don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Dic 22, 2024

Natale di Cristo

Pubblicato in Angolo della Pia donna

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

il 24 dicembre 2024 alle ore 19.00 avrà inizio ufficialmente il Giubileo 2025, con il rito di apertura della Porta Santa della Basilica Papale di San Pietro da parte del Santo Padre.  A seguire Francesco presiederà la celebrazione della Santa Messa nella notte del Natale del Signore all’interno della Basilica.  Ed ecco il commento dei testi biblici della messa di Natale: quella di Mezzanotte e quella del Giorno con i più cari e sentiti auguri per un santo Natale di Cristo.

 

Natale di Cristo 2024 Messa di Mezzanotte 

Prima Lettura dal Libro del profeta Isaia 9,1-6

*Un annuncio di salvezza

E’ uno splendido inno messianico dedicato all’Emanuele, il re-messia tanto sperato che viene illuminato con due immagini: la mietitura e la vittoria militare. Come spesso capita, per comprendere il messaggio del testo biblico che la liturgia ci propone, occorre considerarlo nel contesto e qui è bene leggere il versetto che precede questo passo di Isaia: “In un primo momento, il Signore ha coperto di vergogna il paese di Zabulon e il paese di Neftali; ma in seguito, ha coperto di gloria la via del mare, il paese oltre il Giordano e la Galilea delle genti” (Is 8,23). Possiamo così datare le parole del profeta e capire se risalgono al momento stesso degli eventi narrati, o al contrario, se sono state scritte posteriormente e così conoscere con certezza a quale contesto politico si riferisce (anche nel caso che il testo risalga a molto più tardi). In secondo luogo, come ogni parola profetica anche questa è un messaggio che Dio rivolge per ravvivare la speranza del popolo. Vediamo qual è il contesto storico: dopo Davide e Salomone che avevano governato sull’intero Israele, alla morte di Salomone nel 933 a.C., il cosiddetto scisma d’Israele diede origine a due regni spesso in conflitto: a nord, il regno di Israele con capitale Samaria e a sud il regno di Giuda, con capitale Gerusalemme, discendente diretto di Davide e considerato il legittimo portatore delle promesse divine. Isaia predicava nel regno del Sud, ma Zabulon, Neftali, la via del mare, il paese oltre il Giordano e la Galilea sono tutti luoghi del regno del Nord, tutte region conquistate dal re assiro Tiglat-Pileser III nel 732 a.C. Nel 721 a.C., anche la capitale Samaria fu annessa ed ebbe inizio la dominazione assira e poi quella babilonese. E’ in questo quadro che Isaia prevede un cambiamento radicale annunciando che le terre umiliate vedranno la gloria: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa, una luce rifulse”. Il popolo che abitava in terra tenebrosa fa pensare ai molti deportati in Babilonia spesso accecati dai dominatori. Il regno del Sud, con capitale Gerusalemme, non restava indifferente difronte agli eventi del Nord sia perché temeva d’essere occupato e soprattutto perché grande era il desiderio della riunificazione per ricondurre Israele all’unità sotto il trono davidico. Per questo l’arrivo di un nuovo re veniva considerato come l’alba di un nuovo giorno: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio… sarà chiamato Principe della Pace”. Queste espressioni fanno parte del rituale di consacrazione del nuovo re e Isaia afferma con certezza che Dio non abbandonerà il suo popolo alla schiavitù, perché la sua fedeltà è incrollabile e non può rinnegare sé stesso.  Aggiunge: “Perché tu hai spezzato il giogo che lo opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino come nel giorno di Madian”. Madian e i Madianiti: il profeta assicura che Dio interverrà per liberare il suo popolo, e cita come esempio la vittoria di Gedeone sui Madianiti quando in piena notte con 300 uomini armati solo di trombe, torce e brocche di terracotta e soprattutto della fede in Dio, sconfisse un esercito immensamente più numeroso (Giudici 7). Chiaro quindi il messaggio del profeta: Non avere paura piccolo gregge perché è nelle tenebre che bisogna credere alla luce. Malgrado le difficoltà che continuano a segnare questi tempi, Isaia invitava a tenere desta la speranza, basata sulla certezza che il Signore, come in passato, non viene mai meno al suo progetto d’amore per l’intera umanità. E proprio allora, quando Isaia formulava tale promessa, il giovane re Achaz di Gerusalemme aveva sacrificato suo figlio, l’erede al trono, a un idolo per paura della guerra. La discendenza davidica sembrava ormai destinata a estinguersi ed è in tale momento che Isaia ridesta la fiducia dicendo che un nuovo erede verrà donato visto che nulla può scoraggiare la fedeltà di Dio il quale realizza ogni sua promessa. Questa certezza riposa sulla memoria di quanto Dio ha fatto per il suo popolo. A tal proposito basta ricordare che Mosè rinnovava spesso a Israele l’invito a “non dimenticare” le meraviglie del Signore perché quando viene meno la nostra fiducia siamo noi che perdiamo.  E pure Isaia aveva detto al re Achaz: “se non credete, non potete resistere” (Is 7,9). Ogni tempo ha la sua dose di prove e sofferenze, di tenebre e sventure, ma essere convinti che Dio non viene meno alla sua parola è sempre profezia di vittoria e, per quanto grandi le difficoltà nelle nostre famiglie e comunità, la sfida è mantenere viva la speranza: Dio non rinuncia né abbandona il suo progetto di amore per tutti. 

 

Salmo responsoriale 95/96)

*Proclamare la buona novella sui tetti 

Peccato che oggi la liturgia prevede solo sette versetti di questo meraviglioso salmo 95/96, che andrebbe letto intero perché invita all’entusiasmo e alla gioia, e perché in un tempo di grandi difficoltà viene cantato nel Tempio di Gerusalemme. E’ un salmo che comunica il vigore della fede, anzi della speranza; in altre parole la gioia che nasce dalla fede e la speranza che fa credere certo pure ciò che non si possiede. Siamo così proiettati già alla fine del mondo, quando l’umanità tutta intera riconoscerà Dio come l’unico vero Dio e riporrà la sua fiducia solo in Lui. Occorre immaginare con la fantasia la scena che il salmo descrive: a Gerusalemme, anzi nel Tempio s’affollano le nazioni, le razze del mondo, l’esplanade è gremita di teste osannanti che invadono persino i gradini del cortile del Tempio. Ormai Gerusalemme non basta più e dovunque guardi vedi continuare ad arrivare gente d’ogni parte del pianeta. E’ una sinfonia di voci che canta: “Il Signore regna!”, n’ovazione incredibile simile alla gioia per l’incoronazione di un nuovo re. Ora però non è il popolo d’Israele che acclama il suo re, bensì l’intera umanità che gioisce per il suo vero Re: freme di gioia la terra, i mari si uniscono alla sinfonia e gli alberi danzano con le campagne tutte in festa. Si capirà allora che gli uomini si sono lasciati ingannare per lungo tempo, hanno abbandonato il vero Dio per far ricorso agli idoli e che la lotta dei profeti è sempre stata contro l’idolatria. Apparirà allora incredibile che gli uomini abbiano impiegato così tanto tempo per riconoscere il loro Creatore, il loro Padre malgrado cento volte sia risuonato il grido: il Signore è “terribile sopra tutti gli dèi”, è Lui, il Signore e nessun altro ha fatto i cieli. Finalmente  arriverà il momento della festa: a Gerusalemme si accorrerà per acclamare Dio avendo ascoltata la buona notizia proclamata per secoli:  “giorno dopo giorno Israele ha proclamato la sua salvezza” , ha raccontato l’opera di Dio, le sue meraviglie, cioè la sua incessante opera di liberazione; giorno dopo giorno ha testimoniato che Dio l’ha liberato dall’Egitto e da ogni forma di schiavitù: la più terribile delle schiavitù è riporre la propria fiducia in falsi valori, in falsi dèi, negli idoli che possono solo deludere. A Israele tocca 

 la sorte e lo traordinario onore di annunciare che Il Signore nostro Dio, l’Eterno, è l’unico Dio, come recita lo Shema Israel: “Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore”. Il salmo fa riferimento alla vocazione di Israele, già evocata nel libro del Deuteronomio: “Tu sei stato testimone di queste cose, perché tu riconosca che il Signore è Dio: non ce n’è altri fuori di lui ”(Dt 4,35)  e arriva il tempo in cui questa notizia sorprendente  è ascoltata fino ai confini della terra… e tutti accorrono per entrare nella Casa del Padre di tutti. Siamo qui in piena anticipazione! In attesa che questo sogno si realizzi, il popolo d’Israele fa risuonare questo salmo per rinnovare la sua fede e la sua speranza, e  per attingere la forza necessaria a far sentire la buona notizia di cui è depositario.

 

Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo a Tito (2, 11-14). Questa lettura è presente anche nella Messa dell’aurora (3, 4-7 ).

 *Il battesimo c’immerge nella Grazia di Dio 

La lettera a Tito contiene i consigli che Paolo, fondatore della comunità, dispensa a Tito che ne assume la responsabilità. Per ragioni di stile e persino di cronologia, molti esperti delle lettere paoline ritengono che la lettera a Tito, come le due a Timoteo, siano state scritte solo alla fine del I secolo, circa trent’anni dopo la morte dell’apostolo, seguendo il suo pensiero e per sostenerne l’opera. In mancanza di certezze, si continua a parlare di san Paolo come l’autore della lettera di cui risulta utile conoscere a chi è diretta: sono gli abitanti di Creta, i Cretesi, che avevano una pessima reputazione al tempo di Paolo, come li descriveva Epimenide di Cnosso,un poeta locale già nel VI secolo a.C.: “Cretesi, bugiardi perenni, bestie malvagie, ventri oziosi”. E Paolo, citandolo, conferma: “Questa testimonianza è vera!”. Tuttavia, fu proprio ai Cretesi pieni di difetti che Paolo annunciò il vangelo  e questo non fu facile. Lasciò poi a Tito, rimasto sul posto, il compito di organizzare la giovane comunità cristiana.  Indipendentemente dall’epoca in cui la lettera fu scritta, appare chiaro che le difficoltà dei Cretesi persistevano. La lettera a Tito è molto breve, solo tre pagine di cui leggiamo nella messa della Notte la fine del capitolo 2, mentre l’inizio del capitolo 3 è proposto per la Messa dell’Aurora e l’intero brano per la Festa del Battesimo del Signore, anno C. Tutto ciò che precede e segue questo brano consiste in pratiche raccomandazioni dirette ai membri della comunità: anziani e giovani, uomini e donne, padroni e schiavi compresi i responsabili ai quali raccomanda di essere irreprensibili: “Bisogna che il vescovo sia irreprensibile come amministratore di Dio: non arrogante, non violento, non avaro di guadagni illeciti. Deve essere ospitale, amante del bene, ponderato, giusto, santo, padrone di sé, saldo nella Parola”. Insomma non è difficile capire che c’è da lavorare parecchio e da buon pedagogo san Paolo non si azzarda a dare consigli superflui. Da tenere ben presente il legame tra i consigli di ordine morale che dispensa e il passaggio che ci interessa oggi, che è un’esposizione teologica sul mistero della fede. Il messaggio è chiaro: Per Paolo, è il Battesimo che ci rende uomini nuovi e tutti i consigli che dispensa sono giustificati con la sola ragione che “apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini”.  Anzi il testo biblico inizia in realtà con “quando” e qualche edizione pone “perché”. Quindi: “quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia”. In altre parole, comportatevi bene, perché la grazia di Dio si è manifestata per la salvezza di tutti gli uomini. Questo significa che la morale cristiana si radica nell’evento centrale della storia del mondo: la nascita di Cristo. Quando Paolo scrive: “è apparsa la grazia di Dio che porta salvezza a tutti gli uomini” vuol dire che Dio si è fatto uomo. E da quel momento, il nostro modo di essere uomini è trasformato “con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo” (3,5). Da quel momento, tutto è cambiato e di conseguenza anche il nostro comportamento deve mutare e occorre lasciarci trasformare perché il mondo attende la nostra testimonianza. Non si tratta di  conquistare dei meriti (egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia), ma testimoniare con la vita che Dio vuole la salvezza di tutta l’umanità anche attraverso di noi: “apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il suo amore per gli uomini”. Il progetto di Dio, previsto dall’eternità, prevede il riunirsi di tutti attorno a Gesù Cristo sì da diventare una cosa sola con Lui, superando le divisioni, le rivalità, gli odi, facendo di tutti noi in lui un unico uomo. Sicuramente resta ancora un lungo cammino da percorrere e per molti si tratta di un’utopia, ma come credenti sappiamo che ogni promessa di Dio è una certezza. Paolo lo dice chiaramente: “nell’attesa  della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” , e l’uso del verbo attendere indica la convinzione che presto o tardi succederà.  Nella celebrazione eucaristica il sacerdote lo ripete dopo il Padre Nostro: “Nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”. E’ un vero atto di fede che si fa speranza: osiamo affermare che l’amore di Cristo avrà l’ultima parola in ogni situazione. Questa certezza e questa attesa sono il cuore pulsante di tutta la liturgia: durante la celebrazione, noi cristiani non abbiamo gli occhi rivolti al passato, ma siamo già in Cristo “un solo uomo” che scruta il futuro e quando giungerà la fine dei tempi chi ci guarda potrà scrivere: “eccoli sono tutti come un solo uomo e quest’uomo è Gesù Cristo”, quel che noi chiamiamo il Cristo totale.  

 

Vangelo secondo Luca ( 2,1-14)

*Nella povertà della mangiatoia sta il segreto dell’Incarnazione

La notte di Betlemme riecheggia di un meraviglioso annuncio: “Pace agli uomini amati dal Signore”, da ben comprendere perché non esistono persone che Dio non ama, e per questo è meglio intendere: “Pace agli uomini perché Dio li ama”. In fondo è il progetto di Dio, espresso ancora una volta: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16) e non c’è nulla da temere. “Non temete “: dicono gli angeli ai pastori e in fondo perché bisogna aver paura quando nasce un bambino? Proviamo a credere che Dio ha probabilmente scelto proprio di farsi neonato per ridestare nel nostro cuore l’amore per lui, abbandonando ogni forma di paura e di vergogna. Come Isaia con Achaz, anche l’angelo annuncia la nascita di un re: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo Signore”. Ecco, è nato finalmente l’atteso da molti secoli e all’epoca era nella mente di tutti la profezia di Natan al re Davide: “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu riposerai con i tuoi padri, susciterò un tuo discendente, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno” (2 Sam 7,11-12).

Questo è il motivo per cui Luca precisa le origini di Giuseppe, padre del bambino: “Anche Giuseppe dalla Galilea, dalla città di Nazaret, salì in Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e della famiglia di Davide”. Inoltre, secondo la profezia di Michea, il Messia doveva nascere a Betlemme: “E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele… Egli si leverà e pascerà con la forza del SIGNORE, con la maestà del nome del Signore suo Dio… ed egli stesso sarà la pace” (Mi 5,1.4). 

Dunque gli angeli annunciano ai pastori una buona notizia, una grande gioia e si capisce perché le schiere celesti cantino la gloria di Dio. Sorprende sempre però il contrasto tra la grandezza del destino promesso al Messia e la piccolezza di un bambino, nato nelle più umili e precarie circostanze. “la forza del braccio di Dio”, che libera il suo popolo, di cui parla il Salmo 88/89, sta misteriosamente nelle piccole mani di un bambino nato in una povera famiglia tra tante altre. Quanto straordinaria è la povertà di una mangiatoia! Eppure proprio là si manifesta il segno di Dio: incontriamo Gesù nella quotidianità più semplice, persino nella povertà ed è questo il mistero, anzi il segreto dell’Incarnazione.

“L’erede di tutte le cose”, come leggiamo nella lettera agli Ebrei (1,2), nasce tra i poveri; colui che san Giovanni chiama “la luce del mondo” trova la sua culla nella mangiatoia di una oscura stalla; colui che è la Parola di Dio, che ha creato il mondo, è venuto al mondo come ogni altra creatura e, come tutti, dovrà con il tempo imparare a parlare. Si può allora capire e non meravigliarsi se “i suoi non lo hanno accolto e riconosciuto” e non ci stupisce il fatto che invece siano stati proprio i poveri e i piccoli ad accogliere con più facilità il suo messaggio. E’ il Dio della Misericordia che va incontro a ogni tipo di povertà e nutre compassione della nostra miseria. Questa notte santa c’invita a non avere paura a volgere lo sguardo su una povera mangiatoia perché proprio qui scopriamo la maniera più vera per rassomigliare a Gesù e in tal modo ricevere in dono il potere di “diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

La grande gioia del Natale che gli angeli recano ai pastori, gli esclusi della società, da oltre due millenni ormai risuona in ogni angolo del mondo. Dinanzi a tanta gioia e così grande mistero di vita rinnovata tante domande sorgono nel cuore: come mai in alcune parti del mondo dove quest’annuncio è risuonato persiste la divisione e la guerra? Perché tante comunità sembrano stanche di attendere e si ripiegano su altri interessi che portano spesso lontano dall’attesa del Salvatore? Perché lo stupore per la nascita di un bimbo non è più per alcuni il segno d’un amore che si apre alla vita? Tanti perché per un Natale di Cristo che rischia di essere soffocato dal grido chiassoso di una società preoccupata da mille diverse questioni e minacciata dalla tristezza se non talora persino dalla disperazione. La storia della nascita di Cristo trovò allora molti incuranti perché occupati alle questioni d’ogni giorno. Pochi pastori, esclusi e impuri della società, furono i primi e gli unici ad accorrere prontamente. Un segno e un messaggio: il trionfo di un Dio che per amore si fa piccolo bambino è conforto e sostegno per coloro che continuano ad attendere il suo ritorno e sanno che, al di là d’ogni umana previsione, quest’umile re di gloria avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia è il nostro salvatore, Cristo Signore. È dunque una « buona notizia, una grande gioia » quella che gli angeli annunciano ai pastori, ma può trasformarsi in pace solamente nel cuore di chi esce e va a incontrarlo nell’umile stalla di Betlemme. 

 

 

25 Dicembre Messa del Giorno 

 

Lettura dal libro del profeta Isaia 52,7-10

*ll Signore consola il suo popolo 

“Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme”. Il riferimento alle rovine di Gerusalemme permette di collocare in modo preciso il testo di Isaia. Gerusalemme fu devastata dalle truppe di Nabucodonosor nel 587 a.C. che fecero di tutto: saccheggi, distruzioni, violenze, profanazioni. Uomini e le donne validi furono deportati a Babilonia mentre lasciarono dei contadini per nutrire gli occupanti, e l’esilio durò cinquant’anni, un periodo sufficiente per scoraggiarsi e perdere la speranza di rivedere la propria terra. In questo quadro così fosco il profeta annuncia il ritorno, lui che aveva cominciato a predicare così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio” (Is 40,1) e qui, immaginando  di vedere il messaggero che annuncia la grande notizia a Gerusalemme e la sentinella che, dalle colline della città, vede arrivare i deportati, riprende sempre lo stesso verbo consolare: “il Signore ha consolato il suo popolo” volendo significare che il Signore ha già agito e che il ritorno è ormai imminente. Parla di un messaggero a piedi e di una sentinella, due figure scomparse nell’era delle telecomunicazioni e della fibra ottica, ma a quei tempi si affidava il compito di trasmettere notizie a un corridore. L’esempio più famoso è quello della maratona: nel 490 a.C., dopo la vittoria degli Ateniesi sui Persiani a Maratona, un corridore percorse i 42 km fino ad Atene per annunciare la vittoria, esclamò Vittoria!  e poi si accasciò. Mentre gli atleti/messaggeri correvano, le sentinelle appostati sulle mura delle città scrutavano l’orizzonte. Qui Isaia immagina una sentinella che appostata sulle mura di Gerusalemme vede il messaggero avvicinarsi da collina a collina e annuncia: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie, che annuncia la salvezza”, e quando arriva il messaggero grida a Sion, la città santa: “Regna il tuo Dio”. Il popolo finalmente è salvo e la città viene ricostruita da coloro che ritornano: ecco perché le rovine di Gerusalemme sono invitate a esultare di gioia. In Israele le sconfitte del popolo erano considerate sconfitte del suo Dio, ma ora il popolo è liberato e il suo Dio ha mostrato la sua potenza, come afferma il profeta: “Il Signore ha snudato il suo santo braccio”. Ha liberato il suo popolo come dall’Egitto, “con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34). E non finisce qui la visione del profeta perché dietro il messaggero, la sentinella vede il corteo trionfale e ”il ritorno del Signore a Sion”, il quale cammina in mezzo al suo popolo e sarà di nuovo presente a Gerusalemme. Isaia afferma che il Signore “ha riscattato Gerusalemme”, termine molto forte per descrivere l’azione di Dio. Nella Bibbia, riscattare, redimere significa liberare.  Nella tradizione del popolo ebraico, il Go’el è il parente più prossimo che riscatta un familiare caduto in schiavitù o che ha venduto la propria casa per pagare i debiti e il profeta applica questo ruolo a Dio, un modo per sottolineare che il Signore è il parente più prossimo del suo popolo e lo libera, lo riscatta, lo redime. “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio”. Anche qui va evidenziato qualcosa di molto importante: durante l’esilio babilonese c’è stata una evoluzione importante nella teologia ebraica perché Israele ha capito che Dio ama tutta l’umanità e non solo il popolo che si è scelto. Anzi il suo popolo sa ora che la propria elezione è una missione al servizio della salvezza di tutti. Ascoltiamo questo testo a Natale e le parole del profeta “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” assumono per noi un significato nuovo. Anche noi abbiamo la missione di annunciare e testimoniare la pace; siamo messaggeri del vangelo che è per tutti e in questo giorno gridiamo al mondo intero: “Il tuo Dio è re, regna il tuo Dio”.

 

Salmo responsoriale 97 (98),1-6

 *Il Popolo dell’Alleanza

“Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. A cantare è Israele che rivendica il rapporto privilegiato di un piccolo popolo con il Dio dell’universo, ma ha compreso, poco a poco, che la sua missione non è quella di custodire gelosamente questa relazione speciale, bensì di annunciare l’amore di Dio per tutti, affinché l’intera umanità entri gradualmente nell’Alleanza. E’ un salmo che mostra i due amori di Dio: il suo amore per il popolo eletto, Israele, e il suo amore per tutta l’umanità, che il salmista chiama le genti. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2) e subito dopo, richiamando l’elezione di Israele, “Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa di Israele” (v.3). Le parole amore (chesed) e fedeltà (emet) richiamano l’Alleanza e sono le stesse con cui il Signore si è fatto conoscere nel deserto al popolo che ha scelto: “Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni” (Es 34,6-7). Qui Dio si definisce con caratteri fondamentali che vale la pena ricordare: misericordioso (rachum); pietoso(chanun), ricco di amore (chesed) e fedeltà (emet). Questa descrizione di Dio “amore e fedeltà” diventa un punto cardine della fede di Israele che si ritrova spesso nei salmi, nei profeti per evidenziare il legame fedele e pieno di amore tra Dio e il suo popolo lungo il cammino nel deserto. Israele è pertanto davvero il popolo eletto, ma la sua elezione non è per un godimento egoistico, bensì per diventare il fratello maggiore dell’umanità. Come diceva André Chouraqui, “il popolo dell’Alleanza è destinato a diventare lo strumento dell’Alleanza tra i popoli”. Uno dei grandi insegnamenti della Bibbia è che Dio ama tutti gli uomini d’ogni razza e cultura, non solo Israele e questo salmo – che abbiamo modo di ritrovare spesso nella liturgia - lo dimostra anche nella sua struttura: i versetti 2 e 3 sono costruiti secondo lo schema dell’inclusione che è una tecnica letteraria usata nella Bibbia. Si fa come una cornice per porre in evidenza il testo centrale che è il versetto riguardante Israele: “Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele”, e le frasi che lo racchiudono parlano delle nazioni: “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia”, tutti i confini della terra- che sostituisce le genti - hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. L’elezione di Israele è centrale, posta in una cornice che sottolinea la missione universale di Israele: essere luce per tutti i popoli del mondo. Quando il popolo di Israele, durante la festa delle Capanne a Gerusalemme, acclama Dio come re, sa già di farlo a nome di tutta l’umanità. Cantando, immagina il giorno in cui Dio sarà riconosciuto come re da tutta la terra.

Qualche ulteriore annotazione. Questo salmo vuole porre in evidenza due temi: il primo è l’insistenza sui due amori di Dio: per Israele, il popolo eletto, e per l’intera umanità; il secondo è la proclamazione della regalità di Dio. Nel Tempio di Gerusalemme si cantava: “Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni” anche se il verbo cantare è riduttivo: in ebraico, il salmo usa un linguaggio che richiama un grido di vittoria (teru‘ah), come quello che si innalzava sul campo di battaglia dopo una vittoria e il termine “vittoria”  appare tre volte nei primi versetti: “Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo”(v.1); “Il Signore ha fatto conoscere la sua vittoria, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia”(v 2); “Tutti i confini della terra hanno veduto  la vittoria del nostro Dio”(v 3).

Si evidenzia una duplice vittoria: 1.la liberazione dall’Egitto: “ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo” richiama l’impresa divina della liberazione dalla schiavitù d’Egitto e la traversata del Mar Rosso. Nel Deuteronomio leggiamo: “Il Signore ti ha fatto uscire dall’Egitto con mano forte e braccio teso” (5,15), simbolo della salvezza e anche l’espressione del salmo “ha compiuto meraviglie” (v 1) è un riferimento ai prodigi della liberazione dall’Egitto.  2.La vittoria finale sul male: Il salmo guarda anche alla futura vittoria definitiva, quando Dio trionferà su tutte le forze del male e in quel giorno sarà acclamato re non alla maniera dei re terreni che deludono, perché la sua vittoria sarà definitiva e non deluderà mai. Noi cristiani possiamo acclamare Dio con ancora più vigore, perché i nostri occhi contemplano a Natale il re del mondo, l’Incarnazione del Figlio, e sappiamo che il Regno di Dio, il regno dell’amore, è già iniziato. E contemplando l’inerme Bambinello nel presepe non possiamo non pensare che in questo momento la forza salvifica del braccio di Dio si trova nelle due minuscole mani di un neonato. 

 

Lettura dalla lettera agli Ebrei (1,1-6)

*Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti 

“Dio ha parlato ai padri per mezzo dei profeti”: grazie a questa frase s’intuisce che i destinatari della Lettera agli Ebrei sono ebrei diventati cristiani perché una caratteristica di Israele è proprio la convinzione che Dio si è rivelato progressivamente al popolo che si è scelto. Non essendo Dio alla portata dell’uomo occorre che lui stesso prenda l’iniziativa di rivelarsi, come percepiamo anche dalla Lettera agli Efesini: “Dio ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) perché da soli mai avremmo potuto scoprirlo e quindi incontrarlo. E questo è avvenuto in maniera progressiva uguale all’educazione di un bambino al quale i genitori comunicano secondo il suo sviluppo e in maniera graduale come capire la realtà, sé stesso e la società che lo circonda. Allo stesso modo Mosè spiega la pedagogia di Dio nel libro del Deuteronomio: “Come un uomo educa suo figlio, così il Signore, tuo Dio, ti educa” (Dt 8,5). Dio ha affidato quest’educazione progressiva del suo popolo in ogni epoca ai profeti che parlavano a suo nome e utilizzavano una maniera comprensibile alla mentalità delle persone e del tempo perché Dio utilizza con il suo popolo una pedagogia molto graduale parlandogli “molte volte e in diversi modi” (Eb 1,1). I profeti venivano così ritenuti la “bocca di Dio”, come ascoltiamo nella celebrazione della messa: “Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza e per mezzo dei profeti hai insegnato a sperare nella salvezza” (Preghiera Eucaristica IV). L’autore della Lettera agli Ebrei sa che la salvezza si è già compiuta e per tale motivo divide la storia dell’umanità in due periodi: prima di Cristo è tutto ciò che chiama passato; dopo Cristo sono i giorni che stiamo vivendo, il tempo cioè del compimento, poiché in Gesù è già iniziato il nuovo mondo ed è Cristo il compimento del progetto di Dio, che chiamiamo il disegno della benevolenza divina. A partire dalla risurrezione di Cristo, che ha stupito il cuore dei primi credenti, la convinzione dei cristiani delle primitive comunità si è andata formando gradualmente sino a comprendere che Gesù di Nazaret è veramente il Messia atteso dal popolo ebraico anche se in maniera molto diversa dall’idea che in passato si erano fatti. Tutto il Nuovo Testamento ruota su tale sorprendente scoperta: c’era chi aspettava un Messia-re, altri un Messia-profeta, altri ancora un Messia-sacerdote e nella Lettera agli Ebrei, come leggiamo nel passo di oggi, si dice che Gesù Cristo è tutto questo.

il Cristo è dunque veramente Sacerdote, Profeta e Re

1. Gesù, il Messia-Profeta. L’autore della Lettera agli Ebrei afferma: “Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio”. Gesù è il profeta per eccellenza: se i profeti dell’Antico Testamento erano ritenuti la “bocca di Dio”, lui è la Parola stessa di Dio, Parola creatrice “mediante il quale ha fatto anche il mondo” (Eb 1,2); anzi è “irradiazione della sua gloria”, cioè di Dio (Eb 1,3) come avvenne nell’episodio della Trasfigurazione. Gesù ai discepoli nel cenacolo disse: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), quindi l’espressione perfetta dell’essere di Dio.

2. Gesù, il Messia-Sacerdote. Il sommo sacerdote aveva il ruolo d’intermediario tra Dio e il popolo peccatore e Gesù, in totale e perfetta relazione filiale d’amore con il Padre, ristabilisce l’Alleanza tra Dio e l’umanità. Egli è dunque il sommo sacerdote per eccellenza, che realizza la “purificazione dei peccati”, purificazione che Gesù ha compiuto, come l’autore spiegherà più avanti nella sua lettera, vivendo tutta la vita in un perfetto dialogo d’amore e obbedienza con il Padre.

3. Gesù, il Messia-Re. Nella Lettera agli Ebrei sono qui attribuiti a Gesù titoli e profezie che riguardavano il Messia: l’immagine del trono regale, “sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli”, e soprattutto “Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato”, il titolo di Figlio di Dio veniva conferito al nuovo re nel giorno della sua consacrazione, espressione che troviamo anche nel salmo numero 2. Il profeta Natan aveva annunciato: “Io sarò per lui un padre, ed egli sarà per me un figlio” (2 Sam 7,14). A differenza dei re della terra, Gesù è re su tutta la creazione, persino sugli angeli: “divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato” (Eb 1,4), e “Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio” (Eb 1,6). L’autore afferma che Cristo è Dio stesso, dato che solamente Dio ha diritto all’adorazione degli angeli.

Questo testo biblico non rivela solo la grandezza di Cristo, ma anche la nostra vocazione: con il battesimo siamo diventati sacerdoti chiamati a vivere in comunione con Dio e a intercedere per il mondo; profeti la cui missione è testimoniare con la vita il vangelo a tutti; re impegnati a regnare sul peccato e a contribuire all’avvento del Regno di Dio. Meditare questa pagina biblica il giorno del Natale di Cristo è un invito a contemplare il mistero della nascita di Cristo e prendere consapevolezza che il bambino adagiato nella mangiatoia è il Verbo eterno, venuto per farci figli e figlie di Dio, sacerdoti, profeti e re, chiamati a partecipare alla gloria del Padre per tutta l’eternità. 

 

Vangelo secondo Giovanni (1,1-18)

 *La creazione è il frutto dell’amore 

“In principio”. L’evangelista Giovanni riprende di proposito la prima parola della Genesi  Bereshit ed è necessario percepirne la profondità  perché non è un semplice riferimento cronologico perché “ciò che ha inizio” è “ciò che guida” tutta la storia umana, è cioè l’origine e il fondamento di tutte le cose. “In principio era il Verbo”: tutto è posto sotto il segno della Parola, Parola d’Amore anzi Dialogo e senso della vita: sta qui l’origine e l’inizio di tutte le cose. “E il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio” (v. 2-3): in greco è “pros ton Theon” che letteralmente significa “rivolto verso Dio”, il Verbo era rivolto verso Dio: è l’attitudine del dialogo. Se dico: “Ti amo” sto veramente dialogando con qualcuno, sto faccia a faccia con te, rivolto verso colui con cui parlo; se invece volto le spalle il dialogo è interrotto ed è necessario tornare indietro per ristabilirlo. San Giovanni afferma qualcosa di essenziale: dato che nulla è stato fatto senza il Verbo, tutta la creazione è frutto del dialogo d’amore tra il Padre e il Figlio. Ognuno di noi è stato creato in questo dialogo e per questo dialogo: siamo il frutto di un dialogo d’amore. Generati dall’amore possiamo dire che siamo il frutto dell’amore di Dio e la vocazione dell’umanità, di Adamo, per usare il termine della Genesi, è vivere un perfetto dialogo d’amore con il Padre. La storia dell’umanità dimostra però il contrario come leggiamo nel racconto della caduta di Adamo ed Eva. Il secondo capitolo della Genesi mostra chiaramente che il dialogo è stato interrotto; l’uomo e la donna non si sono fidati di Dio, anzi hanno sospettato che Dio non avesse buone intenzioni nei loro confronti: è l’opposto del dialogo d’amore. Conosciamo per esperienza che quando il sospetto invade le nostre relazioni, il dialogo si avvelena. L’intera storia della relazione personale di ciascuno di noi con Dio potrebbe essere rappresentata così: a volte siamo rivolti verso di Lui, altre volte ci allontaniamo, e allora dobbiamo fare ritorno affinché Egli possa ristabilire il dialogo. Questo è esattamente il significato nella Bibbia della parola conversione “shùv”, che significa ritornare, volgersi indietro, tornare a casa.

Gesù vive questo dialogo nel quotidiano in maniera perfetta e si fa carico di guidare l’umanità: si potrebbe dire che Egli è il “sì” dell’intera umanità e proprio, attraverso di Lui, siamo reinseriti nel dialogo primordiale con Dio: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome”. “Diventare figli di Dio” vuol dire ritrovare la relazione filiale, fiduciosa, senza ombre con lui e l’unico scopo di Cristo è far sì che l’umanità intera possa entrare in questo dialogo d’amore; “quelli che credono nel suo nome” sono coloro che si affidano a Cristo e si pongono con fiducia alla sua sequela. Il pensiero va al cenacolo dove Gesù esprime il suo ardente desiderio: “Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te. Che anch’essi siano in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17,21) e mi torna in mente ciò che scrive Kierkegaard: “Il contrario del peccato non è la virtù, il contrario del peccato è la fede”. “Credere” è fidarsi del Padre; è sapere in ogni circostanza, qualunque cosa accada, che Dio mi ama; è non sospettare mai di Lui e mai dubitare del suo amore per noi e per il mondo e di conseguenza riuscire a guardare il mondo con lo sguardo di Dio. Ecco il messaggio che ci viene dal Natale del Verbo fatto carne: osservare il mondo con gli occhi di Dio. “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi: se Lui è venuto per stare qui con noi, non è necessario fuggire dal mondo per incontrare Dio, anzi è nella “carne”, cioè nella realtà di ogni giorno che possiamo leggere e vivere la sua presenza. Come Giovanni Battista, ognuno di noi è mandato a essere testimone di questa presenza. Ogni Natale ci richiama questo dono e ci incoraggia a condividerlo con quante più persone possiamo.

 

+ Giovanni D’Ercole

Le complessità dell’esistenza.

La vita non è sempre facile e le contrarietà dell’esistenza sono sempre esistite; ci accompagnano lungo il percorso del nostro vivere quotidiano.

Nei tempi passati spesso era il medico di famiglia che le ascoltava e le associava come connesse con la salute dei suoi pazienti e dava loro consigli.

Quando invece le difficoltà erano di ordine etico, le persone si rivolgevano al sacerdote che attraverso l’accompagnamento e la confessione dava suggerimenti sul modo di redimersi. 

In seguito con la scoperta della psicologia nelle sue varie forme, ci si è occupati delle problematiche dell’uomo. La figura  dello psicologo in senso lato o dello psichiatra si sono aggiunte alle figure precedenti. Per quanto riguardata più specificamente il campo dello psichiatra, le problematicità non sono malattie visibili.   

Le persone che sono afflitte da complicazione della vita non sono dei pazienti intesi in senso usuale. Possono essere delle persone normali e produttive - per quanto lo si possa essere nella nostra collettività.

Generalmente queste contrarietà quotidiane possono riguardare i rapporti interpersonali, il modo  di lavorare, le questioni legate al rendimento… ma anche il tema del vivere onestamente, in linea con i propri principi e col il credo personale. Ci sono poi  le contrarietà della vita pratica, che spesso possono accentuare le altre.

Molto dipende anche dai nostri comportamenti tipici con i quali ci difendiamo o costruiamo il nostro modo di vivere, e che si sono formati in un periodo precoce - imitando inconsapevolmente le persone che hanno avuto significato nella nostra vita (il cosiddetto carattere, molto succintamente).

Jung sostiene che l’inconscio del bambino dipende dall’inconscio genitoriale.

Quasi sempre nella mia lunga pratica professionale ho incontrato questo costrutto, e ho dovuto faticare per far comprendere che erano proprio i genitori a innescare i comportamenti.

Spesso quando incontravo genitori che non volevano accettare certe responsabilità, quest’ultimi ricorrevano a scuse che non reggevano in nessun modo.

Nei rapporti fra gli individui la problematica più fastidiosa riguarda come viviamo i nostri  affetti.

Ci sono persone aggressive che cercano persone da dominare. C’è chi sfrutta l’altro (lo sprovveduto); e cosi via.

Nelle relazioni amorose si deve far caso a come ognuno si pone nei confronti dell’altro. Facciamo alcuni esempi.

Una donna che soffre a causa del coniuge che ostacola ogni suo sviluppo (o viceversa) deve capire o farsi aiutare a comprendere che in qualche modo ha cercato questa situazione, e che solo trovando fiducia nelle proprie possibilità e nella capacità di gestirsi che troverà sollievo alle sue pene.

In caso contrario, ossia se non scopre le proprie potenzialità, neanche separandosi risolverà il suoi problemi - perché inconsapevolmente andrà alla ricerca dello stesso tipo di coniuge.

Solo le persone in grado di rispettare i bisogni e gli interessi dell’altro sono capaci di un amore adulto. Spesso infatti confondiamo il nostro desiderio con quello dell’altro.

Quante volte nelle consulenze con le coppie ho incontrato questo.

Nelle difficoltà lavorative troviamo sovente persone che passano da un lavoro all’altro perché non sono soddisfatte dei mancati riconoscimenti. Può ad es. trattarsi di un individuo con idee grandiose sulle sue attitudini e che deve cercare ammirazione nell’ambiente lavorativo . 

Vi sono poi persone che fanno un lavoro creativo e che pensano di non produrre come vorrebbero. Qui siamo spesso davanti a un perfezionismo inattuabile. Spesso tali soggetti non riescono ad ammettere di avere dei limiti, e trovarsi di fronte alle loro reali capacità.

Succede poi che molte persone si rivolgono ad un analista poiché pur non presentando una forma di depressione, non sono contenti di sé.

Nella sua Psicoanalisi della società contemporanea, Erich Fromm sostiene che il consumismo ci indirizza ad una “alienazione da se stessi”. Con ‘alienazione’ si intende ciò che in principio appartiene all’uomo e gli diventa poi estraneo - finendo per dominarci.

Dobbiamo essere come gli altri ci vogliono.

La pubblicità e la stessa moda influiscono anche coscientemente, e in tal guisa se non ci conformiamo possiamo sentirci arretrati.

Spesso si entra nel conflitto tra i nostri convincimenti e il bisogno di “piacere” alla gente.

Certo non dobbiamo essere degli isolati, ma anche qui un giusto equilibrio ci “salva” poiché ripudiare alcuni cardini fondamentali del nostro modo di essere, danneggia parecchio. 

Che il Natale ormai prossimo ci illumini, ci indichi la via. Non di rado anche qui ci uguagliamo alle tendenze attuali della popolazione, e sovente dimentichiamo il suo vero significato.

 

Francesco Giovannozzi   Psicologo-psicoterapeuta

Collocarsi negli eventi di persecuzione

(Mt 10,17-22)

 

Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.

In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.

Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.

Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.

L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.

Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.

Non saremo sull’altro lato. Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.19-20).

 

Mt intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.

Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (vv.16-18).

I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.

Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.

Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.

Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.

In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.

Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco.

Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.

Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.

È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.

Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.22b).

La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.

Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione? 

Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?

 

 

[S. Stefano protomartire, 26 dicembre]

Cari fratelli e sorelle!

All’indomani del Natale, la liturgia ci fa celebrare la "nascita al cielo" del primo martire, santo Stefano. "Pieno di fede e di Spirito Santo" (At 6,5), egli fu scelto come diacono nella Comunità di Gerusalemme, insieme con altri sei discepoli di cultura greca. Con la forza che gli veniva da Dio, Stefano compiva numerosi miracoli ed annunciava nelle sinagoghe il Vangelo con "sapienza ispirata". Fu lapidato alle porte della città e morì, come Gesù, invocando il perdono per i suoi uccisori (At 7,59-60). Il legame profondo che unisce Cristo al suo primo martire Stefano è la Carità divina: lo stesso Amore che spinse il Figlio di Dio a spogliare se stesso e a farsi obbediente fino alla morte di croce (cfr Fil 2,6-8), ha poi spinto gli Apostoli e i martiri a dare la vita per il Vangelo.

Bisogna sempre rimarcare questa caratteristica distintiva del martirio cristiano: esso è esclusivamente un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori. Perciò noi oggi, nella santa Messa, preghiamo il Signore che ci insegni "ad amare anche i nostri nemici sull’esempio di [Stefano] che morendo pregò per i suoi persecutori" (Orazione "colletta"). Quanti figli e figlie della Chiesa nel corso dei secoli hanno seguito questo esempio! Dalla prima persecuzione a Gerusalemme a quelle degli imperatori romani, fino alle schiere dei martiri dei nostri tempi. Non di rado, infatti, anche oggi giungono notizie da varie parti del mondo di missionari, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose e fedeli laici perseguitati, imprigionati, torturati, privati della libertà o impediti nell’esercitarla perché discepoli di Cristo e apostoli del Vangelo; a volte si soffre e si muore anche per la comunione con la Chiesa universale e la fedeltà al Papa. Nella Lettera Enciclica Spe salvi (cfr n. 37), ricordando l’esperienza del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin (morto nel 1857), faccio notare che la sofferenza è trasformata in gioia mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. Il martire cristiano, come Cristo e mediante l’unione con Lui, "accetta nel suo intimo la croce, la morte e la trasforma in un’azione d’amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto d’amore che si dona totalmente. La violenza così si trasforma in amore e quindi la morte in vita" (Omelia a Marienfeld - Colonia, 21 agosto 2005). Il martire cristiano attualizza la vittoria dell’amore sull’odio e sulla morte.

Preghiamo per quanti soffrono a motivo della fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Maria Santissima, Regina dei Martiri, ci aiuti ad essere testimoni credibili del Vangelo, rispondendo ai nemici con la forza disarmante della verità e della carità.

[Papa Benedetto, Angelus 26 dicembre 2007]

Fratelli e figli carissimi!

Mi è caro, anche quest’oggi, rivolgermi a voi, che siete qui convenuti per la preghiera dell’Angelus nel clima così tipico ed intimo del santo Natale. Oggi, infatti, il Natale continua la sua salutare e tonificante atmosfera, ed in essa ancora respirano le nostre anime per il senso di perdurante meraviglia e stupore dinanzi al grande evento che si è verificato e che, inesauribile nella sua efficacia, si proietta nell’intero corso del tempo. Intendo l’evento o, più esattamente, il mistero del Figlio di Dio che nasce a Betlemme come Figlio dell’uomo, per farsi a noi fratello e per noi salvatore.

Tanto augusto ed insondabile è un tale mistero, che noi non lo mediteremo mai abbastanza. Per questo, la Chiesa nella sua sapienza liturgica e catechetica ce lo ripropone ogni anno, per una commemorazione che si prolunga per non pochi giorni e si articola in uno speciale ciclo che chiamiamo “ciclo liturgico natalizio”.

2. E desidero venerare insieme con voi santo Stefano, primo martire cristiano, così come lo fa la Chiesa il giorno dopo la solennità del Natale.

“Ieri abbiamo celebrato la nascita temporale dell’eterno nostro re; oggi celebriamo la passione gloriosa di un suo soldato. Difatti, ieri il nostro re, rivestito della nobile veste della sua carne, uscendo dalla reggia del seno verginale, si è degnato di far visita al mondo; oggi un suo soldato, lasciando la tenda del corpo, è salito da trionfatore nel cielo”. Sono queste le suggestive espressioni di un santo della Chiesa antica, san Fulgenzio (S. Fulgenzio, Sermo 3, 1), ed esse conservano intatto il loro significato perché enucleano un rapporto non soltanto di continuità liturgica tra la festa di Natale e quella del protomartire, ma anche soprattutto di intrinseco collegamento nell’ordine della santità e della grazia. Cristo, re della storia e redentore dell’uomo, si pone al centro di quell’itinerario verso la perfezione, a cui chiama l’uomo, ogni uomo.

Mentre veneriamo santo Stefano e l’invitto suo esempio di testimone di Cristo, quale egli si dimostrò con la parola animosa, con la premura nel servizio dei poveri, con la sua costanza durante il processo e, soprattutto, con la sua morte eroica, noi vediamo che la sua figura s’illumina e s’ingigantisce nella luce del suo Signore e maestro, che volle seguire nel sacrificio supremo. È il Signore Gesù che solo dà il soccorso ed il conforto necessario alle anime per esser fedeli fino alla morte.

Da ciò deriva una preziosa lezione per noi: guardando a Stefano nella prospettiva del Natale, noi dobbiamo raccogliere il suo esempio ed il suo insegnamento, i quali univocamente ci riportano a Cristo che, nato nella grotta di Betlemme, è già incamminato - nell’intenzione finalistica dell’opera redentiva - verso il colle del Calvario. Fatti da lui figli di Dio, chiamati a vivere da figli di Dio, saremo anche noi coronati come Stefano lassù, nella patria, se saremo fedeli.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 26 dicembre 1980]

Si celebra oggi la festa di Santo Stefano, primo martire. Il Libro degli Atti degli Apostoli ci parla di lui (cfr cap. 6-7) e nella pagina della liturgia di oggi ce lo presenta nei momenti finali della sua vita, quando viene catturato e lapidato (cfr 6,12; 7,54-60). Nel clima gioioso del Natale, questa memoria del primo cristiano ucciso per la fede potrebbe apparire fuori luogo. Tuttavia, proprio nella prospettiva della fede, l’odierna celebrazione si pone in sintonia con il vero significato del Natale. Nel martirio di Stefano, infatti, la violenza è sconfitta dall’amore, la morte dalla vita: egli, nell’ora della testimonianza suprema, contempla i cieli aperti e dona ai persecutori il suo perdono (cfr v. 60).

Questo giovane servitore del Vangelo, pieno di Spirito Santo, ha saputo narrare Gesù con le parole, e soprattutto con la sua vita. Guardando a lui, vediamo realizzarsi la promessa di Gesù ai suoi discepoli: “Quando vi maltratteranno per causa mia, lo Spirito del Padre vi darà la forza e le parole per dare testimonianza” (cfr Mt 10,19-20). Alla scuola di Santo Stefano, diventato simile al suo Maestro sia nella vita sia nella morte, anche noi fissiamo lo sguardo su Gesù, testimone fedele del Padre. Impariamo che la gloria del Cielo, quella che dura per la vita eterna, non è fatta di ricchezze e potere, ma di amore e donazione di sé.

Abbiamo bisogno di tenere lo sguardo fisso su Gesù, «autore e perfezionatore della nostra fede» (Eb 12,2), per poter rendere ragione della speranza che ci è stata donata (cfr 1Pt 3,15), attraverso le sfide e le prove che dobbiamo affrontare quotidianamente. Per noi cristiani, il cielo non è più lontano, separato dalla terra: in Gesù, il Cielo è disceso sulla terra. E grazie a Lui, con la forza dello Spirito Santo, noi possiamo assumere tutto ciò che è umano e orientarlo verso il Cielo. Così che la prima testimonianza sia proprio il nostro modo di essere umani, uno stile di vita plasmato secondo Gesù: mite e coraggioso, umile e nobile, non violento.

Stefano era diacono, uno dei primi sette diaconi della Chiesa (cfr At 6,1-6). Egli ci insegna ad annunciare Cristo attraverso gesti di fraternità e di carità evangelica. La sua testimonianza, culminata nel martirio, è fonte di ispirazione per il rinnovamento delle nostre comunità cristiane. Esse sono chiamate a diventare sempre più missionarie, tutte protese all’evangelizzazione, decise a raggiungere gli uomini e le donne nelle periferie esistenziali e geografiche, dove più c’è sete di speranza e di salvezza. Comunità che non seguono la logica mondana, che non mettono al centro sé stesse, la propria immagine, ma unicamente la gloria di Dio e il bene della gente, specialmente dei piccoli e dei poveri.

La festa di questo primo martire Stefano ci chiama a ricordare tutti i martiri di ieri e di oggi, - oggi sono tanti! - a sentirci in comunione con loro, e a chiedere a loro la grazia di vivere e morire con il nome di Gesù nel cuore e sulle labbra. Maria, Madre del Redentore, ci aiuti a vivere questo tempo di Natale fissando lo sguardo su Gesù, per diventare ogni giorno più simili a Lui.

[Papa Francesco, Angelus 26 dicembre 2019]

(Natale di Lc)

 

Non avrebbe senso mettere una torta farcita di candeline, davanti al Presepe. Inneggiamo ben altra Meraviglia: la scoperta di un Tesoro, nascosto dietro i nostri lati oscuri.

Natale non è una ricorrenza o compleanno, ma un evento di Rivelazione del Volto divino: non Padrone assoluto, ma povero nudo e disarmato tra gente qualsiasi, adagiato su luogo impuro.

Ci sentiamo “malfatti”? Siamo sulla strada giusta - che non è quella dei controlli esasperati.

Dio non si è “fatto superuomo”, bensì «Carne». Realtà che il Padre fa respirare, abbraccia e recupera - illumina e non scarta.

Senso del Natale è lasciare che tutte le incerte ma irripetibili implicazioni dell’imperfezione ci attraversino. Non come una colpa.

I punti “deboli” e le eccentricità diverranno punti di forza.

C’è bisogno di tempo imprevedibile, per tracciare la via della crescita - percorso inatteso; e Dio lo accetta.

Incarnazione è un’irruzione d’Eternità fra le nostre mura e le crisi, Imprevisto sognante che investe le periferie e non pone distanze.

Nei pastori - che siamo noi - i grezzi, supplenti e impuri, diventano incaricati prioritari.

Giudizio stridente rispetto all’effimero autentico: quello delle opinioni cerimoniali.

Non è una redenzione estrinseca, mirata solo per i disadattati della società, beninteso. Ci riguarda.

Sotto la momentanea scorza delle nostre “cose certe” briga un seme che farà il nostro nuovo Bimbo.

 

Il Gesù interiore vuole essere allattato, custodito, nutrito, affinché cresca secondo un Disegno intimo, un processo di Esodo sacro (ma non protetto) che salva.

Mistero che non è a portata naturale esterna, perché in sintonia con la Chiamata per Nome, con l’irripetibile carattere vitale innato, anche poliedrico - il quale non va spento.

Lo sviluppo delle emozioni, d’inclinazioni e passioni, delle nostre Radici, non va disturbato da tare di pensiero, da cappe di consuetudini, o condizionamenti.

[Persino le accelerazioni intralciano l’evoluzione: ad es. la voglia di affrontare l’insufficienza, onde risolverla immediatamente].

In generale, nuoce la battaglia che allestiamo con noi stessi per essere accettati - conformi al contorno.

Ma così l’impegno è a sedersi in una armatura che non ci appartiene.

Giorno dopo giorno una Fiamma sta partorendo un altro e differente Infante - in apparenza contraddittorio, squilibrato, malfermo, intaccato.

Questo gagliardo adolescente non gode di programmi laceranti, bensì d’una consapevolezza di Fede: il Creatore vuole passeggiare-con le nostre difformità.

C’è un Gesù intimo, forse non ancora svezzato: ci sorride sereno e a braccia aperte.

Non c’è verità più bella che nella vertigine di poter partorire ed esprimere il Piccolo nascosto che ciascuno è nel volto dell’anima.

 

Nell’ultima sua Veglia di Natale Paolo VI tenne a sottolineare che nell’arrivo del Verbo «Ciascuno può dire: per me!».

Questo Tempo ci aiuti a comprendere tale dimensione personale; non siamo coloro che devono lottare contro se stessi.

Per un Natale ch’è già Pasqua. Il bozzolo bucato farà la nostra Farfalla.

Maria, l’Arte della Percezione che rompe gli schemi

(Lc 2,19) (Lc 1,26-38)

 

Per una vita dall’Io autentico al Culmine sconosciuto

 

«Ora, Maria conservava e custodiva tutte - proprio tutte - queste parole-evento, mettendole insieme e comparandole nel suo cuore» [senso del testo greco].

Cosa ne era di lei, del Figlio e di tutti gli altri?

Voleva capire le affinità essenziali - con l'anima e altrove: il senso degli strani e semplici accadimenti. Regola d’oro anche per noi.

Nel ritratto di Gesù che allattava, il suo silenzio non permaneva collocato - e non si lasciava demotivare: scavando.

Per questo conosceva ben più cose espressive di tante menti - sublimi eppure incapaci di uscire dagli automatismi, già allagate di dottrine e tradizioni ragguardevoli.

Siamo volentieri anche noi lì, con Maria; in una cultura che c’invade i sensi e inquina l'anima di opinioni rumorose, di modelli apparentemente eloquenti ma che mettono in ginocchio: stressanti e futili.

Tutte riproduzioni enfatiche, d’impatto - ma esterne.

Eppure debordano nell’intimo, e malgrado le apparenze scintillanti, chiudono la personalità in uno spazio ristretto, di abitudini malsane, solo da esibire.

Ci costringiamo infatti a correre da una parte all’altra, spesso a recitare prototipi. Appunto, intrigati a forza da piani, organigrammi e pensieri, anche devoti, i quali divengono però forme di banalizzazione personale e sociale.

Ci stiamo abituando alla paura del nostro lato discreto, riservato, non pettegolo, appartato, nascosto, tutto nostro e vicino alla Fonte: in una parola, custode della Chiamata per Nome - che vuol fare pausa per tornare all’Ascolto antico del nuovo.

Un lato che ancora non conosciamo: esso non ha mai lo stesso tono di sempre. È tutto nostro, ma allude agli incontri veri.

Affinando la visione interiore, cogliamo la nostra scaturigine e il senso della storia; e le sue pieghe - così possiamo partorire ancora il mondo prezioso dentro e fuori di noi.

Lo facciamo a partire dall’impalpabile che fa da perno dell’essenza. E custodisce il Fuoco dentro.

 

Per un tratto - sempre più breve - gli opinionisti ufficiali c’illudono di stare al centro del mondo.

Vogliono inocularci il falso senso di protagonismo e permanenza che rapidamente svanisce; in realtà, ci travolgono.

Sentiamo il bisogno di una riscoperta dell’essere e dell’essenza, non dissolti nel regno della notte e dell’illusione [avere potere apparire, trattenere salire dominare]. Senza fughe, né ritmi che non ci appartengono.

Cerchiamo un coinvolgimento, e una distanza.

Vogliamo ‘percepire’ come Maria e come i pastori - sconclusionati da opinioni religiose altrui - per divenire e rinascere, e divenire ancora. Recuperando le frenesie, le sorprese, le ferite; senza disperdere il Centro.

 

“Rifugiarsi” in uno spazio segreto non era per Lei un ritrovare la se stessa attesa da tutti, stereotipa e adeguata come sempre.

Esprimeva piuttosto il suo essere - in fuga dai modi convenzionali.

Per vivere intensamente non desiderava entrare nella nomenclatura - poi essere normale, e asservita - piuttosto allontanarsi, ma stando lì. Perciò non escludeva nulla.

Si è riconosciuta pure in quei vagabondi.

Mai si sarebbe immaginata protagonista (recitante) d’una tradizione che l’ha collocata su piedistalli, forme, attributi solenni, e costrizioni - proprio quelle che l’avrebbero resa dolcemente ma decisamente ribelle.

Non si rivisitava per crogiolarsi, bensì per verificare e riattivare il suo ‘modo’ - che non voleva perdere: poteva essere travolto da pareri esterni e seppellito da circostanze [impellenti ma senza orizzonte].

Non voleva smarrire il proprio Indirizzo dentro mete comuni, omologate, perdendo di vista ciò che era davvero, e la introduceva nel cielo del senza tempo - né bramava assomigliare alla maggioranza, o starle sopra.

Quella che le abbiamo costruito noi, non è casa sua.

Maria non si affacciava sulla realtà e oggi dentro di noi [per aiutarci a guardare il “nostro” Mistero] col viso conforme; edulcorato e artefatto, o intimista, paludoso.

 

La sua anima era sempre in viaggio. Per conoscere l’inconoscibile, mai si sarebbe fermata - anche senza sapere in anticipo dove andare.

Il suo carattere non voleva le certezze della sistemazione. Senza tentennare, anche in sé preferiva intuire e vivere la Passione d’amore.

Si lasciava guidare e salvare, ma a partire dal suo stesso centro sacro, santuario del Dio-Con. Colui che sblocca, c’incammina, e libera.

Non poteva consentire che la sua Vocazione venisse coperta da idoli, né da alcuna trama, che pur si stava svolgendo.

Nel ‘qui e ora’ ritrovava la sua affinità proprio dal suo stesso essere viandante, che avanzando poneva i disagi alle spalle.

Sviluppando l’occhio interiore, trasmutava anche il suo interno per ritrovare il passo dell’Annunciazione nascosta nei disadattati, che ancora la conduceva.

Solo questo le durava negli anni - non il lato funzionale.

Non sognava di fare una vita tranquilla, bensì di capire la personale missione.

 

Senza ingenuità s’interrogava sul significato delle chiamate intime, degli accadimenti, delle vie traverse, e dei suoi moti - estranea solo all’ansia di piacere a tutti.

Desiderava comprendere come inserirsi al meglio, procedendo verso la nuova terra promessa [cf. Lc 1,29: «Ma fu molto turbata per la Parola e si domandava che saluto fosse questo»; Lc 1,34: «Come sarà questo?»].

La quiete dentro non era uniforme, bensì colma delle vicissitudini e di ‘notizie’ imprevedibili.

Mai avrebbe voluto diventare modello: un documento d’identità scaduto - ingessato, dogmatico. Mai icona di privilegi, e sfarzosa - come una donna che spegne la sua consapevolezza, e si rende identificata, vuota, vetusta, disgiunta.

In mezzo agli altri - persino lazzaroni, poco delicati, indiscreti - Maria lasciava fare, percependo i suoni inudibili del silenzio dell’anima.

Note che producevano la sua figura e - ancor meglio - la sua evoluzione e Destinazione, senza disturbarla con ostinazioni separate.

Togliendo lo sguardo dall’intenzione conformista.

 

Per esistere davvero, intensamente, cambiava o faceva breccia; recuperava la storia ma ascoltava l’interno di sé.

Cogliendo i propri strati profondi, percependosi nelle voci più intime, prendeva coscienza del senso della sua vita, e della storia che si svolgeva. 

Negl’intervalli di pensiero, riattivava l’energia dello ‘sguardo’.

E senza mortificazioni portava l’attenzione su un’altra dimensione, entrando gradualmente nel Vento che incessantemente la disinnestava.

In tal guisa, imparava a non aspettarsi qualcosa di allineato ai propositi e previsioni normali, né alla graduatoria sociale e culturale: doveva introdursi nelle vicende, e staccarsi (per contemplarne l’importanza e profondità).

Misteriosamente - così scrutando senza troppo fare - leggeva le ‘note’, sceglieva i registri giusti; interpretava lo spartito.

Epifania di Dio in una creatura del tutto priva di stile ieratico o cortese; piuttosto, delicato e gitano.

Non si è precipitata a mettere a posto le cose: intuiva «dentro» la vita sommaria, invece che condurla e organizzarla, o disporla.

Attendeva che il suo Sé eminente facesse da guida allo strano percorso non dirigista né volontarista che si stava dispiegando, davvero tutto eccentrico e poco esemplare.

 

Non si attivava per compiacere.

Impariamo in Lei anche noi: a vedere accadere il Dio domestico, le ‘visite’ che non aspetteremmo; l'intensità delle cromie differenti.

Esse che poi ci portano a un diverso sguardo anche nell’anima; coinvolta e distaccata.

Al pari della realtà circostante, Maria non era sempre uguale.

Non aveva in mente un campione da inseguire sino in fondo, per poi trovarsi cronicizzata nell’esemplarità altrui - sradicata, esteriore, dissipata e scarica.

Situazioni ed emozioni avevano valore, non solo né anzitutto sulla base del registro a paradigmi - ormai inutile - con cui venivano interpretate.

Nella speranza delle cose presenti e nel loro sensibile Ascolto, veniva acquisendo fluidità.

In tal guisa, passando senza forzature dalla religione dei padri alla Fede, al rischio d’amicizia nell’imprevedibile proposta dell’unico Padre.

Ritirata nella Dimora dello Spirito, dentro una Speranza che si svelava onda su onda, imparava a comprendere le relazioni e le energie interiori, non impacchettate.

Una volta ascoltate e assunte, esse potevano deviare, e prendere proprio la strada inattesa.

 

Passo dopo passo, l’occhio, l’orecchio e il cuore attenti introducono anche noi - come Maria - in un territorio di sospensione delle intenzioni chiuse. Dove abita l’amore e il destino della Novità di Dio.

Espandeva la Visione non a partire unicamente dattorno.

Dispiegando il suo perdersi nel Noi, non selettivo, ma solo dal proprio centro sacro, anche l’orizzonte dilatava nella sensazione d’infinito in azione.

Nella contemplazione degli eventi, rendeva più corposa e persino reinventava la figura del cuore che l’aveva guidata fin lì.

Reinterpretava ancora l’immagine espressiva della sua Vocazione. E cambiava il suo destino - non dando peso alle angolazioni unilaterali.

Niente obblighi e propositi cesellati - controcorrente ma naturale, senza la lacerazione degli sforzi titanici.

Così perfino i disagi l’avvicinavano alla sua Missione di Madre della nuova umanità, nel Figlio.

 

E ciascuno egualmente ritrova l’energia della suggestione primordiale che lo conduce, affinché nella Meditazione riabbracci il Richiamo della Chiamata che vuole ancora strapparlo dalla palude.

Eco dell’Appello primigenio che s’intesse agli accadimenti ed è già la Destinazione.

Testimonianza ogni istante da riscoprire nel “vuoto intimo e colmo” da fare dentro, per attendere qualcosa che non sappiamo prima cosa sia.

Maria si faceva tracciare nel tempo dall’Amore senza brevetto.

Tali i Sogni delle creature totalmente immerse nelle passioni vere, che colgono, anticipano e attualizzano il senza-tempo nel tempo.

Non rinunciava a chiedersi cosa - dai molteplici aspetti - la stava abitando e silenziosamente guidava.

 

La immaginiamo ancora (v.19) ‘come ad occhi chiusi’: situazione che la nostra cultura spesso ignora.

Non pensava le cause efficienti: era per riscoprire altrimenti il suo aprire la porta ai visitatori, e a ogni novità da stupore.

Stava già allattando, non solo il Figlio; al contempo alimentava se stessa.

Non per vano intimismo riscopriva il Mistero sottile annidato nel diverso - e nel cangiante e crudo - imprevedibile dentro e fuori.

Senza rendersi conto, già nutriva il mondo, custodendosi.

Vera, giunge sino a noi e in noi, accudendo il nido dell’essenza e della storia... senz’apparenza alcuna di stendardi e vetrine - rispettando solo ciò che capita.

Similmente la sua intera Famiglia diventa la vera signora feconda di una Festa dell’Annuncio impossibile attorno - che non si capisce da dove sia nata (Lc 1,20).

Sicuramente da nulla di esteriore. Perciò decisivo.

Totalmente aderente alle circostanze e presente in sé, diveniva completamente - nei moti nitidi e spontanei, anche altrui.

 

Certo non aveva attorno gente che potesse vantare paraventi. Solo strani individui, ma che incessantemente lasciavano emergere l’istinto vitale.

Anche loro non si dicevano prima dove bisognasse andare. Per questo si ritrovavano in un’incessante gravidanza.

Avevano in serbo solo l’esperienza delle distanze; spesso gelo e rifiuto. 

Mai conosciuta una figura che li aiutasse a riconoscersi completamente, e a guardare le cose dal punto di vista della soavità intramontabile scoperta.

Persino capaci di tendere al globale più largo e comprensivo [noi diremmo, all’eternità servizievole della condizione angelica].

Eccoli invece incendiati dalla Fiamma perenne - quella del mondo intero (passato, presente e futuro) che sa recuperare e stare nascostamente, a parte ma nel cosmo - come aurora e giorno del Signore.

Nella cultura del tempo, condizione degli spiriti del servizio al trono celeste, che glorificavano e lodavano Dio (v.20) «per tutto quello che avevano udito e avevano visto».

 

Di fronte alla Famiglia Chiesa domestica, in Maria e Gesù i pastori fanno un’esperienza decisiva.

Non più di carenza e giudizio unilaterali, ma di rinascita nella stima; di un altro mondo, disponibile e inclusivo - d’un altro regno, unisono senza uniformità.

La Madre di Dio è una possibilità di tendere all’eterno presente, non più esclusivo: ma come una danza, dove il tutto che cambia mette perfettamente a proprio agio - senza già le tracce da ricalcare.

Gli stravaganti della società, pellegrini e cani della prateria raccogliticci, abili solo nelle transumanze, forse mai avevano avuto la capacità di riconoscere l’estasi dello stare bene e intensamente nel sommario.

Forse mai avevano avuto l’esperienza di riconoscere in una creatura accurata il loro stesso lato sensibile, tenero e femminile.

Aspetto che nella Donna Chiesa autentica si fa custode e diversamente banditore [nei malfermi] dello scrigno della Vita.

Dal tepore di Maria e della Culla, fra i loro labirinti, ormai portavano nel proprio luogo appartato una benedizione entusiasmante, e il lato intimo indistruttibile; anche altrove.

Per mettere in discussione anche noi.

 

Cerchiamo un’anima silenziosa, per un’arte della rinascita.

Ecco Maria: ella aveva notato, mentre meditava, che di riflesso anche gli altri lo facevano.

Quando si ritagliava energie preparatorie, anche attorno ci si disponeva in modo più equilibrato, pieno all’Annuncio.

Camminava nella vita per custodire e alimentare nuovi padri e madri di umanizzazione. 

Non per commentare, ma per intuire e sciogliere; per non spegnere il lato sognante con la parte “all’altezza”, vecchia.

Il suo regno della verecondia che cura l’io e il Tu era il cielo e la terra delle nuove potenze.

Virtù affidabili perché scaturite dal Silenzio della Via che la stava rinnovando completamente - amando le contraddizioni. 

Perché tutto ora può accadere, rigenerare; e ogni giorno recare la sua marea (dell’inedito) nella presenza di Spirito, senza routine.

Un’anima genuina, priva di finzioni... lo può fare.

Per un’avventura che spinge via la continuità, ricolma di Eros fondante; per un’esplorazione diretta al Culmine sconosciuto.

 

 

Maria: Rallentando un po’, si Nasce

 

Chi non segue intuizioni innate, un richiamo più radicale del sé, o annunci sbalorditivi [Lc 1,26-38. 2,8-15] non sviluppa il suo destino, non si muove; non rimette le cose a posto.

I proclami comuni finiscono per incenerire le personalità.

È vero che i pastori non trovano nulla di straordinario e prodigioso, se non una famiglia ridotta in una condizione ordinaria, che conoscono.

Ma è quel semplice focolare a coinvolgerli nel nuovo Progetto, e nell’annuncio della sua scandalosa Misericordia senza condizioni - che non li ha fulminati per impurità.

La religione arcaica li aveva bollati per sempre: esseri persi, spregevoli, senza rimedio. Ora sono liberi dall’identificazione.

Hanno un altro occhio - come quello della prima volta. Sguardo che li porterà al cento per cento.

Esodati che si trovano davanti un’immagine di Dio indifeso, essi non si preoccupano d’impegnarsi in una disciplina etica: li avrebbe sgretolati.

Piuttosto, godono lo stupore d’una realtà semplicemente umana - in una misteriosa relazione di reciproco riconoscimento.

 

Un bimbo in una mangiatoia, luogo impuro dove si trastullavano le bestie.

Strano che il modesto segno li convinca, che faccia loro recuperare la stima, e li renda evangelizzatori - forse neanche assidui.

Al pari del Calvario (cui rimanda), la Manifestazione risolutiva dell’Eterno è un paradosso.

Ma la geografia affettiva di questa Betlemme priva di circuiti conformisti resta intatta, perché spontaneamente radicata in noi.

C’è un senso d’immediatezza, senza particolari intrecci o cerimonie.

Il Bambino neppure viene adorato dagli sguardi ora “puri” dei piccoli, vilipesi cani della prateria e delle transumanze - come viceversa faranno i Magi (Mt 2,11).

Loro neanche sapevano cosa significasse, riflettere cerimoniali di corte orientali - come il bacio delle pantofole rosse.

[Per questo motivo Papa Francesco le ha rifiutate, insieme all’ermellino - dopo che Paolo VI aveva avuto il coraggio di deporre il segno pluridirigista delle tiare, con le sue tre corone sovrapposte; un pochino più intricata è stata la vicenda dell’anacronistica sedia gestatoria].

I miserabili della terra e i lontani dei greggi sono coloro che ascoltano l’Annuncio, verificano prontamente, e fondano la nuova stirpe divina.

Gente non tormentata dal giudizio statico - uomini in mezzo a tutti; non più ad alta quota.

 

Intanto Maria ricercava il senso delle sorprese e così rigenerava, per un nuovo modo di capire e ‘stare’ insieme - per dare alla luce anche il mondo interno di tutto un diverso popolo della pienezza.

Ella metteva insieme fatti e Parola, per scoprirne il filo conduttore.

E rimanere ricettiva; non farsi condizionare dalle convinzioni dei recinti devoti - targati e inflessibili, che non le avrebbero dato scampo.

La Madre stessa, pur colta di sorpresa, si preparava all’eccentricità di Dio, senza allontanarsi dal tempo e dalla sua condizione reale.

 

La sua figura e quella dei pastori c’interpellano, chiedono il coraggio di una risposta - ma dopo aver lasciato fluire lo stesso genere di Presenze interiori: visitatrici degne, cui è concesso esprimersi.

 

Anche Lei ha dovuto come noi passare dalle credenze dei padri alla Fede nel Padre.

Dall’idea dell’amore come premio a quella del ‘dono’.

Dalla pratica dei culti e delle chiusure che non rendono affatto intimi all’Eterno, all’apertura della mente e degli usci.

Non lo ha realizzato senza fatica, bensì sopportando le resistenze del suo ambiente arido.

Gesù è stato infatti circonciso - inutile rito che secondo l’abitudine pretendeva mutare il Figlio di Dio in figlio di Abramo.

 

La Buona Novella proclama un capovolgimento: ciò che la religione aveva considerato lontano dall’Altissimo... è vicinissimo a Lui; anzi, gli corrisponde appieno.

Mai accaduto prima, immaginarselo.

Nelle Annunciazioni dei Vangeli è spalancata l’avventura della Fede.

E il nuovo Bimbo ha un Nome ch’esprime l’inaudita essenza di Salvatore, non giustiziere.

Tutta la sua vicenda sarà appunto pienamente istruttiva anche sotto il profilo di come interiorizzare incertezze e disagi: questi “momenti no” e le precarietà che c’insegnano a vivere.

Infatti, anche noi come Maria «andiamo riconoscendo» la presenza di Dio negli enigmi della Scrittura, nel Piccolo ‘avvolto in bende’ - persino nell’eco ancestrale dei nostri mondi interni.

E ci lasciamo andare - non sappiamo bene dove. Ma così è l’Infinito,  l’immenso Segreto, l’inesplicabile Respiro, nelle sue pieghe.

 

Il saggio Sogno che abita l’umano sa di humus antico, ma il suo eco rinasce ogni giorno, nella marea dell’essere che orienta a ‘guardare’ davvero, senza veli.

Un contegno conformista di “vedere le cose” non risolverebbe il problema.

Talora, per non farsi condizionare bisogna riedificarsi nel silenzio, come la Vergine; costruirsi una sorta di isola ermeneutica che schiuda porte differenti, che introduca altre luci.

Entro il suo circuito sacro anche la Madre di Dio valorizzava le innate energie trasformative, proprio radicandole sugli interrogativi…

Così tornando al suo essere primordiale e al senso del Neonato - immagine intrisa di senso primigenio e onda vitale, cara a molte culture.

 

Maria entrava in un Altrove e non usciva dal campo del reale.

Era ‘dentro’ il suo Centro, senza fretta - ricercando il Sole annegato nel suo essere e che tornava, emergeva, risorgeva; dall’intimo, la faceva esistere oltre.

Così non si lasciava assorbire energie dalle idee conformiste altrui o da situazioni [esterne] che pure volevano rompere l’equilibrio.

Nella sua vereconda solitudine - colma di Grazia - quell’io superiore e celato nell’essenza veniva sempre più a Lei. Si faceva nuova Alba e guida.

Non voleva vivere dentro pensieri, saperi e ragionamenti dintorno - nessuno capace di amplificare la vita - tutti in mano alle droghe delle procedure, disumanizzanti l’Incanto.

La magia felice di quel Frugolo di carne portava la sua Pace.

I Sogni sostenevano e veicolavano il suo nido e intimo fulcro - facendo scorrere una vita nuova dal nucleo della sua Persona, e la giovinezza del mondo.

 

«Ora Maria conservava tutte Parole-evento confrontandole nel suo cuore»

(Natale di Lc)

 

Quando il tessitore

Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita [Tradizione orale Peul].

 

Non avrebbe senso mettere una torta farcita di candeline, davanti al Presepe. Inneggiamo ben altra Meraviglia: la scoperta di un Tesoro, nascosto dietro i nostri lati oscuri.

Natale non è una ricorrenza o compleanno, ma un evento di Rivelazione del Volto divino: non Padrone assoluto, ma povero nudo e incolume tra gente qualsiasi, adagiato su luogo impuro.

Ci sentiamo “malfatti”? Siamo sulla strada giusta - che non è quella dei controlli esasperati.

Dio non si è “fatto superuomo”, bensì «Carne»: termine che nel mondo semitico descrive la nostra globalità di esseri transitori, vulnerabili, caduchi, soggetti a ogni forma di morte.

Realtà che il Padre fa respirare, abbraccia e recupera - illumina e non scarta.

 

Se la vita che conduciamo è già in equilibrio nell’ambiente, diventiamo abitudinari; le cose verdi in gestazione abortiscono.

Quando assopiamo, quel che poi batte in testa sono i soliti idoli: pesi di ragione condizionati, calcoli e fissazioni, insieme a problemi di vicende forse poco felici.

Con tale fardello, dimentichiamo ciò cui siamo portati.

Si trascura la caratteristica vitale: il nostro Bimbo vuole venire alla luce ed è un essere unico, più che raro.

 

Senso del Natale è cedere; deporre l’idea religiosa antica: piuttosto, lasciare che tutte le incerte ma irripetibili implicazioni dell’imperfezione ci attraversino.

Non come una colpa.

È la logica d’ogni processo di attivazione e sviluppo, con le sue pause e riprese, perdite e recuperi. I punti “deboli” e le eccentricità diverranno punti di forza.

C’è bisogno di tempo imprevedibile, per tracciare la via della crescita - percorso inatteso; e Dio lo accetta.

Incarnazione è un’irruzione d’Eternità fra le nostre mura e le crisi, Imprevisto sognante che investe le periferie e non pone distanze.

 

Nei pastori - che siamo noi - Lc fa scendere in campo tutti gli estromessi della storia, facendoli titolari, senza merito alcuno. 

Erano i disprezzati e votati alla condanna; sono fatti primi cui si rivolge l’Annuncio. Massimi a sperimentare il Volto del Dio-Con; sbalordendo per la fiducia che il Padre accorda.

I grezzi, supplenti e impuri, diventano incaricati prioritari.

Giudizio stridente rispetto all’effimero autentico: quello delle opinioni cerimoniali.

Non è una redenzione estrinseca, mirata solo per i disadattati della società, beninteso. Ci riguarda.

Sotto la momentanea scorza delle nostre “cose certe” briga un seme che farà il nostro nuovo Bimbo.

 

Il Gesù interiore vuole essere allattato, custodito, nutrito, affinché cresca secondo un Disegno intimo, un processo di Esodo sacro (ma non protetto) che salva.

Mistero che non è a portata naturale esterna, perché in sintonia con la Chiamata per Nome, con l’irripetibile carattere vitale innato, anche poliedrico - il quale non va spento.

Lo sviluppo delle emozioni, d’inclinazioni e passioni, delle nostre Radici, non va disturbato da tare di pensiero, da cappe di consuetudini, o condizionamenti.

[Persino le accelerazioni intralciano l’evoluzione: ad es. la voglia di affrontare l’insufficienza, onde risolverla immediatamente].

In generale, nuoce la battaglia che allestiamo con noi stessi per essere accettati - conformi al contorno.

Ma così l’impegno è a sedersi in una armatura che non ci appartiene.

Giorno dopo giorno una Fiamma sta partorendo un altro e differente Infante - in apparenza contraddittorio, squilibrato, malfermo, intaccato.

Questo gagliardo adolescente non gode di programmi laceranti, bensì d’una consapevolezza di Fede: il Creatore vuole passeggiare-con le nostre difformità.

C’è un Gesù intimo, forse non ancora svezzato: ci sorride sereno e a braccia aperte.

 

Lo svelamento dell’autentico Dio distrae dall’idea impicciata che abbiamo del mondo, del groviglio delle vicende, e della nostra stessa persona.

Ci dona uno sguardo più limpido, meno collocato sull’esterno.

 

Natale fa capire che non siamo una palude coperta da insuccessi, vessazioni, giudizi meschini, torti, delusioni, abbandoni, tradimenti.

Nel Signore che vuole continuare a incarnarsi, i nostri fardelli se ne vanno come un soffio.

L’anima torna libera e dispiega ali sviluppate e forti; impareggiabili.

 

Non c’è verità più bella che nella vertigine di poter partorire ed esprimere il Piccolo nascosto che ciascuno è nel volto dell’anima.

 

Nell’ultima sua Veglia di Natale Paolo VI tenne a sottolineare che nell’arrivo del Verbo «Ciascuno può dire: per me!».

Questo Tempo ci aiuti a comprendere tale dimensione personale; non siamo coloro che devono lottare contro se stessi.

Per un Natale ch’è già Pasqua. Il bozzolo bucato farà la nostra Farfalla.

 

 

Vigilia, Notte, Aurora, Giorno: genealogia, oggi è nato per voi, i pastori trovarono, il Logos si fece carne

 

Genealogia

Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!

Cristo è nato per noi! Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama. A tutti giunga l’eco dell’annuncio di Betlemme, che la Chiesa Cattolica fa risuonare in tutti i continenti, al di là di ogni confine di nazionalità, di lingua e di cultura. Il Figlio di Maria Vergine è nato per tutti, è il Salvatore di tutti.

Così lo invoca un’antica antifona liturgica: “O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio”. Veni ad salvandum nos! Vieni a salvarci! Questo è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sente di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli. Ha bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte, una mano che dall’alto si tenda verso di lui. Cari fratelli e sorelle, questa mano è Cristo, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. Lui è la mano che Dio ha teso all’umanità, per farla uscire dalle sabbie mobili del peccato e metterla in piedi sulla roccia, la salda roccia della sua Verità e del suo Amore (cfr Sal 40,3).

Sì, questo significa il nome di quel Bambino, il nome che, per volere di Dio, gli hanno dato Maria e Giuseppe: si chiama Gesù, che significa “Salvatore” (cfr Mt 1,21; Lc 1,31). Egli è stato inviato da Dio Padre per salvarci soprattutto dal male profondo, radicato nell’uomo e nella storia: quel male che è la separazione da Dio, l’orgoglio presuntuoso di fare da sé, di mettersi in concorrenza con Dio e sostituirsi a Lui, di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di essere il padrone della vita e della morte (cfr Gen 3,1-7). Questo è il grande male, il grande peccato, da cui noi uomini non possiamo salvarci se non affidandoci all’aiuto di Dio, se non gridando a Lui: “Veni ad salvandum nos! - Vieni a salvarci!”.

Il fatto stesso di elevare al Cielo questa invocazione, ci pone già nella giusta condizione, ci mette nella verità di noi stessi: noi infatti siamo coloro che hanno gridato a Dio e sono stati salvati (cfr Est [greco] 10,3f). Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati. Riconoscerlo, è il primo passo verso la salvezza, verso l’uscita dal labirinto in cui noi stessi ci chiudiamo con il nostro orgoglio. Alzare gli occhi al Cielo, protendere le mani e invocare aiuto è la via di uscita, a patto che ci sia Qualcuno che ascolta, e che può venire in nostro soccorso.

Gesù Cristo è la prova che Dio ha ascoltato il nostro grido. Non solo! Dio nutre per noi un amore così forte, da non poter rimanere in Se stesso, da uscire da Se stesso e venire in noi, condividendo fino in fondo la nostra condizione (cfr Es 3,7-12). La risposta che Dio ha dato in Gesù al grido dell’uomo supera infinitamente la nostra attesa, giungendo ad una solidarietà tale che non può essere soltanto umana, ma divina. Solo il Dio che è amore e l’amore che è Dio poteva scegliere di salvarci attraverso questa via, che è certamente la più lunga, ma è quella che rispetta la verità sua e nostra: la via della riconciliazione, del dialogo, della collaborazione.

Perciò, cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero, in questo Natale 2011, rivolgiamoci al Bambino di Betlemme, al Figlio della Vergine Maria, e diciamo: “Vieni a salvarci!”. Lo ripetiamo in unione spirituale con tante persone che vivono situazioni particolarmente difficili, e facendoci voce di chi non ha voce.

Insieme invochiamo il divino soccorso per le popolazioni del Corno d’Africa, che soffrono a causa della fame e delle carestie, talvolta aggravate da un persistente stato di insicurezza. La Comunità internazionale non faccia mancare il suo aiuto ai numerosi profughi provenienti da tale Regione, duramente provati nella loro dignità.

Il Signore doni conforto alle popolazioni del Sud-Est asiatico, particolarmente della Thailandia e delle Filippine, che sono ancora in gravi situazioni di disagio a causa delle recenti inondazioni.

Il Signore soccorra l’umanità ferita dai tanti conflitti, che ancora oggi insanguinano il Pianeta. Egli, che è il Principe della Pace, doni pace e stabilità alla Terra che ha scelto per venire nel mondo, incoraggiando la ripresa del dialogo tra Israeliani e Palestinesi. Faccia cessare le violenze in Siria, dove tanto sangue è già stato versato. Favorisca la piena riconciliazione e la stabilità in Iraq ed in Afghanistan. Doni un rinnovato vigore nell’edificazione del bene comune a tutte le componenti della società nei Paesi nord africani e mediorientali.

La nascita del Salvatore sostenga le prospettive di dialogo e di collaborazione in Myanmar, nella ricerca di soluzioni condivise. Il Natale del Redentore garantisca stabilità politica ai Paesi della Regione africana dei Grandi Laghi ed assista l’impegno degli abitanti del Sud Sudan per la tutela dei diritti di tutti i cittadini.

Cari fratelli e sorelle, rivolgiamo lo sguardo alla Grotta di Betlemme: il Bambino che contempliamo è la nostra salvezza! Lui ha portato al mondo un messaggio universale di riconciliazione e di pace. Apriamogli il nostro cuore, accogliamolo nella nostra vita. Ripetiamogli con fiducia e speranza: “Veni ad salvandum nos!”.

[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2011]

 

Oggi è nato per voi

Cari fratelli e sorelle,

“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9, 5). Ciò che Isaia, guardando da lontano verso il futuro, dice a Israele come consolazione nelle sue angustie ed oscurità, l’Angelo, dal quale emana una nube di luce, lo annuncia ai pastori come presente: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2, 11). Il Signore è presente. Da questo momento, Dio è veramente un “Dio con noi”. Non è più il Dio distante, che, attraverso la creazione e mediante la coscienza, si può in qualche modo intuire da lontano. Egli è entrato nel mondo. È il Vicino. Il Cristo risorto lo ha detto ai suoi, a noi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Per voi è nato il Salvatore: ciò che l’Angelo annunciò ai pastori, Dio ora lo richiama a noi per mezzo del Vangelo e dei suoi messaggeri. È questa una notizia che non può lasciarci indifferenti. Se è vera, tutto è cambiato. Se è vera, essa riguarda anche me. Allora, come i pastori, devo dire anch’io: Orsù, voglio andare a Betlemme e vedere la Parola che lì è accaduta. Il Vangelo non ci racconta senza scopo la storia dei pastori. Essi ci mostrano come rispondere in modo giusto a quel messaggio che è rivolto anche a noi. Che cosa ci dicono allora questi primi testimoni dell’incarnazione di Dio?

Dei pastori è detto anzitutto che essi erano persone vigilanti e che il messaggio poteva raggiungerli proprio perché erano svegli. Noi dobbiamo svegliarci, perché il messaggio arrivi fino a noi. Dobbiamo diventare persone veramente vigilanti. Che significa questo? La differenza tra uno che sogna e uno che sta sveglio consiste innanzitutto nel fatto che colui che sogna si trova in un mondo particolare. Con il suo io egli è rinchiuso in questo mondo del sogno che, appunto, è soltanto suo e non lo collega con gli altri. Svegliarsi significa uscire da tale mondo particolare dell’io ed entrare nella realtà comune, nella verità che, sola, ci unisce tutti. Il conflitto nel mondo, l’inconciliabilità reciproca, derivano dal fatto che siamo rinchiusi nei nostri propri interessi e nelle opinioni personali, nel nostro proprio minuscolo mondo privato. L’egoismo, quello del gruppo come quello del singolo, ci tiene prigionieri dei nostri interessi e desideri, che contrastano con la verità e ci dividono gli uni dagli altri. Svegliatevi, ci dice il Vangelo. Venite fuori per entrare nella grande verità comune, nella comunione dell’unico Dio. Svegliarsi significa così sviluppare la sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui Egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza. Ci sono persone che dicono di essere “religiosamente prive di orecchio musicale”. La capacità percettiva per Dio sembra quasi una dote che ad alcuni è rifiutata. E in effetti – la nostra maniera di pensare ed agire, la mentalità del mondo odierno, la gamma delle nostre varie esperienze sono adatte a ridurre la sensibilità per Dio, a renderci “privi di orecchio musicale” per Lui. E tuttavia in ogni anima è presente, in modo nascosto o aperto, l’attesa di Dio, la capacità di incontrarlo. Per ottenere questa vigilanza, questo svegliarsi all’essenziale, vogliamo pregare, per noi stessi e per gli altri, per quelli che sembrano essere “privi di questo orecchio musicale” e nei quali, tuttavia, è vivo il desiderio che Dio si manifesti. Il grande teologo Origene ha detto: se io avessi la grazia di vedere come ha visto Paolo, potrei adesso (durante la Liturgia) contemplare una grande schiera di Angeli (cfr in Lc 23, 9). Infatti – nella Sacra Liturgia, gli Angeli di Dio e i Santi ci circondano. Il Signore stesso è presente in mezzo a noi. Signore, apri gli occhi dei nostri cuori, affinché diventiamo vigilanti e veggenti e così possiamo portare la tua vicinanza anche ad altri!

Torniamo al Vangelo di Natale. Esso ci racconta che i pastori, dopo aver ascoltato il messaggio dell’Angelo, si dissero l’un l’altro: “'Andiamo fino a Betlemme' … Andarono, senza indugio” (Lc 2, 15s.). “Si affrettarono” dice letteralmente il testo greco. Ciò che era stato loro annunciato era così importante che dovevano andare immediatamente. In effetti, ciò che lì era stato detto loro andava totalmente al di là del consueto. Cambiava il mondo. È nato il Salvatore. L’atteso Figlio di Davide è venuto al mondo nella sua città. Che cosa poteva esserci di più importante? Certo, li spingeva anche la curiosità, ma soprattutto l’agitazione per la grande cosa che era stata comunicata proprio a loro, i piccoli e uomini apparentemente irrilevanti. Si affrettarono – senza indugio. Nella nostra vita ordinaria le cose non stanno così. La maggioranza degli uomini non considera prioritarie le cose di Dio, esse non ci incalzano in modo immediato. E così noi, nella stragrande maggioranza, siamo ben disposti a rimandarle. Prima di tutto si fa ciò che qui ed ora appare urgente. Nell’elenco delle priorità Dio si trova spesso quasi all’ultimo posto. Questo – si pensa – si potrà fare sempre. Il Vangelo ci dice: Dio ha la massima priorità. Se qualcosa nella nostra vita merita fretta senza indugio, ciò è, allora, soltanto la causa di Dio. Una massima della Regola di san Benedetto dice: “Non anteporre nulla all’opera di Dio (cioè all’ufficio divino)”. La Liturgia è per i monaci la prima priorità. Tutto il resto viene dopo. Nel suo nucleo, però, questa frase vale per ogni uomo. Dio è importante, la realtà più importante in assoluto nella nostra vita. Proprio questa priorità ci insegnano i pastori. Da loro vogliamo imparare a non lasciarci schiacciare da tutte le cose urgenti della vita quotidiana. Da loro vogliamo apprendere la libertà interiore di mettere in secondo piano altre occupazioni – per quanto importanti esse siano – per avviarci verso Dio, per lasciarlo entrare nella nostra vita e nel nostro tempo. Il tempo impegnato per Dio e, a partire da Lui, per il prossimo non è mai tempo perso. È il tempo in cui viviamo veramente, in cui viviamo lo stesso essere persone umane.

Alcuni commentatori fanno notare che per primi i pastori, le anime semplici, sono venuti da Gesù nella mangiatoia e hanno potuto incontrare il Redentore del mondo. I sapienti venuti dall’Oriente, i rappresentanti di coloro che hanno rango e nome, vennero molto più tardi. I commentatori aggiungono: questo è del tutto ovvio. I pastori, infatti, abitavano accanto. Essi non dovevano che “attraversare” (cfr Lc 2, 15) come si attraversa un breve spazio per andare dai vicini. I sapienti, invece, abitavano lontano. Essi dovevano percorrere una via lunga e difficile, per arrivare a Betlemme. E avevano bisogno di guida e di indicazione. Ebbene, anche oggi esistono anime semplici ed umili che abitano molto vicino al Signore. Essi sono, per così dire, i suoi vicini e possono facilmente andare da Lui. Ma la maggior parte di noi uomini moderni vive lontana da Gesù Cristo, da Colui che si è fatto uomo, dal Dio venuto in mezzo a noi. Viviamo in filosofie, in affari e occupazioni che ci riempiono totalmente e dai quali il cammino verso la mangiatoia è molto lungo. In molteplici modi Dio deve ripetutamente spingerci e darci una mano, affinché possiamo trovare l’uscita dal groviglio dei nostri pensieri e dei nostri impegni e trovare la via verso di Lui. Ma per tutti c’è una via. Per tutti il Signore dispone segnali adatti a ciascuno. Egli chiama tutti noi, perché anche noi si possa dire: Orsù, “attraversiamo”, andiamo a Betlemme – verso quel Dio, che ci è venuto incontro. Sì, Dio si è incamminato verso di noi. Da soli non potremmo giungere fino a Lui. La via supera le nostre forze. Ma Dio è disceso. Egli ci viene incontro. Egli ha percorso la parte più lunga del cammino. Ora ci chiede: Venite e vedete quanto vi amo. Venite e vedete che io sono qui. Transeamus usque Bethleem, dice la Bibbia latina. Andiamo di là! Oltrepassiamo noi stessi! Facciamoci viandanti verso Dio in molteplici modi: nell’essere interiormente in cammino verso di Lui. E tuttavia anche in cammini molto concreti – nella Liturgia della Chiesa, nel servizio al prossimo, in cui Cristo mi attende.

Ascoltiamo ancora una volta direttamente il Vangelo. I pastori si dicono l’un l’altro il motivo per cui si mettono in cammino: “Vediamo questo avvenimento”. Letteralmente il testo greco dice: “Vediamo questa Parola, che lì è accaduta”. Sì, tale è la novità di questa notte: la Parola può essere guardata. Poiché si è fatta carne. Quel Dio di cui non si deve fare alcuna immagine, perché ogni immagine potrebbe solo ridurlo, anzi travisarlo, quel Dio si è reso, Egli stesso, visibile in Colui che è la sua vera immagine, come dice Paolo (cfr 2 Cor 4, 4; Col 1, 15). Nella figura di Gesù Cristo, in tutto il suo vivere ed operare, nel suo morire e risorgere, possiamo guardare la Parola di Dio e quindi il mistero dello stesso Dio vivente. Dio è così. L’Angelo aveva detto ai pastori: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2, 12; cfr 16). Il segno di Dio, il segno che viene dato ai pastori e a noi, non è un miracolo emozionante. Il segno di Dio è la sua umiltà. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo; diventa bambino; si lascia toccare e chiede il nostro amore. Quanto desidereremmo noi uomini un segno diverso, imponente, inconfutabile del potere di Dio e della sua grandezza. Ma il suo segno ci invita alla fede e all’amore, e pertanto ci dà speranza: così è Dio. Egli possiede il potere ed è la Bontà. Ci invita a diventare simili a Lui. Sì, diventiamo simili a Dio, se ci lasciamo plasmare da questo segno; se impariamo, noi stessi, l’umiltà e così la vera grandezza; se rinunciamo alla violenza ed usiamo solo le armi della verità e dell’amore. Origene, seguendo una parola di Giovanni Battista, ha visto espressa l’essenza del paganesimo nel simbolo delle pietre: paganesimo è mancanza di sensibilità, significa un cuore di pietra, che è incapace di amare e di percepire l’amore di Dio. Origene dice dei pagani: “Privi di sentimento e di ragione, si trasformano in pietre e in legno” (in Lc 22, 9). Cristo, però, vuole darci un cuore di carne. Quando vediamo Lui, il Dio che è diventato un bambino, ci si apre il cuore. Nella Liturgia della Notte Santa Dio viene a noi come uomo, affinché noi diventiamo veramente umani. Ascoltiamo ancora Origene: “In effetti, a che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge fin nella tua anima? Preghiamo che venga quotidianamente a noi e che possiamo dire: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20)” (in Lc 22, 3).

Sì, per questo vogliamo pregare in questa Notte Santa. Signore Gesù Cristo, tu che sei nato a Betlemme, vieni a noi! Entra in me, nella mia anima. Trasformami. Rinnovami. Fa’ che io e tutti noi da pietra e legno diventiamo persone viventi, nelle quali il tuo amore si rende presente e il mondo viene trasformato. Amen.

[Papa Benedetto, omelia della Notte 24 dicembre 2009]

 

I pastori trovarono

Un giorno santo è spuntato per noi:
venite tutti ad adorare il Signore;
oggi una splendida luce è discesa sulla terra
(Messa del giorno di Natale, Acclamazione al Vangelo).

Cari fratelli e sorelle! “Un giorno santo è spuntato per noi”. Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell’umanità! La nascita di un bambino porta normalmente una luce di speranza a quanti lo attendono trepidanti. Quando nacque Gesù nella grotta di Betlemme, una “grande luce” apparve sulla terra; una grande speranza entrò nel cuore di quanti lo attendevano: “lux magna”, canta la liturgia di questo giorno di Natale. Non fu certo “grande” alla maniera di questo mondo, perché a vederla, dapprima, furono solo Maria, Giuseppe e alcuni pastori, poi i Magi, il vecchio Simeone, la profetessa Anna: coloro che Dio aveva prescelto. Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: “il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,14)

“Dio è luce – afferma san Giovanni – e in lui non ci sono tenebre” (1 Gv 1,5). Nel Libro della Genesi leggiamo che quando ebbe origine l’universo, “la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”. “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu” (Gn 1,2-3). La Parola creatrice di Dio è Luce, sorgente della vita. Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (cfr Gv 1,3). Ecco perchè tutte le creature sono fondamentalmente buone, e recano in sé l’impronta di Dio, una scintilla della sua luce. Tuttavia, quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo: “Dio da Dio, Luce da Luce”, professiamo nel Credo. In Gesù Dio ha assunto ciò che non era rimanendo ciò che era: “l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo” (cfr Agostino, Serm 184, 1 sul Natale). Si è fatto uomo Colui che è il creatore dell’uomo per recare al mondo la pace. Per questo, nella notte di Natale, le schiere degli Angeli cantano: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14).

Oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. La Luce di Cristo è portatrice di pace. Nella Messa della notte la liturgia eucaristica si è aperta proprio con questo canto: “Oggi la vera pace è scesa a noi dal cielo” (Antifona d’ingresso). Anzi, solo la “grande” luce apparsa in Cristo può donare agli uomini la “vera” pace: ecco perchè ogni generazione è chiamata ad accoglierla, ad accogliere il Dio che a Betlemme si è fatto uno di noi.

Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. E’ il giorno santo in cui rifulge la “grande luce” di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L’umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l’umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l’umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l’annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio (cfr Lc 2,15-20). I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi; i protagonisti di sempre della storia di Dio, i costruttori infaticabili del suo Regno di giustizia, di amore e di pace.

Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto e orante? Chi attende l’aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? Sì! È per tutti il suo messaggio di pace; è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza.

La luce di Cristo, che viene ad illuminare ogni essere umano, possa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell'ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una più sicura sussistenza, alla salute, all'istruzione, a un'occupazione stabile, a una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti ambientali.

In questo giorno di pace, il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell'Eritrea e dell'Etiopia, all'intero Medio Oriente, in particolare all'Iraq, al Libano e alla Terrasanta, all'Afghanistan, al Pakistan e allo Sri Lanka, alla regione dei Balcani, e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cercare e trovare soluzioni umane, giuste e durature. Alla sete di senso e di valore che avverte il mondo oggi, alla ricerca di benessere e di pace che segna la vita di tutta l’umanità, alle attese dei poveri Cristo, vero Dio e vero Uomo, risponde con il suo Natale. Non temano gli individui e le nazioni di riconoscerlo e di accoglierlo: con Lui “una splendida luce” rischiara l’orizzonte dell’umanità; con Lui si apre “un giorno santo” che non conosce tramonto. Questo Natale sia veramente per tutti un giorno di gioia, di speranza e di pace!

Venite tutti ad adorare il Signore”. Con Maria, Giuseppe e i pastori, con i Magi e la schiera innumerevole di umili adoratori del neonato Bambino, che lungo i secoli hanno accolto il mistero del Natale, anche noi, fratelli e sorelle di ogni continente, lasciamo che la luce di questo giorno si diffonda dappertutto: entri nei nostri cuori, rischiari e riscaldi le nostre case, porti serenità e speranza nelle nostre città, dia al mondo la pace. E’ questo il mio augurio per voi che mi ascoltate. Augurio che si fa preghiera umile e fiduciosa al Bambino Gesù, perché la sua luce disperda ogni tenebra dalla vostra vita e vi ricolmi dell’amore e della pace. Il Signore, che ha fatto risplendere in Cristo il suo volto di misericordia, vi appaghi della sua felicità e vi renda messaggeri della sua bontà. Buon Natale!

[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2007]

 

Il Logos si fece Carne

Verbum caro factum est” - “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14).

Cari fratelli e sorelle, che mi ascoltate da Roma e dal mondo intero, con gioia vi annuncio il messaggio del Natale: Dio si è fatto uomo, è venuto ad abitare in mezzo a noi. Dio non è lontano: è vicino, anzi, è l’“Emmanuele”, Dio-con-noi. Non è uno sconosciuto: ha un volto, quello di Gesù.

E’ un messaggio sempre nuovo, sempre sorprendente, perché oltrepassa ogni nostra più audace speranza. Soprattutto perché non è solo un annuncio: è un avvenimento, un accadimento, che testimoni credibili hanno veduto, udito, toccato nella Persona di Gesù di Nazareth! Stando con Lui, osservando i suoi atti e ascoltando le sue parole, hanno riconosciuto in Gesù il Messia; e vedendolo risorto, dopo che era stato crocifisso, hanno avuto la certezza che Lui, vero uomo, era al tempo stesso vero Dio, il Figlio unigenito venuto dal Padre, pieno di grazia e di verità (cfr Gv 1,14).

“Il Verbo si fece carne”. Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo.

In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà (cfr Es 3,14-15; 34,6). Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. E’ in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio.

“Il Verbo si fece carne”. La luce di questa verità si manifesta a chi la accoglie con fede, perché è un mistero d’amore. Solo quanti si aprono all’amore sono avvolti dalla luce del Natale. Così fu nella notte di Betlemme, e così è anche oggi. L’incarnazione del Figlio di Dio è un avvenimento che è accaduto nella storia, ma nello stesso tempo la oltrepassa. Nella notte del mondo si accende una luce nuova, che si lascia vedere dagli occhi semplici della fede, dal cuore mite e umile di chi attende il Salvatore. Se la verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “sì” del nostro cuore.

E che cosa cerca, in effetti, il nostro cuore, se non una Verità che sia Amore? La cerca il bambino, con le sue domande, così disarmanti e stimolanti; la cerca il giovane, bisognoso di trovare il senso profondo della propria vita; la cercano l’uomo e la donna nella loro maturità, per guidare e sostenere l’impegno nella famiglia e nel lavoro; la cerca la persona anziana, per dare compimento all’esistenza terrena.

“Il Verbo si fece carne”. L’annuncio del Natale è luce anche per i popoli, per il cammino collettivo dell’umanità. L’“Emmanuele”, Dio-con-noi, è venuto come Re di giustizia e di pace. Il suo Regno – lo sappiamo – non è di questo mondo, eppure è più importante di tutti i regni di questo mondo. E’ come il lievito dell’umanità: se mancasse, verrebbe meno la forza che manda avanti il vero sviluppo: la spinta a collaborare per il bene comune, al servizio disinteressato del prossimo, alla lotta pacifica per la giustizia. Credere nel Dio che ha voluto condividere la nostra storia è un costante incoraggiamento ad impegnarsi in essa, anche in mezzo alle sue contraddizioni. E’ motivo di speranza per tutti coloro la cui dignità è offesa e violata, perché Colui che è nato a Betlemme è venuto a liberare l’uomo dalla radice di ogni schiavitù.

La luce del Natale risplenda nuovamente in quella Terra dove Gesù è nato e ispiri Israeliani e Palestinesi nel ricercare una convivenza giusta e pacifica. L’annuncio consolante della venuta dell’Emmanuele lenisca il dolore e consoli nelle prove le care comunità cristiane in Iraq e in tutto il Medio Oriente, donando loro conforto e speranza per il futuro ed animando i Responsabili delle Nazioni ad una fattiva solidarietà verso di esse. Ciò avvenga anche in favore di coloro che ad Haiti soffrono ancora per le conseguenze del devastante terremoto e della recente epidemia di colera. Così pure non vengano dimenticati coloro che in Colombia ed in Venezuela, ma anche in Guatemala e in Costa Rica, hanno subito le recenti calamità naturali.

La nascita del Salvatore apra prospettive di pace duratura e di autentico progresso alle popolazioni della Somalia, del Darfur e della Costa d’Avorio; promuova la stabilità politica e sociale del Madagascar; porti sicurezza e rispetto dei diritti umani in Afghanistan e in Pakistan; incoraggi il dialogo fra Nicaragua e Costa Rica; favorisca la riconciliazione nella Penisola Coreana.

La celebrazione della nascita del Redentore rafforzi lo spirito di fede, di pazienza e di coraggio nei fedeli della Chiesa nella Cina continentale, affinché non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza e, perseverando nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, mantengano viva la fiamma della speranza. L’amore del “Dio con noi” doni perseveranza a tutte le comunità cristiane che soffrono discriminazione e persecuzione, ed ispiri i leader politici e religiosi ad impegnarsi per il pieno rispetto della libertà religiosa di tutti.

Cari fratelli e sorelle, “il Verbo si fece carne”, è venuto ad abitare in mezzo a noi, è l’Emmanuele, il Dio che si è fatto a noi vicino. Contempliamo insieme questo grande mistero di amore, lasciamoci illuminare il cuore dalla luce che brilla nella grotta di Betlemme! Buon Natale a tutti!

[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2010]

 

 

«Per me»

Fratelli e Figli carissimi!

Voi attendete da noi una parola, che già risuona negli animi vostri; ed il fatto di ascoltarla ancora in questa notte ed in questa sede ne riconosca la sua perenne novità, la sua forza di verità, la sua meravigliosa e beatificante letizia. Non è nostra, è celeste. Le nostre labbra ripetono l’annunzio dell’Angelo, che rifulse nella notte, a Betlemme, 1977 anni fa, e che confortati gli umili e spaventati pastori, veglianti all’aperto sul loro gregge, vaticinò l’ineffabile fatto compiutosi allora in un presepio vicino:

«Io vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide (Betlemme) un Salvatore, che è il Cristo Signore» (Luc. 2 , 10-11).

Così è, così è, Fratelli e Figli! e così è, vogliamo estendere il nostro grido umile e impavido a quanti «hanno orecchi per ascoltare» (Matth. 11, 15). Un fatto e una gioia; ecco la duplice grande notizia!

Il fatto: esso sembra quasi insignificante. Un bambino che nasce e in quali umilianti condizioni ! Lo sanno i nostri ragazzi, quando compongono i loro presepi, ingenui ma autentici documenti della realtà evangelica. Ma la realtà evangelica è trasparente d’una concomitante realtà ineffabile: quel Bambino risulta vivente d’una trascendente Figliolanza divina, «Filius Altissimi vocabitur» (Luc. 1, 32). Facciamo nostre le espressioni entusiastiche del grande nostro Predecessore, San Leone Magno, il quale esclama: «Il nostro Salvatore, o carissimi, oggi è nato: godiamo! Non vi è luogo a tristezza, quando è il natale della vita, che, spento il timore della morte, ci infonde la letizia della promessa eternità» (S. LEONIS MAGNI Sermo I de Nativitate Domini).

Così che mentre il sommo mistero della vita trinitaria dell’unico Iddio ci si rivela nelle tre distinte Persone, Padre generante, Figlio generato, entrambi uniti nel vincolo dello Spirito Santo, un altro mistero integra d’inestinguibile meraviglia il nostro rapporto religioso con Dio aprendo il cielo alla visione della gloria dell’infinita trascendenza divina, e, superando in un dono d’incomparabile amore ogni distanza, la prossimità, la vicinanza di Cristo-Dio fatto uomo ci mostra ch’Egli è con noi, Egli è in cerca di noi: «È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tit. 2, 11; 3, 4).

Fratelli! Uomini tutti! Che cosa è il Natale se non questo avvenimento storico, cosmico, estremamente comunitario perché rivolto a proporzioni universali, ed insieme incomparabilmente intimo e personale per ciascuno di noi, poiché il Verbo eterno di Dio, in virtù del Quale noi già viviamo della nostra esistenza naturale (Cfr. Act. 17, 23-28), è appunto venuto in cerca di noi; Lui eterno si è inserito nel tempo, Lui infinito si è quasi annientato «assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini, è apparso in forma umana, ha umiliato se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Phil. 2, 6 ss.). I nostri orecchi sono - ahimé! - abituati a simile messaggio, e i nostri cuori sordi a simile chiamata, una chiamata d’amore: «così Dio ha amato il mondo ...» (Io. 3, 16); anzi siamo precisi: ciascuno di noi può dire con San Paolo: «Egli ha amato me, e ha dato la sua vita per me...»! (Gal. 2, 20)

Il Natale è questo arrivo del Verbo di Dio fatto uomo fra noi. Ciascuno può dire: per me! Il Natale è questo prodigio. Il Natale è questa meraviglia. Il Natale è questa gioia. Ritornano alle labbra le parole di Pascal: Gioia, gioia, gioia: pianti di gioia!

Oh! che davvero questa celebrazione notturna del Natale di Cristo sia per noi tutti, sia per la Chiesa intera, sia per il mondo una rinnovata rivelazione del mistero ineffabile dell’Incarnazione, una sorgente d’inestinguibile felicità! Così sia!

[Papa Paolo VI, omelia di mezzanotte 24 dicembre 1977]

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Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses

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