Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua
GIOVEDÌ SANTO [17 aprile 2025]
Carissimi Invio un testo per meditare il mistero del Giovedì sacerdotale, uno per contemplare il dono della Croce mistero di passione e di gloria per il Venerdì santo, e una nota che può interessare sulla Veglia pasquale di cui sarebbe importante recuperare il senso e valore teologico e pastorale.
Piuttosto che fornire come di consueto un commento per ogni lettura biblica, preferisco proporre una meditazione su Gesù che lava i piedi ai discepoli perché è un gesto che ci introduce nel cuore del mistero del Giovedì Santo.
1. Eucaristia dono e servizio di amore
Punto di partenza è questo testo di sant’Agostino: “Surge et ambula: homo Christus tua vita est, Deus Christus patria tua est. Alzati e cammina: l’uomo Cristo è la tua vita, Cristo Dio è la tua patria (sant. Agostino, Discorso 375c)
Il quarto vangelo non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, ma approfondisce la testimonianza dei sinottici precisando che cosa Cristo voleva donarci nel mistero-sacramento eucaristico. Al posto delle parole dell’istituzione l’evangelista pone il racconto della lavanda dei piedi per indicare il senso e lo scopo del mistero eucaristico che è vivere nell’amore reciproco sull’esempio di Gesù. La lavanda dei piedi non sostituisce quindi il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia fatta da Matteo, Marco e Luca, ma intende presentarla come dono e servizio d’amore. Benedetto XVI invita a non fermarsi sulle differenze dei vangeli quando narrano l’ultima Cena: “per Giovanni, è Cena d’addio mentre per i sinottici è Cena Pasquale”. Scrive infatti che una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma Gesù ha rivelato in questo contesto la novità della sua Pasqua. Anche se il convito con gli apostoli non è stato una Cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la stretta connessione con la morte e la risurrezione di Cristo. Era la Pasqua di Gesù nella quale ha donato sé stesso e così ha veramente celebrato con loro la Pasqua. In questo modo non è stato negato l’antico, ma l’ha condotto al suo pieno compimento (cf. Gesù di Nazaret, II, p. 130). L’essenziale è fare costante memoria che quella sera Gesù celebrò la sua, la vera Pasqua. Ci aiuta a meglio focalizzare questa verità la liturgia con la sequenza “Lauda Sion” composta da san Tommaso d’Aquino in occasione della festa del Corpus Domini nel 1264: “Novae cenae novus rex, novae paschae novus lex, vetus transit observantia. La prima santa Cena è il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge e l’antico è giunto al termine”. Prosegue poi la sequenza: “Quod in cena Christus gessit - faciendum hoc espressit - in sui memoriam. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena - noi lo rinnoviamo”.
2. La forza dirompente della nuova Pasqua
La lavanda dei piedi ci aiuta proprio a comprendere la forza dirompente della “nuova Pasqua”. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Terminata la vita pubblica, Gesù lascia ai suoi avversari la “Pasqua dei giudei” e si prepara a celebrare la “sua” Pasqua con pochi prescelti e fra gli apostoli c’è il traditore. Che momento di grande sofferenza! Eppure Giovanni presenta quest’ora colma di dolore e tragicità come il momento atteso da Cristo, come “l’ora della gloria”. Scrive ancora Benedetto XVI che ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metàbasis) ed amore (agàpe). Due parole che si interpretano e spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Il passaggio è una trasformazione perché Cristo reca con sé la sua carne, il suo essere uomo. Donando sé stesso sulla croce la trasforma, trasforma l’uccisione in dono d’amore sino al colmo, fino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla croce: tutto è stato portato a termine, “è compiuto” (Gv 19, 30). Mediante il suo amore la croce, strumento di morte, diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione siamo tutti coinvolti e anche la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione.
Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto (cf Gv 13, 2-5). Con piena consapevolezza il Signore si accinge a compiere il grande e umile gesto della lavanda dei piedi. Sull’ultima Cena Giovanni non fornisce molti particolari, annota soltanto mentre cenavano, che è anche traducibile con “quando la cena era pronta”, oppure: “terminata la cena”. L’evangelista non è molto interessato ai dettagli di quel pasto e preferisce sorprenderci con la scelta inaspettata di Gesù. L’interruzione della cena per lavare i piedi è un fatto che disturba e stimola a riflettere per cercare le ragioni di tale scelta.
2. Otto verbi per capire questo rito inusuale e imprevisto
La nostra attenzione è provocata a capire quel suo gesto meditando anche sulla sua minuziosa descrizione compiuta con ben otto verbi: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino, cominciò a lavare i piedi, li asciugò, riprese le vesti” dopo di che si siede di nuovo pronto a spiegarne il significato. San Giovanni accumula i verbi senza ripetersi perché il gesto di Gesù rimanga impresso nella mente del lettore dato che intende mostrare che il vero amore si traduce sempre in azioni concrete di gratuito servizio. Ecco allora Gesù che si spoglia e si cinge di un grembiule ricordandoci ciò che leggiamo in san Luca: “Ecco io sto in mezzo voi come uno che serve” (22,27). Il deporre le vesti esprime simbolicamente anche l’imminente dono della vita. Facendo questo vuole coinvolgere, partendo da Pietro, tutti i discepoli e anche ciascun credente: quindi anche noi.
A una prima valutazione questo rito inusuale e imprevisto appare come un invito a lasciarci purificare sempre e di nuovo dall’acqua fresca e salutare della sua parola e del suo amore. Si tratta di un “segno” autorevole perché il gesto e le parole sono sostanziate dal dono di sé stesso fin oltre la morte. Poche ore dopo infatti mentre ormai esanime giace in croce, il colpo di lancia di un soldato farà uscire dal suo costato sangue insieme ad acqua (cf Gv19,34) mostrando il suo corpo trafitto quale dono totale oltre la morte. Le parole di Cristo sono molto più di una semplice comunicazione; sono piuttosto carne e sangue per la vita del mondo poiché Gesù stesso è il Verbo fatto carne (Gv1,14) e la sua parola è vita che si dona, presenza reale, pane che fa vivere. In ogni sacramento celebrato in fedeltà alla sua parola, Cristo s’inginocchia e purifica la nostra vita.
3. L’opera di Dio a favore dell’uomo parte dal basso
Nel lavare i piedi Gesù presenta il servizio vicendevole, ispirato dall’amore, come il tramite indispensabile per mantener viva la sua presenza nella nuova Comunità nella quale i discepoli avranno il compito di creare condizioni di libertà e di uguaglianza, ponendosi ognuno a servizio dell’altro. L’opera di Dio a favore dell’uomo non viene dall’alto come un’elemosina, ma parte dal basso per innalzare l’uomo al livello divino. Così fa Gesù, Il leader indiscusso, che abbandona il suo ruolo per mettersi al disotto dei suoi discepoli: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Svuotò sé stesso (ekenosen): Cristo si è spogliato volontariamente della sua gloria divina per farsi servo, per entrare nella condizione umana con umiltà, debolezza e vulnerabilità, “obbediente fino alla morte”.
Non facciamo fatica a capire Pietro che è disorientato, incapace di accettare quanto il Signore sta compiendo, anzi lo rifiuta del tutto. “Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!” (Gv 13,6-9). Pietro esprime perfettamente l’atteggiamento degli Undici che, dopo essere stati con lui per anni, pensano di conoscere tutto di Gesù. Pietro però, probabilmente interpretando il pensiero degli altri, non sa ancora dove il Maestro vuole arrivare amando “sino alla fine” e per questo Gesù gli ribadisce l’importanza del gesto perché tutti comprendano: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Nella sua azione educativa il divino Maestro prima insegna con i fatti, poi spiega a parole. Anzi, in verità, non spiega o spiega molto poco procedendo per affermazioni; non condanna, ma fa capire quanto è perdente chi pensa ed agisce come Pietro che non vuole lasciarsi lavare i piedi e quindi non avrà parte con lui. Che dramma essere separati da Colui che ti ama “fino alla fine”!
Gesù però è paziente nell’attesa, sa che può essere lungo il tempo necessario per comprendere e mettere in pratica il suo vangelo. Osservando come educa Pietro possiamo imparare ad agire come lui desidera, restando alla sua scuola da discepoli umili e fedeli.
4. L’esempio di Cristo fonda e accompagna la nostra azione educativa
La lavanda dei piedi è per noi il modello da ben intteriorizzre e mettere in pratica. Questo perché siamo in presenza di un sacramentum che è al tempo stesso exemplum. Sacramentum cioè mistero di Cristo e forza che ci trasforma in una nuova forma di essere, rinvigorendoci con energia di vita nuova. Exemplum perché Cristo resta colui che si dona e sempre continuamente ci precede. La radice dell’etica cristiana non sta anzitutto nella nostra capacità morale, ma nel dono di Dio a noi. Sta nel dono gratuito di Dio la ragione per la quale l’atto centrale del nostro essere cristiani è l’Eucaristia: cioè gratitudine infinita per la vita nuova che la Santissima Trinità ci comunica con la morte e risurrezione di Cristo. Ne consegue che il Mandatum Novum consiste nell’amare insieme a colui che ci ha amati per primo e mai prescindendo da questa verità. Come per Pietro, anche a ognuno di noi tocca imparare che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra immagine di grandezza e che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale spoliazione del proprio io. E questo va sempre di nuovo ribadito perché siamo costantemente tentati di cercare il Dio del potere e del successo, o addirittura dei compromessi, e non quello della Passione. E’ sempre faticoso e difficile, come osservava Benedetto XVI, rendersi conto che il Pastore viene come un Agnello immolato che si dona e, con questo stile, ci conduce al pascolo giusto.
Giovanni Papini, uno scrittore convertito del XX secolo, nella sua geniale e dallo stile vibrante e viscerale “Vita di Cristo” mette in luce un collegamento tra la lavanda dei piedi e la missione degli apostoli. Egli scrive: «Gli Undici, al di là della sorda natura, avevano qualche diritto al beneficio della lavanda. Per settimane di mesi quei piedi avevano camminato le polverose, le fangose, le merdose strade della Giudea per seguire colui che dava la vita. E dopo la sua morte dovranno camminare, anni ed anni, su strade più lunghe, più malnote, in paesi de’ quali non sanno, oggi, neppure il nome. E la mota straniera lorderà, attraverso i calzari, i piedi di coloro che andranno, come pellegrini e forestieri a ripeter la chiamata del Crocifisso». Probabilmente Papini si collega ad Agostino che in modo più elegante e pacato, aveva presentato la lavanda dei piedi come un diritto e una necessità per tutti gli evangelizzatori. Per Agostino la lavanda, oltre ad essere un gesto esemplare per educare i discepoli, è anche un aiuto per gli apostoli nel loro compito di evangelizzatori. Scrive in proposito: «Quando noi, chiesa, annunciamo il vangelo, o Cristo, camminiamo sulla terra e ci sporchiamo i piedi per venire ad aprirti la porta [per farti entrare nel cuore delle persone che ci hai affidate]. Quando ti predichiamo, camminiamo con i piedi in terra per venire ad aprirti la porta. Lava i nostri piedi che...si sono sporcati camminando sulla terra per venire ad aprirti» (Omelia 57 su Gv).
5. Il Giovedì Santo occasione per purificare il servizio sacerdotale
In definitiva per noi sacerdoti il Giovedì Santo è occasione quanto mai propizia per domandare a Gesù di purificare il nostro servizio sacerdotale. Alla fine di faticose giornate di lavoro apostolico ci accorgiamo di esserci “sporcati i piedi” per aver dato troppa importanza a noi stessi così da rendere più difficile l’incontro di Cristo con le persone. Sentiamo risuonare in noi le sue parole: “Vi ho dato l’esempio perché come (kathòs) ho fatto io, facciate anche voi” (Gv13,13). Kathòs si può tradurre come, ma qui ha un significato speciale: indica un’azione che produce un effetto voluto ed è come se Gesù dicesse: facendo questo io rendo possibile anche a voi di agire come me nel servire i fratelli. Mentre i sinottici hanno trasmesso il suo comando “Fate questo in memoria di me”, riferendosi al gesto della “consacrazione” (Lc22,19; Mt26,26; Mc14,22), Giovanni ricorda che la nuova comunità dei suoi discepoli dovrà rendere presente il suo Signore anche nel servizio reciproco oltre che nel culto eucaristico: “Sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17). Nel quarto vangelo troviamo scritte soltanto due beatitudini: questa è la prima rivolta direttamente agli apostoli presenti; l’altra sarà proclamata otto giorni dopo la risurrezione e riguarda specialmente i futuri discepoli: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 29). Entrambe sono necessarie soprattutto per noi, sacerdoti, scelti da lui per proseguirne la missione: saremo beati solo se uniremo la pratica della carità alla saldezza della fede.
In sintesi, il gesto di Cristo della lavanda dei piedi mostra in maniera visibile che l'amore deve tradursi in accoglienza fraterna, ospitalità e perdono conservando sempre lo stile e lo spirito del servizio da lui affidato agli apostoli, un ministero d’amore umile, gratuito fondato sempre su di lui. In definitiva si tratta di una vocazione a “lavare i piedi” nel cuore del mondo.
Origene, vissuto tra il 185 e il 253/254, Padre della Chiesa di lingua greca, maestro di teologia spirituale e allegorica scrive in una sua omelia: «Gesù, vieni, ho i piedi sporchi. Per me fatti servo, versa l'acqua nel bacile; vieni, lavami i piedi. Lo so, è temerario quel che ti dico, ma temo la minaccia delle tue parole: Se non ti laverò, non avrai parte con me. Lavami dunque i piedi, perché abbia parte con te» (Omelia 5 su Isaia). E sant’Ambrogio, vescovo di Milano (339-397) e uno dei più importanti Padri della Chiesa latina, teologo dal taglio pastorale e spirituale, c’insegna a pregare così: «O mio signore Gesù, lasciami lavare i tuoi sacri piedi; te li sei sporcati da quando cammini nella mia anima... Ma dove prenderò l'acqua della fonte per lavarti i piedi? In mancanza di essa mi restano gli occhi per piangere: bagnando i tuoi piedi con le mie lacrime, fa' che io stesso rimanga purificato» (La penitenza, II, cap. 7). Infine, Jacques Dupont, monaco certosino, priore della certosa di Serra san Bruno e procuratore generale dell’ordine certosino (1993-2014), morto il 13 gennaio 2019 osserva: «Solo chi accetta di farsi lavare i piedi può farlo ad un altro senza atteggiamento di superiorità».
VENERDÌ SANTO [18 Aprile 2025]
Per quest’oggi ecco una riflessione su “La croce, unica speranza del mondo”
1. Cronaca di una morte violenta
Ogni Venerdì Santo la liturgia ripropone la proclamazione della Passione di Cristo secondo san Giovanni. A ben vedere è in ultima analisi la cronaca di una morte violenta ed episodi del genere, all’epoca come a oggi, fanno parte della cronaca quotidiana. Uccisioni di criminali, persone vittime di attentati, gente innocente colpita da disgrazie, incidenti d’auto o sul lavoro con perdite di vite umane, disastri creati da calamità naturali come il recente devastante sisma in Myanmar, uno dei più forti registrati nel paese in oltre un secolo, persone uccise a causa della loro fede. Sono tutte notizie che si susseguono rapidamente e durano poco nel panorama rapido quotidiano della pubblica opinione. Al contrario la crocifissione di Gesù di Nazaret, avvenuta oltre due millenni fa, continua ad essere un evento vivo come se avviene oggi e questo perché la sua morte ha cambiato per sempre il volto della morte; anzi ha dato un nuovo significato e senso alla morte. Vale la pena allora fermarsi a meditare su questa morte che ha vinto per sempre la morte.
2. Dal tempio distrutto sgorga sangue e acqua
Un giorno Gesù a Gerusalemme, rispondendo a chi chiedeva con quale autorità cacciasse i mercanti dal tempio, rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 19. 21), commenta l’evangelista Giovanni, ma i suoi interlocutori non capirono. Era in verità un segno anticipatore d’un altro evento che nel racconto della passione di Giovanni trova piena comprensione. A crocifissione compiuta, vedendo che era già morto, non spezzarono le gambe a Gesù come agli altri due crocifissi, ma “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco e subito uscì sangue e acqua” (Gv19, 32-34). Si coglie qui il riferimento alla profezia di Ezechiele che parlava del futuro tempio di Dio, dal fianco del quale sgorga un filo d’acqua che diventa un ruscello, quindi un fiume navigabile e intorno a cui fiorisce ogni forma di vita (cf. Ez 47, 1 ss.). Quel tempio “distrutto” da cui sgorgano acqua e sangue è il cuore di Cristo trafitto, sorgente di un “fiume di acqua viva” (Gv 7, 38). Il cuore di Cristo già morto è vivo perché ha vinto la morte; il Cristo risorto dalla morte è vivo e anche il suo cuore vive in una nuova dimensione non fisica ma mistica. Facile pure il rimando all'Agnello che vive in cielo “immolato, ma in piedi” di cui parla l’Apocalisse (5, 6). Cristo è l’Agnello di Dio che si è sacrificato, ma ora vive risorto e glorificato “in piedi come immolato”. Il suo cuore trafitto é vivente, anzi “eternamente trafitto, proprio perché eternamente vivente”. In ogni Venerdì Santo, a conclusione della celebrazione della Passione di Cristo, dopo il suo “consummatum est - è compiuto” Gesù chinato il capo consegna lo spirito (Gv19,30). L’espressione “Consummatum est” (dal greco Τετέλεσται, Tetélestai) è densa di significato: è il compimento totale della missione di Gesù che ha portato a termine l’opera affidatagli dal Padre, realizzando le Scritture e il piano della salvezza.
3. Cristo consegna lo spirito
L’espressione latina “tradidit spiritum” (Gv19, 30) nella versione greca originale del Nuovo Testamento in greco koinè “παρέδωκεν τὸ πνεῦμα” (parédōken tò pneûma) significa “egli consegnò”, “egli affidò”. È il verbo παραδίδωμι, che implica un atto volontario di consegna, mentre τὸ πνεῦμα (tò pneûma) = “lo spirito” può significare sia il respiro vitale sia, in senso più profondo, lo Spirito Santo. Tutto ciò si compie perché Gesù offre la sua vita liberamente per la salvezza dell’intera umanità. Da qui ha origine la saldezza della speranza dei cristiani che non teme ostacolo e resiste a ogni contrasto da allora fino alla fine del mondo: nonostante l’ammassarsi nel cuore degli uomini e nelle strutture nel mondo una mole crescente del male che fa sembrare l’umanità abitata da un “cuore di tenebra”, il sacrifico di Cristo fa palpitare nell’universo un cuore vivo di luce: il suo Cuore. “Ora si compie il disegno del Padre –dice un’antifona della Liturgia delle ore -, fare di Cristo il cuore del mondo”: proprio da questa certezza prende vigore l’ottimismo di noi cristiani. Illuminati dalla parola di Dio scrutiamo la realtà con il metro della saggezza dello Spirito e, certi della vittoria di Cristo, possiamo proclamare con la beata Giuliana di Norwich: “Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene e tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene” (Giuliana di Norwich).
4. Stat crux dum volvitur orbis. “La Croce sta salda mentre il mondo gira”
I monaci certosini hanno adottato uno stemma che figura all’ingresso dei loro monasteri, come nei loro documenti ufficiali. In questo stemma è disegnato il globo terrestre, sormontato da una croce e contornato da questa frase: “Stat crux dum volvitur orbis”: resta immobile la croce tra gli sconvolgimenti del mondo. L’affermazione “Stat crux dum volvitur orbis” contiene una verità spirituale confortante: in mezzo al vortice del tempo, del caos, dell’instabilità del mondo, la Croce rimane l’unico punto fermo, l’asse attorno al quale ruota tutto. La Croce è veramente come l’albero maestro della nave nella tempesta del mondo e diversi autori cristiani hanno usato immagini navali proprio parlando della Croce: San Colombano (VI-VII sec.) scriveva: “Il mondo è come un mare in tempesta: se vuoi arrivare al porto, attacca il tuo sguardo al legno della Croce.” Origene (III sec.) commentando l’Arca di Noè, vede in essa un’immagine della salvezza e della Chiesa, e nel legno un riferimento alla Croce. Chi vi si aggrappa, non affonda nel diluvio del mondo. Sant’Ambrogio nella sua esegesi della vicenda di Noè e della traversata del Mar Rosso, parla della Croce come timone e vela della Chiesa: è la Croce che guida, orienta. In verità l’albero maestro, la struttura centrale che sostiene la vela di una nave, è figura perfetta della Croce perché tiene insieme la nave della vita: permette orientamento anche nella burrasca; essendo verticale, unisce terra e cielo e porta la vela dello Spirito, che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8). “Stat Crux, dum volvitur orbis” ci ricorda che la Croce non è un simbolo di sconfitta, ma di stabilità, direzione e speranza. Anche se tutto gira, anche se la vita è scossa dalle onde, la Croce è il centro fermo del mondo, l’asse del senso di tutta la storia. Lo scrittore giapponese Shusaku Endõ, nel suo romanzo “Silenzio “(Chinmoku, 1966), ambientato nel contesto delle persecuzioni del XVI secolo, mostra la croce come paradosso vivente: strumento di morte, ma anche emblema di salvezza e di pace. La Croce di Cristo è il “No” definitivo e irreversibile di Dio alla violenza, all’ingiustizia, all’odio, alla menzogna, a tutto ciò che chiamiamo “il male”. Al tempo stesso è il “Si” totale e irreversibile all’amore, alla verità, al bene. “No” chiaro al peccato e “Si” al peccatore: questo è lo stile della vita e dell’azione di Gesù durante tutta la sua vita e che ora consacra definitivamente con la sua morte. Di tutto ciò è dimostrazione vivente il buon ladrone, a cui Gesù morente promette il paradiso. Bisogna aver sempre chiara questa distinzione: il peccatore è creatura di Dio e conserva la sua dignità, nonostante tutti i propri traviamenti, mentre il peccato è frutto delle passioni e istinti e della “invidia del demonio” (Sap 2, 24) e per questo incarnandosi, il Verbo ha assunto tutto dell’uomo, eccetto il peccato. Davanti al Cristo crocifisso tutti, ma veramente tutti anche i più disperati, possono recuperare la fiducia e nessuno dica come Caino: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono” (Gen 4, 13). La croce di Cristo non “sta” contro il mondo, ma per il mondo: dà senso e persino valore a ogni tipo di sofferenza umana. All’anziano Nicodemo Gesù confida che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 17) e la croce proclama in maniera viva la vittoria finale dell’Amore. Non vince chi è dominatore degli altri, ma chi trionfa su sé stesso, non chi ferisce e fa soffrire, ma chi soffre anche ingiustamente e perdona.
5. La Croce speranza certa nell’era digitale e volatile
La Croce di Cristo resta segno di speranza certa “dum volvitur orbis”. Il mondo, fin dalla sua origine, è segnato da costanti e mutevoli sconvolgimenti. Dalla primitiva età della pietra siamo ora all’era del digitale e del numerico, dove i dati numerici sono diventati il cuore della comunicazione, della conoscenza, dell’economia e persino della cultura. Domina così la digitalizzazione massiva: ogni informazione (testi, immagini, suoni, azioni) è convertita in dati numerici (bit), l’automazione e algoritmi. Dalla finanza alla salute, tutto è gestito da sistemi numerici e intelligenze artificiali per cui il dato numerico è il nuovo “petrolio”, usato per profilare, prevedere, influenzare, molte anzi quasi tutte le attività: comunicazione, lavoro, relazioni. Ci si muove ovunque in ambienti digitali non fisici e l’interconnessione globale, grazie a reti digitali, crea un mondo istantaneamente connesso, ma purtroppo estremamente fragile. L’uomo rischia di essere ridotto a dato, a comportamento misurabile. La verità è ciò che può essere quantificato, calcolato e controllato. La libertà è sotto minaccia dalla sorveglianza algoritmica e l’idea di transizione non basta più a descrivere la realtà in atto. All’idea di mutazione oggi si associa quella di frantumazione in una società “liquida” cui si associa l’acronimo VUCA (volatilità, incertezza, complessità, ambiguità), dove non esistono punti fermi, valori indiscussi. Il risultato è che purtroppo non c’è nulla di stabile a cui aggrapparsi: si ci perde nel “nulla” che non è solo assenza, ma un vuoto esistenziale che spesso si riempie di ansia, disorientamento, oppure con un’attività frenetica che serve solo a mascherarlo. L’oceano digitale resta una realtà complessa, per alcuni versi affascinante ma pericolosa: offre possibilità e rischi imprevisti, per questo richiede attenzione, prudenza e responsabilità. Padre Cantalamessa, in una sua predicazione del Venerdì Santo in San Pietro, ha così descritto la nostra era: “ Tutto è fluttuante, anche la distinzione dei sessi. Si è realizzata la peggiore delle ipotesi che il filosofo aveva previsto come effetto della morte di Dio, quella che l’avvento del super-uomo avrebbe dovuto impedire, ma che non ha impedito: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125). E aggiungeva l’ex predicatore della casa Pontificia: “È stato detto che “uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi”, ed è quello che in parte stiamo vedendo. Non è vero che “dove nasce Dio, muore l’uomo” (J.-P. Sartre); è vero il contrario: dove muore Dio, muore l’uomo. Salvador Dalì ha dipinto un crocifisso che sembra una profezia di questa situazione. Una croce immensa, cosmica, con sopra un Cristo, altrettanto monumentale, visto dall’alto, con il capo reclinato verso il basso. Sotto di lui, però, non c’è la terra ferma, ma l’acqua. Il Crocifisso non è sospeso tra cielo e terra, ma tra il cielo e l’elemento liquido del mondo. Questa immagine tragica contiene però anche una consolante certezza: c’è speranza anche per una società liquida come la nostra perché sopra di essa “sta la croce di Cristo”.
6. O crux, ave spes unica
In ogni Venerdì Santo la Chiesa proclama la sua speranza, consapevolmente certa, con le parole del poeta Venanzio Fortunato: “O crux, ave spes unica”, Salve, o croce, unica speranza del mondo. Il Figlio di Dio che si è fatto uomo è morto ma non è più nella tomba: è risorto. Il giorno di Pentecoste Pietro proclama con forza alla folla: “Voi l’avete crocifisso ma Dio l’ha risuscitato!” (Atti 2, 23-24), Colui che “era morto, ora vive nei secoli” (Ap 1, 18). La croce non “sta” immobile in mezzo agli sconvolgimenti del mondo come ricordo di un evento passato o come un semplice simbolo, ma resta ben piantata nella storia come un evento di oggi, anzi di ogni istante perché Cristo vive con noi. Abbiamo tutti qualcosa di quel cuore di pietra di cui parla il profeta Ezechiele: “Strapperò da loro il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” (Ez 36, 26). Sì, è di pietra il cuore quando si chiude all’amore di Dio e diventa insensibile ai bisogni e alla sofferenza dei fratelli; quando si lascia sedurre dall’avidità di beni materiali ed è sordo al grido di chi non ha nemmeno un soldo per campare. Cuore di pietra è il mio quando mi lascio dominare dalle passioni e vivo di compromessi, falsità, violenza e impurità. S’indurisce il mio cuore, quando ripiegato su me stesso, m’impedisce di vivere per Cristo, che mi ha amato morendo per me. Il cuore mi fa tremare dinanzi alle tempeste improvvise che m’invadono e rischiano di precipitarmi nel buio della paura e dello scoraggiamento. In queste situazione può avvenire ciò che successe in contemporanea con la morte di Cristo: ”il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51s.). Anche in situazioni complesse come questa emerge un invito al coraggio della speranza. In una liturgia del Venerdì Santo, il papa san Leone Magno esortava così i fedeli: “Tremi la natura umana di fronte al supplizio del Redentore, si spezzino le rocce dei cuori infedeli e quelli che erano chiusi nei sepolcri della loro mortalità vengano fuori, sollevando la pietra che gravava su di loro” (Sermo 66, 3; PL 54, 366). Il cuore di carne preannunciato dai profeti, è il Cuore di Cristo trafitto sulla croce, “il Sacro Cuore” che continua a vivere nel nostro cuore quando lo riceviamo nell’Eucarestia. Annota l’arcivescovo Fulton Sheen: “Per il paradosso più straordinario della storia del mondo, crocifiggendo Cristo hanno dimostrato che Lui aveva ragione e loro avevano torto, e sconfiggendolo hanno perso. Uccidendolo lo hanno trasformato: per la potenza di Dio hanno cambiato la mortalità in immortalità…Lo hanno umiliato sul Calvario, ed Egli è stato esaltato e si è innalzato sopra un sepolcro vuoto. Hanno seminato il Suo corpo nel disonore ed è risorto nella gloria; Lo hanno seminato nella debolezza ed è risorto nella potenza. Nel togliergli la vita, Gli hanno dato Nuova Vita…Rifate l’uomo e rifarete il mondo! (Fulton J. Sheen, da “Justice and Charity”)
VEGLIA PASQUALE [19 Aprile 2025]
Spero possa esservi utile questa breve ricerca sulla Veglia Pasquale che rischia di perdere il suo significato e diventare quasi come la messa anticipata alla sera del sabato. Ma così non deve essere almeno per la Veglia di Pasqua.
La Veglia pasquale nella storia
La Veglia pasquale ha una storia bimillenaria, pur con vicende alterne nei tre periodi della sua vita. Ecco un suo rapido excursus storico per capirne sempre più il valore e l’importanza. La sua storia nella tradizione secolare della Chiesa, da un lato esprime una continuità celebrativa costante, non venendo mai a mancare, dall’altro subisce un’ampia oscillazione di orario, che la rende per lunghi secoli priva di coerenza tra il suo simbolismo e l’ora in cui avrebbe dovuto essere celebrata.
1. Primo periodo: la grande notte di Veglia
Ecco le principali tappe: - Primo periodo (II – IV sec.): la Veglia pasquale è la celebrazione base della Chiesa, la grande notte di Veglia in onore del Signore. Da essa si svilupperà in seguito tutto l’Anno Liturgico, come da sua sorgente e spartiacque. La Veglia antica occupa tutta l’estensione della notte: dal lucernale dei vespri alle prime luci dell’alba, quando con l’Eucaristia si compirà il Mistero e si realizzarà l’incontro sacramentale col Risorto, che in quell’ora apparve ai primi testimoni. È la pannukia pasquale, nella quale sono proclamate le principali pagine scritturistiche, delineando così una ampia panoramica della storia della salvezza, che avrà in Cristo morto e risorto il suo vertice e il suo compimento. In essa si conclude anche l’istruzione battesimale dei catecumeni con la proclamazione dei grandi eventi biblici, che richiamano il mistero della rigenerazione. È così che il Battesimo trova nella Veglia il luogo più adatto: si tratta di morire e risorgere con Cristo nel mistero dei segni sacramentali. In tal modo la Pasqua del Signore diventa anche la Pasqua dei cristiani, che passano dalla morte del peccato alla vita della grazia. Fin dai primi tempi, quindi la Veglia pasquale ospita i tre elementi fondamentali, che costituiranno una costante permanente in tutti i secoli: la Parola profetica, i Sacramenti della Iniziazione, il Sacrificio eucaristico. Il giorno domenicale successivo sarà senza liturgia, in quanto tutto si è concentrato nella celebrazione notturna, così solenne e prolungata. Del resto prima del secolo IV tale giorno è lavorativo e non consente celebrazioni.
2. Secondo periodo: la Veglio pasquale slitta al pomeriggio
Secondo periodo (sec. IV – XVI). Con la libertà religiosa la Veglia pasquale tende ad uscire sempre più dalla notte e slittare gradualmente nel pomeriggio del Sabato santo. Sul versante opposto l’Eucaristia solenne di Pasqua entra nel pieno giorno della domenica, ormai riconosciuta come festiva, originando una seconda e più solenne messa, quella ‘ del giorno’, mentre l’antica Messa della Veglia fa corpo con i riti notturni e scende con essi verso la vigilia. Inizialmente i Padri tendono ad assicurare che il popolo non sia congedato prima della mezzanotte, intesa come ora discriminante per l’autenticità e verità della stessa Veglia pasquale. Tuttavia, nella concreta celebrazione, l’orario si sposta sempre più al pomeriggio del Sabato santo, anche se permane la raccomandazione di non dimettere il popolo prima della mezzanotte e che il Gloria in excelsis non sia intonato prima del comparire delle prime stelle. Gradualmente la Veglia si fissa tra l’ora sesta e il Vespro e in tal modo viene recepita giuridicamente dal Messale di Pio V, che prevede che la Veglia inizi dopo l’ora Sesta e si concluda col Vespro. Tuttavia fin da san Pio V nella pratica, anche in seguito all’abolizione delle Messe vespertine (1566) la Veglia è di fatto celebrata al mattino del sabato santo. La prassi è recepita dal Cerimoniale dei Vescovi ed è definita nel Codice di diritto Canonico del 1917, che fisserà che il termine del digiuno pasquale col mezzogiorno del sabato santo. Con queste indicazioni la Veglia arriva fino alla sua grande riforma con Pio XII nel 1951. “Non si può negare che queste successive anticipazioni avevano creato, se non una incrinatura nella compagine unitaria del Triduo sacro, almeno uno stridente contrasto fra il mistero del giorno e le formule liturgiche che lo esprimono e che vi si sono sovrapposte. Ciò malgrado, la Chiesa manteneva i suoi riti, i quali conservano sempre per i fedeli la loro ragione storica-commemorativa e tutto il loro valore di simbolo e di mistero” (Righetti, vol. II, p. 252). Finché i tre santi giorni (Giovedì, Venerdì e Sabato Santo) erano civilmente festivi - anche se i riti erano ormai da secoli celebrati in orario mattutino e incompatibile con le Ore relative ai Misteri ricordati - continuarono ad essere frequentati dai fedeli, ma quando nel 1642 il Papa Urbano VIII dovette riconoscere questi giorni come lavorativi non fu più possibile la partecipazione del popolo cristiano ai riti del Triduo pasquale, che finirono per essere celebrati unicamente dal clero, con un’assolvenza più giuridica che pastorale. - Terzo periodo (dal 1955 ad oggi).
3. La Veglia pasquale torna al suo tempo
Con la riforma di Pio XII la Veglia pasquale ritorna al suo tempo conveniente con indicazioni precise, che ne garantiscono la coerenza celebrativa. Infatti il Decreto di restauro della Veglia pasquale, Dominicae Resurrectionis vigiliam (9 febbraio1951) al n. 9 afferma: “La solenne veglia pasquale si deve tenere all’ora competente, tale cioè che permetta di cominciare la messa solenne della stessa veglia verso la mezzanotte tra il sabato santo e la domenica di Risurrezione”. La fermezza di questa disposizione, che avrebbe assicurato una sicura riuscita in quanto ad orario alla celebrazione del solenne rito, è stata purtroppo stemperata, fin dall’inizio, nel medesimo decreto, da una concessione, che si rivelerà in seguito riduttiva del carattere notturno della Veglia, consentendo la sua celebrazione alla sera del Sabato santo. “Però dove, date le condizioni del luogo e dei fedeli, a giudizio dell’Ordinario, convenga anticipare l’ora della veglia pasquale, questa non si cominci prima del crepuscolo, mai comunque prima del tramonto del sole” (Idem n. 9). Tale disposizione influisce negativamente ancor oggi su una Veglia pasquale che di fatto non è mai stata notturna, ma semplicemente serale. Infatti, dalla prassi celebrativa risulta che già nei primi anni (1951-1955) nelle parrocchie si fa uso della facoltà di anticipare la Veglia alla sera. Con la riforma del Vaticano II e in particolare con l’Istruzione Paschalis Sollemnitatis del 16 gennaio 1988, si cerca di insistere maggiormente su una Veglia che sia veramente notturna e si afferma: “L’intera celebrazione della veglia pasquale si svolge di notte; essa quindi deve o cominciare dopo l’inizio della notte o terminare prima dell’alba della domenica’. Gli abusi e le consuetudini contrarie, che talvolta si verificano, così da anticipare l’ora della celebrazione della veglia pasquale nelle ore in cui di solito si celebrano le messe prefestive della domenica, non possono essere ammessi. Le motivazioni addotte da alcuni per anticipare la veglia pasquale, come ad es. l’insicurezza pubblica, non sono fatte valere nel caso della notte di Natale o per altri convegni che si svolgono di notte”. Tuttavia non si determina l’ora di mezzanotte come discriminante. Così in questa ulteriore incertezza la Veglia pasquale oggi tende a non decollare dal comodo orario serale. Come per la Messa di mezzanotte di Natale, anche per la Veglia Pasquale ha avuto grande influsso l’estensione del precetto festivo ai primi vespri, per cui la Veglia pasquale viene ritenuta legittima a partire dal tramonto del Sabato santo, come una messa ‘prefestiva’. Ciò non succedeva prima di questa disposizione, quando chi anticipava la Veglia alla sera sapeva anche che la Messa della notte assolveva il precetto, solo se celebrata dopo la mezzanotte. Per un efficace decollo della Veglia come celebrazione notturna, sarebbe oggi auspicabile una precisa indicazione di orario discriminante da parte dell’autorità della Chiesa, ritornando a stabilire in modo inequivocabile la mezzanotte come ora della liturgia eucaristica della Veglia stessa nella quale si entra col canto solenne del Gloria. Non si dovrebbero ammettere eccezioni, in quanto la Veglia si celebra solo nelle parrocchie o comunità ad esse assimilate, come atto corale, unico, e quindi irripetibile nella notte santa. Abbiamo visto come le concessioni in tal senso sono diventate la regola, perdendo di fatto la celebrazione notturna.
4. La Domenica di risurrezione inizia a mezzanotte
Per di più il terzo giorno del Triduo pasquale, ossia la Domenica di risurrezione, non inizia all’ora dei vespri del Sabato santo, quasi fossero i primi vespri della domenica, come è norma per il sabato ordinario e le vigilie. Il tempo della Domenica di risurrezione inizia alla mezzanotte, in quanto il Sabato santo è giorno della medesima solennità, come anche il Venerdì santo. I tre santi giorni, infatti, hanno il medesimo grado di solennità. Si capisce allora che, nel rito romano, non è possibile trattare l’ora serale del Sabato santo come tempo già appartenente alla Domenica di risurrezione.
La mezzanotte viene presa come l’ora di riferimento per unire le due parti della Veglia pasquale: la liturgia della Parola e la liturgia sacramentale. L’ora della risurrezione non ci è riferita dalla Sacra Scrittura. Essa appartiene al mistero di Dio. La Chiesa esprime questa consapevolezza quando nell’Exultet canta: “O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Per questo la tradizione liturgica sospinge la Chiesa a trascorre le ore notturne della notte santa nella veglia. Anzi la notte pasquale è, fin dall’antichità, una notte di veglia completa, fino all’alba, l’ora in cui il sepolcro è ritrovato aperto e vuoto. Tra le varie ore notturne, tuttavia, trova una considerazione specialissima l’ora di mezzanotte. Essa è legata a precisi eventi biblici, che costituiscono il fondamento della celebrazione notturna della Pasqua.
5. L’importanza della mezzanotte, l’Ora della Pasqua
La mezzanotte è la grande Ora a lungo preparata da Dio per salvare il suo popolo: “A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto… Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione” (Es 12, 29. 42). Anche il passaggio del mar Rosso avvenne di notte e si concluse sul far del mattino: “…Il Signore durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente…Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani…il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 21-27). Forse il tutto si compì in quei tre giorni di cammino nel deserto che Mosé richiese al faraone per celebrare il culto al Signore: “Ci è dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio…” (Es 5, 3). Quei tre giorni sono profezia del vero Triduo pasquale in cui il Signore operò, nella pienezza dei tempi, la nostra redenzione. L’evento della Pasqua ebraica si compie quindi nel contesto di almeno due notti: quella del banchetto pasquale col passaggio dell’Angelo sterminatore, e quella della miracolosa traversata del mar Rosso. La liberazione pasquale, allora, nelle sue fasi salienti, avviene nella notte. Ma è la mezzanotte l’ora segnata da Dio per compiere l’evento decisivo e risolutore: l’Angelo colpisce e il popolo parte: è l’ora della Pasqua. La veglia del mattino, di cui si parla nella notte del passaggio del mar Rosso, è quella della consumazione della liberazione del popolo “Sul far del mattino il mare tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 27) e della gioiosa contemplazione delle grandi opere di Dio: in quell’ora nasce il canto di vittoria (Es 15, 1). È fin troppo evidente la profezia della Pasqua del Signore Gesù, quando nel cuore della notte, nell’ora che Lui solo conosce, risorse dai morti e sul far del mattino si mostrò vivo ai suoi discepoli: è questa l’ora dell’Alleluia della Chiesa. Il libro della Sapienza riprende in tono celebrativo l’evento della Pasqua e offre alla liturgia della Chiesa un ulteriore elemento per indicare l’idoneità dell’ora di mezzanotte per attuare nel tempo la celebrazionememoriale e sacramentale del Mistero nelle sue due fasi costitutive, natalizia e pasquale. “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sap 18, 14-15). Anche il salmo allude alla singolare Ora della mezzanotte: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode” (Sl 118, 62). Veramente nella notte di Pasqua, l’Uomo nuovo, il Signore Gesù, si sveglia e si alza dal sonno della morte e, risorto a vita nuova, rende gloria al Padre; come già nella notte di Natale i vagiti del Bambino divino iniziarono la lode nuova e perfetta al Padre. Infine, nella parabola evangelica delle dieci vergini lo scoccare della mezzanotte segna l’ora del grande evento: “A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!” (Mt 25). La medesima ora è richiamata dal Signore stesso quando afferma: “E se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!” (Lc 12, 38). L’ora di mezzanotte adombrata nella parabola delle vergini diventa, nella interpretazione mistica della Chiesa, un indizio del possibile ritorno del Signore, non solo nell’ora escatologica, ma anche nella sua prima ora, quando nacque in mezzo a noi e anche quando risvegliandosi dal sonno della morte, ritornò glorioso tra i viventi. In tale prospettiva la mezzanotte divenne l’ora discriminante e il riferimento più eloquente per la liturgia notturna sia natalizia che pasquale. Una tradizione giudaica dice che Cristo verrà a mezzanotte, come al tempo dell’Egitto, quando si celebrò la Pasqua e venne l’angelo sterminatore e il Signore passò sopra le case e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue. Di qui, credo, quella tradizione apostolica conservatasi fino ad oggi, secondo cui durante la veglia pasquale non è lecito congedare le folle prima della mezzanotte, quando attendono ancora la venuta di Cristo, mentre passato quel momento tutti celebrano il giorno di festa in una ritrovata sicurezza”. S. GIROLAMO (cfr. CANTALAMESSA, R., La Pasqua nella Chiesa antica, ed Internazionale, Torino, 1978, p. 113)
6. La pastorale e il “dogma” della comodità
Quando la Veglia è celebrata di sera viene privata di una sua componente essenziale: offrire a Dio il tempo del sonno, santificando la notte, mediante l’ascesi del ‘vegliare’. Ci domandiamo: la pastorale deve proprio sposare il ‘dogma’ della comodità a tutti i costi, rinunciando alla notte di Pasqua e alla notte di Natale, come attualmente sta succedendo? Che almeno nelle due notti sante, di Pasqua e Natale, tutto il popolo di Dio, nelle normali parrocchie, si disponga alla solenne celebrazione, vegliando nella notte e offrendo a Dio con generosità il tempo notturno, è veramente cosa pastoralmente impossibile e improponibile ai nostri giorni? Il passaggio più singolare della Veglia pasquale, quando si canta il Gloria in excelsis e si riprende l’jubilus dell’Alleluia è spesso depotenziato: dopo una liturgia della Parola piuttosto breve, senza aver raggiunto un congruo clima di trepida attesa e, senza alcuno stacco rituale, si intona l’Inno angelico e si suonano le campane. Siamo lontani da quello stupore mistico e commosso di cui ci parlano le fonti antiche. È più eloquente la notte di Natale quando, a mezzanotte, si inizia la solenne eucaristia ‘in nocte’. Perché allora privare l’annunzio pasquale nella notte santa dell’esperienza dell’attesa fervorosa, che dà vigore e letizia spirituale all’annunzio della risurrezione, proprio al primo esordio del giorno in cui avvenne la risurrezione, il giorno ottavo che non avrà mai più tramonto? Questo non è sentimentalismo, ma ricchezza celebrativa, forza coesiva e testimonianza efficace.
7. Ridare alla Veglia pasquale il senso della gioia
Se si vuole ridare alla Veglia pasquale il senso gioioso e commovente dell’attesa, occorre consentire che essa abbia il tempo necessario per impostare un itinerario progressivo verso un preciso termine, che in antico era il primo albeggiare del giorno della risurrezione e che oggi dovrebbe essere necessariamente lo scoccare della mezzanotte alla soglia della grande e santa Domenica di Pasqua. Dal momento che la liturgia si è arricchita in modo irreversibile della Messa solenne del giorno di Pasqua, e che questo giorno è ormai rivestito di regale e grande solennità, non è più auspicabile riproporre a tutto il popolo una Veglia che si estenda fino al mattino, come in antico per poi necessariamente ridurre la domenica di Pasqua a un giorno liturgicamente ‘vacante’. In questo contesto la mezzanotte dovrebbe ridiventare l’Ora da tutti accolta come discriminante tra le due parti della Veglia. Diversamente succede quello che attualmente si può constatare nelle varie ore serali del Sabato Santo: uno già ritorna dalla Veglia pasquale in una chiesa, mentre l’altro parte per la Veglia in un’altra chiesa. Povera Pasqua! Così è ridotta ad affare privato, persa nella routine del sabato sera. La celebrazione della Veglia, fatta all’unisono da tutte le comunità cristiane sul crinale della mezzanotte, offre un eccellente occasione per una testimonianza corale: la Chiesa, convocata nel cuore della notte santa, attende e annunzia la risurrezione del Signore. La Chiesa, celebrando all’unisono la Veglia pasquale percepisce quasi fisicamente il suo essere un cuor solo e un’anima sola, soprattutto quando, a mezzanotte, acclama Cristo risorto e lo annunzia al mondo. Per esprimere concretamente tale sinfonia, la mezzanotte diviene un criterio necessario e discriminante. In questo contesto, sarà possibile dare all’unisono anche l’annunzio pasquale al mondo esterno col suono delle campane.
+Giovanni D’Ercole
Oggi abbiamo un’impressione di oblio, del Signore.
La fossa sembra riesca a celarlo e zittirlo, tanto che non c’è neppure bisogno di contestarlo - basterebbe trascurarlo o compatirlo.
Vogliamo invece meditare ancora sulla rivoluzione di Cristo e la sua nuova Luce, per riconoscerla nostra, assimilarla e viverla - sin dalle radici dell’essere e nel nostro cammino.
Il Silenzio di Dio è parte della Rivelazione: Gloria e Vita che ci corrispondono; in modo democratico, poliedrico, non unilaterale.
Silenzio che ha rispetto del nostro ‘fiore’.
In tal guisa, tra gli alti e bassi anche della nostra vita, ecco il deporsi e il misterioso brigare dei ‘semi’ - tutta una serie di alternative:
Un differente Volto di Dio, creatore e redentore della nostra intelligenza e libertà; educatore mai arcigno - né dominatore pronto a scatenare rappresaglie.
Non sovrano che governa emanando leggi, ma Genitore che trasmette la sua stessa Vita.
Non Lo incontriamo innalzandoci e forzando, perché è Lui che incessantemente si propone, si rivela, e Viene.
Non sta “a capo” e tu dietro; non si piazza sopra mentre tu resti sotto.
Non si mette “davanti” nel modo che qualcuno sia destinato a retrocedere [coi più forti, svelti e organizzati sempre vicini, senza possibilità di ricambio].
Un’attività di denuncia della falsa religione: quella degli adempimenti ripetitivi - e delle idee fisse o troppo sofisticate, disincarnate - sotto una cappa di plagio, paure, intimidazioni.
Il Signore è giusto, perché ci comprende. Bando alle maniere vuote, futili, dispersive.
Chi si ritrova socialmente costretto non è mai se stesso e non può amare, in quanto condizionato; soverchiato da confronti e necessità esterne.
Una nuova autenticità della donna e dell’uomo, non più identificati in ruoli e personaggi da ricalcare e confrontare, bensì autonomi e realizzati per Chiamata personale.
Non attratti dal connubio cultura-devozione-potere-interesse, bensì affascinati dalla Sapienza che abita ogni lieve e piccola Unicità.
Così liberi e non ambiziosi, da potersi chinare volentieri sui meno fortunati. Senza intime dissociazioni.
Un nuovo volto di società, non competitiva né appannaggio di astuti, cordate, o cerchie, ma caratterizzata dallo scambio dei ‘doni’.
Convivialità delle differenze che accentua e lascia fiorire la vita, di tutti e ciascuno.
Insomma, non siamo una tipologia di eterni fallimenti.
Il Padre vuole persone che viaggiano verso se stesse, e sogna una Famiglia umanizzante.
Amabile, perché non assorbe le nostre energie, bensì le trasmette.
Sabato Santo, Sepoltura del Signore [19 aprile 2025]
PRIMA MEDITAZIONE
Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell’anima. Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!». Cinquant’anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una “teologia dopo la morte di Dio”, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole «disceso agli inferi», disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po’ titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione.
Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?
Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre viae crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro di frasi fatte o di preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell’amore dei suoi credenti?
L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.
C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fede, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore, dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo.
Amen.
SECONDA MEDITAZIONE
Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è «disceso all’inferno». Nello stesso tempo l’esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome, l’esperienza dell’impotenza di Dio che è tuttavia l’onnipotente – questa è l’esperienza e la miseria del nostro tempo.
Ma anche se il Sabato santo in tal modo ci si è avvicinato profondamente, anche se noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e ai lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù «è disceso all’inferno». Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica shêol, che sta a indicare semplicemente tutto il regno dei morti, e quindi la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella profondità della morte, è realmente morto e ha partecipato all’abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: che cos’è realmente la morte e che cosa accade effettivamente quando si scende nella profondità della morte? Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté venire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, lato notturno dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini.
Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: shêol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore, che è talmente profonda che l’amore non può più accedere a essa, è l’inferno.
«Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Eglisi è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata – prega la Chiesa nella liturgia funebre.
Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso all’inferno». Ma se una volta ci è dato di avvicinarci all’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certa speranza che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. E in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.
TERZA MEDITAZIONE
Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto. Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del Sabato santo, allora bisognerebbe soprattutto parlare dell’effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile, egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del salmista: e anche se mi volessi nascondere nell’inferno, anche là sei tu. E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un’aurora del mattino, le prime luci della Pasqua. Se il Venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del Sabato santo si rifà piuttosto all’immagine della croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminosi, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione.
Il Sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L’origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore. La croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un’insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell’immagine della croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all’evento accaduto: contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell’incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità inimmaginabile dell’amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell’amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell’impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall’interno.
Ma così non abbiamo dimenticato un po’ troppo la connessione tra croce e speranza, l’unità tra l’Oriente e la direzione della croce, tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del Sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacché Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire.
O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta.
Amen.
PREGHIERA
Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte Tu hai fatto luce; nell’abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del Tuo amore; in mezzo al Tuo nascondimento possiamo ormai cantare l’alleluia dei salvati. Concedici l’umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando Tu ci chiami nelle ore del buio, dell’abbandono, quando tutto sembra apparire problematico; concedici, in questo tempo nel quale attorno a Te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. Fai brillare il mistero della Tua gioia pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. Concedici che attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.
Amen.
[Papa Benedetto, brano tratto da “Il sabato della storia”; https://www.sabinopaciolla.com/benedetto-xvi-il-mistero-terribile-del-sabato-santo/]
1. “Cercate Gesù il Crocifisso”? (Mt 28,5).
È la domanda che sentiranno le donne quando, “all’alba del primo giorno della settimana” (Mt 28,1), esse verranno al sepolcro.
Crocifisso!
Prima del sabato egli fu condannato a morte e spirò sulla croce gridando: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).
Deposero dunque Gesù in un sepolcro, nel quale nessuno era stato ancora deposto, in un sepolcro prestato da un amico, e si allontanarono. Si allontanarono tutti, in fretta, per adempiere la norma della Legge religiosa. Infatti dovevano iniziare la festa, la Pasqua degli Ebrei, la memoria dell’esodo dalla schiavitù dell’Egitto: la notte prima del sabato.
Poi passo il sabato pasquale e iniziò la seconda notte.
2. Ed ecco, siamo venuti tutti in questo tempio, così come tanti nostri fratelli e sorelle nella fede ai diversi templi in tutto il globo terrestre, perché scenda nelle nostre anime e nei nostri cuori la notte santa: la notte dopo il sabato.
Siete qui, figli e figlie della Chiesa che è a Roma, figli e figlie della Chiesa che è estesa nei vari paesi e continenti, ospiti e pellegrini. Insieme abbiamo vissuto il Venerdì santo: la Via Crucis tra i resti del Colosseo – e l’adorazione della Croce fino al momento in cui una grande pietra fu rotolata sulla porta del sepolcro – e vi fu apposto un sigillo.
Perché siete venuti ora?
Cercate Gesù il Crocifisso?
Sì. Cerchiamo Gesù Crocifisso. Lo cerchiamo in questa notte dopo il sabato, che ha preceduto l’arrivo delle donne al sepolcro, quando esse con grande stupore hanno visto e hanno sentito: “Non è qui...” (Mt 28,6).
Siamo quindi venuti presto, già a tarda sera, per vegliare presso la sua tomba. Per celebrare la veglia pasquale.
E proclamiamo la nostra lode a questa meravigliosa notte, pronunciando con le labbra del diacono l’“Exsultet” della veglia. Ed ascoltiamo le letture sacre, che paragonano questa unica notte al giorno della Creazione e soprattutto alla notte dell’esodo, durante la quale il sangue dell’agnello salvò i figli primogeniti d’Israele dalla morte e li fece uscire dalla schiavitù d’Egitto. E poi nel momento di rinnovata minaccia il Signore li condusse all’asciutto in mezzo al mare.
Vegliamo, quindi, in questa notte unica presso la tomba sigillata di Gesù di Nazaret, consapevoli che tutto ciò che è stato preannunciato dalla Parola di Dio nel corso delle generazioni si compirà in questa notte, e che l’opera della redenzione dell’uomo raggiungerà in questa notte il suo zenit.
Vegliamo dunque, e, anche se la notte è profonda, e il sepolcro sigillato, confessiamo che si è già accesa in essa la Luce e cammina attraverso il buio della notte e le oscurità della morte. È la luce di Cristo: “Lumen Christi”.
3. Siamo venuti per immergerci nella sua morte; sia noi che tempo fa abbiamo già ricevuto il Battesimo che immerge in Cristo, sia anche coloro che riceveranno il Battesimo in questa notte.
Essi sono i nostri nuovi fratelli e sorelle nella fede; finora erano catecumeni, e questa notte possiamo salutarli nella comunità della Chiesa di Cristo, che è una, santa, cattolica e apostolica. Essi sono i nostri nuovi fratelli e sorelle nella fede e nella comunità della Chiesa, e provengono da diversi paesi e continenti: Corea, Giappone, Italia, Nigeria, Olanda, Rwanda, Senegal e Togo.
Li salutiamo cordialmente e con gioia proclamiamo l’“Exsultet” in onore della Chiesa, nostra Madre, che li vede raccolti qui nella piena luce di Cristo: “Lumen Christi”.
E proclamiamo insieme con loro la lode dell’acqua battesimale, nella quale, per opera della morte di Cristo, è discesa la potenza dello Spirito Santo: la potenza della vita nuova che zampilla per l’eternità, per la vita eterna (cf. Gv 4,14).
4. Così, prima ancora che spunti l’alba e le donne arrivino alla tomba da Gerusalemme, noi siamo venuti qui per cercare Gesù Crocifisso,
poiché: “Il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché... noi non fossimo più schiavi del peccato...” (Rm 6,6);
poiché: non ci consideriamo “morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6,11): “Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio” (Rm 6,10);
poiché: “Per mezzo del Battesimo siamo... stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova (Rm 6,4);
poiché: “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,5);
poiché crediamo: che “se siamo morti con Cristo... anche vivremo con lui” (Rm 6,8);
e poiché crediamo che “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,9).
5. Proprio per questo siamo qui. Per questo vegliamo presso la sua tomba.
Veglia la Chiesa. E veglia il mondo. L’ora della vittoria di Cristo sulla morte è l’ora più grande della storia.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia alla Veglia Pasquale 18 aprile 1981]
1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa della Vigilia Pasquale incontriamo per prime le donne che si recano al sepolcro di Gesù con gli aromi per ungere il suo corpo (cfr Lc 24,1-3). Vanno per compiere un gesto di compassione, di affetto, di amore, un gesto tradizionale verso una persona cara defunta, come ne facciamo anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo, che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. E’ un fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che senso ha tutto questo?” (cfr Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo, non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio. Cari fratelli e sorelle, nella nostra vita abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre! Il Signore è così.
Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.
[Papa Francesco, omelia alla Veglia Pasquale 30 marzo 2013]
Domenica delle Palme (anno C) [13 aprile 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Entriamo nella Settimana Santa con Gesù accolto a Gerusalemme e prepariamoci nel Triduo Pasquale a seguirlo nel cammino della passione morte e risurrezione.
*Prima lettura dal libro de profeta Isaia (50,4-7)
Questo testo è tratto dalla parte del libro di Isaia che raccoglie i cosiddetti “Canti del Servo”, che sono particolarmente importanti per due ragioni: innanzitutto per il messaggio che Isaia voleva trasmettere ai suoi contemporanei e perché sono stati applicati dai primi cristiani a Cristo, anche se certamente Isaia non pensava a Gesù quando scrisse questo testo probabilmente nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia. Al popolo esiliato in condizioni molto dure, che rischiava di cedere a un grande sconforto, ricorda che Israele è il servo di Dio sostenuto e nutrito ogni mattina dalla Parola, ma perseguitato a causa della sua fede e, nonostante tutto, capace di resistere a ogni prova. Descrive in modo chiaro la straordinaria relazione che unisce al suo Dio il Servo (Israele) la cui caratteristica principale è l’ascolto della Parola, “l’orecchio aperto”, come scrive Isaia. Ascoltare la Parola, lasciarsi istruire da essa, significa vivere nella fiducia. Ascoltare è una parola che nella Bibbia significa fidarsi poiché due sono gli atteggiamenti tra cui oscilla continuamente la nostra esistenza: la fiducia in Dio, l’abbandono sereno alla sua volontà perché si sa, per esperienza, che la sua volontà è solo bene; oppure la diffidenza, il sospetto sulle intenzioni divine e la ribellione davanti alle prove, una ribellione che può portarci a credere che Egli ci abbia abbandonati o, peggio, che possa trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze. Tutti i profeti ripetono quest’invito: “Ascolta, Israele” o “ascoltate oggi la Parola di Dio”. Sulle loro labbra, l’esortazione “ascolta” è invito ad avere fiducia in Dio, qualunque cosa accada. A questo proposito san Paolo spiegherà che Dio fa concorrere tutto al bene di coloro che lo amano e si fidano di lui (cf Rm 8,28) perché da ogni male, difficoltà, prova sa trarre il bene; a ogni odio, oppone un amore ancora più forte; in ogni persecuzione, dona la forza del perdono; da ogni morte fa nascere la vita. Tutta la Bibbia è la narrazione della storia di una fiducia reciproca: Dio si fida del suo servo e gli affida una missione; in cambio Israele accetta la missione con fiducia. Ed è proprio questa fiducia che gli dà la forza necessaria per resistere a tutte le opposizioni che inevitabilmente incontrerà. In questo testo la missione consiste nel saper “indirizzare una parola allo sfiduciato” testimoniando la fedeltà del Signore che dona la forza necessaria e il linguaggio adeguato. Anzi è il Signore stesso a nutrire questa fiducia, sorgente di ogni audacia al servizio degli altri: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Tutto allora diventa dono: la missione, la forza e la fiducia che rende incrollabili. Questa è la caratteristica del credente: riconoscere che tutto è dono di Dio. Quando poi fa fruttificare il dono permanente della forza del Signore, il credente è in grado di affrontare tutto, anche la persecuzione che mai è assente, e in verità ogni autentico profeta che parla a nome di Dio, raramente viene riconosciuto e apprezzato in vita.Isaia invita i suoi contemporanei a resistere: il Signore non vi ha abbandonati, anzi, vi ha affidato la sua missione e non meravigliatevi se siete maltrattati perché il Servo che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, diventa certamente scomodo e con la sua conversione provoca gli altri: alcuni ne ascoltano l’appello, altri lo respingono e, in nome delle loro buone ragioni, lo perseguitano. Ecco perché il Servo attinge vigore solamente da Colui che gli permette di affrontare tutto: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba …il Signore Dio mi assiste per questo non resto svergognato”. Isaia usa poi un’espressione comune in ebraico: “per questo rendo la mia faccia dura come pietra” che esprime determinazione e coraggio; non orgoglio o presunzione, bensì pura fiducia perché sa bene da dove viene la sua forza. Gesù è ritratto perfetto del Servo di Dio nel cuore della persecuzione e anche nel momento in cui le acclamazioni della folla della Domenica delle Palme segnavano e acceleravano la sua condanna. San Luca riprende esattamente questa espressione quando scrive «Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51), che nelle nostre traduzioni diventa: «Gesù prese risolutamente la strada per Gerusalemme».
*Salmo responsoriale dal Salmo 21(22) (2, 8-9,17-20,22b-24)
Il Salmo 21/22 riserva alcune sorprese, a partire dall’incipit: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, molto citato che, estrapolato dal contesto, viene interpretato in modo sbagliato. Per capirne il vero significato va letto per intero il salmo composto di trentadue versetti che si chiude con un rendimento di grazie: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”. Chi nel primo versetto grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ringrazia alla fine Dio per la salvezza ricevuta. Non solo non è morto, ma rende grazie proprio perché Dio non lo ha abbandonato. A prima vista, questo salmo sembra scritto per Gesù: “Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa” allusione chiara alla crocifissione vissuta sotto gli occhi crudeli dei carnefici e della folla: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori… si fanno beffe di me quelli che mi vedono … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”. In realtà, non è stato scritto per Gesù Cristo, ma composto per gli esuli tornati da Babilonia, e si paragona la loro liberazione alla risurrezione di un condannato a morte, dato che l’esilio fu vera e propria condanna a morte per Israele che corse il rischio di essere cancellato dalla storia. Ora viene qui paragonato a un condannato che ha rischiato di morire sulla croce, supplizio all’epoca assai comune: ha subito oltraggi, umiliazioni, i chiodi, l’abbandono nelle mani dei carnefici ma miracolosamente ne esce illeso. In altre parole: tornato dall’esilio Israele si abbandona alla gioia che proclama a tutti gridando più forte di quando pianse nella sua angoscia. Il riferimento alla crocifissione non è dunque il centro del salmo, ma serve a mettere in risalto il rendimento di grazie di Israele, che nel pieno della sua angoscia, mai ha smesso di invocare aiuto e mai ha dubitato nemmeno un istante. Il grande grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è di sicuro un grido di angoscia davanti al silenzio di Dio, ma non è un grido di disperazione, né tantomeno esprime dubbi; è piuttosto la preghiera di chi soffre e osa gridare il suo dolore. Quanta luce questo salmo fa scendere sulla nostra preghiera nei momenti di sofferenza di qualunque genere: abbiamo il diritto di gridare e la Bibbia ci incoraggia a farlo. Tornato dall’esilio Israele ricorda il dolore passato, l’angoscia, il silenzio apparente di Dio quando si sentiva abbandonato nelle mani dei suoi nemici, eppure ha continuato a pregare. La preghiera è la prova evidente della sua costante fiducia; continuava a ricordare l’Alleanza e i benefici ricevuti da Dio. Questo salmo somiglia nel suo insieme a un “ex voto” come quando si corre un serio pericolo, si prega e si fa un voto e, a grazia ottenuta, si mantiene la promessa portando l’ex voto in una chiesa o in un santuario. Il salmo 21/22 descrive l’orrore dell’esilio, l’angoscia d’Israele e di Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, il senso di impotenza di fronte all’odio degli uomini che suscita un’ardente supplica: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”? e infine la riconoscenza a Dio per la propria salvezza: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli”. Nella domenica delle Palme non ci sono gli ultimi versetti che però sentiamo spesso nella liturgia: “I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli…Annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”.
*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo ai Filippesi (2,6-11)
Questo testo è spesso definito l’Inno della Lettera ai Filippesi, perché si ha l’impressione che Paolo non lo abbia scritto di suo pugno, ma abbia citato un inno in uso nella liturgia. Anzitutto da notare l’insistenza sul tema del Servo: “svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo”: i primi cristiani, di fronte allo scandalo della croce, hanno meditato spesso sui Canti del Servo contenuti nel libro di Isaia, perché offrivano spunti di riflessione per comprendere il mistero della persona di Cristo. “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Si è tentati di leggere: benché fosse di condizione divina, anche se in realtà, è il contrario e bisogna dunque leggere: “proprio perché era nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Uno dei pericoli di questo testo è la tentazione di leggerlo in termini di ricompensa, come se il ragionamento fosse: Gesù si è comportato in modo ammirevole e quindi ha ricevuto una ricompensa straordinaria. La grazia, come suggerisce il suo stesso nome, è gratuita, noi però siamo sempre tentati di parlare di meriti. La meraviglia dell’amore di Dio è che Egli non attende i nostri meriti per colmarci; è questa la scoperta che gli uomini della Bibbia hanno fatto grazie alla Rivelazione. Quindi, per essere fedeli al testo, dobbiamo leggerlo in termini di gratuità. Rischiamo di fraintenderlo se dimentichiamo che tutto è dono di Dio, tutto è grazia, come ripeteva Teresa del Bambino Gesù. Il dono gratuito di Dio è per san Paolo una verità evidente, una convinzione che permea tutte le sue lettere, talmente ovvia che non sente neppure il bisogno di ribadirla esplicitamente per cui possiamo riassumere il suo pensiero così: il progetto di Dio, il disegno della sua misericordia è farci entrare nella sua intimità, nella sua gioia e nel suo amore, un progetto assolutamente gratuito. Non c’è nulla di sorprendente in questo, poiché si tratta di un progetto d’amore, un dono da accogliere: è la partecipazione alla vita divina, anzi con Dio, tutto è dono. Ci si esclude da questo dono quando si assume un atteggiamento di pretesa, se ci si comporta come i progenitori nel giardino dell’Eden che si appropriano del frutto proibito. Gesù, al contrario, non ha fatto altro – “facendosi obbediente” - che accogliere il dono di Dio senza pretenderlo. “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” ed è proprio perché è di condizione divina che non rivendica nulla. Lui sa cosa sia l’amore gratuito, sa che non è giusto pretendere, non considera un bene reclamare il diritto di essere come Dio. E’ la stessa situazione dell’episodio delle tentazioni (vedi il vangelo della prima domenica di Quaresima): satana propone a Gesù solo cose che fanno parte del piano di Dio, ma Gesù rifiuta di appropriarsene con le proprie forze. perché vuole affidarsi al Padre affinché sia Lui a donargliele. Il tentatore lo provoca: “Se sei Figlio di Dio, puoi permetterti tutto, tuo Padre non può rifiutarti nulla: trasforma le pietre in pane quando hai fame… gettati giù dal tempio, ti proteggerà… adorami, e ti darò il dominio su tutto il mondo”. Gesù però aspetta tutto solo da Dio: ha ricevuto il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome di Dio. Dire infatti che Gesù è il Signore significa affermare che è Dio. Nell’Antico Testamento, il titolo di “Signore” era riservato a Dio e pure la genuflessione “ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Ecco un’allusione a un passo del profeta Isaia: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, si pieghi…ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” presterà giuramento» (Is 45,23). Gesù ha vissuto nell’umiltà e nella fiducia; fiducia che san Paolo chiama obbedienza. Obbedire, in latino «ob-audire», significa letteralmente porgere l’orecchio (audire) davanti (ob) alla parola: è l’atteggiamento di un dialogo perfetto, senza ombre, è fiducia totale. L’inno si conclude così: “Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. La gloria è la rivelazione dell’amore infinito fatto persona. In altre parole anche noi, come il centurione, vedendo Cristo amarci sommamente accettando di morire per rivelarci fino a che punto arriva l’amore di Dio, proclamiamo,: «Sì, davvero, costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.
* Vangelo. Passione di Gesù Cristo secondo san Luca (22,14 – 23.56)
Ogni anno, per la Domenica delle Palme, torna il racconto della Passione in uno dei tre vangeli sinottici; quest’anno, è quello di Luca e mi limito a commentare gli episodi propri di questo vangelo. Se è vero che i quattro racconti della Passione sono simili, quando però si osservano da vicino, ci si rende conto che ogni evangelista ha accenti particolari, e questo perché sono tutti testimoni di uno stesso evento e raccontano i fatti ciascuno dal loro punto di vista e la Passione di Cristo risulta raccontata in quattro modi diversi: non scelgono tutti gli stessi episodi e le stesse frasi. Ecco dunque gli episodi e le parole che troviamo solo in san Luca. 1.Dopo l’ultima cena, prima di recarsi al Getsemani, Gesù aveva preannunciato a Pietro il suo triplice rinnegamento. In verità lo narrano tutti i vangeli, ma solamente Luca riporta questa frase di Gesù: “Simone, Simone, ecco: satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Una delicatezza di Gesù, che aiuterà Pietro dopo il suo tradimento a rialzarsi invece di disperare. Sempre solo Luca nota lo sguardo che Gesù posa su Pietro dopo il suo rinnegamento: per tre volte consecutive, Pietro afferma di non conoscerlo nella casa del sommo sacerdote. Subito dopo Gesù, voltandosi, fissò lo sguardo su Pietro e qui sentiamo l’eco della prima lettura dove Isaia scrive: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Questo vuole fare Gesù con Pietro, confortarlo in anticipo perché quando lo rinnegherà non cada nella disperazione. Altro episodio proprio di questo vangelo è Gesù davanti a Erode Antipa. Alla nascita di Gesù, su tutto il territorio regnava sotto l’autorità di Roma, Erode il Grande, ma alla sua morte (nel 4 a.C.), il territorio fu diviso in più province e, al momento della morte di Gesù (nell’anno 30 d.C.), la Giudea, ossia la provincia di Gerusalemme, era governata da un procuratore romano, mentre la Galilea era sotto l’autorità di un re riconosciuto da Roma, che era un figlio di Erode il Grande: il suo nome Erode Antipa, che da tempo desiderava incontrare Gesù e sperava di vederlo compiere un miracolo. Ora gli pone molte domande, ma Gesù tace. Erode lo insulta e lo schernisce facendolo rivestire con un manto splendente e lo rimanda a Pilato rinsaldando quel giorno l’amicizia tra Erode e Pilato.
2.Ci sono poi tre frasi che troviamo solo nel racconto della Passione di Luca. Due parole di Gesù e, se Luca le annota, è perché rivelano ciò che per lui è importante: la prima è la sua preghiera mentre i soldati romani lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Ma cosa stanno facendo? Hanno espulso dalla Città Santa il Santo per eccellenza; hanno cacciato il loro Dio, mettendo a morte il Maestro della vita; il Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, in nome di Dio ha condannato Dio. E cosa fa invece Gesù? Perdona i nemici suoi fratelli mostrando fino a che punto si spinge l’amore di Dio. Chi ha visto me ha visto il Padre, aveva detto Gesù, il giorno prima. La seconda frase: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Tutti lo attaccano e per tre volte risuona una stessa provocazione: Se tu sei il Messia, lo scherniscono i capi… Se tu sei il re dei Giudei, si prendono gioco di lui i soldati romani… Se tu sei il Messia, lo insulta uno dei due malfattori crocifissi con lui. L’altro crocifisso con lui comincia a dire la verità: noi meritiamo questo castigo ma non Gesù e si rivolge a Gesù: “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Riconosce Gesù come il Salvatore, lo invoca con una preghiera umile e di fiduciosa: sembra aver capito tutto. Infine solo Luca riporta quest’ultima frase: “Già brillavano le luci del sabato” (23,54) conclude così il racconto della Passione con un’insistente evocazione del sabato. Parla delle donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea e ora vanno al sepolcro per osservare come era stato sepolto recando aromi e profumi per i riti della sepoltura. Già brillavano le luci del sabato: tutto si chiude con una nota di luce e di pace: il sabato è prefigurazione del mondo a venire, giorno in cui Dio si era riposato da tutta l’opera della creazione (cf Genesi); giorno in cui, per fedeltà all’Alleanza, si scrutavano le Scritture nell’attesa della nuova creazione. Luca ci fa capire che nel travaglio della Passione di Cristo è nata la nuova umanità che è l’inizio del regno della grazia. Il crocifisso risorto indica la via da seguire: la via dell’amore e del perdono a qualsiasi costo.
+Giovanni D’Ercole
(Gv 18,1-19,42)
I nuclei dei Vangeli non si soffermano sull’orrore e sadismo dei tormenti, perché non sono stati redatti con lo scopo d’impressionare, bensì per introdurci nella comprensione dell’intensità sconfinata dell’Amore divino.
In Gv è assente ogni appiglio alla mistica del patire e dell’abbandono divino: l’evangelista vuole accompagnarci nel medesimo cammino del Figlio verso la Gloria del Padre.
Gesù padrone di se stesso non si lascia travolgere dagli eventi.
Si fa innanzi, è ancora in grado di tutelare i suoi e protagonista del colloquio con Pilato, figura del potere di questo mondo - che sembra l’imputato.
Neppure è finito dai soldati.
Egli è Vivo, malgrado i gendarmi posti a tutela del mondo antico che rimane ostile al Signore, allo scopo di perpetuarsi.
Il breve passo di Gv 19,25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che sotto la Croce, la Madre è figura del «Resto d’Israele», ossia del popolo autenticamente sensibile e fedele.
La ‘nazione-sposa’ del Primo Testamento è come in attesa della Rivelazione genuina: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto la gioia della festa nuziale fra il Padre e i suoi figli.
Vita che trascorre come linfa essenziale e vitale nella Chiesa autentica raffigurata in Maria, adorante in ogni vicenda; ‘ritta’ (19,25) e ben presente a se stessa.
L’Israele vibrante di verità ha originato il Passaggio dalla religiosità alla Fede sponsale, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
A cospetto della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, non belluina: che proclamano la Lieta Notizia di Dio stavolta in favore esclusivo di ogni uomo - in qualsiasi condizione si trovi.
A coloro che già volevano prescindere dall’insegnamento dei padri, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato è icona dell’autentico figlio di Dio, Parola-evento diffusa, e Nuova Alleanza.
Il figlio stesso deve ricevere la Madre [la presenza e la cultura del popolo del Patto] a casa sua: nella Comunità nascente.
Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
«Ho sete»: cita il salmo 69 - «Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto».
È la delusione e il senso di vuoto vertiginoso per un’umanità che ha ancora tanto bisogno di essere strappata dalla condizione selvatica...
E l’intenso desiderio di fare, di quell’abisso pre-umano, persone che tendano a recuperare in sé l’Oro divino.
Quindi Gesù effonde il suo Spirito senza ritardo alcuno (v.30).
E come dal fianco dell’uomo Dio ha tratto la donna, così dal lato del Figlio trafitto esce la ‘comunità-sposa’, messa in relazione con i due segni dei primi Sacramenti.
È nostra Linfa essenziale e vitale: perché immersi e assimilati in tali gesti famigliari, superiamo il disagio di sentirci come oggetti, cose.
Diventiamo Figli.
[Venerdì Santo, 18 aprile 2025]
(Gv 18,1-19,42)
I nuclei dei Vangeli non si soffermano sull’orrore e sadismo dei tormenti, perché non sono stati redatti con lo scopo d’impressionare, bensì per introdurci nella comprensione dell’intensità sconfinata dell’Amore divino.
Il Padre non trascura e non retrocede, perché non c’è destinazione inclusiva nel farci soffrire; piuttosto, nell’accogliere e condividere. Né siamo al mondo per le cicatrici, bensì per realizzarci.
In Gv è assente ogni appiglio alla mistica del patire e dell’abbandono: l’evangelista vuole accompagnarci nel medesimo cammino del Figlio verso la Gloria del Padre.
E l’Eterno non tarda a incorporarlo a Sé: è il Crocifisso a consegnare lo Spirito (19,30).
Gesù padrone di se stesso non si lascia travolgere dagli eventi.
Si fa innanzi; è ancora in grado di tutelare i suoi e protagonista del colloquio con Pilato, figura del potere di questo mondo [che sembra l’imputato].
Neppure è finito dai soldati.
Egli è Vivo, malgrado i gendarmi posti a tutela del mondo antico che rimane ostile al Signore, allo scopo di perpetuarsi. Zone d’ombra - ancora e dove non t’aspetti.
Il discepolo amato [ciascuno di noi, genuino in Cristo] è presente alla sua medesima sorte di Dono completo: rispecchia un’unica vita indistruttibile, sebbene umiliata.
Essa trascorre come linfa essenziale e vitale nella Chiesa autentica raffigurata in Maria adorante in ogni vicenda; ritta (19,25) e ben presente a se stessa.
In grado di dispiegare il significato della proposta di Gesù attraverso nuovissimi raggi di luce - in spirito di accondiscendenza e tenerezza, ma sovversivi.
Arresto (vv.1-19). Nella Passione secondo Gv l’offerta volontaria della vita da parte del Signore Gesù sta a indicare la condizione divina e l’autentica prospettiva - di libertà e riuscita - per noi: la vocazione, chiamata del Padre.
Manca il bacio di Giuda, perché il Maestro si presenta direttamente, identificandosi nella rivelazione «Io Sono».
Facendosi avanti, chiede che i discepoli siano lasciati in libertà. Vuol dire: Egli non perde nessuno di noi; non ci lascia in ostaggio.
Ma al suo arresto partecipano i capi della religiosità ufficiale - e vien subito sequestrato a casa del dirigente occulto, Anano [Hannas], sebbene già deposto, ma ancora burattinaio politico della situazione.
Rinnegatore, insieme a Pietro.
Il ricordo della profezia del sommo sacerdote che gli fa da paravento (v.14) ci proietta nel dramma della Passione d’amore dell’Abbandonato.
Rigettato dal popolo religiosissimo. Tradito, sconfessato, ucciso da tutti.
Il triplice «io non sono» di Pietro contrasta con la dignità del Cristo, che chiama il ‘capo’ della chiesa a un altro genere di testimonianza rispetto a quella che aveva in mente, desiderava, sognava.
Mentre nei Sinottici Egli viene mostrato come Agnello condotto a macello senza aprire bocca, il quarto Vangelo ne sottolinea la Regalità.
Davanti a Pilato appare chiaro che la solennità di Gesù non ha caratteri politici, perciò i suoi discepoli non potevano essere considerati cittadini sleali.
Di fronte a Roma, Gv mette in evidenza l’innocenza dì Gesù e dei cristiani accusati presso i tribunali dell’Impero.
Interessante la figura del governatore romano, stretto fra istanze di coscienza e pressioni esterne - mentre cerca ripetutamente posizioni intermedie.
Il quarto Vangelo libera i “diplomatici” da responsabilità dirette, ma li ammonisce circa il rispetto della Verità.
Chi non l’accetta così com’è e non si dichiara in suo favore esponendosi in prima persona, rimane imbrigliato nella sua stessa trappola.
Il “Giudice” sembra Gesù.
E i suoi paradossi interrogano: chi è il re dei giudei? Cesare o Cristo?
I giudei rinnegano se stessi affermando di non avere altro re all’infuori dell’imperatore; i funzionari lo acclamano re.
Terza sezione (19,17-42). I giustiziati dovevano essere visti dal maggior numero di persone, quindi venivano esibiti in un luogo vicino alla città.
Ma qui e nell'episodio della scritta [nelle tre lingue ecumeniche di allora come quella sul primo muretto interno del Tempio, che proibiva sotto pena di morte l’ingresso ulteriore ai pagani] s’inserisce di nuovo il tema teologico della Regalità: il risultato era un richiamo per i giudei, che si ritrovavano un re sconfitto.
Gv distingue la spartizione dei vestiti e il sorteggio della tunica, perché intende quest’ultima come la veste sacra del vero sommo sacerdote, il cui manto non poteva essere stracciato (Lv 21,10).
Senza poi indugiare sui due condannati a fianco del Crocifisso, l’evangelista annota che a Gesù non sono state fratturate le gambe.
Ciò allude all’Agnello pasquale, cui non doveva essere spezzato alcun osso.
Il breve passo di Gv 19,25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che sotto la Croce, la Madre è figura del «Resto d’Israele», ossia del popolo autenticamente sensibile e fedele.
La ‘nazione-sposa’ del Primo Testamento è come in attesa della Rivelazione genuina: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto la gioia della festa nuziale fra il Padre e i suoi figli.
L’Israele vibrante di verità ha originato il Passaggio dalla religiosità alla Fede sponsale, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
A cospetto della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, non belluina; che proclamano la Lieta Notizia di Dio stavolta in favore esclusivo di ogni uomo - in qualsiasi condizione si trovi.
Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo [giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; lassisti che consideravano ormai Gesù anatema - intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia].
Ad es all’inizio secondo secolo (ad es.) Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.
A coloro che volevano prescindere dall’insegnamento dei “padri”, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato è icona dell’autentico figlio di Dio, Parola-evento diffusa, e Nuova Alleanza.
Il figlio stesso deve ricevere la Madre - la presenza e la cultura del popolo del Patto - a casa sua, ossia nella Comunità nascente.
Anche se è nell’assemblea cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e il Verbo stesso non si colgono né porteranno frutto coi soli sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.
Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
«Ho sete»: cita il salmo 69 - «Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto».
È la delusione e il senso di vuoto vertiginoso per un’umanità che ha ancora tanto bisogno di essere strappata dalla condizione selvatica...
E l’intenso desiderio di fare, di quell’abisso pre-umano, persone che tendano a recuperare in sé l’Oro divino.
Ma discepoli, folla, soldati, continuano a non comprendere.
Si chiarisce col ricorso all’altro salmo [63: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia»] che in ebraico esordisce con l’invocazione «Elohim, Elì [...]».
Quindi Gesù effonde il suo Spirito senza ritardo alcuno (v.30).
E come dal fianco dell’uomo Dio ha tratto la donna, così dal lato del Figlio trafitto esce la ‘comunità-sposa’, messa in relazione con i due segni dei primi Sacramenti.
Appunto, nostra Linfa essenziale e vitale: perché immersi e assimilati in tali gesti famigliari, superiamo il disagio di sentirci come oggetti, cose.
Diventiamo Figli.
Figli, non cose
Dio ha messo sulla Croce di Gesù tutto il peso dei nostri peccati, tutte le ingiustizie perpetrate da ogni Caino contro suo fratello, tutta l’amarezza del tradimento di Giuda e di Pietro, tutta la vanità dei prepotenti, tutta l’arroganza dei falsi amici. Era una Croce pesante, come la notte delle persone abbandonate, pesante come la morte delle persone care, pesante perché riassume tutta la bruttura del male. Tuttavia, è anche una Croce gloriosa come l’alba di una notte lunga, perché raffigura in tutto l’amore di Dio che è più grande delle nostre iniquità e dei nostri tradimenti. Nella Croce vediamo la mostruosità dell’uomo, quando si lascia guidare dal male; ma vediamo anche l’immensità della misericordia di Dio che non ci tratta secondo i nostri peccati, ma secondo la sua misericordia.
Di fronte alla Croce di Gesù, vediamo quasi fino a toccare con le mani quanto siamo amati eternamente; di fronte alla Croce ci sentiamo “figli” e non “cose” o “oggetti”, come affermava San Gregorio Nazianzeno rivolgendosi a Cristo con questa preghiera: «Se non fossi Tu, o mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco. Mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi, io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali, che non hanno peccati. Ma io, cosa ho di più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi Tu, o Cristo mio, mi sentirei creatura finita. O nostro Gesù, guidaci dalla Croce alla resurrezione e insegnaci che il male non avrà l’ultima parola, ma l’amore, la misericordia e il perdono. O Cristo, aiutaci a esclamare nuovamente: “Ieri ero crocifisso con Cristo; oggi sono glorificato con Lui. Ieri ero morto con Lui, oggi sono vivo con Lui. Ieri ero sepolto con Lui, oggi sono risuscitato con Lui”».
Infine, tutti insieme, ricordiamo i malati, ricordiamo tutte le persone abbandonate sotto il peso della Croce, affinché trovino nella prova della Croce la forza della speranza, della speranza della resurrezione e dell’amore di Dio.
[Papa Francesco, via Crucis al Colosseo 18 aprile 2014]
Cari fratelli e sorelle,
questa notte abbiamo accompagnato nella fede Gesù che percorre l’ultimo tratto del suo cammino terreno, il tratto più doloroso, quello del Calvario. Abbiamo ascoltato il clamore della folla, le parole della condanna, la derisione dei soldati, il pianto della Vergine Maria e delle donne. Ora siamo immersi nel silenzio di questa notte, nel silenzio della croce, nel silenzio della morte. E’ un silenzio che porta in sé il peso del dolore dell’uomo rifiutato, oppresso, schiacciato, il peso del peccato che ne sfigura il volto, il peso del male. Questa notte abbiamo rivissuto, nel profondo del nostro cuore, il dramma di Gesù, carico del dolore, del male, del peccato dell’uomo.
Che cosa rimane ora davanti ai nostri occhi? Rimane un Crocifisso; una Croce innalzata sul Golgota, una Croce che sembra segnare la sconfitta definitiva di Colui che aveva portato la luce a chi era immerso nel buio, di Colui che aveva parlato della forza del perdono e della misericordia, che aveva invitato a credere nell’amore infinito di Dio per ogni persona umana. Disprezzato e reietto dagli uomini, davanti a noi sta l’«uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia» (Is 53,3).
Ma guardiamo bene quell’uomo crocifisso tra la terra e il Cielo, contempliamolo con uno sguardo più profondo, e scopriremo che la Croce non è il segno della vittoria della morte, del peccato, del male ma è il segno luminoso dell’amore, anzi della vastità dell’amore di Dio, di ciò che non avremmo mai potuto chiedere, immaginare o sperare: Dio si è piegato su di noi, si è abbassato fino a giungere nell’angolo più buio della nostra vita per tenderci la mano e tirarci a sé, portarci fino a Lui. La Croce ci parla dell’amore supremo di Dio e ci invita a rinnovare, oggi, la nostra fede nella potenza di questo amore, a credere che in ogni situazione della nostra vita, della storia, del mondo, Dio è capace di vincere la morte, il peccato, il male, e di donarci una vita nuova, risorta. Nella morte in croce del Figlio di Dio, c’è il germe di una nuova speranza di vita, come il chicco che muore dentro la terra.
In questa notte carica di silenzio, carica di speranza, risuona l’invito che Dio ci rivolge attraverso le parole di sant’Agostino: «Abbiate fede! Voi verrete da me e gusterete i beni della mia mensa, com'è vero che io non ho ricusato d'assaporare i mali della mensa vostra... Vi ho promesso la mia vita... Come anticipo vi ho elargito la mia morte, quasi a dirvi: Ecco, io vi invito a partecipare della mia vita... È una vita dove nessuno muore, una vita veramente beata, che offre un cibo incorruttibile, un cibo che ristora e mai vien meno. La meta a cui vi invito, ecco… è l'amicizia con il Padre e lo Spirito Santo, è la cena eterna, è la comunione con me… è partecipare della mia vita» (cfr Discorso 231, 5).
Fissiamo il nostro sguardo su Gesù Crocifisso e chiediamo nella preghiera: Illumina, Signore, il nostro cuore, perché possiamo seguirti sul cammino della Croce, fa’ morire in noi l’«uomo vecchio», legato all’egoismo, al male, al peccato, rendici «uomini nuovi», uomini e donne santi, trasformati e animati dal tuo amore.
[Papa Benedetto, via Crucis al Colosseo 22 aprile 2011]
The Church keeps watch. And the world keeps watch. The hour of Christ's victory over death is the greatest hour in history (John Paul II)
Veglia la Chiesa. E veglia il mondo. L’ora della vittoria di Cristo sulla morte è l’ora più grande della storia (Giovanni Paolo II)
Before the Cross of Jesus, we apprehend in a way that we can almost touch with our hands how much we are eternally loved; before the Cross we feel that we are “children” and not “things” or “objects” [Pope Francis, via Crucis at the Colosseum 2014]
Di fronte alla Croce di Gesù, vediamo quasi fino a toccare con le mani quanto siamo amati eternamente; di fronte alla Croce ci sentiamo “figli” e non “cose” o “oggetti” [Papa Francesco, via Crucis al Colosseo 2014]
The devotional and external purifications purify man ritually but leave him as he is replaced by a new bathing (Pope Benedict)
Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo (Papa Benedetto)
If, on the one hand, the liturgy of these days makes us offer a hymn of thanksgiving to the Lord, conqueror of death, at the same time it asks us to eliminate from our lives all that prevents us from conforming ourselves to him (John Paul II)
La liturgia di questi giorni, se da un lato ci fa elevare al Signore, vincitore della morte, un inno di ringraziamento, ci chiede, al tempo stesso, di eliminare dalla nostra vita tutto ciò che ci impedisce di conformarci a lui (Giovanni Paolo II)
The school of faith is not a triumphal march but a journey marked daily by suffering and love, trials and faithfulness. Peter, who promised absolute fidelity, knew the bitterness and humiliation of denial: the arrogant man learns the costly lesson of humility (Pope Benedict)
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà (Papa Benedetto)
We are here touching the heart of the problem. In Holy Scripture and according to the evangelical categories, "alms" means in the first place an interior gift. It means the attitude of opening "to the other" (John Paul II)
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro” (Giovanni Paolo II)
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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