatore, che mai abbandona il suo popolo ed è anzi costantemente presente in mezzo a esso. Come Mosè, Isaia comprese che l’elezione di Israele non costituiva un’esclusiva; era piuttosto una vocazione e per realizzarla il popolo salvato aveva un’unica missione: testimoniare in mezzo agli uomini che Dio è davvero l’unico liberatore. Questo salmo di fiducia e di ringraziamento a Dio, il salvatore, Isaia lo proclama mentre il contesto politico è oscuro e la paura domina in tutta la regione. Siamo nell’VIII secolo a.C., tra il 740 e il 730 circa, quando l’impero assiro (capitale Ninive) costituiva una potenza emergente con un’espansione apparentemente inarrestabile. Gli Assiri erano il nemico e Ninive, come leggiamo nel libro di Giona, una città empia dove si compivano malvagità d’ogni natura. Dopo la morte di Salomone (930 a.C.) il popolo di Dio si divise in due regni minuscoli, che invece di allearsi come fratelli scelsero politiche diverse e talvolta persino opposte. Il regno del Nord (capitale Samaria) cercò di resistere alla pressione assira e si alleò con il re di Damasco per assediare Gerusalemme per costringere il re Achaz a unirsi alla loro coalizione. Achaz si trovò quindi tra due fuochi: da un lato, i due re vicini meno potenti ma molto prossimi già alle porte di Gerusalemme; dall’altro, Ninive, che forse finirà per schiacciare tutti. Achaz preferì arrendersi prima di combattere diventando vassallo dell’Assiria: compra la sua sicurezza a prezzo della libertà. Questa scelta era umanamente preferibile, ma il popolo di Dio ha il diritto di ragionare secondo logiche umane? I calcoli provenivano dalla paura, ma un credente può permettersi di avere paura? Dov’è finita la fede? Isaia scrive: “Il cuore di Achaz e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano gli alberi della foresta per il vento” (Is 7,2) e il re Achaz, in preda a dubbi e paure, compie un gesto terribile: sacrifica suo figlio a una divinità pagana, pronto ormai a tutto pur di non perdere la guerra.  Fu uomo di poca fede ed è in questo contesto storico che Isaia incoraggia il piccolo resto fedele a sperare perché: “Tu dirai quel giorno: Ti lodo, Signore, perché pur essendoti adirato contro di me, la tua colera si è calmata e tu mi hai consolato” (12,1). Continua a esortare alla calma e a non aver paura (cf 7,4)  perché se non crederete, non resisterete(cf 7,9) mentre al contrario, rivolgendosi a uomini di poca fede, avvia un lungo discorso di speranza, che occupa i capitoli dal 7 all’11, proprio quelli che precedono il nostro canto di oggi. I trionfi dell’Assiria furono, come previsto, passeggeri e presto si giunse al canto della libertà. Il profeta Isaia compose questo cantico, che oggi è il salmo responsoriale, proprio per celebrare in anticipo la liberazione operata da Dio, un autentico canto di sollievo dove più che la gioia di essere liberati, emerge una vera professione di fede. Riprendendo il paragone con il cantico di Mosè e degli Israeliti, Isaia, cinquecento anni dopo, rinnova la stessa professione di fede per sostenere i suoi contemporanei perché comprendano che come un giorno Dio liberò Israele dal Faraone, allo stesso modo ora lo libererà dall’impero assiro. Chiudo rimarcando che Israele non si riserva mai l’esclusiva della relazione di Alleanza con Dio: ogni volta che nei salmi ringrazia per l’elezione divina, fa emergere una nota di universalismo perché lungo i secoli ha sempre più compreso che la sua elezione non è un’esclusiva, ma una vocazione.  All’epoca di Isaia, questo era già chiaro e nell’odierno testo la nota di universalismo si percepisce nella formula: “Proclamate fra i popoli le sue opere, fate ricordare che il suo nome è sublime” (v.4). Un messaggio chiaro anche per noi: per rispondere alla nostra vocazione di uomini salvati dall’amore misericordioso di Dio abbiamo, come unica missione, il compito di testimoniare, con il canto e la vita, che Dio è veramente la nostra salvezza: “Mia forza e mio canto è il Signore”. 

 

 *Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (4,4-7)

Vale la pena ribadire che tutti i testi di questa domenica parlano di gioia e invitano alla gioia.

«Fratelli,  il Signore è vicino… , non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere suppliche  e ringraziamenti”. In questo testo, che è il paragrafo dell’ultimo capitolo della lettera alla comunità macedone di Filippi, san Paolo ci offre alcune indicazioni spirituali da ben considerare: 

1. E’ caratteristico della preghiera ebraica saldare sempre supplica e ringraziamento. Si unisce: Benedetto sei tu, Signore, che ci dai… e, ti preghiamo, concedici, questo perché chi prega Dio per il suo bene è certo di essere esaudito e il fatto di domandare qualcosa è già implicitamente ringraziarlo. In effetti, ogni umana richiesta non rivela nulla di nuovo a Dio, ci prepara però ad accogliere il dono che ci fa. Con la preghiera apriamo la porta a Dio e ci immergiamo nel suo dono.

2. ”Il Signore è vicino”: Quest’espressione, parallela a quella di Sofonia nella prima lettura,  e analoga a quanto Giovanni Battista annuncia: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2) evoca un tema centrale in san Paolo e riveste almeno due significati: Dio è vicino perché ci ama e questa consapevolezza è cresciuta gradualmente nell’Antico Testamento. Inoltre Dio è vicino anche perché i tempi sono ormai compiuti, il Regno di Dio è niziato e noi viviamo negli ultimi tempi. Nella prima lettera ai Corinti l’apostolo scrive che “Il tempo si è fatto breve” ( 7,29-31)  richiamando l’immagine di un veliero che, giunto ormi vicino al porto, raccoglie le veli in preparazione all’approdo. Chiaro è il messaggio: la storia sta per giungere al suo compimento e, come i passeggeri del naviglio si affollano ai bordi per scorgere la terra ormai vicina, così il cristiano deve orientare la sua vita verso il regno di Dio ormai vicino.

3. Se il Signore è vicino, non abbiamo motivo di preoccuparci perché la nostra dimora definitiva è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo (cf Fil 3,20).  Non aveva Gesù ripetuto: “Perché avete paura, uomini di poca fede?”. E non aveva raccomandato: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di cosa mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di cosa vi vestirete… Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Mt 6,25-34). Quando cerchiamo il Regno di Dio proclamiamo con la vita :“Venga Signore il tuo regno” e proiettiamo la nostra esistenza decisamente verso  Cristo.  Si tratta allora, ascoltando san Paolo, di rivedere le priorità della vita e controllare quali sono i valori fondamentali che la muovono: Il regno di Dio è il vero scopo primario della nostra esistenza? E se così è, l’unica testimonianza da offrire è vivere nella serenità dell’abbandono fiducioso: “La vostra amabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino”. Per quanto gravi i problemi ed enormi gli ostacoli, il male sarà sconfitto definitivamente ed allora:“Non angustiatevi per per nulla”.  Quando si vive così, l’amabilità/serenità di cui parla san Paolo si trasforma in gioia: “Fratelli, siate sempre lieti nel Signore”.  

Oggi, terza domenica di Avvento, è dunque la domenica della gioia e, a sottolineare quest’invito incessante a essere gioiosi, sono anche gli ornamenti rosa che il celebrante indossa. L’esortazione alla gioia è fin dall’inizio della messa che si apre così: “Gaudete – Rallegratevi”, e si tratta più che di un consiglio, di un vero comando. E al riguardo, come dimenticare le parole di Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Gioia che non elimina le difficoltà, ma ci fa restare uniti a lui per condividere con lui anche le nostre difficoltà; gioia che non proviene da eventi esterni all’uomo, ma dalla presenza di Dio nel nostro cuore: è la gioia cristiana che non ha nulla da spartire con il piacere mondano e che conquista il mondo.

 

Vangelo secondo Luca 3,10-18

Quest’oggi nel vangelo domina la figura Giovanni Battista che, come i profeti dell’Antico Testamento, invitava alla pratica della giustizia, alla condivisione e alla non-violenza, temi cari a tutti i profeti. Ad ascoltarlo erano i piccoli, la folla, il popolo, i malvisti (come i pubblicani e i soldati che probabilmente li accompagnavano) e a loro annunciava con linguaggio diretto e severo la conversione per accogliere la venuta del Messia. Anzi la gente, supponendo che fosse lui il Messia che attendevano da lungo tempo, gli domandavano in cosa consistesse la conversione che egli predicava. Assai semplice la risposta: la vera conversione si misura dal nostro atteggiamento verso il prossimo: praticare la giustizia, condividere i nostri beni con gli altri e praticare la non-violenza.  Incoraggiati dal suo esempio molti siavvicinavano a lui per ricevere il battesimo, convinti che fosse il Messia. Chiara tuttavia la sua risposta: non sono io il Messia. Vi annuncio comunque che sta per venire colui che è più forte di me e, aggiunge l’evangelista Luca, con queste e molte altre esortazioni, annunciava al popolo il vangelo. Ci sono dunque due poli in questo testo di Luca: il primo è l’attesa e la speranza umana che si esprime nella domanda della gente per tre volte: “Che dobbiamo fare?” e le tre volte richiamano, secondo alcuni esegeti, il rituale del battesimo delle primitive comunità. Il secondo polo è l’annuncio di Cristo al popolo in attesa – non sono io ma lui è già fra voi – come ripete Giovanni. I primi capitoli del vangelo di Luca sono impregnati dell’attesa: gli anziani Simeone e Anna nel Tempio e qui coloro che ascoltano il Battista e quando Luca parla di vangelo, si riferisce proprio a questo: l’annuncio del Messia che il Battista presenta in due modi: Colui che battezza nello Spirito Santo e Colui che esercita il Giudizio di Dio.  

1. Colui che battezza nello Spirito Santo. Il profeta Gioele aveva previsto che, alla venuta del Messia, Dio avrebbe effuso il suo Spirito su ogni essere umano (cf Giol. cap.3/ cap. 2 nelle traduzioni ebraiche). Il battesimo non lo ha dunque inventato Gesù perché Giovanni lo faceva già e per questo lo chiamavano il Battista. Anche se a Qumran si praticavano cerimonie di immersione, al tempo di Gesù il battesimo era poco diffuso e assai recente. Nell’Antico Testamento i termini battesimo e battezzare sono rarissimi; infatti, il rito di ingresso nella comunità era la circoncisione, non il battesimo e mai nella Torah si parla di battesimo. La religione ebraica prevedeva dei riti di acqua, delle abluzioni senza mai prevedere l’immersione totale nell’acqua e tutte avevano lo scopo di purificare in senso biblico: non togliere il peccato ma permettere all’uomo di separarsi da tutto ciò che è impuro perché fa parte del mondo profano, per poter entrare in contatto con il sacro cioè con Dio.

Con Giovanni Battista avviene un passaggio importante e del tutto rivoluzionario: il battesimo assume il nuovo significato di conversione e di remissione dei peccati. E’ poi lui stesso ad annunciare che con l’arrivo di Cristo il battesimo sarà ancor più diverso: Io vi battezzo con l’acqua, ma lui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. La grande novità non è nel verbo battezzare perché Giovanni sta battezzando degli ebrei nel Giordano, ma nella frase che segue “in Spirito Santo e fuoco” che deve aver avuto un effetto straordinario ed è per tale ragione che la gente accorreva in massa da Giovanni per farsi battezzare. L’espressione Spirito Santo non esisteva quasi per nulla nell’Antico testamento e le rare volte che appare l’aggettivo santo indicava lo spirito di Dio santo e non lo Spirito Santo, persona distinta della Trinità. Nell’Antico Testamento l’urgenza era liberare il popolo dal rischio del politeismo e rivelare il Dio unico per cui poteva essere eccessivo rivelare subito il mistero di Dio unico in tre persone. Si parlava del soffio di Dio  che da forza vitale all’uomo  e lo spinge  ad agire secondo la volontà divina, ma non si era ancora rgiunti a conoscerlo come Spirito Santo persona. Le parole di Giovanni aprono la porta alla rivelazione quando annuncia un battesimo in Spirito Santo e non più un battesimo con l’acqua, segnando un cambiamento radicale. Il suo battesimo è simbolo di conversione e remissione dei peccati e annuncia un battesimo diverso: Io vi battezzo con acqua… il Messia che è già tra voi vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco dove la preposizione greca “kai” (in italiano e) non indica un’aggiunta, ma un’equivalenza per cui il Battista afferma che il Messia battezzerà nello Spirito Santo che è fuoco, cioè nel fuoco dello Spirito Santo. Luca evidenzia sempre la differenza tra il battesimo di Giovanni e quello di Gesù: Giovanni battezzava con acqua come segno di conversione, mentre il battesimo cristiano è un’immersione nello Spirito Santo, fuoco dell’amore di Dio, battesimo che innesta i credenti nel mistero pasquale di Cristo, sconfiggendo il peccato e la morte. 

2. Giovanni presenta il Messia come Colui che esercita il Giudizio di Dio. Nell’Antico Testamento, il Messia veniva atteso  come il re che avrebbe eliminato il male e fatto regnare la giustizia. Nei canti del Servo di Dio (nel Secondo Isaia) emerge il giudizio che il Messia avrebbe esercitato con autorità e con il fuoco. Qui Giovanni riprende il segno del fuoco come simbolo di purificazione: “Egli tiene in mano la pala per pulire la sua aiae raccogliere il frumento nel suo granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”. Si tratta di un’immagine che i suoi ascoltatori conoscevano e che rappresentava una buona notizia perché questa separazione non sopprimeva nessuno; questo fuoco non distrugge ma purifica. Il fuoco del Giudizio purifica senza nulla distruggere: come l’oro viene purificato e reso splendente tramite il fuoco, così il fuoco dello Spirito Santo libera chi lo riceve da tutto ciò che non è conforme al Regno di giustizia e di pace instaurato dal Messia. 

Alcune riflessioni conclusive

*Giovanni invita alla condivisione senza mai giudicare gli altri. Ci capita spesso di aiutare qualcuno solo dopo esserci chiesti se lo merita, ma questo modo di agire si basa ancora sul merito, non sulla gratuità dell’amore. 

*Giovanni confessa di non essere degno nemmeno di sciogliere il laccio dei sandali di Cristo.  I rabbini raccomandavano di non imporre a uno schiavo d’origine ebraica un compito cosi umile e umiliante come sciogliere i sandali del maestro o lavare i piedi. 

*Accorrono da Giovanni tanti publicani cioè gli esattori delle tasse che lavoravano per l’Impero Romano i quali erano tassati dai Romani e spesso recuperavano più di quanto avevano dovuto versare come loro tassa. Per questo ogni funzionario era considerato e temuto come un pubblicano.  

*I soldati,dei quali qui si parla, probabilmente erano dei mercenari al servizio dei publicani e non soldati ebrei né romani. Gli ebrei non avevano il diritto di avere un esercito e i soldati romani, che ocupavano la Palestina, non si mischiavano nelle vicende della popolazione.

Buona Domenica!

+Giovanni D’Ercole 

‘Gaudete in Domino’ e cosa fare

(Sof 3,14-18; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18)

 

Ci chiediamo come entrare nell’esperienza della Gioia.

Il tono del libro di Sofonia è minaccioso fino alla visione riportata nella prima Lettura. La sua attività di denuncia cambia nota d’improvviso.

La trasformazione della vita ha una Soglia di pura Fede.

Tale segreto si rivela quando ci rendiamo conto che Dio ha revocato la condanna - e nessuna sventura punitiva dall’alto.

Finito il tarlo della religione che cerca sudditi da mettere in castigo, i nostri miglioramenti saranno frutto del paziente risultato che il Padre ottiene, rinnovando il suo Amore (Sof 3,17).

Nelle espressioni chiave, il senso della profezia sarà ripreso da Lc nell’Annunciazione a Maria.

 

Il Dono di Grazia incarnato non giunge come un fulmine, ma attraversa la nostra condizione d’insignificanza, persino di apprensione.

Il Signore si fa Presenza «in mezzo» (vv. 15.17). L’espressione ebraica palesa un Dio «nelle tue viscere», «nel tuo grembo».

L’Eterno non si mostra ‘in alto’ per sovrastare. Egli non si mette ‘davanti’, ma ‘dentro’ - equidistante da tutti.

Allo stesso modo, i suoi apostoli autentici.

La persona inserita in un ambiente così vitale evolve senza sforzo; anzi, la Gioia lo attraversa e inebria.

La piramide invece ci spegne.

 

Quando Paolo scrive ai Filippesi è in carcere a Efeso. Anziché imprecare contro la sventura compone una lettera punteggiata d’inviti alla gioia.

Perché non si sente un fallito?

Egli ha certezza che il Signore è la Fonte della sua essenza.

Medesima Unicità innata da cui sprizza la realtà del mondo e le vicende.

Il nostro Nucleo tocca Dio; Egli è nel «seno» di ciascuno.

Sappiamo dunque che da tutto possiamo trarre beneficio per una crescita - anche esponenziale, indipendente dalla fortuna.

E nella Chiamata per Nome c’è come una Visione, un’Immagine intima che dirige l’anima, e cerca di più, e vuole il suo posto.

Sogno che cambia la vita.

 

In tal guisa la stessa Vocazione c’introduce man mano nell’esperienza di recupero del carattere profondo, unico, davvero ‘nostro’ e divinizzante - dove possiamo sperimentare pienezza di essere.

 

Ma noi «Cosa dobbiamo fare?» (Lc 3, 10.12.14).

Giovanni presenta situazioni esemplari, attualissime.

Nessuna di esse riguarda l’esterno, il cambio di attività e mestiere, o la sequela di mode - né il rabberciamento della pratica devota e la purificazione del culto!

In questa Domenica, la Liturgia insegna che la guarigione del mondo sarà frutto di un semplice venirsi incontro; il resto sorgerà spontaneo.

La spinta vitale della stessa ‘natura’ farà il suo corso.

 

Il primo contesto di questioni poste al Battezzatore riassume gli altri frangenti.

Chi ha il coraggio della gratuità porge se stesso, e così fa superare tutto.

Crea benessere, entusiasmo e saggezza anche in coloro che soffrono penuria - o [in religione] paure di scrupolo.

Gaudete in Domino semper’: non vogliamo consegnarci a una devozione solo fiabesca o à la page, che perde terreno perché - se vuota o trendy - sarà bruciata come «paglia» (v.17).

Se Dio Viene… chiediamoci quale alimento e tunica seconda (v.10) siamo in grado di condividere.

 

La Letizia emergerà nel Dono che si fa Presente.

 

 

[3.a Domenica di Avvento (anno C) Gaudete, 15 dicembre 2024]

Perché non sentirsi falliti?

(Sof 3,14-18; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18)

 

I rabbini ritenevano che nel Giudizio si dovesse rendere conto di ogni occasione di felicità che Dio ha pur concesso e l'uomo trascurato. Ci chiediamo come entrare in questa esperienza.

 

Il tono del libro di Sofonia è minaccioso fino alla visione riportata nella prima Lettura. La sua attività di denuncia della corruzione anche di sacerdoti e profeti cambia nota d’improvviso.

La trasformazione di vita ha una Soglia di pura Fede, che distingue nettamente la cappa del timore dalla libertà del cammino.

Tale segreto si rivela quando ci rendiamo conto che Dio ha revocato la condanna - e nessuna sventura punitiva dall’alto.

Finito il tarlo della religione che cerca sudditi, i nostri miglioramenti saranno frutto del paziente risultato che il Padre ottiene, rinnovando il suo Amore (Sof 3,17).

Nelle espressioni chiave, il senso della profezia sarà ripreso da Lc nell’Annunciazione a Maria.

In quest’ultimo passo l’intento dell’evangelista è quello di svelare il Dono di Grazia incarnato.

Esso non giunge come un fulmine, ma attraversa la nostra condizione d’insignificanza e persino di apprensione.

 

Il Signore si fa Presenza «in mezzo» (vv. 15.17). L’espressione ebraica palesa un Dio «nelle tue viscere», «nel tuo grembo»; ma la sua pregnanza non è antitetica alla versione Cei.

L’Eterno non si mostra in alto per sovrastare; neppure chi lo porge (sul serio) lo fa: lui sopra, tu sempre sotto.

Egli non si mette davanti, ma dentro - e in mezzo: anche chi dice di rappresentarlo autenticamente... non lui davanti e tu sempre dietro.

L’Emmanuele si pone a fianco, non capeggia un gruppo dove qualcuno gli è più affine e vicino, altri destinati alle retrovie.

Chi ci porge il Padre non è un capo, bensì nostro amico. E non si bea della sua cerchia concorde, perché equidistante da tutti.

Allo stesso modo, i suoi apostoli.

La persona inserita in un ambiente così vitale evolve senza sforzo; anzi, la Gioia lo attraversa e inebria. La piramide invece ci spegne.

 

Quando Paolo scrive ai Filippesi è in carcere a Efeso. Anziché imprecare contro la sventura compone una lettera punteggiata d’inviti alla gioia.

Perché non si sente un fallito?

(Qual è il motivo della nostra felicità? Conto corrente con uno zero in più? Mancanza di affanni?).

Paolo ha certezza che il Signore è la Fonte della sua essenza. Medesima Unicità innata da cui sprizza la realtà del mondo e le vicende.

Il nostro Nucleo tocca Dio; Egli è nel «seno» di ciascuno.

Sappiamo dunque che da tutto possiamo trarre beneficio per una crescita - anche esponenziale, indipendente dalla fortuna.

E nella Chiamata per Nome c’è come un’Immagine intima che dirige l’anima, e cerca di più, e vuole il suo posto.

Sogno che cambia la vita.

Così la stessa Vocazione c’introduce man mano nell’esperienza di recupero del carattere profondo, unico, dove possiamo sperimentare pienezza di essere.

 

Ma noi «Cosa dobbiamo fare?» (Lc 3, 10.12.14).

Giovanni presenta situazioni esemplari, attualissime. Nessuna riguarda il cambio di attività e mestiere, o il rabberciamento della pratica devota e la purificazione del culto!

La guarigione del mondo è frutto del semplice venirsi incontro.

Il primo contesto di questioni poste al Battezzatore riassume gli altri frangenti.

Chi ha il coraggio della gratuità porge e fa superare tutto.

Crea benessere, entusiasmo e saggezza anche in coloro che soffrono penuria - o (in religione) paure di scrupolo, e per alcuni tornaconto.

Ricordo che dopo un breve colloquio, amici di fede evangelicale appena conosciuti (Assemblea dei Fratelli) mi donarono le chiavi di una loro casa al mare. Per realizzare quel sogno che avevo coltivato sin da ragazzino, avrei dovuto buttare la vita in una cosa che c’era già; bastava condividerla.

Gli stessi fratelli di fede provvidero un’auto al parroco della loro nota cittadina costiera, in un momento di difficoltà.

Nella reciprocità, insieme, si sorvola l’alibi dell’amico-nostro e merito-mio, e dell’immaginare una vita anche radunata e colorata ma comparabile e non incisiva.

La Letizia emerge nel Dono che si fa presente.

Aiutiamoci a sperimentarlo e conoscerlo, senza distinguere o discutere, parcellizzando il bene - come nello stile severo dell’intimismo a vanvera, privo di spina dorsale.

 

In questa Domenica Gaudete in Domino semper non vogliamo consegnarci a una devozione solo fiabesca o à la page, che perde terreno perché vuota - e sarà bruciata come «paglia» (v.17).

Se Dio viene… chiediamoci quale alimento e tunica seconda (v.10) siamo in grado di condividere.

 

 

 

Non chiede gesti eccezionali

Il Vangelo di questa Domenica di Avvento presenta nuovamente la figura di Giovanni Battista, e lo ritrae mentre parla alla gente che si reca da lui al fiume Giordano per farsi battezzare. Poiché Giovanni, con parole sferzanti, esorta tutti a prepararsi alla venuta del Messia, alcuni gli domandano: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10.12.14). Questi dialoghi sono molto interessanti e si rivelano di grande attualità.

La prima risposta è rivolta alla folla in generale. Il Battista dice: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (v. 11). Qui possiamo vedere un criterio di giustizia, animato dalla carità. La giustizia chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario; la carità spinge ad essere attento all’altro e ad andare incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i propri interessi. Giustizia e carità non si oppongono, ma sono entrambe necessarie e si completano a vicenda. «L’amore sarà sempre necessario, anche nella società più giusta», perché «sempre ci saranno situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo« (Enc. Deus caritas est, 28).

E poi vediamo la seconda risposta, che è diretta ad alcuni «pubblicani», cioè esattori delle tasse per conto dei Romani. Già per questo i pubblicani erano disprezzati, e anche perché spesso approfittavano della loro posizione per rubare. Ad essi il Battista non dice di cambiare mestiere, ma di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato (cfr v. 13). Il profeta, a nome di Dio, non chiede gesti eccezionali, ma anzitutto il compimento onesto del proprio dovere. Il primo passo verso la vita eterna è sempre l’osservanza dei comandamenti; in questo caso il settimo: «Non rubare» (cfr Es 20,15).

La terza risposta riguarda i soldati, un’altra categoria dotata di un certo potere, e quindi tentata di abusarne. Ai soldati Giovanni dice: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (v. 14). Anche qui, la conversione comincia dall’onestà e dal rispetto degli altri: un’indicazione che vale per tutti, specialmente per chi ha maggiori responsabilità.

Considerando nell’insieme questi dialoghi, colpisce la grande concretezza delle parole di Giovanni: dal momento che Dio ci giudicherà secondo le nostre opere, è lì, nei comportamenti, che bisogna dimostrare di seguire la sua volontà. E proprio per questo le indicazioni del Battista sono sempre attuali: anche nel nostro mondo così complesso, le cose andrebbero molto meglio se ciascuno osservasse queste regole di condotta. Preghiamo allora il Signore, per intercessione di Maria Santissima, affinché ci aiuti a prepararci al Natale portando buoni frutti di conversione (cfr Lc 3,8).

(Papa Benedetto, Angelus 16 dicembre 2012)

 

Coscienza, Regola d’oro

Non è qui il luogo di citare le conferme che percorrono l’intera storia dell’umanità. Certo è che fin dai tempi più antichi il dettame della coscienza indirizza ogni soggetto umano verso una norma morale oggettiva, che trova espressione concreta nel rispetto della persona dell’altro e nel principio di non fare a lui quello che non si vuole sia fatto a sé [41].

[41] «La legge morale – ha lasciato detto Confucio – non è lontana da noi... L’uomo saggio non sbaglia molto in quanto riguarda la legge morale. Egli ha per principio: non fate agli altri quello che non vorreste che gli altri facessero a voi» (Tchung-Yung – Il giusto Mezzo, 13). Un antico maestro giapponese (Dengyo Daishi, detto anche Saicho, vissuto tra il 767-822 d.C.) esorta a essere «dimentichi di se stessi, benefici verso gli altri, perché qui sta il vertice dell’amicizia e della compassione» (cfr. W. Th. De Bary, Sources of Japanese Tradition, New York 1958, vol. I, 127). E come non ricordare il Mahatma Gandhi, il quale ha inculcato la «forza della verità» (satyagraha) che vince senza violenza, col dinamismo proprio che è intrinseco all’azione giusta?

(Papa Giovanni Paolo II, Dilecti Amici n.7; nota 41)

Il Vangelo di questa Domenica di Avvento presenta nuovamente la figura di Giovanni Battista, e lo ritrae mentre parla alla gente che si reca da lui al fiume Giordano per farsi battezzare. Poiché Giovanni, con parole sferzanti, esorta tutti a prepararsi alla venuta del Messia, alcuni gli domandano: «Che cosa dobbiamo fare?» (Lc 3,10.12.14). Questi dialoghi sono molto interessanti e si rivelano di grande attualità.

La prima risposta è rivolta alla folla in generale. Il Battista dice: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (v. 11). Qui possiamo vedere un criterio di giustizia, animato dalla carità. La giustizia chiede di superare lo squilibrio tra chi ha il superfluo e chi manca del necessario; la carità spinge ad essere attento all’altro e ad andare incontro al suo bisogno, invece di trovare giustificazioni per difendere i propri interessi. Giustizia e carità non si oppongono, ma sono entrambe necessarie e si completano a vicenda. «L’amore sarà sempre necessario, anche nella società più giusta», perché «sempre ci saranno situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo« (Enc. Deus caritas est, 28).

E poi vediamo la seconda risposta, che è diretta ad alcuni «pubblicani», cioè esattori delle tasse per conto dei Romani. Già per questo i pubblicani erano disprezzati, e anche perché spesso approfittavano della loro posizione per rubare. Ad essi il Battista non dice di cambiare mestiere, ma di non esigere nulla di più di quanto è stato fissato (cfr v. 13). Il profeta, a nome di Dio, non chiede gesti eccezionali, ma anzitutto il compimento onesto del proprio dovere. Il primo passo verso la vita eterna è sempre l’osservanza dei comandamenti; in questo caso il settimo: «Non rubare» (cfr Es 20,15).

La terza risposta riguarda i soldati, un’altra categoria dotata di un certo potere, e quindi tentata di abusarne. Ai soldati Giovanni dice: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (v. 14). Anche qui, la conversione comincia dall’onestà e dal rispetto degli altri: un’indicazione che vale per tutti, specialmente per chi ha maggiori responsabilità.

Considerando nell’insieme questi dialoghi, colpisce la grande concretezza delle parole di Giovanni: dal momento che Dio ci giudicherà secondo le nostre opere, è lì, nei comportamenti, che bisogna dimostrare di seguire la sua volontà. E proprio per questo le indicazioni del Battista sono sempre attuali: anche nel nostro mondo così complesso, le cose andrebbero molto meglio se ciascuno osservasse queste regole di condotta. Preghiamo allora il Signore, per intercessione di Maria Santissima, affinché ci aiuti a prepararci al Natale portando buoni frutti di conversione (cfr Lc 3,8).

[Papa Benedetto, Angelus 16 dicembre 2012]

Non è qui il luogo di citare le conferme che percorrono l’intera storia dell’umanità. Certo è che fin dai tempi più antichi il dettame della coscienza indirizza ogni soggetto umano verso una norma morale oggettiva, che trova espressione concreta nel rispetto della persona dell’altro e nel principio di non fare a lui quello che non si vuole sia fatto a sé [41].

[41] «La legge morale – ha lasciato detto Confucio – non è lontana da noi... L’uomo saggio non sbaglia molto in quanto riguarda la legge morale. Egli ha per principio: non fate agli altri quello che non vorreste che gli altri facessero a voi» (Tchung-Yung – Il giusto Mezzo, 13). Un antico maestro giapponese (Dengyo Daishi, detto anche Saicho, vissuto tra il 767-822 d.C.) esorta a essere «dimentichi di se stessi, benefici verso gli altri, perché qui sta il vertice dell’amicizia e della compassione» (cfr. W. Th. De Bary, Sources of Japanese Tradition, New York 1958, vol. I, 127). E come non ricordare il Mahatma Gandhi, il quale ha inculcato la «forza della verità» (satyagraha) che vince senza violenza, col dinamismo proprio che è intrinseco all’azione giusta?

[Papa Giovanni Paolo II, Dilecti Amici n.7]

Pagina 6 di 37
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.