Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Esaltazione della Santa Croce [Domenica 14 settembre 2025]
Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga! Contemplando il Mistero della Croce scopriamo la dolcezza di un amore che nasce laddove sembra spegnersi la vita. Mentre muore crocifisso, Gesù rivela per sempre la vittoria definitiva dell’Amore e della Misericordia.
*Prima Lettura dal libro dei Numeri (21, 4 – 9)
Il Libro dell’Esodo e quello dei Numeri raccontano episodi simili: quando il popolo, liberato dalla schiavitù dell’Egitto cammina verso la Terra Promessa, deve affrontare la quotidianità nel deserto, un luogo totalmente inospitale. Schiavi in Egitto erano sedentari, non certo abituati a lunghe marce a piedi, ma avevano un padrone che li nutriva per cui non morivano di fame come nel deserto deve invece presero a rimpiangere le famose cipolle d’Egitto. Vennero tentati da crisi di scoraggiamento per la fame, la sete e la paura per tutti gli inconvenienti del deserto, e sfiduciati si misero a mormorare contro Dio e contro Mosè perché li avevano condotti a morire nel deserto. Il Signore mandò allora contro il popolo serpenti velenosi e molti Israeliti morirono. A questo punto il popolo si pente, riconosce di aver peccato e prega il Signore di allontanare i serpenti. Dio ordina a Mosè di fabbricare un serpente (la tradizione dice di bronzo) perché, fissatolo sopra un’asta, potesse guarire chiunque lo guardava. Interessante considerare come Mosè reagisce: non discute se i serpenti vengano o no da Dio, ma il suo scopo è di condurre questo popolo diffidente a un atteggiamento di fiducia, qualunque siano le difficoltà perché non tanto i serpenti, bensì la mancanza di fiducia in Dio stava rallentando il loro cammino verso la libertà. Per educarli alla fede, utilizza una pratica già conosciuta: l’adorazione di un dio guaritore raffigurato da un serpente di bronzo su un’asta (probabile antenato del caduceo, simbolo oggi della medicina). Bastava guardare il feticcio per essere guariti. Mosè non distrugge la tradizione, ma la trasforma: Fate come sempre, ma sappiate che non è il serpente a guarirvi bensì il Signore e non confondetevi perché un solo Dio vi ha liberati dall’Egitto e guardando il serpente, in realtà adorate il Dio dell’Alleanza. Secoli dopo, il Libro della Sapienza commenterà così: “Chi si volgeva a guardarlo veniva salvato, non per l’oggetto guardato, ma da te, Salvatore di tutti» (Sp 16,7). La lotta contro idolatria, magia e divinazione percorre tutta la storia biblica e forse continua ancora. Quel serpente di bronzo, segno per condurre alla fede, tornò ad essere considerato oggetto magico e per questo il re Ezechia lo distrusse definitivamente come leggiamo nel libro dei Re (2 Re 18,4).
*Salmo responsoriale (77/78, 3-4, 34 – 39)
Nel salmo responsoriale, tratto dal salmo 77/78, abbiamo un riassunto della storia d’Israele che si snoda nella relazione fra Dio sempre fedele e quel popolo incostante perché smemorato, ma pur sempre consapevole dell’importanza del ricordo per cui ripete: “Abbiamo udito ciò che i nostri padri ci hanno raccontato, lo ripeteremo alla generazione che verrà”. La fede si trasmette quando, chi ha vissuto un’esperienza di salvezza, può dire “Dio mi ha salvato” e a sua volta condivide con altri la sua esperienza. Sarà poi la sua comunità a far memoria e a conservare tale testimonianza perché la fede è un’esperienza di salvezza condivisa nel tempo. Il popolo ebraico sa da sempre che la fede non è un bagaglio intellettuale, ma l’esperienza comune del dono e del perdono sempre rinnovato di Dio. Questo salmo esprime tutto ciò: ricorda in settantadue versetti l’esperienza di salvezza, che ha fondato la fede d’Israele, cioè la liberazione dall’Egitto e per questo il salmo presenta tante allusioni all’Esodo e al Sinai. Ascoltare nel senso biblico significa aderire con tutto il cuore alla Parola di Dio e, se una generazione trascura di proseguire a testimoniare la propria fedeltà a Dio, si spezza la catena della trasmissione della fede. Spesso nel corso dei secoli i padri hanno confessato ai propri figli di aver mormorato contro Dio nonostante le sue azioni di salvezza. Di questo parla il salmo e accusa il popolo di infedeltà, di incostanza: ”Lo lusingavano con la loro bocca ma gli mormoravano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza”(vv36-37). Ecco l’idolatria, verso bersaglio di tutti i profeti perché è causa della disgrazia dell’umanità. Ogni idolo ci fa retrocedere sul cammino della libertà e la definizione di un idolo e proprio ciò che ci impedisce di essere liberi. Marx diceva che la religione è l’oppio del popolo, rivelando in modo crudo quale potere, quale manipolazione una religione, qualunque essa sia, può esercitare sull’umanità. La superstizione, il feticismo, la stregoneria ci impediscono di essere liberi e di imparare ad assumere liberamente le nostre responsabilità, perché ci fanno vivere in un regime di paura. Ogni culto idolatrico. ci allontana dal Dio vivo e vero: solo la verità può fare di noi uomini liberi. Anche il culto eccessivo di una persona o di un’ideologia fa di noi degli schiavi: basta pensare a tutti gli integralismi e i fanatismi che ci deturpano e il denaro pure può benissimo diventare un idolo. In altri versetti che non fanno parte della liturgia di questa domenica, il salmo offre un’immagine molto eloquente, quella di un arco deformato: il cuore d’Israele dovrebbe essere come un arco teso verso il suo Dio, ma è storto. E proprio all’interno dell’ingratitudine che Israele ha fatto l’esperienza più bella: quella del perdono di Dio come dice il salmo chiaramente: “Il loro cuore non era costante verso di lui; non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa invece di distruggere”(v.38). Questa descrizione della tenera pietà di Dio dimostra che il salmo è stato scritto in un’epoca in cui la Rivelazione del Dio d’amore aveva già profondamente penetrato la fede di Israele.
NOTA La grande assemblea di Sichem organizzata da Giosuè aveva proprio questo scopo: ravvivare la memoria di questo popolo oggetto di tanta sollecitudine, ma così spesso incline a dimenticare (Gs 24: vedi la XX domenica del tempo ordinario B): dopo aver ricordato alle tribù radunate tutta l’opera di Dio a partire da Abramo, disse loro: «Scegliete oggi chi volete servire: o il Signore, o un idolo». E le tribù quel giorno fecero la scelta giusta, anche se poi l’avrebbero presto dimenticata. La trasmissione della fede è allora come una corsa a staffetta: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”, dice Paolo ai Corinzi (1 Cor 11,23) e la liturgia è il luogo privilegiato di questa testimonianza e di questo ravvivare la memoria nel senso di gratitudine che nasce dall’esperienza.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Filippesi (2, 6 – 1)
Questo passo paolino si legge ogni anno per la festa delle Palme e ora per la festa della Croce Gloriosa: il che significa che le due celebrazioni hanno un punto in comune, che è il legame stretto tra la sofferenza di Cristo e la sua gloria, tra l’abbassamento della croce e l’esaltazione della risurrezione. Paolo lo dice chiaramente: “Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce… Per questo Dio lo esaltò al di sopra di ogni nome”(vv8-9). L’espressione “per questo” indica un legame e un contrasto forte tra abbassamento ed esaltazione, ma non bisogna leggere queste frasi in termini di ricompensa, come se, essendosi Gesù comportato in modo ammirevole, ha ricevuto una ricompensa ammirevole. Questa potrebbe essere la “tendenza” o meglio “tentazione” ma Dio è amore e non conosce calcoli, scambi, il do ut des perché l’amore è gratuito. La meraviglia dell’amore di Dio è che non aspetta i nostri meriti per colmarci e nella Bibbia questo gli uomini l’hanno scoperto poco a poco perché la grazia, come il suo nome indica, è gratuita. Quindi, se, come dice Paolo, Gesù ha sofferto e poi è stato glorificato, non è perché con la sua sofferenza avesse accumulato abbastanza meriti da guadagnarsi il diritto ad essere ricompensato. E allora, per essere fedeli al testo, bisogna leggerlo in termini di gratuità. Per Paolo è evidente che il dono di Dio è gratuito e questo si percepisce in tutte le sue lettere, avendolo lui stesso sperimentato. Quando poi leggiamo: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v.6) è chiaro che Paolo allude ad Adamo ed Eva e qui probabilmente Paolo ci offre un commento al racconto del Paradiso terrestre: il tentatore aveva detto: “Sarete come Dio” e per diventarlo bastava disobbedire a Dio. Eva stese la mano verso il frutto proibito e lo ha preso (il greco labousa nella lettura teologica è “rivendicò l’essere come Dio” come se fosse un suo diritto). Paolo contrappone l’atteggiamento di Adamo/Eva (afferrare/vendicare) a quello di Cristo (accogliere gratuitamente, obbedire). Gesù Cristo è stato soltanto accoglienza (ciò che Paolo chiama «obbedienza»), e proprio perché è stato pura accoglienza del dono di Dio e non rivendicazione, ha potuto lasciarsi colmare dal Padre, completamente disponibile al suo dono. La scelta di Gesù è la “kénosis”, lo svuotamento totale di sé scandito con cinque verbi di umiliazione: svuotarsi, assumere una condizione di servo, diventare simile agli uomini, umiliarsi, farsi obbediente. La croce è il baratro dell’annientamento (vv.6-8), ma anche l’apice della seconda frase dell’inno (vv9-11). “Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v9). Gesù riceve il Nome che è al di sopra di ogni nome: il nome “Signore” è il nome di Dio! Dire che Gesù è Signore significa dire che è Dio: nell’Antico Testamento il titolo di Signore era riservato a Dio come pure la genuflessione. Quando Paolo dice: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”… allude a una frase del profeta Isaia: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua presterà giuramento” (Is 45,23). L’inno si conclude con “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre” (v.11): vedendo Cristo portare l’amore al suo culmine, accettando di morire per rivelare fino a dove arriva l’amore di Dio, possiamo dire come il centurione: «Davvero costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 13 – 17)
La prima sorpresa di questo testo è che Gesù parla della croce con un linguaggio positivo, potremmo dire «glorioso»: da una parte, usa il termine “innalzato” – “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo” (v.14) – e poi questa croce che ai nostri occhi è strumento di supplizio e di dolore, viene presentata come prova dell’amore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo” (v17). Come può lo strumento di tortura di un innocente essere glorioso? E qui sta la seconda sorpresa: il richiamo al serpente di bronzo. Gesù utilizza questa immagine perché era allora ben conosciuta. Nella prima Lettura si parla ampiamente di questo evento nel deserto del Sinai durante l’Esodo, al seguito di Mosè. Gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi e, non avendo la coscienza tranquilla perché avevano mormorato, sono convinti che ciò sia una punizione del Dio di Mosè. Supplicano Mosè di intercedere e Mosè riceve il comando di fissare un serpente ardente (cioè velenoso) sopra un’asta: chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita (Nm 21, 7-9). Se a prima vista, sembra pura magia, in realtà, è esattamente il contrario. Mosè trasforma quello che fino ad allora era un atto magico in un atto di fede. Gesù riprende questo episodio parlando di sé: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”(vv14-15). Se nel deserto, bastava guardare con fede verso il Dio dell’Alleanza per essere guariti fisicamente, ora occorre guardare con fede Cristo in croce per ottenere la guarigione interiore. Come spesso avviene nel vangelo di Giovanni, ritorna il tema della fede: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”(v.17). Quando Gesù mette in parallelo il serpente di bronzo innalzato nel deserto e la sua elevazione sulla croce, manifesta anche il salto straordinario che esiste tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù porta tutto a compimento, ma in lui tutto assume una dimensione nuova. Nel deserto era interessato solo il popolo dell’Alleanza; ora, in lui, è l’umanità intera a essere invitata a credere per avere la vita: ben due volte Gesù ripete che “chiunque crede in lui avrà la vita eterna”. Inoltre, non si tratta più solo di guarigione esteriore, ma della trasformazione profonda dell’uomo. Al momento della crocifissione, Giovanni scrive: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), citando il profeta Zaccaria che aveva scritto: “In quel giorno effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Questo “spirito di grazia e supplica” è l’opposto delle mormorazioni del deserto: l’uomo ora finalmente è convinto dell’amore di Dio per lui. Ci sono dunque due modi di guardare la croce di Cristo: come segno dell’odio e della crudeltà degli uomini, ma soprattutto come l’emblema della mitezza e del perdono di Cristo che accetta la croce per mostrarci fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’umanità. La croce è il luogo stesso della rivelazione dell’amore di Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre”(Gv14,9) aveva detto Gesù a Filippo. Cristo crocifisso mostra la tenerezza di Dio, malgrado l’odio degli uomini. Ecco perché possiamo dire che la croce è gloriosa: perché è il luogo in cui si manifesta l’amore perfetto, cioè Dio stesso, un Dio abbastanza grande da farsi piccolo per condividere la vita degli uomini malgrado incomprensioni e odio: non fugge davanti ai suoi carnefici e perdona dall’alto della Croce. Chi accetta di cadere in ginocchio davanti a tale grandezza viene trasformato per sempre: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12).
+ Giovanni D’Ercole
XXIII Domenica Tempo Ordinario (anno C) [7 settembre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questa domenica Gesù nel vangelo sviluppa il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Questo prova che la Parola di Dio è sapienza divina che, come cogliamo nella prima lettura e nel salmo responsoriale, illumina ogni umana scelta e decisione. Saggezza che è sempre segreto di vera felicità.
*Prima Lettura dal libro della Sapienza (9, 13-18)
La Sapienza, nel senso biblico, è in qualche modo l’arte di vivere. Israele, come tutti i popoli vicini, sviluppò un’ampia riflessione su questo tema a partire dal regno di Salomone e il suo contributo in questo campo è del tutto originale. Si riassume in due punti: anzitutto per la Bibbia solo Dio conosce i segreti della felicità e se l’uomo pretende di scoprirli da solo percorre false piste, come è chiara la lezione del giardino dell’Eden. In secondo luogo Dio solo rivela al suo popolo e a tutta l’umanità il segreto della felicità: ecco il messaggio di questo testo che è anzitutto una lezione di umiltà. Già Isaia aveva affermato che i pensieri e le vie di Dio sono diversi dai nostri (cf. Is 55,8) e il libro della Sapienza, scritto molto tempo dopo con uno stile ben diverso, ripete: “Quale uomo può scoprire il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?” (v.13). Non riusciamo ad avere la minima idea di ciò che Dio pensa e conosciamo solo quanto Egli ha comunicato attraverso i suoi profeti. Giobbe aveva chiesto dove cercare la sapienza perché non esiste sulla terra dei viventi e Dio solo sa dove si trova (cf. Gb 28,12-13.23); poco dopo Dio ricorda a Giobbe i suoi limiti (cc. 38–41) e, alla fine della dimostrazione, Giobbe si inchina e ammette di aver parlato senza capire le meraviglie che “sono al di sopra di me e che non conoscevo” (Gb 42,3). Nel libro della Sapienza la discussione sulle conoscenze umane si sviluppa tra i più intellettuali che esistevano ad Alessandria, quando erano assai sviluppate le discipline scientifiche e filosofiche ed era celebre la Biblioteca di Alessandria. A tali sapienti l’autore ricorda i limiti del sapere umano: “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni” (v.14). E ancora: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo? (v.16). L’autore non vuol dire che se riusciamo a scoprire la terra, potremo capire le cose celesti, ma afferma che non esiste soltanto una questione di livello di conoscenze, come se l’uomo potesse scoprire i misteri di Dio con il ragionamento e le ricerche, ma è questione di natura: noi siamo solo uomini, e tra Dio e noi vi è un abisso essendo Dio il Totalmente Altro e i suoi pensieri sono al di là della nostra portata. Sta qui la seconda lezione del testo: se riconosciamo la nostra impotenza Dio stesso ci rivela ciò che da soli non possiamo scoprire facendoci dono del suo Spirito (cf.1,9). Le altre letture di questa domenica indicano i comportamenti nuovi ispirati dallo Spirito che abita in noi. Ancora una osservazione: Al v. 14 “un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni” appare una concezione dell’uomo non abituale nella Bibbia, che solitamente insiste sull’unità dell’essere umano, mentre qui è descritto come un essere composto da uno spirito immateriale e un involucro materiale che lo contiene. Il libro della Sapienza, scritto in ambiente greco, utilizza questo vocabolario per non scandalizzare i suoi lettori greci, ma di certo non vuole descrivere un dualismo dell’essere umano: presenta piuttosto il combattimento interiore che si svolge in ciascuno di noi e che san Paolo descrive così: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). In definitiva, questo testo porta un contributo originale a una grande duplice scoperta biblica: Dio è insieme il Totalmente Altro e il Totalmente Vicino. Dio è il Totalmente Altro: “Qual uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?”(v. 13). Allo stesso tempo, Egli si fa il Totalmente Vicino dando all’uomo la sapienza e il suo santo spirito (v.17). E così gli uomini furono istruiti in ciò che è a Dio gradito e furono salvati per mezzo della sapienza (cf.v.18).
*Salmo responsoriale (89/90,3-4,5-6,12-13,14.17)
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, trova un’eco in questo salmo che offre una magnifica definizione della sapienza: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” (v.12). Questi versetti danno un’idea dell’atmosfera generale e suona del tutto insolita un’espressione: “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13). E’ come se si dicesse: ‘in questo momento siamo infelici, siamo puniti per le nostre colpe; perdonaci e togli la punizione”, quindi una formula tipica di una liturgia penitenziale nel contesto di una cerimonia penitenziale nel tempio di Gerusalemme. Perché Israele chiede perdono? I primi versetti suggeriscono la risposta: “Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: Ritornate, figli dell’uomo”( v.3). Il problema è che la nostra condizione di peccatori è legata ad Adamo e l’intero salmo medita sul racconto della colpa di Adamo nel libro della Genesi. All’inizio Dio e l’uomo si trovavano faccia a faccia: Dio, creatore e l’uomo sua creatura uscita dalla polvere. Il secondo versetto (qui assente) del salmo dice appunto: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”. Di fronte a Lui, noi siamo soltanto un pugno di polvere nelle sue mani. Eppure l’uomo ha osato sfidare Dio e non gli resta che meditare sulla sua vera condizione: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via” (v.10). E noi siamo veramente piccoli: “Mille anni ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4) come san Pietro commenterà: “Una cosa non sfugga mai a voi, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pt 3,8). Dopo la presa di coscienza viene la supplica: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio. Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi. Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (vv. 12-14). Vera sapienza è stare piccoli davanti a Dio e il salmo paragona la vita umana all’erba che “al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca” (v.6). Quante volte davanti a una morte improvvisa capita di dire che siamo proprio nulla! Non si tratta di umiliarsi, ma di essere realisti e restare sereni nelle mani di Dio. “Saziaci al mattino con il tuo amore: esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni” (v.14): questa è l’esperienza del credente, consapevole della propria piccolezza e fiducioso tra le mani di Dio al quale possiamo chiedere che “si manifesti ai tuoi servi la tua opera e il tuo splendore ai loro figli. Sia su di noi la bontà del Signore nostro Dio” (vv. 16-17a). Ancora più audace l’ultimo versetto del salmo che ripete due volte “Rendi salda per noi l’opera delle nostre mani” (v.17). Forse il salmista si riferiva alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese, in mezzo a ogni genere di opposizione. Più in generale, esprime però l’opera comune di Dio e dell’uomo nel compimento della creazione: l’uomo lavora nella creazione, ma è Do a dare all’opera umana stabilità ed efficacia.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo a Filemone ( 9b-10.12-17)
Nelle domeniche passate abbiamo letto brani della lettera di Paolo ai Colossesi; oggi invece Paolo, mentre si trova in prigione, scrive a Filemone, un cristiano di Colossi (in Turchia) ed è una lettera personale, piena di diplomazia, su un argomento molto delicato. Filemone aveva probabilmente diversi schiavi, anche se la storia non lo specifica, e uno si chiama Onesimo. Un bel giorno, Onesimo fuggì, cosa totalmente proibita e severamente punita dal diritto romano perché lo schiavo apparteneva al padrone come un oggetto e non era libero di disporre di sé. Durante la sua fuga Onesimo incontra Paolo, si converte e si mette al servizio dell’apostolo. Situazione complicata: se Paolo tratteneva Onesimo si rendeva complice dell’abbandono di posto e ciò non piaceva a Filemone. Se invece Paolo lo rimandava, lo schiavo avrebbe corso seri rischi dato che Paolo riconosce più avanti nella lettera che Onesimo era debitore verso il suo padrone. Decide comunque di rimandare Onesimo con una richiesta di perdono in cui dispiega tutte le sue risorse persuasive per convincere Filemone: “Io, Paolo, così come sono, vecchio e, ora anche prigioniero a causa di Cristo Gesù ti prego per Onesimo, figlio mio” (vv.9-10). Precisa che lo vorrebbe trattenere ma sa che la decisione finale spetta a Filemone (vv12-14) e allora non intende forzare la mano a Filemone, sa però bene cosa vuole ottenere e lo rivela gradualmente. Chiede anzitutto di perdonare Onesimo per la fuga e, più che il semplice perdono, Paolo suggerisce una vera conversione: Onesimo è battezzato e quindi è ora un fratello per Filemone cristiano, suo ex padrone: “Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre, non più però come schiavo, ma, molto più che schiavo, come fratello carissimo”(vv.15-16). Paolo si spinge oltre: “Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”(v.17).
*Dal Vangelo secondo Luca (14,25-33)
La fine illumina tutto il discorso: sottolineando la totalità (la rinuncia a tuti i suoi averi v.33) Luca ripropone la sua teologia della povertà come radicale sequela di Cristo. Cominciamo dalla frase che riguarda i legami familiari (v.26): Gesù non dice di considerarli come nulla perché sarebbe contrario a tutto il suo insegnamento sull’amore e al comandamento “Onora tuo padre e tua madre”. Vuol dire, piuttosto, che questi legami sono buoni, però non devono diventare ostacoli che impediscono di seguire Cristo perché il legame che ci unisce a Cristo mediante il Battesimo è più forte di qualsiasi altro legame terreno. La difficoltà di questo Vangelo è altrove: a prima vista non si vede bene il nesso tra le diverse parti. Gesù dice: “Se uno viene a me e non mi ama (nel linguaggio semitico orientale “odiare” vale anche per amare meno) più di suo padre, sua madre… non può essere mio discepolo” (v.26), frase che ritroviamo in eco (in inclusione) nell’ultima: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Tra queste due affermazioni ci sono due brevi parabole: quella dell’uomo che vuole costruire una torre e quella del re che parte in guerra. La loro lezione è simile: chi vuole costruire una torre deve prima calcolare la spesa per non imbarcarsi in un’impresa insensata; allo stesso modo, il re che pensa di affrontare una guerra occorre che valuti in anticipo le proprie forze. La saggezza consiste nell’adeguare le proprie ambizioni alle proprie possibilità: verità valida in ogni ambito. Quanti progetti falliscono perché iniziati troppo in fretta senza riflettere, prevedere e calcolare i rischi: questa è la saggezza elementare, il segreto del successo. Governare infatti è prevedere e forse si diventa adulti proprio il giorno in cui si impara finalmente a calcolare le conseguenze delle proprie azioni. Ma questo non sembra in contraddizione con il messaggio delle frasi che aprono e chiudono il discorso di Gesù? Queste sembrano parlare un linguaggio tutt’altro che prudente e misurato: anzitutto per essere discepolo di Cristo bisogna preferirlo a chiunque altro e seguirlo con tutto se stesso, eppure, la saggezza e persino la giustizia chiedono di rispettare i legami naturali con la famiglia e l’ambiente. La seconda esigenza è portare con decisione la propria croce, accettando il rischio della persecuzione e terza condizione: rinunciare a tutti i propri beni. In sintesi, lasciare per Cristo ogni sicurezza affettiva e materiale. Ma tutto questo è prudente? Non sembra lontano dai calcoli aritmetici delle due brevi parabole? Eppure è chiaro che Gesù non si diverte a coltivare il paradosso e non si contraddice. Sta quindi a noi comprendere il suo messaggio e come le due brevi parabole illuminino le scelte che dobbiamo fare per seguirlo. A ben vedere Gesù dice sempre la stessa cosa: Prima di lanciarsi in un’impresa: si tratti di seguirlo, o di costruire una torre, oppure di partire in guerra, invita a fare bene i conti e a non sbagliare. Chi costruisce una torre calcola il costo; chi parte in guerra valuta il numero di uomini e di armi e chi segue Cristo deve fare anch’egli i suoi conti, che però sono di altro genere: deve rinunciare a ciò che può ostacolarlo e così mettere al servizio del Regno tutte le sue ricchezze, anche affettive e materiali. E soprattutto, deve contare sulla potenza dello Spirito che “continua la sua opera nel mondo e porta a compimento ogni santificazione”, come dice la quarta preghiera eucaristica. Anche qui si tratta di un rischio calcolato: per seguire Gesù, egli ci indica i rischi — saper lasciare tutto, accettare l’incomprensione e talvolta la persecuzione, rinunciare alla resa immediata. Per essere cristiani, il vero calcolo, la vera saggezza, è non contare su nessuna delle nostre sicurezze terrene; è come se ci dicesse: Accetta di non avere sicurezze: ti basta la mia grazia!. Già la prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, lo affermava chiaramente: la sapienza di Dio non è quella degli uomini; ciò che agli occhi degli uomini appare follia è la sola vera sapienza davanti a Dio. Con lui, si è sempre nella logica del chicco di grano: accetta di morire sotto terra ma solo così può germogliare e dare frutto. Beati coloro che sanno liberarsi dalle false precauzioni per prepararsi a passare per la porta stretta di cui parlava il vangelo alla ventunesima domenica (Lc 13,24).
NOTA Gesù sviluppa qui il “principio di precauzione” che è sancito anche dall’art.191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Nelle due parabole è evidente: bisogna sedersi per calcolare rischi e spese, adottando misure preventive - anche in assenza di prove scientifiche complete. Nel caso del discepolo i dati del calcolo sono completamente diversi: Gesù vuole che valutiamo bene che l’unica nostra ricchezza è in lui e l’unica nostra forza è la sua grazia. E persino la valutazione di rischi e obiettivi ci sfugge: come dice il libro della Sapienza, nella prima lettura: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni».
+ Giovanni D’Ercole
Passare avanti e Perdono avanti
(Lc 6,27-38)
L’avventura della Fede estrema è per una Bellezza che ferisce e una Felicità anormale, prominente. Ma solo chi sa attendere trova la sua Via.
Non opporsi al malvagio consente di sperimentare le Beatitudini (Lc 6,20-26) - antidoto ai rapporti unilaterali; però tollerare diventa impossibile, se non lasciamo si sviluppi una Energia innata.
Il testo greco di Lc non parla di ‘meriti’ [cf. traduzione CEI 1974] e neppure di ‘gratitudine’ [traduzione CEI 2008] bensì di «Gratuità» (vv.31.33-34)!
Certo, non è semplice capire il senso del Dono, del Gratis.
Eppure qui la fioritura sarà senza forzature, perché nel contraccambio infinitamente ripetuto non c’è saggezza che legge dentro; nel rovesciamento, sì.
La nuova esperienza di Dio è quella d’un Amore creativo genuino, che senza posa butta all’aria, introduce nuove potenze, e incredibilmente capovolge tutto.
Non sarà lo sforzo che ci farà stare dove la Vocazione perfetta vuole che dimoriamo, bensì una lenta corrispondenza - anche nelle altalene.
Fuori e dentro di noi esiste un altro territorio, dove l’affinità dell’Attesa incontra il Disegno di Dio.
La spirale del restituire l’offesa può occupare tutto il nostro spazio. Così smorza la capacità di corrispondere al tintinnio nuovo della Chiamata.
Ci toglie percezione, tutto l’ascolto della Novità di Dio che è agli albori.
Generando confusioni tutte nostre, impallidisce la Storia di Salvezza che sta viceversa creando un inedito: la si taglia in radice.
Per cogliere il ritmo stesso di Dio (che sapientemente crea) le anime devono prendere il passo delle cose, le quali maturano in termini lineari sino a che rovesciano o moltiplicano - in modo esclusivo e inedito.
Gli accadimenti stessi rigenerano in modo spontaneo, fuori e persino dentro di noi; inutile forzare. La crescita e destinazione permane anche grazie alla molla di beffe e costrizioni esterne.
Allora, la fermezza nell’accettazione diventa scaturigine di un nuovo figlio - d’una Genesi impensata che sta appena intrecciando le sue prime radici con quel terreno paludoso.
La sospensione vissuta nel Mistero apre il nostro destino di stoltezze già decretate alla fiducia in un nuovo Atto d’Essere, irripetibile.
Spalanca il Senso che non t’aspetti, in un clima d’inventiva che sorvola l’istinto azione-reazione. Ciò affinché la catena delle normalità non prenda il sopravvento sul prodigio.
La non-violenza non è dunque una norma di sola squisitezza d’animo, bensì una Freccia superiore, che indica una direzione di Ricerca non meccanica, la quale avanza di scoperta in scoperta.
Lasciare che tutti passino avanti, crea il giusto distacco perché quando saremo pronti giunga il tempo in cui ci accorgeremo che la nostra mortificazione era un crocevia: ha aperto il destino a una speranza meno corta, dilatando la vita.
Se gli altri non sono come abbiamo sognato, è una fortuna: le porte sbattute in faccia e il loro pungolo ci mettono in contatto con le nostre virtù profonde, e con le risorse cui non abbiamo ancora dato spazio.
Tradimenti, soprusi, dispetti, vendette, oltraggi, mortificazioni… che vorrebbero renderci inquieti e avvilirci… stanno preparando il nostro sviluppo, e ben altre gioie.
L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne.
[Giovedì 23.a sett. T.O. 11 Settembre 2025]
L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne. Vuoi passare avanti? Accomodati
(Lc 6,27-38)
Non opporsi al malvagio consente di sperimentare le Beatitudini (Lc 6,20-26) - antidoto ai rapporti unilaterali; ma ciò è impossibile, se non lasciamo si sviluppi una Energia innata.
Dice il Tao: «Se vuoi che ti sia dato tutto, molla tutto». Nel contraccambio infinitamente ripetuto non c’è saggezza che legge dentro; nel rovesciamento, sì.
Il testo greco di Lc non parla di “meriti” (cf. traduzione CEI 1974) e neppure di “gratitudine” (traduzione CEI 2008), bensì di «Gratuità» (vv.31.33-34)!
Certo, non è semplice capire il senso del Dono, del Gratis: ma il Maestro non vuole che diventiamo solo più capaci di ringraziare e ben educati.
Gesù in noi non si occupa semplicemente di cambiare la situazione e ingentilirla: vuole rimpiazzare l’intero sistema delle cose spurie e delle relazioni artificiose, di maniera.
Altrimenti nulla verrebbe modificato, niente s’invertirebbe radicalmente; tutt’altro: nel buonismo di circostanza le sovrastrutture che ci alienano si rafforzerebbero.
La nuova esperienza di Dio è quella d’un Amore creativo genuino, che senza posa butta all’aria, introduce nuove potenze, e incredibilmente capovolge tutto.
C’è una Giustizia più grande: vivere nella nuova posizione che la marea della vita e la Provvidenza cesellano per ciascuno di noi.
Non sarà lo sforzo che ci farà stare dove la Vocazione (davvero perfetta) vuole che dimoriamo, ma una lenta corrispondenza - anche nelle altalene.
Fuori e dentro di noi esiste un altro territorio, dove l’affinità dell’Attesa incontra il Disegno di Dio: ciò dopo un tempo di Silenzio che vive intensamente l’oggi cogliendone la profondità, intuendolo come radice imprevedibile del domani.
C’è un diverso Regno, dove l’accondiscendenza incontra nuove spinte, cosmiche e acutamente personali; Profilo del Vivente.
In tal guisa, eccoci senza precipitazione: dopo una energia di pausa, virtù che si fa radice e linfa del futuro più esclusivo.
La spirale del restituire l’offesa può occupare tutto il nostro spazio e tempo. Così smorza la capacità di corrispondere al tintinnio nuovo della Chiamata.
Ci toglie percezione, l’intero Ascolto della Novità di Dio che è agli albori.
Il Primo Testamento riconosceva il principio di giustizia ‘uno vale uno’ nel diritto di vendetta.
In tal guisa arginando nel limite della parità il volume della ritorsione e lo strapotere dei forti [la loro eventuale violenza cieca a seguito d’inezie] sui deboli.
Ma non basta questo a non pervertire le relazioni e consentire al Padre di proporci una speciale realizzazione-configurazione, la quale impone ‘Sospensioni’ dalla spirale omologante.
Generando confusioni tutte nostre, impallidisce proprio quella storia di salvezza che sta viceversa creando un inedito: la si taglia in radice.
Per questo motivo il Signore ordina di sovvertire le consuetudini della religiosità antica, del suo stesso impeto; delle divisioni interessate [accettabile o meno, amici o nemici, vicini o lontani, puro e impuro, sacro e profano, etc.].
Il Regno divino parte dal Seme, non dalla gestualità esteriore o dalle forme; né usa edulcoranti conformisti, che lasciano intatti i ruoli.
Per cogliere il ritmo stesso di Dio (che sapientemente crea) le anime devono prendere il passo delle cose, le quali maturano in termini lineari sino a che rovesciano o moltiplicano - in modo non già “stampato”, bensì personale.
Gli accadimenti stessi rigenerano in modo spontaneo, fuori e persino dentro di noi; inutile forzare.
La crescita e destinazione permane anche grazie alla molla di beffe e costrizioni esterne.
Nel Tao Tê Ching si legge: «Se vuoi ottenere qualcosa, devi prima permettere che sia dato ad altri». La fioritura sarà senza forzature.
Allora, la fermezza nella tribolazione, nell’accettazione e nella sopportazione di profittatori, superficiali e vanitosi diventa scaturigine di un nuovo figlio, d’una Genesi impensata che sta appena intrecciando le sue prime radici proprio con quel terreno paludoso.
Dai lingotti non nasce nulla, dagli ostinati nascono le solite cose, dai precipitosi l’esatto contrario; dal letame nascono i fiori nuovi, che neanche abbiamo piantato.
La sospensione vissuta nel Mistero apre il nostro destino di stoltezze già decretate alla fiducia in un nuovo Atto d’Essere, irripetibile.
Spalanca il Senso che non t’aspetti, in un clima d’inventiva che sorvola l’istinto azione-reazione - affinché la catena delle normalità non prenda il sopravvento sul prodigio dell’Identità vocazionale, del nostro carattere e realizzazione.
La non-violenza non è dunque una norma di sola squisitezza d’animo, bensì una Freccia superiore, che indica una direzione di Ricerca non meccanica, la quale avanza di scoperta in scoperta.
La vita davvero esemplare è sempre di altro genere, fuori dal comune.
Lasciare che tutti, anche gli opportunisti [e gli attori della santità] passino avanti, non ci mette subito in sella o in vetrina, ma infine neppure ci farà pagare troppo di persona.
Crea il giusto distacco perché quando saremo pronti giunga il tempo in cui ci accorgeremo che la nostra mortificazione era un crocevia: ci ha aperto il destino a una speranza meno corta, dilatando la vita.
Dice il Tao: «I nuovi inizi sono spesso camuffati da dolorose perdite [ma] ciò ch’è cedevole sopraffà ciò ch’è duro. Il lento sorpassa il veloce».
Se gli altri non sono come abbiamo sognato, è una fortuna: le porte sbattute in faccia e il loro pungolo ci mettono in contatto con le nostre virtù profonde, e con le risorse cui non abbiamo ancora dato spazio.
Tradimenti, soprusi, dispetti, vendette, oltraggi, mortificazioni… che vorrebbero renderci inquieti e avvilirci… stanno preparando il nostro sviluppo, e ben altre gioie.
L’avventura della Fede estrema è per una Bellezza che ferisce e una Felicità anormale, prominente. Ma solo chi sa attendere trova la sua Via.
Perdono avanti: non segnare confini
Incontro esemplare e Vita al culmine sconosciuto
(Lc 6,36-38)
È possibile mettere il Vangelo sotto «Misura» esemplare - ad es. di Legge (retributiva) o di Primo Testamento e Tradizione?
No, non si costruirebbe Famiglia. E il culmine di questo genere di esperienza sarebbe appannaggio etnico o élitario.
Configurazione e proposta che partorirebbe ovunque un mondo grigio, pedissequo, fragile; incapace di dialogo e scoperte sconosciute.
Dopo essersi sentiti separati da una qualità di vita umanizzante e divina, solo la consapevolezza di riconciliazione può trasformare ambienti e persone.
Tale il Gesù vivo e attuato in comunità.
Egli immette i suoi intimi in un’esperienza nuova di comprensione fluida, priva di orgoglio - malgrado “devoto”.
Senza appunto assumere atteggiamenti leziosi o ricalcati a fotocopia.
È allora che l'umiltà c’inonda senza sforzo, portando in vetta la Carità: nell'assetto celeste del Gratis che sposta lo sguardo.
Sopprimendo sopprimendo, gli artifici chiudono inesorabilmente la gioia di vivere.
La imbrigliano nei modi, nell’accentuazione senza fine degli sforzi - contro se stessi, e avversando il mondo altrui.
Convenzioni, doveri standard e reazioni, mai contengono le energie benevolenti, incisive, della crescita.
Nella vita dei Santi lo vediamo: ascoltarsi a fondo, lasciare che sia... e il Perdono, centuplicano l’amore.
Esso diviene sorgente di gesti incredibili in favore del prossimo; nell’accorgersi accentuato, nella cura, nell'ospitalità gratuita, nel dono totale e a fondo perduto.
C’è sempre stato bisogno dell’apporto di energie e situazioni - anche intime - nuove, delle loro sorprese.
Non scartare le ingenuità altrui significa aver imparato ad accogliere le nostre stesse fragilità e opposizioni.
Il mondo inizia a cambiare quando ci si accetta, nell’esperienza della stima del Dio-Con-noi.
Così impariamo a percepire Bellezza, invece che aridità e distacco: ciò che fa diventare la vita più intensa e insieme scorrevole.
Anche la conoscenza di Dio non è un bene di confisca o una scienza acquisita, già interiormente ed esteriormente pignorata.
Muove da un’azione e un’altra, incessantemente; si realizza in un Incontro sempre vivo, che non blocca né dissolve la personalità di ciascuno.
Il criterio di accoglienza (pur di beni variegati per l'anima), il principio di remissione, coesistenza, comunione (anche di risorse molteplici, persino materiali) sono stati i principali catalizzatori della crescita.
Fin nelle prime chiese, il vettore della Misericordia anche sommaria, in cose spicciole, è stato la scaturigine e il senso di tutte le formule, di tutti i segni della stessa Liturgia nascente.
Il centro esistenziale e spirituale cui convergere.
Ecco la conciliazione degli attriti fra consuetudini e concezioni meno chiuse, fra campanili e tribù interne, tradizionalisti e avanguardisti; così via.
Nello Spirito di Provvidenza, ogni composizione non si configura come semplice opera di magnanimità propria di chi cerca di guardare sempre avanti.
È inizio del mondo futuro; principio di un’avventura imprevedibile e indicibile, anche da scapicollo.
E noi in tale Regno, d’improvviso, rifatti ex novo. Rinati; come scaturiti dall’umanità nuova, condizione dei figli autentici.
Generati ancora dal Padre, che accorda tutto e tutti: perché venuti a un franco contatto, nella Persona del Cristo.
Insomma, il Perdono cristiano non è il comune “guardare positivo”. Né ha a che fare con il cosiddetto “pensiero positivo”.
La tolleranza dei figli non è un semplicistico “andare oltre” in senso artificioso. Come facendo finta di nulla e chiudendo un occhio [in modo spicciolo, talora intimamente sprezzante].
Lo spirito di comprensione cui siamo chiamati non deriva da paternalismo buonista, che salva solo le maniere.
È Novità di Dio che crea un ambiente di Grazia - con possibilità enormi, che sprizzano da energie difformi.
Inedito che irrompe per sgretolare primati, equilibri stagnanti.
Lo fa mediante un’impossibile apertura di credito - con una signoria di qualità e prospettive.
Scenari che rigenerano e riattivano persone, famiglie, fraternità; il mondo intero.
Tutto affinché veniamo gratuitamente collocati nella posizione e reciprocità che mette in grado di rivelare il senso nascosto - sbalorditivo - dell’essere e della vocazione.
Il motivo stesso per cui siamo nati.
Per-dono è una restituzione in sovraggiunta di tutta la dignità perduta. Anzi, ben oltre.
Non solo ci rimette in piedi; non solo ricupera. Migliora e potenzia i lati spenti.
Trasforma i mediocri o coloro che si accostano pur avendo una differente sensibilità, un pesante bagaglio, e i senza voce... in battistrada e geniali inventori.
Perché ciò che ieri era impensato, domani sarà di chiarificazione e traino.
Sulla scia di visioni o attese differenti, le confusioni acquisteranno un senso.
Il diradarsi delle nebbie non si otterrà grazie ai cuori normali e arruolati, sempre indulgenti verso se stessi ma severissimi quando qualcuno tocca i loro interessi e automatismi abitudinari.
L’opera di guarigione, di recupero dell’essere disperso - la terapia dei problemi veri - scaturirà bensì per l’opera dei disprezzati e intrusi.
Scartati, disprezzati, eccentrici, malfermi - fuori d’ogni giro e prevedibilità.
Pasta lievitata. Non autoreferenziale.
Ecco gli autentici virtuosi. Principio della Cattolicità, intesa come campo largo.
Le Perle della nuova Pastorale: coloro che aiutano a non segnare troppi confini ideali.
«C’è una felice formula di San Vincenzo di Lérins che, mettendo a confronto l’essere umano in crescita e la Tradizione che si trasmette da una generazione all’altra, afferma che non si può conservare il “deposito della fede” senza farlo progredire: «consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età» (Commonitorium primum, 23,9) – “ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”. Questo è lo stile del nostro cammino: le realtà, se non camminano, sono come le acque. Le realtà teologiche sono come l’acqua: se l’acqua non scorre ed è stantia è la prima a entrare in putrefazione. Una Chiesa stantia incomincia a essere putrefatta [...]
E qui vorrei precisare che anche sul concetto di “popolo di Dio” ci possono essere ermeneutiche rigide e antagoniste, rimanendo intrappolati nell’idea di una esclusività, di un privilegio, come accadde per l’interpretazione del concetto di “elezione” che i profeti hanno corretto, indicando come dovesse essere rettamente inteso. Non si tratta di un privilegio – essere popolo di Dio –, ma di un dono che qualcuno riceve … per sé? No: per tutti, il dono è per donarlo: questa è la vocazione […]
Perché vi dico queste cose? Perché nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace.
Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi – che saranno il 3, 4 o 5%, non di più. Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza».
[Papa Francesco, Discorso alla Diocesi di Roma 18 settembre 2021]
Dice il Tao Tê Ching (LIX):
«Quando nessuno conosce il suo culmine, egli può possedere il regno».
Vita di pura Fede nello Spirito.
È il “meccanismo” paradossale e inedito che fa valutare i crocevia della storia, scioglie i nodi delle vere questioni.
Non solo supera, piuttosto soppianta i momenti difficili - riportandoci al vero percorso.
E orienta la realtà al bene concreto; poliedrico, non unilaterale.
Facendo volare la stessa realtà nello stupore dello Spirito, che si scatena in modo più importante del solito - verso se stessa.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua comunità vedi che qualcuno pretende di requisire il dato di Fede, trasformandolo in dovere misurato, prevedibile?
Secondo te, quale descrizione dell’opera di Dio trasmette?
Viceversa, quale effetto inimmaginabile e fuori scala per normali propositi ha prodotto un tuo pur primo o minimo coinvolgimento nella vita di Fede-amore personale?
Perdono e Fede: Incontro vivo
Gratis eccentrico, in avanti: Sacramento dell’umanità come tale
(Lc 17,1-6)
La conoscenza di Dio non è un bene di confisca o una scienza acquisita e già pignorata: muove da un’azione e un’altra, incessantemente; si realizza in un Incontro sempre vivo, che non ci blocca né dissolve.
Tipica, l’esperienza dei «piccoli» [mikròi v.2]. Sin dalle prime comunità di fede, essi sono stati coloro cui mancavano sicurezze ed energie; instabili e senz’appoggio.
Da sempre, «Piccoli» sono gli incipienti; i nuovi, che hanno sentito parlare di fraternità cristiana, ma che talora sono costretti a mettersi in fila, da parte, o rinunciare al cammino.
Ma il criterio di accoglienza, tolleranza, comunione anche di beni materiali, è stato il primo e principale catalizzatore della crescita delle assemblee.
Addirittura la scaturigine e il senso di tutte le formule e segni della liturgia.
Il centro esistenziale e ideale cui convergere. Per una Fede proattiva e in se stessa trasformativa.
Nello Spirito del Maestro, anche per noi la conciliazione degli attriti non si configura come semplice opera di magnanimità.
È inizio del mondo futuro. Principio di un’avventura imprevedibile e indicibile. E noi con esso d’improvviso rinati: venuti a un franco contatto nel Cristo. Colui che non ci spegne affatto.
Di qui il Perdono cristiano dei figli, che non è… “guardare positivo”, e “chiudere un occhio”: piuttosto, Novità di Dio che crea un ambiente di Grazia, propulsivo, con possibilità enormi.
Forza che irrompe e lascia incontrare paradossalmente i poli oscuri, invece di scuoterli di dosso. Eliminando in modo genuino paragoni, parole e zavorre inutili, che bloccano l’Esodo trasparente.
Dinamica che guida all’indispensabile e imprescindibile: onde spostare lo sguardo. Insegnando ad accorgersi dei propri isterismi, conoscersi, affrontare l’ansia, il suo motivo; a gestire situazioni e momenti di crisi.
Virtù plasmabile che pone in ascolto intimo dell’essenza personale.
Quindi Empatia solida, larga, che introduce nuove energie; fa incontrare i propri stati profondi, perfino la vita standard… suscitando altri saperi, diverse prospettive, relazioni inattese.
Così senza troppa lotta ci rinnova, e argina la perdita di veracità [tipica, quella in favore delle maniere di circostanza]. Accentua capacità e gli orizzonti della Pace - sgretolando primati, equilibri paludosi.
La scoperta di nuovi versanti dell’essere che siamo, trasmette un senso di migliore completezza, quindi spontaneamente argina influssi esterni, scioglie pregiudizi, non fa agire su base emotiva, impulsiva.
Colloca piuttosto nella posizione che mette in grado di rivelare il senso nascosto e sbalorditivo dell’essere. Dispiegando l’orizzonte cruciale.
Attivare «Perdono» è gratuitamente una restituzione in sovraggiunta del proprio ventaglio caratteriale, di tutta la dignità perduta, e ben oltre.
Deponendo le sentenze, l’arte della tolleranza dilata lo sguardo [anche intimo]. Migliora e potenzia i lati spenti; quelli che noi stessi avevamo detestato.
In tal guisa eccentrica trasforma i considerati lontani o mediocri [mikroi] in battistrada, e geniali inventori. Perché ciò che ieri era impensato, domani sarà di chiarificazione e traino.
Le confusioni acquisteranno un senso - proprio grazie al pensiero delle menti in crisi, e per l’azione dei disprezzati, intrusi, fuori d’ogni giro e prevedibilità.
Vita di pura Fede nello Spirito: ossia, la fantasia dei “fiacchi”… al potere.
Perché è il meccanismo paradossale che fa valutare i crocevia della storia, attiva le passioni, crea condivisione, risolve i veri problemi.
E dunque soppianta in avanti i momenti difficili (riportandoci al vero percorso) orientando la realtà al bene concreto.
Facendola volare verso se stessa.
L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne. È in tale “vuoto” e Silenzio che Dio si fa strada.
Mistero della Presenza, che trabocca. Nuova Alleanza.
Accrescere la fede: vita noiosa, intimidita, o la porta della speranza
Forse anche a noi è stato inculcato che la fede bisogna chiederla, così Dio ce l’aumenta. Invece abbiamo voce in capitolo, ma non nel senso d’una avance da rivolgere al Cielo.
La Fede è dono, però nel senso di proposta e iniziativa relazionale, faccia a faccia; che chiede percezione accogliente. Quindi non cresce per caduta d’un pacchetto - come a precipizio, o per infusione dall’alto. Addirittura forzandola, e convincendo il Padre.
Non è neppure un semplice assenso legato al carattere bonario. Non è un bagaglio di nozioni che qualcuno ha e dimostra in modo giusto; altri meno, o affatto.
Nell’innamoramento si può essere più o meno coinvolti!
Fede non è credere che Dio esista, ma l’aderire a un suggerimento sorgivo che (senza imposizioni) ci guida a trascurare la reputazione.
La persona di Fede non bada a spese o rischi, anche per la vita altrui. Tiene in sospeso le costumanze particolari; non anteporre gli affetti di cerchia. Perdona senza limiti.
Spesso siamo d’accordo solo in parte e accettiamo qualcosina - magari fino a che l’amore non vada sino in fondo, o ci rimetta in discussione.
Così la testa, i vezzi, la concatenazione dei valori, e il piccolo mondo cui siamo legati.
Accrescere la Fede? Il Dono non è un regalo, ma un Appello.
Perciò Gesù neppure risponde a una richiesta tanto ridicola - ciononostante fa riflettere sui risultati dell’eventuale adesione.
Basterebbe un minimo coinvolgimento e nel mondo si produrrebbero risultati straordinari (v.6); in comunità, nelle famiglie e nella vita personale.
Realizzeremmo l’impossibile e importante. Si risolverebbero i veri problemi. Si trasformerebbero anche le azioni più semplici.
Ci sono poi grandi eventi piantati nel cuore di ogni uomo, che forse consideriamo irrealizzabili: ad es. la fratellanza universale, la vittoria sulla fame, una vita dignitosa e bella per tutti, un mondo e una Chiesa senza personaggi volatili, corrotti e vanitosi.
Siccome le consideriamo situazioni impossibili, neppure iniziamo a edificarle - subito ci lasciamo cadere le braccia.
Ma la maturazione è frutto contromano di lati segreti, non di armature mentali impermeabili.
Come diceva un premio Nobel: «Gli innocenti non sapevano che il loro progetto era impossibile, per questo lo realizzarono».
E non è che dopo una vita impiegata nel servizio - agli ordini del Principale - nell’aldilà finalmente comanderemo, sulla base del rango conquistato [sebbene anche questo forse ci sia stato trasmesso].
Uno dei prodigi che compie in noi la Fede in Cristo - qui e ora - è farci prendere coscienza della bellezza e della gioia di avere libertà di scendere dai piedistalli già identificati, per favorire la vita piena (di tutti).
E a “fine mese” - alla “resa dei conti” o alla “paga” - non diventeremo finalmente dei boss - almeno in cielo!
Perché Dio è Comunione, convivialità delle differenze; e non accetta lo schema servo-padrone, addirittura come premio.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua comunità vedi che qualcuno pretende di requisire il dato di Fede, trasformandolo in dovere misurato, prevedibile? Secondo te, quale descrizione dell’opera di Dio trasmette? Viceversa, quale effetto inimmaginabile e fuori scala per normali propositi ha prodotto un tuo pur primo o minimo coinvolgimento nella vita di Fede-amore personale?
Mosè chiede allora a Dio di rivelarsi, di fargli vedere il suo volto. Ma Dio non mostra il volto, rivela piuttosto il suo essere pieno di bontà con queste parole: «Il Signore, Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,8). E questo è il Volto di Dio. Questa auto-definizione di Dio manifesta il suo amore misericordioso: un amore che vince il peccato, lo copre, lo elimina. E possiamo essere sempre sicuri di questa bontà che non ci lascia. Non ci può essere rivelazione più chiara. Noi abbiamo un Dio che rinuncia a distruggere il peccatore e che vuole manifestare il suo amore in maniera ancora più profonda e sorprendente proprio davanti al peccatore per offrire sempre la possibilità della conversione e del perdono.
Nel mondo c’è il male, c’è egoismo, c’è cattiveria e Dio potrebbe venire per giudicare questo mondo, per distruggere il male, per castigare coloro che operano nelle tenebre. Invece Egli mostra di amare il mondo, di amare l’uomo, nonostante il suo peccato, e invia ciò che ha di più prezioso: il suo Figlio unigenito. E non solo Lo invia, ma ne fa dono al mondo. Gesù è il Figlio di Dio che è nato per noi, che è vissuto per noi, che ha guarito i malati, perdonato i peccati, accolto tutti. Rispondendo all’amore che viene dal Padre, il Figlio ha dato la sua stessa vita per noi: sulla croce l’amore misericordioso di Dio giunge al culmine. Ed è sulla croce che il Figlio di Dio ci ottiene la partecipazione alla vita eterna, che ci viene comunicata con il dono dello Spirito Santo.
[Papa Benedetto, omelia s. Marino 19 giugno 2011]
2. Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle rotture non è difficile individuare conflitti che, anziché risolversi mediante il dialogo, si acuiscono nel confronto e nel contrasto.
Indagando sugli elementi generatori di divisione, attenti osservatori ne riscontrano i più svariati: dalla crescente sperequazione tra gruppi, classi sociali e paesi agli antagonismi ideologici tutt'altro che spenti; dalla contrapposizione degli interessi economici alle polarizzazioni politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per motivi socio-religiosi. Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono frutto, e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza. Si possono ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del nostro tempo: 1) il calpestamento dei diritti fondamentali della persona umana, primo fra essi il diritto alla vita e a una degna qualità di vita; 2) il che è tanto più scandaloso, in quanto coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi diritti; 3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e delle collettività, non esclusa, anzi più offesa e minacciata, la libertà di avere, di professare e di praticare la propria fede; 4) le varie forme di discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.; 5) la violenza e il terrorismo; 6) l'uso della tortura e le forme ingiuste e illegittime di repressione; 7) l'accumulo delle armi convenzionali o atomiche, la corsa agli armamenti, con spese belliche che potrebbero servire a sollevare l'immeritata miseria di popoli socialmente ed economicamente depressi; 8) l'iniqua distribuzione delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il suo vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra le condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di più. La potenza travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui viviamo, un mondo frantumato fin nelle sue fondamenta.
D'altra parte, poiché la Chiesa, senza identificarsi col mondo né essere del mondo, è inserita nel mondo ed è in dialogo col mondo, non è da meravigliarsi se si avvertono nella sua stessa compagine ripercussioni e segni della divisione che ferisce l'umana società. Oltre alle scissioni tra le comunioni cristiane che la affliggono da secoli, la Chiesa sperimenta oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse componenti, causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale e pastorale. Anche queste divisioni possono a volte sembrare inguaribili.
Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell'intimo dell'uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un'eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà.
3. Eppure, lo stesso sguardo indagatore, se è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della divisione un inconfondibile desiderio da parte degli uomini di buona volontà e dei veri cristiani di ricomporre le fratture, di rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i livelli, un'essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata.
Per taluni si tratta quasi di un'utopia, che potrebbe diventare la leva ideale per un vero mutamento della società; per altri, invece, è oggetto di un'ardua conquista e, quindi, un traguardo da raggiungere con un serio impegno di riflessione e di azione. In ogni caso, l'aspirazione a una riconciliazione sincera e consistente è, senza ombra di dubbio, un motivo fondamentale della nostra società, quasi riflesso di un'incoercibile volontà di pace; lo è - anche se ciò è paradossale - tanto vigorosamente, quanto pericolosi sono gli stessi fattori di divisione.
Tuttavia, la riconciliazione non può essere meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia della riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed efficaci nella misura in cui giungeranno - per guarirla - a quella lacerazione primigenia, che è radice di tutte le altre ed è il peccato.
26. Ora, se la Chiesa è «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15) ed è posta nel mondo come madre e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare la verità che costituisce un cammino di vita?
Dai pastori della Chiesa si attende, prima di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa non può non fondarsi sull'insegnamento biblico, specialmente quello neo-testamentario, circa la necessità di ricostituire l'alleanza con Dio in Cristo redentore e riconciliatore e, alla luce e come espansione di questa nuova comunione e amicizia, circa la necessità di riconciliarsi col fratello, a costo di dover interrompere l'offerta del sacrificio. Su questo tema della riconciliazione fraterna Gesù insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l'altra guancia a chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso la tunica, o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno riceve nella misura in cui sa perdonare, perdono da offrire anche ai nemici, perdono da concedere settanta volte sette, cioè, in pratica, senza alcuna limitazione. A queste condizioni, realizzabili solo in un clima genuinamente evangelico, è possibile una vera riconciliazione sia fra gli individui, sia fra le famiglie, le comunità, le nazioni e i popoli.
[Papa Giovanni Paolo II, esortazione Reconciliatio et Paenitentia, nn,2-3.26]
Nel Vangelo della Liturgia odierna Gesù dà ai discepoli alcune indicazioni fondamentali di vita. Il Signore si riferisce alle situazioni più difficili, quelle che costituiscono per noi il banco di prova, quelle che ci mettono di fronte a chi ci è nemico e ostile, a chi cerca sempre di farci del male. In questi casi il discepolo di Gesù è chiamato a non cedere all’istinto e all’odio, ma ad andare oltre, molto oltre. Andare oltre l’istinto, andare oltre l’odio. Gesù dice: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27). E ancora più concreto: «A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra» (v. 29). Quando noi sentiamo questo, ci sembra che il Signore chieda l’impossibile. E poi, perché amare i nemici? Se non si reagisce ai prepotenti, ogni sopruso ha via libera, e questo non è giusto. Ma è proprio così? Davvero il Signore ci chiede cose impossibili, anzi ingiuste? È così?
Consideriamo anzitutto quel senso di ingiustizia che avvertiamo nel “porgi l’altra guancia”. E pensiamo a Gesù. Durante la passione, nel suo ingiusto processo davanti al sommo sacerdote, a un certo punto riceve uno schiaffo da una delle guardie. E Lui come si comporta? Non lo insulta, no, dice alla guardia: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). Chiede conto del male ricevuto. Porgere l’altra guancia non significa subire in silenzio, cedere all’ingiustizia. Gesù con la sua domanda denuncia ciò che è ingiusto. Però lo fa senza ira, senza violenza, anzi con gentilezza. Non vuole innescare una discussione, ma disinnescare il rancore, questo è importante: spegnere insieme l’odio e l’ingiustizia, cercando di recuperare il fratello colpevole. Non è facile questo, ma Gesù lo ha fatto e ci dice di farlo anche noi. Questo è porgere l’altra guancia: la mitezza di Gesù è una risposta più forte della percossa che ha ricevuto. Porgere l’altra guancia non è il ripiego del perdente, ma l’azione di chi ha una forza interiore più grande. Porgere l’altra guancia è vincere il male con il bene, che apre una breccia nel cuore del nemico, smascherando l’assurdità del suo odio. E questo atteggiamento, questo porgere l’altra guancia, non è dettato dal calcolo o dall’odio, ma dall’amore. Cari fratelli e sorelle, è l’amore gratuito e immeritato che riceviamo da Gesù a generare nel cuore un modo di fare simile al suo, che rifiuta ogni vendetta. Noi siamo abituati alle vendette: “Mi hai fatto questo, io ti farò quell’altro”, o a custodire nel cuore questo rancore, rancore che fa male, distrugge la persona.
Veniamo all’altra obiezione: è possibile che una persona giunga ad amare i propri nemici? Se dipendesse solo da noi, sarebbe impossibile. Ma ricordiamoci che, quando il Signore chiede qualcosa, vuole donarla. Mai il Signore ci chiede qualcosa che Lui non ci dà prima. Quando mi dice di amare i nemici, vuole darmi la capacità di farlo. Senza quella capacità noi non potremmo, ma Lui ti dice “ama il nemico” e ti dà la capacità di amare. Sant’Agostino pregava così – ascoltate che bella preghiera questa –: Signore, «dammi ciò che chiedi e chiedimi ciò che vuoi» (Confessioni, X, 29.40), perché me lo hai dato prima. Che cosa chiedergli? Che cosa Dio è contento di donarci? La forza di amare, che non è una cosa, ma è lo Spirito Santo. La forza di amare è lo Spirito Santo, e con lo Spirito di Gesù possiamo rispondere al male con il bene, possiamo amare chi ci fa del male. Così fanno i cristiani. Com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi guerra! È molto triste.
E noi, proviamo a vivere gli inviti di Gesù? Pensiamo a una persona che ci ha fatto del male. Ognuno pensi a una persona. È comune che abbiamo subito il male da qualcuno, pensiamo a quella persona. Forse c’è del rancore dentro di noi. Allora, a questo rancore affianchiamo l’immagine di Gesù, mite, durante il processo, dopo lo schiaffo. E poi chiediamo allo Spirito Santo di agire nel nostro cuore. Infine preghiamo per quella persona: pregare per chi ci ha fatto del male (cfr Lc 6,28). Noi, quando ci hanno fatto qualcosa di male, andiamo subito a raccontare agli altri e ci sentiamo vittime. Fermiamoci, e preghiamo il Signore per quella persona, che l’aiuti, e così viene meno questo sentimento di rancore. Pregare per chi ci ha trattato male è la prima cosa per trasformare il male in bene. La preghiera. La Vergine Maria ci aiuti a essere operatori di pace verso tutti, soprattutto verso chi ci è ostile e non ci piace.
[Papa Francesco, Angelus 20 febbraio 2022]
Fede e religione. Turnover nella Chiesa
(Lc 6,20-26)
Gesù giudica la configurazione del mondo in cui la sua Chiesa nello Spirito si trova a vivere: ricchi e indigenti [malfermi in molti sensi], personaggi di spicco e invisibili.
Situazione che non ricalca condizioni di pienezza di vita; piuttosto - anche oggi - rende il sangue amaro a molti.
Una realtà falsata e non definitiva, esasperante, che assolutamente denuncia di non gradire fra i suoi: quella di dominatori lodati (malgrado l’abuso egoistico dei beni e delle posizioni) e insignificanti sottoposti.
Privo di titoli altisonanti, il giovane Rabbi si rivolge dal basso in alto (v.20) a coloro che hanno liberamente scelto la sua proposta di esistenza fraterna e condivisione delle proprietà [in Mt «poveri “per” lo Spirito (d’amore)»].
Egli si compiace [«Beati»] della scelta dei suoi, che fa godere l’esperienza della sintonia col Maestro. Una diversa Visione, e la reciprocità, ossia la medesima qualità di vita intima di Dio.
Già qui sulla terra i profeti critici testimoniano la possibilità di una differente percezione delle cose, nonché il Sogno d’una società fondata sulla convivenza - nello scambio dei benefici.
Un germoglio di mondo ospitale - che Lc vuole incoraggiare - dove non c’è il sopra e il sotto o il davanti e dietro: solo rivolgimenti umanizzanti (come appunto l’inversione dei ruoli) che rinsaldano il tessuto concorde.
Anche nella sua Casa dovrà esserci rotazione e capovolgimento di figure e mansioni di spicco. Il ricambio è cifra del Regno che Viene; in grado di acuire le sensibilità alla Comunione.
Nei documenti dell’antica letteratura si parla poco di miseri, senza voce e affamati. L’attenzione si concentrava sui ricchi, sugli eroi, i sovrani e i generali. Il rovesciamento di sorte era inimmaginabile.
I nuovi potenti del Regno di Dio sono viceversa coloro che sentono il Figlio presente, che pulsa in cuore, Risorto in loro.
Essi non trattengono per sé, ma trasformano beni, traguardi, titoli e ministeri in Vita e Relazione.
Ciò che risulta decisivo e conclusivo è la costruzione di questo tipo di Chiesa [Regno] inusuale.
Germe che si discosta dall’unilateralità dei rapporti. Con arricchimento e avvicendamento dove tutti si sentano adeguati, non più additati.
Nell’avventura di Fede-Amore vige sempre un riconoscimento reciproco.
Si alternano incessantemente gli uffici, gli incarichi.
Infatti, i rapporti di soggezione eccessivamente centrati annientano i Doni viventi di Dio; producono ferite profonde, paralizzanti.
Riducono al silenzio [e all’opacità] Creatore e creatura: una paradossale autocondanna.
Ma Cristo distingue bene ciò che rende Beati - completi, non unilaterali - e quanto non appartiene e non assomiglia all’opera piena del Padre.
Lo fa non semplicemente ammonendo, bensì per riunire, e dilatare il nostro Nucleo; per lubrificare le intime, migliori essenze di tutti.
Proclamando le Beatitudini, Gesù Risorto vuole comunicare [in specie nelle sue Chiese, che gli sembra ne abbiano tanto bisogno] un’energia meno accentrata e parziale, più permeabile e confluente; un ritmo inclusivo.
E a tutti il permesso pieno di vivere.
[Mercoledì 23.a sett. T.O. 10 settembre 2025]
Fede e religione. Turnover nella Chiesa
(Lc 6,20-26)
In Mt le Beatitudini tracciano un programma per le fraternità di origine giudaica.
In Lc il sermone sembra di carattere più radicale ed è indirizzato alle comunità ellenistiche, con forte accento sociale.
Gesù giudica la configurazione del mondo in cui la sua Chiesa nello Spirito si trova a vivere: ricchi e indigenti [malfermi in molti sensi], personaggi di spicco e invisibili.
Situazione che non ricalca condizioni di pienezza di vita; piuttosto - anche oggi - rende il sangue amaro a molti.
Una realtà falsata e non definitiva, esasperante, che assolutamente denuncia di non gradire fra i suoi: quella di dominatori lodati (malgrado l’abuso egoistico dei beni e delle posizioni) e insignificanti sottoposti.
Privo di titoli altisonanti, il giovane Rabbi si rivolge dal basso in alto (v.20) a coloro che hanno liberamente scelto la sua proposta di esistenza fraterna e condivisione delle proprietà [in Mt «poveri “per” lo Spirito (d’amore)»].
Il Maestro si compiace in modo esplicito [«Beati»] della scelta dei suoi, estranea all’egoismo.
Egli loda quell’esperienza di sintonia: nella medesima qualità di vita intima di Dio, uniti e promossi a una diversa Visione e reciprocità.
Già qui sulla terra gl’intimi testimoniano infatti una possibilità di percezione differente delle cose: con lo sguardo dal basso.
In aggiunta, il Sogno d’una società alternativa, fondata sulla convivenza armonica, senza discriminazioni. Una cosa da capogiro - nello scambio dei benefici.
Un germoglio di mondo ospitale - che Lc vuole incoraggiare - dove non c’è il sopra e il sotto o il davanti e dietro: solo rivolgimenti umanizzanti (come appunto l’inversione dei ruoli) che rinsaldano il tessuto concorde.
Anche nella sua Casa dovrà esserci rotazione e capovolgimento di figure e mansioni di spicco - segni del Regno che Viene.
Il ricambio è cifra del Regno che Viene; in grado di acuire le sensibilità alla Comunione.
Non installazione (addirittura, a vita) e fissità.
Nei documenti dell’antica letteratura si parla poco di miseri, senza voce e affamati. L’attenzione si concentrava sui ricchi, sugli eroi, i sovrani e i generali.
Il rovesciamento di sorte era inimmaginabile, sebbene qua e là [in specie nel mondo delle donne, del tutto soffocato] lo si percepisse quale desiderio profondo e ben più autentico.
I potenti del nuovo mondo umanizzante sono appunto il viceversa di quanto previsto: coloro che sentono il Figlio presente, che pulsa in cuore, Risorto in loro.
Essi non trattengono per sé, ma trasformano beni, traguardi, titoli e ministeri in Vita e Relazione.
Dinamismo che a nessuno farà più mancare la terra sotto i piedi.
Né per difendersi ci sarà bisogno di toni alti.
Se ancora non si riesce a distinguersi e riconoscersi, nella reciprocità si potrà diventare meno rumorosi.
Poi, quanto ora si sperimenta - e soffre per amore - è transitorio, non definitivo.
Ciò che viceversa risulta decisivo e conclusivo è la costruzione di questo tipo di Chiesa [Regno] inusuale.
Germe che si discosta dall’unilateralità dei rapporti.
Seme e Nido - con arricchimento e avvicendamento - dove tutti si sentano adeguati, non più additati.
In ogni caso, indipendenti dall’opinione conformista o piramidale, interessate a perpetuarsi.
In tal guisa le persecuzioni che poi recano patimento devono essere messe in conto - non come rantolo di morte, bensì lieta notizia: dolore di parto, emblema e fonte di Speranza larga.
Il mondo competitivo antico tira le cuoia e si difende con ogni mezzo, ma il futuro annunciato sta giungendo.
Le fraternità che operano scelte risolutive vanno per il cammino giusto, sensato, vitale, che non solo attutisce ma insegna a vivere le disavventure come occasione di Novità e diversa Armonia.
Coloro cui tutto fila liscio e sono incensati - e si permettono di ritagliarsi posizioni di rilievo fisse, nelle assemblee di Fede ridotte a regno dell’uomo - non fanno che ribadire le divergenze che già marcavano la struttura dell’Impero.
Nulla hanno in comune col disegno del Padre.
Pertanto Gesù non si compiace della loro presenza, piuttosto se ne lamenta.
Non ritiene che la sperequazione sociale sia frutto di fatalità, bensì d’ingiustizia - insopportabile per coloro che si dicono discepoli e fratelli.
In un clima di reale condivisione di risorse e convivialità delle differenze ci si aiuta anche a comprendere il rapporto di Amicizia in senso forte - fra noi membri di Chiesa, e con Dio.
In clima di vita beata il nucleo interiore viene finalmente ascoltato, e smuove situazioni cristallizzate. Fa vedere la vita da altri punti di vista. Quindi non si esagera nei controlli; non si attuano forzature.
Tra credenti, qualsivoglia esigenza trova spazio - senza più copione - e tutto si discosta dalla parzialità dei rapporti esterni.
In una relazione Padre-figlio religiosa e verticista (già concatenata, volontarista) priva di Fede, è sempre l’Onnipotente che sovrasta, e la creatura obbedisce.
Dio è in primo piano e sentenzia; l’uomo lo segue, vive in funzione del “padrone” e dei suoi “rappresentanti” - addirittura in posizioni vitalizie - come se tutti gli altri avessero un’identità insipida e decentrata.
Invece nella comunità che riflette il divino non c’è mai qualcuno che sta sempre in secondo piano e i soliti che prevalgono e decidono - mentre altri seguono e fanno da spettatori.
Altrimenti qualcuno finirà per covare l’abbandono o rivalse, e reagire [unica strada] per non annientarsi.
Nessuno può vivere senza esprimere la propria personalità e irripetibile Vocazione: nelle micro e macro relazioni comunitarie, nella Chiesa attiva nell’apostolato laicale - se infaticabile.
Ciò vale anche con Dio.
Lo stesso ideale di armonizzazione s’impone con le Tradizioni o i cosiddetti Carismi - i quali non dovrebbero sovraccaricare le anime.
Basta con visioni del mondo cesellate secondo un’altra taglia: altrui, o già datata, che non ci appartiene più. Sebbene possa in vari casi proporre un mondo di saperi in cui ci si può e deve riconoscere…
Se viceversa il rapporto si riempie di strapotere - come nelle devozioni o nelle ideologie, nelle cordate d’affari ovvero nelle sette - l’inclinazione non potrà generare unità [se non di facciata] bensì ogni sorta di tradimento e abbandono.
Ma qui la defezione si rende paradossalmente necessaria, per ritrovarsi.
Resta un momento di tensione e forse su due piedi una fuga, ma da una situazione opprimente - come quella del figlio prodigo (al cap.15) che scappa di casa perché vessato dall’atteggiamento del “figlio maggiore”.
Nell’avventura di Fede-Amore vige sempre un riconoscimento reciproco. Dunque si alternano incessantemente gli uffici.
Si rovesciano incessantemente i ruoli fra soggetto e “oggetto” (reso a sua volta protagonista) dello scambio di risorse e del sovvenire in omaggio.
I rapporti di soggezione eccessivamente centrati annientano i Doni viventi di Dio; producono ferite profonde, paralizzanti.
Riducono al silenzio Creatore e creatura: una paradossale autocondanna.
Nel Regno delle “santità” poliedriche persiste al contrario l’inversione tra colui che propone, chi accoglie e coloro che dilatano.
In ogni situazione valutando se il fratello è nella letizia. [In tal senso si fa davvero opportuno il cammino sinodale].
Poi nel tempo si cresce e si cambia anche parere - ad es. circa persone o vicende che consideravamo lontane, inconcludenti.
E invece ci parlavano di missione, o del nostro ritmo segreto verso un altro traguardo e destino.
Il Cristo presente in ogni fedele e nel suo corpo mistico che vive le Beatitudini, supera ogni opinione normalizzata.
Dio non è monocromatico: sorvola disparità di comportamenti, divisione di ceto, malumori - e questo non è un discorso lontano da noi.
Ad es. sino a poco fa nel Battesimo sbrigavamo una formalità.
Non ci si rendeva conto di quanto accadeva fra Dio e la creatura introdotta nella Chiesa - né della differenza tra pia cerimonia e orientamento della vita.
Ma sostare con noi stessi e il nostro Senso, insieme, avrebbe qualificato il modo di comprenderci; capire gli altri, stare in campo.
Spontaneamente avremmo abbandonato il nostro “personaggio”, ruolo e primato (che accentrano, ma fanno da palla al piede alle migliori energie).
Insomma, con l’aiuto di una Casa comune qualitativamente ricca, viva e impegnata nello spirito di gratuità, saremmo già qui nella condizione divina.
Avremmo riattivato noi stessi e le nostre capacità a tutto tondo - senza prima aggiustare posizioni su modelli omologati e senza vigore, che ci sottomettono a relazioni rancorose, soffocanti, parziali, equivoche.
Nelle contrapposizioni ai vv.24-26 il Signore distingue bene ciò che rende Beati - completi, non unilaterali - e quanto non appartiene né assomiglia all’opera del Padre.
Ma lo fa non semplicemente ammonendo, bensì per riunire, e dilatare il nostro Nucleo; per lubrificare le intime, migliori essenze di tutti.
Proclamando lo spirito di Beatitudini - dentro ciascuno di noi - anche nel tempo della pandemia e della crisi globale non intende farci rodere il fegato e sentire dei traditori, incoerenti e fuori strada.
Tale Parola vuole comunicare [in specie alle stesse assemblee, che al Risorto sembra ne abbiano tanto bisogno] un’energia meno accentrata e parziale, più permeabile e confluente; un ritmo inclusivo.
E a tutti il permesso pieno di vivere.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Qual è il tuo ideale di felicità?
Conosci nella Chiesa uomini Beati, o soprattutto uomini di terra e che accentrano le relazioni, le mansioni, la gestione dei programmi pastorali e altro (...) pur propagandando “unità”?
Qual è il tuo grido di rabbia che non lasci uscire, per paura di essere escluso? Non credi che ti stia parlando profondamente delle scelte umane discriminanti, della Vocazione personale ed ecclesiale?
Credi che le Beatitudini siano un freno alla realizzazione personale e sociale, o viceversa una possibilità di affermarsi, e con determinazione?
Paradossi per una condivisione
Fra’ Egidio, compagno di San Francesco, riassume l’insegnamento del suo Fondatore così:
«Vuoi sentire bene? Diventa sordo. Vuoi parlare bene? Sta’ zitto. Vuoi camminare bene? Tagliati le gambe. Vuoi lavorare bene? Tagliati le mani. Vuoi amare davvero? Odiati. Vuoi vivere bene? Mortificati. Vuoi guadagnare? Impara a perdere. Vuoi arricchirti? Sii povero. Vuoi esser consolato? Piangi. Vuoi vivere nella sicurezza? Abbi sempre timore. Vuoi salire in alto? Umiliati. Vuoi essere stimato? Disprezza te stesso e stima quelli che ti disprezzano. Vuoi avere il bene? Sopporta il male. Vuoi essere in pace? Fatica. Vuoi che ti benedicano? Spera che ti maledicano».
Nella Lettera a Diogneto (metà II sec.) leggiamo:
«I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono a una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati e onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio».
«A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo (...). Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare».
Il Cristianesimo non è una religione, bensì una Persona e la sua proposta: un Cammino eccezionale di Amicizia e paradosso.
Citando Emmanuel Carrère: «(Gesù) è sempre quello che i suoi seguaci hanno voluto vedere, sentire, toccare, ma non come si aspettavano di vederlo, sentirlo, toccarlo (...). È il primo che passa, è l’ultimo dei mendicanti».
Le estrose scelte di Dio passano per gli indecisi, gli sconfitti, stupidi deboli ignobili derisi.
Non per un vezzo alternativo, ma perché sono queste le persone che - mentre si adoperano per rallegrare la vita altrui - rischiando in proprio fanno esperienza di un Padre che provvede alla loro, nell’unicità.
Hanno fatto passare la Luce
Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede
Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra “sentire religioso” comune, e “vivere di Fede”.
Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».
Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.
Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale, moralistica o sentimentale.
Nella lingua latina perfìcere significa condurre a termine, andare sino in fondo.
In tale accezione completa e integrale, “perfetto” diventa un valore incarnato autentico: attributo possibile - d’ogni persona consapevole della propria condizione di vulnerabilità, e non la disprezza.
La donna e l’uomo di Fede valorizzano ogni occasione o emozione che mettono a nudo la condizione di nudità [non colpa] per aprire nuove strade e rinnovarsi.
In ottica di vita nello Spirito il santo [in ebraico Qadosh, attributo divino] è sì l’uomo «distacccato», ma non in senso parziale o fisico, bensì ideale.
Non è la persona che a un certo punto della vita prende le distanze dalla famiglia umana per intraprendere un sentiero di purificazione che la innalzerebbe. Illudendosi di migliorare.
Come sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti: «Un essere umano [...] non si realizza, non sviluppa, non può trovare la propria pienezza [... e] non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (n.87).
Il testimone autentico non è animato dal disprezzo del caos esistenziale - né desideroso di appaltare le difficoltà di gestione della propria libertà consegnandola a un’agenzia alienante, dalla mentalità appartata (che risolva il dramma delle scelte personali).
In Cristo l’uomo è un «disgiunto» dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.
E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.
A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.
Tutto per la Comunione globale, e in Verità anche con il proprio intimo seme caratteriale - evitando proselitismi e il farsi notare nelle passerelle.
Il vero credente conosce il suo limite redento, vede le possibilità dell’imperfezione... Così sostituisce i presupposti del trattenere per sé, del salire sugli altri e del dominarli, con un fondamentale trittico umanizzante: elargire, libertà di “scendere”, collaborare.
Questo l’autentico Distacco, che non fugge le proprie e altrui inclinazioni, né disprezza il tratto complesso della condizione umana.
In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di “abbassarsi” per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.
In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.
Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici “forti”, e “migliori” degli altri.
Solo quest’orizzonte di Focolare ci spinge a partire.
Di conseguenza, contrario di Santo non è «peccatore», bensì irrealizzato o incompiuto.
Vediamone ancora il motivo (vocazionale e per strade personali).
Gesù era amico di pubblicani e pubblici peccatori non perché migliori dei buoni, ma perché in religione i «giusti» risultano non di rado poco spontanei; rendendosi impermeabili, chiusi, refrattari all’azione dello Spirito.
Con sorpresa, il Signore stesso ha fatto ripetuta esperienza che proprio le persone devotamente carenti erano volte a interrogarsi, accorgersi, rielaborare, deviare dall’assuefazione - per l’edificazione di nuovi sentieri, anche procedendo a tastoni.
Non potendo godere del mantello perbenista di paraventi sociali, dopo una presa di coscienza della propria situazione (e nel tempo) - rispetto a coloro che si ritenevano “arrivati” e amici di Dio - da “lontani” diventavano persone più degli “impeccabili” disposte ad amare.
Il mettersi in discussione è fondamentale in ottica biblica.
Ad ogni pie’ sospinto la Scrittura ci propone una spiritualità dell’Esodo, ossia una strada di liberazione da pastoie e percorsa come a piedi, passo dopo passo. Quindi che valorizza sentieri di ricerca, esplorazione, scoperta di sé e della Novità di un Dio che non ripete, ma crea.
L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].
Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente “natura”, quindi il loro essere nel mondo è condizionato [ricordo che il mio professore di antropologia teologica Ignazio Sanna diceva addirittura «de-centrato»], persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).
Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.
Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.
Per giungere a essere immagine e somiglianza del Signore, dobbiamo sviluppare capacità di risposta a una Vocazione che ci rende non dei fenomeni, né “perfetti” eccezionali, bensì Testimoni particolari.
Scelti per Nome, così come siamo; che abbracciano il loro essere profondo - anche inespresso - fino a riconoscerlo nel Tu, e dispiegarlo nel Noi.
La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.
Per una Nuova Alleanza.
Nell’Antico Testamento il credente entrava in contatto con la purità divina frequentando luoghi sacri, adempiendo prescrizioni, recitando preghiere, rispettando tempi e spazi, scansando situazioni imbarazzanti; così via.
La nostra esperienza e coscienza attestano infallibilmente che l’osservanza rigorosa è troppo rara, o di maniera: dentro, spesso non ci corrisponde - né umanizza.
Essa diventa presto o tardi un castello di carte, malfermo tanto più punta “in alto”. Basta disporne una sola in modo maldestro, e la costruzione artificiosa crolla.
Ci rendiamo conto della nostra naturale impossibilità a soddisfare sterilizzazioni, mappe (altrui) e standard così elevati.
Con Gesù la Perfezione non riguarda il “pensiero”, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.
In antichi contesti il cammino dei figli è stato ammantato d’una proposta misticheggiante o rinunciataria fatta di astinenze, digiuni, ritiri, vita appartata, adempimenti cultuali ossessivi... che in molte situazioni hanno costituito la trama portante della spiritualità pre-Conciliare.
Ma nella Scrittura i Santi non hanno l’aureola e neppure le ali.
Non sono tali per aver compiuto miracoli di guarigione incomparabili e stupefacenti: bensì donne e uomini inseriti nel mondo comune e negli aspetti più ordinari.
Essi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana; la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.
E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.
Nel Primo Testamento «Qadosh» designava esclusivamente un attributo dell’Eterno [unica Persona non intermittente] - e la sua separatezza dall’intreccio delle spesso confuse ambizioni terrene.
Malgrado i difetti, però, in Cristo diventiamo capaci di ascolto, di percezione; quindi abilitati a cogliere ogni opportunità per rendere testimonianza della Gratuità innata, vitale, dell’iniziativa divina e reale.
Incessantemente la vita provvidente si propone e viene incontro per aprire varchi impensabili, che fanno breccia.
I suoi inediti tragitti di crescita rinnovano l’esistere tutto concatenato e conforme.
Ciò anche facendoci stupire delle risorse intime, prima inconsapevoli o inconfessate e sottaciute, ovvero imprevedibilmente nascoste dietro lati oscuri.
Quel ch’è Insigne non viene più spostato dietro nuvolette e collocato in recinti muniti.
Pertanto, avversario di Dio non sarà la trasgressione: diventa viceversa la mancanza di spirito di Comunione, nelle differenze.
Nemico della storia di Salvezza non è l’incompletezza religiosa, ma il divario dalle Beatitudini - e dallo spirito in fieri del «viandante» per il quale “peregrinare” è sinonimo [non paradossale] anche di “errare”.
Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].
“Peccato” è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non parziali. Ciò armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.
Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.
Infatti Gesù non raccomanda dottrine, né di parcellizzare la propria vicenda con etilismi puntuali. Neppure prospetta alcuna religiosa scalata [in termini di progressività] condita di sforzi.
A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.
Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi.
Il Santo è il piccolo, non l’eroe tutto d’un pezzo, uniforme, pronosticabile, scontato.
Santo è colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto, ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).
These divisions are seen in the relationships between individuals and groups, and also at the level of larger groups: nations against nations and blocs of opposing countries in a headlong quest for domination [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
But the words of Jesus may seem strange. It is strange that Jesus exalts those whom the world generally regards as weak. He says to them, “Blessed are you who seem to be losers, because you are the true winners: the kingdom of heaven is yours!” Spoken by him who is “gentle and humble in heart”, these words present a challenge (Pope John Paul II)
È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore”, queste parole lanciano una sfida (Papa Giovanni Paolo II)
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)
Il primo elemento costitutivo del gruppo dei Dodici è dunque un attaccamento assoluto a Cristo: si tratta di persone chiamate a “essere con lui”, cioè a seguirlo lasciando tutto. Il secondo elemento è quello missionario, espresso sul modello della missione stessa di Gesù (Papa Giovanni Paolo II)
Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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