don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mar 30, 2025

Figli della Luce

Pubblicato in Angolo dell'ottimista

L'attesa, che l'umanità va coltivando tra tante ingiustizie e sofferenze, è quella di una nuova civiltà all'insegna della libertà e della pace. Ma per una simile impresa si richiede una nuova generazione di costruttori che, mossi non dalla paura o dalla violenza ma dall'urgenza di un autentico amore, sappiano porre pietra su pietra per edificare, nella città dell'uomo, la città di Dio.
Lasciate, cari giovani, che vi confidi la mia speranza: questi "costruttori" dovete essere voi! Voi siete gli uomini e le donne di domani; nei vostri cuori e nelle vostre mani è racchiuso il futuro. A voi Dio affida il compito, difficile ma esaltante, di collaborare con Lui nell'edificazione della civiltà dell'amore.

Abbiamo ascoltato dalla lettera di Giovanni - l'apostolo più giovane e forse per questo più amato dal Signore - che "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre" (1 Gv 1, 5). Dio, però, nessuno l'ha mai visto, osserva san Giovanni. E' Gesù, il Figlio unigenito del Padre, che ce l'ha rivelato (cfr Gv 1, 18). Ma se Gesù ha rivelato Dio, ha rivelato la luce. Con Cristo, infatti, è venuta nel mondo "la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv 1, 9).
Cari giovani, lasciatevi conquistare dalla luce di Cristo e fatevene propagatori nell'ambiente in cui vivete. "La luce dello sguardo di Gesù - è scritto nel Catechismo della Chiesa Cattolica - illumina gli occhi del nostro cuore; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini" (n. 2715).
Nella misura in cui la vostra amicizia con Cristo, la vostra conoscenza del suo mistero, la vostra donazione a Lui saranno autentiche e profonde, voi sarete "figli della luce", e diventerete a vostra volta "luce del mondo". Perciò io vi ripeto la parola del Vangelo: "Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli" (Mt 5,16).

[Papa Giovanni Paolo II, Veglia a Downsview GMG Toronto 27 luglio 2002]

Questo passo del Vangelo di Giovanni (cfr 12,44-50) ci fa vedere l’intimità che c’era tra Gesù e il Padre. Gesù faceva quello che il Padre gli diceva di fare. E per questo dice: «Chi crede in me non crede in me, ma in Colui che mi ha mandato» (v. 44). Poi precisa la sua missione: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (v. 46). Si presenta come luce. La missione di Gesù è illuminare: la luce. Lui stesso ha detto: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). Il profeta Isaia aveva profetizzato questa luce: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (9, 1). La promessa della luce che illuminerà il popolo. E anche la missione degli apostoli è portare la luce. Paolo lo disse al re Agrippa: “Sono stato eletto per illuminare, per portare questa luce – che non è mia, è di un altro – ma per portare la luce” (cfr At 26,18). È la missione di Gesù: portare la luce. E la missione degli apostoli è portare la luce di Gesù. Illuminare. Perché il mondo era nelle tenebre.

Ma il dramma della luce di Gesù è che è stata respinta. Già all’inizio del Vangelo, Giovanni lo dice chiaramente: “È venuto dai suoi e i suoi non lo accolsero. Amavano più le tenebre che la luce” (cfr Gv 1,9-11). Abituarsi alle tenebre, vivere nelle tenebre: non sanno accettare la luce, non possono; sono schiavi delle tenebre. E questa sarà la lotta di Gesù, continua: illuminare, portare la luce che fa vedere le cose come stanno, come sono; fa vedere la libertà, fa vedere la verità, fa vedere il cammino su cui andare, con la luce di Gesù.

Paolo ha avuto questa esperienza del passaggio dalle tenebre alla luce, quando il Signore lo incontrò sulla strada di Damasco. È rimasto accecato. Cieco. La luce del Signore lo accecò. E poi, passati alcuni giorni, con il battesimo, riebbe la luce (cfr At 9,1-19). Lui ha avuto questa esperienza del passaggio dalle tenebre, nelle quali era, alla luce. È anche il nostro passaggio, che sacramentalmente abbiamo ricevuto nel Battesimo: per questo il Battesimo si chiamava, nei primi secoli, la Illuminazione (cfr San Giustino, Apologia I, 61, 12), perché ti dava la luce, ti “faceva entrare”. Per questo nella cerimonia del Battesimo diamo un cero acceso, una candela accesa al papà e alla mamma, perché il bambino, la bambina è illuminato, è illuminata.

Gesù porta la luce. Ma il popolo, la gente, il suo popolo l’ha respinto. È tanto abituato alle tenebre che la luce lo abbaglia, non sa andare… (cfr Gv 1,10-11). E questo è il dramma del nostro peccato: il peccato ci acceca e non possiamo tollerare la luce. Abbiamo gli occhi ammalati. E Gesù lo dice chiaramente, nel Vangelo di Matteo: “Se il tuo occhio è ammalato, tutto il tuo corpo sarà ammalato. Se il tuo occhio vede soltanto le tenebre, quante tenebre ci saranno dentro di te?” (cfr Mt 6,22-23). Le tenebre… E la conversione è passare dalle tenebre alla luce.

Ma quali sono le cose che ammalano gli occhi, gli occhi della fede? I nostri occhi sono malati: quali sono le cose che “li tirano giù”, che li accecano? I vizi, lo spirito mondano, la superbia. I vizi che “ti tirano giù” e anche, queste tre cose – i vizi, la superbia, lo spirito mondano – ti portano a fare società con gli altri per rimanere sicuri nelle tenebre. Noi parliamo spesso delle mafie: è questo. Ma ci sono delle “mafie spirituali”, ci sono delle “mafie domestiche”, sempre, cercare qualcun altro per coprirsi e rimanere nelle tenebre. Non è facile vivere nella luce. La luce ci fa vedere tante cose brutte dentro di noi che noi non vogliamo vedere: i vizi, i peccati… Pensiamo ai nostri vizi, pensiamo alla nostra superbia, pensiamo al nostro spirito mondano: queste cose ci accecano, ci allontanano dalla luce di Gesù.

Ma se noi iniziamo a pensare queste cose, non troveremo un muro, no, troveremo un’uscita, perché Gesù stesso dice che Lui è la luce, e anche: “Sono venuto al mondo non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (cfr Gv 12,46-47). Gesù stesso, la luce, dice: “Abbi coraggio: lasciati illuminare, lasciati vedere per quello che hai dentro, perché sono io a portarti avanti, a salvarti. Io non ti condanno. Io ti salvo” (cfr v. 47). Il Signore ci salva dalle tenebre che noi abbiamo dentro, dalle tenebre della vita quotidiana, della vita sociale, della vita politica, della vita nazionale, internazionale… Tante tenebre ci sono, dentro. E il Signore ci salva. Ma ci chiede di vederle, prima; avere il coraggio di vedere le nostre tenebre perché la luce del Signore entri e ci salvi.

Non abbiamo paura del Signore: è molto buono, è mite, è vicino a noi. È venuto per salvarci. Non abbiamo paura della luce di Gesù.

[Papa Francesco, omelia s. Marta 6 maggio 2020]

(Gv 8,1-11)

 

Ogni giorno al levar del sole le persone dal Monte degli Ulivi contemplando il tempio recitavano lo Shemà, e così faceva Gesù.

Come molti, trascorreva le notti in una grotta, all'aperto (Lc 21,37-38; Gv 8,1-2), quindi si recava nel portico di Salomone a insegnare.

Inizia un nuovo Giorno. Il confronto con la peccatrice che ci rappresenta, attiva una nuova Aurora.

L’adultero e l’adultera dovevano essere messi a morte (Dt 22,22-24): come mai il maschio la scampa?

In molti passi biblici, la “donna” è parabola collettiva - qui evocata per una catechesi nei confronti dei pubblici ministeri tradizionalisti che si facevano avanti anche nelle prime comunità.

[Non ci dormono la notte, pur di spiare gli altri e accusarli dei propri peccati]. Ma c’è un nuovo ‘albore’ (v.2) sul volto di Dio.

 

In tutta la scena il vero imputato è Gesù e la sua idea di Giustizia, anormale. Egli non consente alla Buoncostume d’isolare le persone.

Chi sbaglia o è malfermo non è segnato a vita.

Tutti siamo piegati da pesi e ci reggiamo a stento. Pertanto l’azione divina smaschera i parrucconi fanatici, per nulla innocenti.

L’atteggiamento conciliante e riflessivo ritorce le accuse proprio sui veterani della postilla, i quali lasciano che le pietre cadano di mano solo se smascherati.

Però è un brano di teologia, non di cronaca rosa.

Nei vecchi dirigenti che amano allestire processi anche interni, talora non c’è probità: meglio che nella Casa di Dio evitino di fare i giudici e gli accusatori, e se ne tornino a casa loro.

 

Incredibile poi che Gesù non si accerti che la persona sia pentita, prima di perdonarla! In questo il Figlio di Dio viola la Legge, la Tradizione, il modo comune di pensare e fare catechismo!

La sua frase più incriminata è una bomba, che ha creato imbarazzo per secoli: «Smetti di farti del male, ma Io non ti condanno!» [senso del v.11].

Il Dio ‘vivo’ e vero procede senza inchieste e tare penitenziali, solo rimette in piedi.

Quindi non vuol avere nulla in comune con gli ineccepibili che astutamente si fanno scudo di leggi antichissime per dare fastidio (e proiettare sugli altri i propri stessi difetti, onde esorcizzarli).

Ecco perché il Dito poggiato sulle ‘lastre di pietra’ della spianata del Tempio di Gerusalemme!

Un’accusa palese ai censori ancora avvezzi al Decalogo dei No […], rimasti all’età del Sinai: supponenti e mortiferi, privi del ‘cuore’ di carne e dello Spirito - cadaveri tarati a temperatura ambiente.

 

In tutta la scena, Gesù - figura della nuova Giustizia del Padre - resta accovacciato a terra [cf. testo greco], insidiato da chi gli sta sopra per prenderlo in castagna o in ostaggio.

Egli rimane sottoposto persino all’adultera ridotta al silenzio, perché la domanda di misericordia è autentica anche quando resta solo implicita.

E in ogni caso Cristo si rapporta con ciascuno di noi senza incombere. Guardandoci tutti dal basso!

Ecco la differenza tra approccio di Fede e valutazioni della religiosità banale. Il balzo qualitativo fra Dito sulle lastre e Sguardo sulle persone.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In quali situazioni hai considerato: “Giustizia è fatta”?

In quali occasioni hai fatto esperienza del Giudizio divino come comprensione e grazia?

 

 

[5.a Domenica di Quaresima (anno C), 6 aprile 2025]

“Chiesa” adultera, Gesù imputato

(Gv 8,1-11)

 

 

Cosa dire di un antico codice dei Vangeli con una “pagina” strappata?

I mariti non volevano che le donne avessero dal Signore stesso una patente d’immunità: l’azione di Dio sconcerta.

Ma come si rapporta il Signore con chi nella vita ha compiuto errori? O con persone di estrazione culturale differente [ad es.] dall’occidentale?

Possono essere ammesse a un rapporto diretto con Gesù, o debbono subire una lunga trafila di radiografie dottrinali e moralistiche?

Cristo procede senza inchieste né tare penitenziali accusatorie.

Solo rimette in piedi persone e gruppi eterogenei - sebbene tutte anime umiliate e beffeggiate dai veterani della postilla (che nascostamente si concedono tutto).

Impone Lui - e cesella - Giustizia laddove essa è stata trasgredita, almeno secondo nostro parere convenzionale.

Unica soluzione e sentenza di giudizio è quella per il Bene affidabile e convincente.

 

Ad Efeso il vescovo Policrate aveva dovuto scontrarsi con gli intransigenti sulla questione della riammissione in comunità dei lapsi [‘scivolati’ nella confessione di fede, sotto ricatto] o di coloro che avevano ‘consegnato’ i libri sacri (traditores) perché intimiditi da minacce di persecuzioni.

Il vescovo di Roma Sotère, aveva preso posizione a favore dei rigoristi. Ma come testimoniano le Costituzioni Apostoliche, i più comprensivi si richiamavano esplicitamente all’episodio dell'adultera, avendo ben presente che l'agire di Dio è un atto creatore che ricompone - non gesto di castigo frettoloso.

Sparita dal Vangelo secondo Lc (cf. 21,38), la perla evangelica è stata recuperata da Gv (8,1-11).

Ancora s. Agostino si lamentava che il brano venisse escluso da responsabili di alcune comunità.

Ma superando i moralismi spiccioli, la pericope ha un peso teologico significativo.

 

Nelle religioni l'idea del giusto Giudizio divino è identica, perché in armonia con il concetto di giustizia comune: unicuique Jus suum.

Su tutti i sarcofagi dell'antico Egitto è riprodotta la scena della bilancia coi due piatti in perfetto equilibrio: su uno la piuma simbolo di Maat dea della saggezza; sull'altro il cuore del defunto, che viene condotto per mano dal dio Anubis.

Dalla pesatura dipende la felicità o la rovina futura di colui che viene giudicato.

Il Corano attribuisce a Dio lo splendido titolo di “Migliore di quelli che perdonano”; tuttavia anche nell'Islam il giorno del giudizio è il momento della separazione fra giusti e malvagi - gli uni introdotti in paradiso, gli altri cacciati all'inferno.

I rabbini del tempo di Gesù sostenevano che la Misericordia intervenisse al momento della resa dei conti: essa prevaleva solo quando le opere buone e quelle cattive erano in parità.

 

L’adultero e l’adultera dovevano essere messi a morte (Dt 22,22-24): come mai il maschio la scampa?

In molti passi biblici, la «donna» è parabola collettiva - qui evocata per una catechesi nei confronti dei pubblici ministeri tradizionalisti che si facevano avanti anche nelle prime comunità.

Il guaio dei tribunali morali è che troppi protagonisti sembrano inclini più a condannare “simboli” che ad andare in fondo alle questioni.

Malgrado la rigida prassi penitenziale dei primi secoli e la polemica fra lassisti e rigoristi, la gemma recuperata e prima sottratta da molti manoscritti, ribadisce la frase incriminata: «Io non ti condanno»!

E tratteggia persino un Gesù che non chiede anzitempo se la donna si riconoscesse pentita o meno!

Episodio sconvolgente? No, perché si tratta di teologia, non di cronaca rosa.

 

Ogni giorno al levar del sole le persone dal Monte degli Ulivi contemplando il Tempio recitavano lo Shemàh, e così faceva Gesù.

Come molti, trascorreva le notti in una grotta, all'aperto (Lc 21,37-38; Gv 8,1-2), quindi si recava nel Tempio a insegnare.

Inizia un altro «Giorno».

Il confronto con la peccatrice che ci rappresenta, dà inizio a una nuova ‘alba’ - sul Volto di Dio.

Che sentenza pronuncia il Signore nella sua Casa [Chiesa]?

Non si dice cosa Gesù stesse insegnando, perché lui stesso è ‘la’ Parola, l'Insegnamento.

Ogni gesto narra come il Padre si rapporta con chi si è allontanato, o proviene da una estrazione culturale incerta.

Egli aiuta il figlio smarrito a ricuperare, e dice [in breve]: «Io non ti condanno, ma smetti di farti del male».

 

Gesù attraversa il ponte-viadotto sulla valle del Cedron ed entra nella spianata del tempio dalla Porta Dorata.

Lì trova cuori fermi alla giustizia retributiva del Sinai, quella delle fredde tavole di pietra.

Giustizia di scribi e farisei della buoncostume che - pressando - gli stavano addosso rimanendo sopra [così il testo greco].

Giustizia da bilancia e sinedrio? No, Benevolenza che rende giusti i malvagi, che fa puri i lontani che si accostano - i provenienti dal paganesimo multiforme, considerati adulteri teologici.

“Giustizia è fatta” per noi significa che il colpevole viene raddrizzato, punito e separato dagli ineccepibili.

Dio invece rende giusto chi un tempo non lo era. Egli appunto ricupera il disgraziato dall'abisso, e lo fa respirare.

[Forse la donna è immagine simbolo d’una comunità primitiva subordinata, che si affaccia alla Fede ma dalle origini culturali frammiste e dalle pratiche incerte, giudicate tumultuosamente libere].

 

Il perdono non è una sconfitta, né una resa. Del resto, non manca chi si fa scudo di leggi per dare fastidio e acquattarsi dietro paraventi.

Insomma: l'imputato vero della pericope è il Figlio e la sua idea di Giustizia!

Ecco perché il Dito per terra: poggiato sulle lastre di pietra della spianata del tempio di Gerusalemme.

Un’accusa gravissima verso le guide spirituali della religiosità ufficiale e di tutti coloro che, diventando capi delle prime realtà cristiane, subito intendevano ricalcarne le ipocrisie.

Inebriati dal rango di dirigenti e censori, anche loro palesavano di essere rimasti all’età sinaitica, della pietra.

Un’era di vecchi supponenti privi del cuore di carne, estranei al tepore dello Spirito divino.

Non pochi manoscritti dei primi secoli dimostrano infatti l’attaccamento comunitario ossessivo a una disciplina eticista rigidissima.

Si rischiava di tornare all’ideologia dei “migliori”: scuola spietata e gabellante, gelida e giudicante, castigatrice; confusionaria sulle passioni - quella degli ‘eletti’ e “integri”.

Accoliti propugnatori di morte; cadaveri incapaci di desiderio focoso, di passione esplicita; perché - almeno in facciata - tarati a temperatura ambiente.

 

In tutta la scena Gesù resta invece accovacciato a terra!

Addirittura si pone in relazione all’adultera guardandola dal basso verso l’alto (cf. testo greco)!

Egli rimane sottoposto persino all’adultera, icona appunto di una chiesa incerta o “minore” - che raccoglie i liberi prima lontani. Gli stessi che ora si accostavano alle soglie delle fraternità con un passato e bagaglio morale forse discutibile.

Insomma, ogni domanda di misericordia è autentica anche quando resta solo implicita - e in ogni caso Cristo si rapporta con ciascuno di noi senza incombere!

Nella vita di Fede Dio ci sta sotto, e identicamente fa chi lo rappresenta in modo autentico.

L’Eterno non è un legislatore, né soppesatore, o querelante - neppure notaio giudice ch’emette subito sentenza.

In tal guisa e tono “lapidario” Papa Francesco ha ribadito più volte:

«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Ritengo i passi falsi meno gravi del non muoversi affatto!».

 

La differenza dell’approccio di Fede con le valutazioni della religiosità banale? Il balzo qualitativo fra Dito sulle lastre e Sguardo sulle persone.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In quali situazioni hai considerato: “Giustizia è fatta”?

In quali occasioni hai fatto esperienza del Giudizio divino come comprensione e grazia?

Il brano evangelico narra l’episodio della donna adultera in due suggestive scene: nella prima assistiamo a una disputa tra Gesù e gli scribi e i farisei riguardo a una donna sorpresa in flagrante adulterio e, secondo la prescrizione contenuta nel Libro del Levitico (cfr 20,10), condannata alla lapidazione. Nella seconda scena si snoda un breve e commovente dialogo tra Gesù e la peccatrice. Gli spietati accusatori della donna, citando la legge di Mosè provocano Gesù – lo chiamano "maestro" (Didáskale) - chiedendogli se sia giusto lapidarla. Conoscono la sua misericordia e il suo amore per i peccatori e sono curiosi di vedere come se la caverà in un caso del genere, che secondo la legge mosaica non presentava dubbi. Ma Gesù si mette subito dalla parte della donna; in primo luogo scrivendo per terra parole misteriose, che l’evangelista non rivela, e poi pronunciando quella frase diventata famosa:"Chi di voi è senza peccato (usa il termine anamártetos, che viene utilizzato nel Nuovo Testamento soltanto qui), scagli per primo la pietra contro di lei" (Gv 8,7). Nota sant’Agostino che "il Signore, rispondendo, rispetta la legge e non abbandona la sua mansuetudine". Ed aggiunge che con queste sue parole obbliga gli accusatori a entrare dentro se stessi e guardando se stessi a scoprirsi peccatori. Per cui,"colpiti da queste parole come da una freccia grossa quanto una trave, uno dopo l’altro se ne andarono" (In Io. Ev. tract 33,5).

Uno dopo l’altro, dunque, gli accusatori che avevano voluto provocare Gesù, se ne vanno "cominciando dai più anziani fino agli ultimi". Quando tutti sono partiti il divino Maestro resta solo con la donna. Conciso ed efficace il commento di sant’Agostino: "relicti sunt duo: misera et misericordia, restano solo loro due, la misera e la misericordia" (Ibid.). Fermiamoci, cari fratelli e sorelle, a contemplare questa scena dove si trovano a confronto la miseria dell’uomo e la misericordia divina, una donna accusata di un grande peccato e Colui, che pur essendo senza peccato, si è addossato i peccati del mondo intero. Egli, che era rimasto chinato a scrivere nella polvere, ora alza gli occhi ed incontra quelli della donna. Non chiede spiegazioni, non esige scuse. Non è ironico quando le domanda: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?" (8,10). Ed è sconvolgente nella sua replica: "Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più" (8,11). Ancora sant’Agostino, nel suo commento, osserva: "Il Signore condanna il peccato, non il peccatore. Infatti, se avesse tollerato il peccato avrebbe detto: Neppure io ti condanno, va’, vivi come vuoi… per quanto grandi siano i tuoi peccati, io ti libererò da ogni pena e da ogni sofferenza. Ma non disse così"(Io. Ev. tract. 33,6)

Cari amici, dalla parola di Dio che abbiamo ascoltato emergono indicazioni concrete per la nostra vita. Gesù non intavola con i suoi interlocutori una discussione teorica: non gli interessa vincere una disputa a proposito di un’interpretazione della legge mosaica, ma il suo obbiettivo è salvare un’anima e rivelare che la salvezza si trova solo nell’amore di Dio. Per questo è venuto sulla terra, per questo morirà in croce ed il Padre lo risusciterà il terzo giorno. E’ venuto Gesù per dirci che ci vuole tutti in Paradiso e che l’inferno, del quale poco si parla in questo nostro tempo, esiste ed è eterno per quanti chiudono il cuore al suo amore. Anche in questo episodio, dunque, comprendiamo che il vero nostro nemico è l’attaccamento al peccato, che può condurci al fallimento della nostra esistenza. Gesù congeda la donna adultera con questa consegna: "Va e d’ora in poi non peccare più". Le concede il perdono affinché "d’ora in poi" non pecchi più. In un episodio analogo, quello della peccatrice pentita che troviamo nel Vangelo di Luca (7,36-50) Egli accoglie e rimanda in pace una donna che si è pentita. Qui, invece, l’adultera riceve il perdono in mondo incondizionato. In entrambi i casi – per la peccatrice pentita e per l’adultera – il messaggio é unico. In un caso si sottolinea che non c’è perdono senza pentimento; qui si pone in evidenza che solo il perdono divino e il suo amore ricevuto con cuore aperto e sincero ci danno la forza di resistere al male e di "non peccare più". L’atteggiamento di Gesù diviene in tal modo un modello da seguire per ogni comunità, chiamata a fare dell’amore e del perdono il cuore pulsante della sua vita.

[Papa Benedetto, omelia 25 marzo 2007]

14. Gesù entra nella situazione concreta e storica della donna, situazione che è gravata dall'eredità del peccato. Questa eredità si esprime tra l'altro nel costume che discrimina la donna in favore dell'uomo ed è radicata anche dentro di lei. Da questo punto di vista l'episodio della donna «sorpresa in adulterio» (cf. Gv 8, 3-11) sembra essere particolarmente eloquente. Alla fine Gesù le dice: «Non peccare più», ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini che l'accusano per lapidarla, manifestando così quella sua profonda capacità di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sembra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia «maschile», dei vostri abusi?

E' questa una verità valida per tutto il genere umano. Il fatto riportato nel Vangelo di Giovanni si può ripresentare in innumerevoli situazioni analoghe in ogni epoca della storia. Una donna viene lasciata sola, è esposta all'opinione pubblica con «il suo peccato», mentre dietro questo «suo» peccato si cela un uomo come peccatore, colpevole per il «peccato altrui», anzi corresponsabile di esso. Eppure, il suo peccato sfugge all'attenzione, passa sotto silenzio: appare non responsabile per il «peccato altrui»! A volte si fa addirittura accusatore, come nel caso descritto, dimentico del proprio peccato. Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato (può darsi che sia lei, in certi casi, colpevole per il peccato dell'uomo come «peccato altrui»), ma paga essa sola, e paga da sola! Quante volte essa rimane abbandonata con la sua maternità, quando l'uomo, padre del bambino, non vuole accettarne la responsabilità? E accanto alle numerose «madri nubili» delle nostre società, bisogna prendere in considerazione anche tutte quelle che molto spesso, subendo varie pressioni, pure da parte dell'uomo colpevole, «si liberano» del bambino prima della nascita. «Si liberano»: ma a quale prezzo? L'odierna opinione pubblica tenta in diversi modi di «annullare» il male di questo peccato; normalmente, però, la coscienza della donna non riesce a dimenticare di aver tolto la vita al proprio figlio, perché essa non riesce a cancellare la disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos dal «principio».

E' significativo l'atteggiamento di Gesù nel fatto descritto in Giovanni 8, 3-11. Forse in pochi momenti come in questo si manifesta la sua potenza - la potenza della verità - nei riguardi delle coscienze umane. Gesù è tranquillo, raccolto, pensieroso. La sua consapevolezza, qui come nel colloquio con i Farisei (cf. Mt 19, 3-9), non è forse in contatto col mistero del «principio», quando l'uomo fu creato maschio e femmina, e la donna fu affidata all'uomo con la sua diversità femminile, ed anche con la sua potenziale maternità? Anche l'uomo fu affidato dal Creatore alla donna. Furono reciprocamente affidati l'uno all'altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura dell'amore, dell'amore sponsale: per diventare «un dono sincero» l'uno per l'altro, bisogna che ciascuno dei due si senta responsabile del dono. Questa misura è destinata a tutt'e due - uomo e donna - sin dal «principio». Dopo il peccato originale operano nell'uomo e nella donna forze opposte, a causa della triplice concupiscenza, «fomite del peccato». Esse agiscono nell'uomo dal profondo. Per questo Gesù nel Discorso della montagna dirà: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5, 28). Queste parole, rivolte direttamente all'uomo, mostrano la verità fondamentale della sua responsabilità nei confronti della donna: per la sua dignità, per la sua maternità, per la sua vocazione. Ma esse riguardano indirettamente anche la donna. Cristo faceva tutto il possibile perché - nell'ambito dei costumi e dei rapporti sociali di quel tempo - le donne ritrovassero nel suo insegnamento e nel suo agire la propria soggettività e dignità. In base all'eterna «unità dei due», questa dignità dipende direttamente dalla stessa donna, quale soggetto per sé responsabile, e viene nello stesso tempo «data come compito» all'uomo. Coerentemente Cristo si appella alla responsabilità dell'uomo. Nella presente meditazione sulla dignità e vocazione della donna, oggi bisogna riferirsi necessariamente all'impostazione che incontriamo nel Vangelo. La dignità della donna e la sua vocazione - come, del resto, quelle dell'uomo - trovano la loro eterna sorgente nel cuore di Dio e, nelle condizioni temporali dell'esistenza umana, sono strettamente connesse con l'«unità dei due». Perciò ciascun uomo deve guardare dentro di sé e vedere se colei che gli è affidata come sorella nella stessa umanità, come sposa, non sia diventata nel suo cuore oggetto di adulterio; se colei che, in vari modi, è il co-soggetto della sua esistenza nel mondo, non sia diventata per lui «oggetto»: oggetto di godimento, di sfruttamento.

[Papa Giovanni Paolo II, Mulieris Dignitatem]

In questa quinta domenica di Quaresima, la liturgia ci presenta l’episodio della donna adultera (cfr Gv 8,1-11). In esso si contrappongono due atteggiamenti: quello degli scribi e dei farisei da una parte, e quello di Gesù dall’altra. I primi vogliono condannare la donna, perché si sentono i tutori della Legge e della sua fedele applicazione. Gesù invece vuole salvarla, perché Lui impersona la misericordia di Dio che perdonando redime e riconciliando rinnova.

Vediamo dunque l’avvenimento. Mentre Gesù sta insegnando nel tempio, gli scribi e i farisei gli portano una donna sorpresa in adulterio; la pongono nel mezzo e chiedono a Gesù se si deve lapidarla, così come prescrive la Legge di Mosè. L’Evangelista precisa che essi posero il quesito «per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (v. 6). Si può supporre che il loro proposito fosse questo – vedete la malvagità di questa gente: il “no” alla lapidazione sarebbe stato un motivo per accusare Gesù di disobbedienza alla Legge; il “sì”, invece, per denunciarlo all’autorità romana, che aveva riservato a sé le sentenze e non ammetteva il linciaggio popolare. E Gesù deve rispondere.

Gli interlocutori di Gesù sono chiusi nelle strettoie del legalismo e vogliono rinchiudere il Figlio di Dio nella loro prospettiva di giudizio e condanna. Ma Egli non è venuto nel mondo per giudicare e condannare, bensì per salvare e offrire alle persone una vita nuova. E come reagisce Gesù davanti a questa prova? Prima di tutto rimane per un po’ in silenzio, e si china a scrivere col dito per terra, quasi a ricordare che l’unico Legislatore e Giudice è Dio che aveva scritto la Legge sulla pietra. E Poi dice: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). In questo modo Gesù fa appello alla coscienza di quegli uomini: loro si sentivano “paladini della giustizia”, ma Lui li richiama alla consapevolezza della loro condizione di uomini peccatori, per la quale non possono arrogarsi il diritto di vita o di morte su un loro simile. A quel punto, uno dopo l’altro, cominciando dai più anziani – cioè quelli più esperti delle proprie miserie – se ne andarono tutti, rinunciando a lapidare la donna.Questa scena invita anche ciascuno di noi a prendere coscienza che siamo peccatori, e a lasciar cadere dalle nostre mani le pietre della denigrazione e della condanna, del chiacchiericcio, che a volte vorremmo scagliare contro gli altri. Quando noi sparliamo degli altri, buttiamo delle pietre, siamo come questi.

Alla fine rimangono solo Gesù e la donna, là in mezzo: «la misera e la misericordia», dice Sant’Agostino (In Joh 33,5). Gesù è l’unico senza colpa, l’unico che potrebbe scagliare la pietra contro di lei, ma non lo fa, perché Dio “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (cfr Ez 33,11). E Gesù congeda la donna con queste parole stupende: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (v. 11). E così Gesù apre davanti a lei una strada nuova, creata dalla misericordia, una strada che richiede il suo impegno di non peccare più. È un invito che vale per ognuno di noi: Gesù quando ci perdona ci apre sempre una strada nuova per andare avanti. In questo tempo di Quaresima siamo chiamati a riconoscerci peccatori e a chiedere perdono a Dio. E il perdono, a sua volta, mentre ci riconcilia e ci dona la pace, ci fa ricominciare una storia rinnovata. Ogni vera conversione è protesa a un futuro nuovo, ad una vita nuova, una vita bella, una vita libera dal peccato, una vita generosa. Non abbiamo paura a chiedere perdono a Gesù perché Lui ci apre la porta a questa vita nuova. La Vergine Maria ci aiuti a testimoniare a tutti l’amore misericordioso di Dio che, in Gesù, ci perdona e rende nuova la nostra esistenza, offrendoci sempre nuove possibilità.

[Papa Francesco, Angelus 7 aprile 2019]

(Gv 7,40-53)

 

Nel passo di Vangelo le autorità religiose giudicano tutti con disprezzo.

Chi si è sempre immaginato maestro non sarà disposto a farsi discepolo di una Rivelazione sovversiva.

Mentre l’élite scarica Cristo, persino la gendarmeria comandata a perpetuare e sorvegliare la sicurezza del “mondo” viene sbalordita dalla forza della nuova Parola-Persona.

Il Signore sostituisce la Torah (vv.37-38). E chi viene in contatto con il nuovo Tempio è guidato dall’intima ‘radice’ che ha in grembo, vuole riconoscerla in sé.

Diventa egli stesso un Santuario gorgogliante, che inizia a pensare e agire in coscienza - a partire dal proprio nocciolo [forse soffocato, ma indistruttibile].

Una lezione di pensiero ‘dal basso’, data ai “superiori”. Esempio che rivaluta il giudizio teologico dell’empia plebe (v.49).

Ed è curioso che la disubbidienza che salva dal sequestro il Cristo presente nei suoi fedeli abbia origine dalla mancanza di conoscenza minuta della Legge.

 

C’è gran confusione di opinioni riguardo a Gesù, in mezzo alla gente. 

Per le sette che hanno instaurato la tirannia delle norme fa difficoltà la sua origine imprevista, non misterica né travolgente - inaccettabile per il pensiero tarato.

Qualcuno lo ritiene figlio di Davide, altri un Profeta; un ingannatore o un uomo buono (v.12) ovvero qualcuno che ‘non ha gli studi’ (v.15).

Il punto è che Egli non viene a imporre di nuovo la disciplina vetusta, né a rabberciarne i costumi.

Neppure a purificare il Tempio, rinnovandone la pratica propiziatoria. 

Cristo lo soppianta con l’Adesso della realtà che Rivela un inconcepibile Volto di Dio, che si coglie e dilata anche dal di dentro di ciascuno di noi.

Non è affatto la tranquilla riconferma delle solite cose.

La Tradizione [scritta e orale] vanta argomenti radicati, ma la sua fama provoca confusione e confronto duro tra tifoserie opposte.

In tutto ciò non si trova mai nulla di Eccezionale.

 

Ma nell’intimo di ciascuno dimora una ‘naturalezza che insegna’, anche ai maestri del paradigma.

La spontaneità non ci porterà alla debole difesa di Gesù fatta da Nicodemo (vv.51-53) che per salvare la situazione si appoggia su un’altra legge, ovvia del resto.

 

Quando si smette di voler essere solo dipendenti - arriva lo stupore, la vertigine di Dio; differenti interessi.

Il Cristo-icona di Gv 7 vuole sviluppare in noi l’immagine e il talento innato del maestro di spirito che semplicemente attinge dall’esperienza personale del Padre, di sé e della realtà.

Non dobbiamo aspettarci che le risposte arrivino sempre da qualcuno fuori, valutato più esperto - cui invece siamo noi a dover insegnare il Nuovo che viene per salvarci.

La Vocazione per Nome è affidata al Rabbi sconosciuto che ci abita già - e vuole affiorare, esprimendo il divino inconscio già presente.

L’Oro indispensabile, senza pesi mentali indotti: solo in coscienza e carattere.

 

 

[Sabato 4.a sett. Quaresima, 5 aprile 2025]

(Gv 7,40-53)

 

Nel passo di Vangelo le autorità religiose giudicano tutti con disprezzo.

Chi si è sempre immaginato maestro non sarà disposto a farsi discepolo di una Rivelazione sovversiva.

Novità impensabile, e non datata, che osa sgretolare piedistalli e legalismi.

Mentre l’élite scarica Cristo, persino la gendarmeria comandata a perpetuare e sorvegliare la sicurezza del mondo antico viene sbalordita dalla forza della nuova Parola-Persona.

Il Signore sostituisce la Torah:

«Ora nell’ultimo giorno, il grande della festa, Gesù stava ritto e gridò dicendo: Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, colui che crede in me. Come ha detto la Scrittura: dal suo ventre scaturiranno fiumi di Acqua vivente» (vv.37-38).

Chi viene in contatto con il nuovo Tempio è guidato dall’intima radice che ha in grembo, e vuole riconoscerla in sé.

Nonché dare vita, promuoverla; amare, rallegrare la vita stessa.

Diventa egli stesso un Santuario gorgogliante, che inizia a pensare e agire in coscienza - a partire dal proprio nocciolo (forse soffocato, ma indistruttibile).

Una lezione di pensiero dal basso, data ai “superiori”.

Esempio che rivaluta il giudizio teologico dell’empia plebe (v.49).

Ed è curioso che la disubbidienza che salva dal sequestro il Cristo presente nei suoi fedeli abbia origine dalla mancanza di conoscenza minuta della Legge.

 

C’è gran confusione di opinioni riguardo a Gesù, in mezzo alla gente. 

Per le sette che hanno instaurato la tirannia delle norme fa difficoltà la sua origine imprevista, non misterica né travolgente - inaccettabile per il pensiero tarato.

Qualcuno lo ritiene figlio di Davide, altri un Profeta; un ingannatore o un uomo buono (v.12) ovvero qualcuno che non ha gli studi (v.15).

Il punto è che Egli non viene a imporre di nuovo la disciplina vetusta, né a rabberciarne i costumi.

Neppure a purificare il Tempio, rinnovandone la pratica propiziatoria. 

Cristo lo soppianta con l’adesso della realtà che rivela un inconcepibile Volto di Dio, che si coglie e dilata anche dal di dentro di ciascuno di noi.

Non è affatto la tranquilla riconferma delle solite cose.

La Tradizione (scritta e orale) vanta argomenti radicati, ma la sua fama provoca confusione e confronto duro tra tifoserie opposte, [anche oggi] alla moda o meno.

In tutto ciò non si trova mai nulla di eccezionale.

 

Fondamentale è capire che non abbiamo più bisogno di mandanti.

Il discrimine è la Persona, nell’unicità della sua Vocazione; non il punto di vista corrispondente a una grandezza o una mania.

È nel Figlio inatteso che giunge il presente e il futuro - non in un codice d’idee che possa riassumere gli spunti del “successo” e imbelletti il già trascorso.

 

Dice il Tao Tê Ching (ii): «Il santo attua l’insegnamento non detto». Commenta il maestro Wang Pi: «La spontaneità gli basta. Se governa corrompe».

Nell’intimo di ciascuno dimora una naturalezza che insegna, anche ai maestri della legge.

La spontaneità non ci porterà alla debole difesa di Gesù fatta da Nicodemo (vv.51-53) che per salvare la situazione si appoggia su un’altra legge, ovvia del resto.

Quando si smette di voler essere solo dipendenti - come chi è “chiamato” ad arrestare il nuovo che si affaccia - arriva lo stupore, la vertigine di Dio; differenti interessi.

Il Cristo-icona di Gv 7 vuole sviluppare in noi l’immagine e il talento innato del maestro di spirito che semplicemente attinge dall’esperienza personale del Padre, di sé e della realtà.

Non dobbiamo aspettarci che le risposte arrivino sempre da qualcuno fuori, valutato più esperto - cui invece siamo noi a dover insegnare il nuovo che viene per salvarci.

La Vocazione per Nome è affidata al Rabbi sconosciuto che ci abita già - e vuole affiorare, esprimendo il divino inconscio già presente.

 

L’Oro indispensabile, senza pesi mentali indotti: solo in coscienza e carattere.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

Mi sento in grado di ricevere il messaggio della Vita, o sono ancora inceppato nel meccanismo degli omologati che si turano occhi e orecchi?

Rimango sensibile al richiamo del Signore persino nei dettagli di una vita senza gloria o sotto inchiesta?

 

 

Parole e Natura, codici che non passeranno

 

Le Fonti della Speranza

(Lc 21,29-33)

 

I Sadducei pensavano che il loro benessere esagerato fosse il segno più espressivo dei tempi messianici.

Gli Esseni reputavano che il Regno di Dio [di cui volevano essere un anticipo] potesse manifestarsi solo quando il popolo eletto si fosse purificato completamente da ogni obbrobrio e mercato sacro.

I Farisei ritenevano che il Messia si sarebbe instaurato allorché tutti fossero tornati alle sacre tradizioni, scritte e orali.

Anche fra i primi cristiani c’era una varietà di opinioni in merito.

Fortunatamente (allora come oggi) alcuni consideravano il Risorto già del tutto Presente, mai allontanatosi.

Il suo Spirito vivente si manifesta dentro ciascun credente e in mezzo a noi - specialmente percepibile ove si lotta per la giustizia, l’emancipazione, la vita piena di tutti.

 

Lc termina il suo Discorso Apocalittico con delle raccomandazioni sull’attenzione e lo sguardo penetrante da porre al ‘segno dei tempi’.

E - radicata nella Parola di Dio che si fa evento e dirige al futuro, la Speranza inaugura una fase nuova della storia.

La sua profondità sorpassa tutte le possibilità attuali, le quali viceversa oscillano inquiete fra segni di catastrofe.

(Nella vecchia Europa, dopo diversi decenni di andazzo spirituale accomodante e soporifero, lo sperimentiamo per constatazione diretta).

«Quando già hanno germogliato, guardando, da voi stessi sapete che l’estate è già vicina» (Lc 21,31).

 

Gesù rasserena i discepoli sui timori di fine del mondo, e impone di non guardare messaggi in codice, ma la Natura.

Solo così essi riusciranno a leggere e interpretare gli avvenimenti.

Discernimento saggio, che serve a non chiuderci nel presente immediato: esso spinge su una strada di uniformità o difesa.

Infatti, a motivo degli sconvolgimenti, una valutazione precipitosa potrebbe indurci a temere rovesci, bloccando la crescita e la testimonianza.

 

Il mondo e le cose camminano verso una Primavera, e anzitutto in tal senso abbiamo un ruolo di sentinella.

Sulle rovine d’un secolo che crolla, il Padre fa capire quanto succede - e continua a costruire ciò che speriamo [non secondo gusti immediati].

Qua e là possiamo coglierne i vagiti, come i germogli sul ‘fico’.

È un albero che allude al frutto d’amore che Dio attende dal suo popolo, chiamato a essere tenero e dolce: segni della nuova stagione - quella delle relazioni sane.

 

In tal guisa, lo spirito di dedizione manifestato dai figli sarà prefigurazione dell’avvento prossimo d’un impero completamente differente - in grado di sostituire nelle coscienze tutti gli altri di carattere competitivo.

Il fico è appunto immagine dell’ideale popolo delle benedizioni; Israele dell’esodo verso la libertà, e traccia del Padre [nella sobrietà riflessiva e condivisione del deserto].

Esso permane a lungo spoglio e scheletrito; d’improvviso le sue gemme spuntano, si schiudono e in pochi giorni si riveste di foglie rigogliose.

Tale sarà il passaggio dal caos all’ordine sensibile e fraterno prodotto dalla proclamazione e assimilazione della Parola: pensiero non uguale; passo divino nella storia.

 

Attraverso suggestioni che appartengono a processi di natura, siamo introdotti nel discernimento del Mistero - espresso nell’arco della fiumana di trasformazioni.

Le sue ricchezze sono contenute nei codici del Verbo e negli eventi ordinari concreti, i quali hanno un sintomatico peso. Scrigni delle realtà invisibili, che non passano.

Tale dovizia svilupperà persino (e in specie) dalla confusione e dai crolli, come per intrinseca forza ed essenza, giorno per giorno.

Non per un’astratta esemplarità, ma per pienezza della vita che ritrova le proprie radici - riscoprendole nell’errore e nel piccolo.

Un paradossale germe di speranza, e presagio di condizioni migliori.

Perché senza imperfezione e limite non esiste crescita o fioritura, né Regno vicino (vv.30-31) il quale prende sempre «contatto con le ferite» [Fratelli Tutti n.261].

 

Dice il Tao Tê Ching (LII): «Il mondo ebbe un principio, che fu la madre del mondo; chi è pervenuto alla madre, da essa conosce il figlio; chi conosce il figlio e torna a conservar la madre, fino alla morte non corre pericolo [...] Illuminazione è vedere il piccolo; forza è attenersi alla mollezza [...] Questo dicesi praticar l’eterno».

 

Parola di Dio e ritmi della Natura sono codici che passano il tempo. Rilievi autentici, creati, donati, e rivelati.

Sorgenti di discernimento, dello sguardo penetrante, dei segni del tempo, del pensiero libero, della Speranza che non si accoda.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa hai imparato contemplando la natura? Una diversa Sapienza? 

Come mai la si ritiene così lontana dalla dottrina usuale e dai suoi codici dirigisti o cerebrali, che nel tempo si rivelano scadenti?

 

 

Il mondo diventa libro. Arte della vigilanza

 

Uno degli atteggiamenti caratteristici della Chiesa dopo il Concilio è quello d’una particolare attenzione sopra la realtà umana, considerata storicamente; cioè sopra i fatti, gli avvenimenti, i fenomeni del nostro tempo. Una parola del Concilio è entrata nelle nostre abitudini: quella di scrutare «i segni dei tempi». Ecco una espressione, che ha una lontana reminiscenza evangelica: «Non sapete distinguere - chiede una volta Gesù ai suoi ostili e malfidi ascoltatori - i segni dei tempi?» (Matth. 16, 4). Il Signore alludeva allora ai prodigi ch’Egli andava compiendo, e che dovevano indicare l’avvento dell’ora messianica. Ma l’espressione ha oggi, sulla stessa linea, se vogliamo, un significato nuovo di grande importanza: la riprese infatti Papa Giovanni XXIII nella Costituzione apostolica, con la quale indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II, quando, dopo aver osservato le tristi condizioni spirituali del mondo contemporaneo, volle rianimare la speranza della Chiesa, scrivendo: «A noi piace collocare una fermissima fiducia del divino Salvatore ... che ci esorta a riconoscere i segni dei tempi», così che «vediamo fra tenebre oscure numerosi indizi, i quali sembrano annunciare tempi migliori per la Chiesa e per il genere umano» (A.A.S. 1962, p. 6). I segni dei tempi sono, in questo senso, dei presagi di condizioni migliori.

GIOVANNI XXIII E IL CONCILIO

L’espressione è passata nei documenti conciliari (specialmente nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 4; la intravediamo nella mirabile pagina del n. 10: poi nel n. 11; così nei nn. 42, 44; così nel Decreto sull’attività dei Laici, n. 14; nella Costituzione sulla S. Liturgia, n. 43; ecc.). Questa locuzione «i segni dei tempi» ha pertanto acquistato un uso corrente e un significato profondo, molto ampio e molto interessante; e cioè quello della interpretazione teologica della storia contemporanea. Che la storia, considerata nelle sue grandi linee, abbia offerto al pensiero cristiano l’occasione, anzi l’invito a scoprirvi un disegno divino, è ben saputo da sempre: che cosa è la «storia sacra», se non l’identificazione di un pensiero divino, d’un’«economia» trascendente, nello svolgimento degli avvenimenti che conducono a Cristo, e da Cristo derivano? Ma questa scoperta è postuma; è una sintesi, alle volte discutibile nelle sue formulazioni, che lo studioso compie quando gli avvenimenti sono ormai compiuti, e possono essere considerati in una prospettiva d’insieme, e talora collocati deduttivamente in un quadro ideologico derivato da altre fonti dottrinali, che non dalla analisi induttiva degli avvenimenti stessi. Ora invece è offerto al pensiero moderno l’invito a decifrare nella realtà storica, in quella presente specialmente, i «segni», cioè le indicazioni d’un senso ulteriore a quello registrato dall’osservatore passivo.

Questa presenza del «segno» nelle realtà percepite dalla nostra conoscenza immediata meriterebbe una, lunga riflessione. Nel campo religioso il «segno» tiene un posto importantissimo: il regno divino non è ordinariamente accessibile alla nostra conoscenza per via diretta, sperimentale, intuitiva, ma per via di segni (così la conoscenza di Dio è a noi possibile mediante introspezione delle cose, che assumono valore di segno [cfr. Rom. 1, 20]; così l’ordine soprannaturale ci è comunicato dai sacramenti, che sono segni sensibili d’una realtà invisibile, ecc.); anche il linguaggio umano poi avviene per via di segni fonetici o scritturali convenzionali, con cui il pensiero si trasmette; e così via. In tutto l’universo creato possiamo trovare segni d’un ordine, d’un pensiero, d’una verità, che può fare da ponte metafisico (cioè oltre il quadro della realtà fisica) al mondo ineffabile, ma surreale del «Dio ignoto» (cfr. Act. 17, 23, ss.; Rom. 8, 22; Lumen gentium, n. 16). Nella prospettiva, che ora stiamo considerando, si tratta di individuare «nei tempi», cioè nel corso degli avvenimenti, nella storia, quegli aspetti, quei «segni», che ci possono dare qualche notizia d’una immanente Provvidenza (pensiero questo abituale agli spiriti religiosi); ovvero ci possono essere indizi (ed è questo che ora c’interessa) d’un qualche rapporto col «regno di Dio», con la sua azione segreta, ovvero - ancor meglio per il nostro studio e per il nostro dovere - con la possibilità, con la disponibilità, con l’esigenza di un’azione apostolica. Questi indizi sembrano a Noi propriamente «i segni dei tempi».

IL MONDO DIVENTA LIBRO

Donde una serie di conclusioni importanti e interessanti. Il mondo per noi diventa libro. La nostra vita, oggi, è assai impegnata nella continua visione del mondo esteriore. I mezzi di comunicazione sono così cresciuti, così aggressivi, che ci impegnano, ci distraggono, ci distolgono da noi stèssi, ci svuotano dalla nostra coscienza personale. Ecco: facciamo attenzione. Noi possiamo passare dalla posizione di semplici osservatori a quella di critici, di pensatori, di giudici. Quest’attitudine di conoscenza riflessa è della massima importanza per l’anima moderna, se vuole restare anima viva, e non semplice schermo delle mille impressioni a cui è soggetta. E per noi cristiani questo atto riflesso è necessario, se vogliamo scoprire «i segni dei tempi»; perché come insegna il Concilio (Gaudium et spes, n. 4), l’interpretazione dei «tempi», cioè della realtà empirica e storica, che ci circonda e ci impressiona, deve essere fatta «alla luce del Vangelo». La scoperta dei «segni dei tempi» è un fatto di coscienza cristiana; risulta da un confronto della fede con la vita; non per sovrapporre artificiosamente e superficialmente un pensiero devoto ai casi della nostra esperienza, ma piuttosto per vedere dove questi casi postulano, per il loro intrinseco dinamismo, per la loro stessa oscurità, e talvolta per la loro stessa immoralità, un raggio di fede, una parola evangelica, che li classifichi, che li redima; ovvero la scoperta dei «segni dei tempi» avviene per farci rilevare dove essi vengono da sé incontro a disegni superiori, che noi sappiamo cristiani e divini (come la ricerca dell’unità, della pace, della giustizia), e dove un’eventuale nostra azione di carità o di apostolato viene a combaciare con una maturazione di circostanze favorevoli, indicatrici che l’ora è venuta pei- un progresso simultaneo del regno di Dio nel regno umano.

IL METODO DA SEGUIRE

Questo metodo Ci sembra indispensabile per ovviare ad alcuni pericoli, a cui l’attraente ricerca dei «‘segni dei tempi» potrebbe esporci. Primo pericolo, quello di un profetismo carismatico, spesso degenerante in fantasia bigotta, che conferisce a coincidenze fortuite e spesso insignificanti interpretazioni miracolistiche. L’avidità di scoprire facilmente «i segni dei tempi» può farci dimenticare l’ambiguità spesso possibile della valutazione dei fatti osservati; e ciò tanto più se dobbiamo riconoscere al «Popolo di Dio», cioè ad ogni credente, un’eventuale capacità di discernere «i segni della presenza o del disegno di Dio» (Gaudium et spes, n. 11): «il sensus fidei» può conferire questo dono di sapiente veggenza, ma l’assistenza del magistero gerarchico sarà sempre provvida e decisiva, quando l’ambiguità della interpretazione meritasse d’essere risolta o nella certezza della verità, o nell’utilità del bene comune.

Pericolo secondo sarebbe costituito dall’osservazione puramente fenomenica dei fatti dai quali si desidera estrarre l’indicazione dei «segni dei tempi»; ed è ciò che può avvenire quando tali fatti sono rilevati e classificati in schemi puramente tecnici e sociologici. Che la sociologia sia scienza di grande merito per se stessa e per lo scopo che qui c’interessa, cioè per la ricerca d’un senso superiore e indicativo dei fatti medesimi, volentieri noi ammettiamo. Ma la sociologia non può essere criterio morale a se stante, né può sostituire la teologia. Questo nuovo umanesimo scientifico potrebbe mortificare l’autenticità e l’originalità del nostro cristianesimo e dei suoi valori soprannaturali.

L'ARTE DELLA VIGILANZA CRISTIANA

Altro pericolo potrebbe nascere dal considerare come prevalente l’aspetto storico di questo problema. Vero è che lo studio qui verte sulla storia, verte sul tempo, e cerca di ricavarne segni propri del campo religioso, che per noi tutto è raccolto nell’avvenimento centrale della presenza storica di Cristo nel tempo e nel mondo, donde deriva il Vangelo, la Chiesa e la sua missione di salvezza. Cioè l’elemento immutabile della verità rivelata non dovrebbe soggiacere alla mutabilità .dei tempi, nei quali si diffonde e talvolta fa la sua apparizione con «segni», che non lo alterano, ma lo lasciano intravedere e lo realizzano nell’umanità pellegrina (cfr. CHENU, Les signes des temps, in Nouv. Revue Théol. 1-1-65, pp. 29-39). Ma tutto questo non fa che richiamarci all’attenzione, allo studio dei «segni dei tempi», che devono rendere sagace e moderno il nostro giudizio cristiano e il nostro apostolato in mezzo alla fiumana delle trasformazioni del mondo contemporaneo. È l’antica, sempre viva parola del Signore che risuona ai nostri spiriti: «Vigilate» (Luc. 21, 36). La vigilanza cristiana sia l’arte per noi nel discernimento dei «segni dei tempi».

[Papa Paolo VI, Udienza Generale 16 aprile 1969]

 

 

Parola e diversità

 

Tutte le cose umane, tutte le cose che noi possiamo inventare, creare, sono finite. Anche tutte le esperienze religiose umane sono finite, mostrano un aspetto della realtà, perché il nostro essere è finito e capisce solo sempre una parte, alcuni elementi: «latum praeceptum tuum nimis». Solo Dio è infinito. E perciò anche la sua Parola è universale e non conosce confine. Entrando quindi nella Parola di Dio, entriamo realmente nell'universo divino. Usciamo dalla limitatezza delle nostre esperienze e entriamo nella realtà, che è veramente universale. Entrando nella comunione con la Parola di Dio, entriamo nella comunione della Chiesa che vive la Parola di Dio. Non entriamo in un piccolo gruppo, nella regola di un  piccolo gruppo, ma usciamo dai nostri limiti. Usciamo verso il largo, nella vera larghezza dell'unica verità, la grande verità di Dio. Siamo realmente nell'universale. E così usciamo nella comunione di tutti i fratelli e le sorelle, di tutta l'umanità, perché nel cuore nostro si nasconde il desiderio della Parola di Dio che è una. Perciò anche l'evangelizzazione, l'annuncio del Vangelo, la missione non sono una specie di colonialismo ecclesiale, con cui vogliamo inserire altri nel nostro gruppo. È uscire dai limiti delle singole culture nella universalità che collega tutti, unisce tutti, ci fa tutti fratelli. Preghiamo di nuovo affinché il Signore ci aiuti a entrare realmente nella “larghezza” della sua Parola e così aprirci all'orizzonte universale dell'umanità, quello che ci unisce con tutte le diversità.

[Papa Benedetto, Meditazione alla XII Assemblea Generale del Sinodo, 6 ottobre 2008]

La gente pensa che Gesù sia un profeta. Questo non è falso, ma non basta; è inadeguato. Si tratta, in effetti, di andare in profondità, di riconoscere la singolarità della persona di Gesù di Nazaret, la sua novità. Anche oggi è così: molti accostano Gesù, per così dire, dall’esterno. Grandi studiosi ne riconoscono la statura spirituale e morale e l’influsso sulla storia dell’umanità, paragonandolo a Buddha, Confucio, Socrate e ad altri sapienti e grandi personaggi della storia. Non giungono però a riconoscerlo nella sua unicità. Viene in mente ciò che disse Gesù a Filippo durante l’Ultima Cena: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?" (Gv 14,9). Spesso Gesù è considerato anche come uno dei grandi fondatori di religioni, da cui ognuno può prendere qualcosa per formarsi una propria convinzione. Come allora, dunque, anche oggi la "gente" ha opinioni diverse su Gesù. E come allora, anche a noi, discepoli di oggi, Gesù ripete la sua domanda: "E voi, chi dite che io sia?". Vogliamo fare nostra la risposta di Pietro. Secondo il Vangelo di Marco Egli disse: "Tu sei il Cristo" (8,29); in Luca l’affermazione è: "Il Cristo di Dio" (9,20); in Matteo suona: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (16,16); infine in Giovanni: "Tu sei il Santo di Dio" (6,69). Sono tutte risposte giuste, valide anche per noi.

[Papa Benedetto, omelia 29 giugno 2007]

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The devotional and external purifications purify man ritually but leave him as he is replaced by a new bathing (Pope Benedict)
Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo (Papa Benedetto)
If, on the one hand, the liturgy of these days makes us offer a hymn of thanksgiving to the Lord, conqueror of death, at the same time it asks us to eliminate from our lives all that prevents us from conforming ourselves to him (John Paul II)
La liturgia di questi giorni, se da un lato ci fa elevare al Signore, vincitore della morte, un inno di ringraziamento, ci chiede, al tempo stesso, di eliminare dalla nostra vita tutto ciò che ci impedisce di conformarci a lui (Giovanni Paolo II)
The school of faith is not a triumphal march but a journey marked daily by suffering and love, trials and faithfulness. Peter, who promised absolute fidelity, knew the bitterness and humiliation of denial:  the arrogant man learns the costly lesson of humility (Pope Benedict)
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà (Papa Benedetto)
We are here touching the heart of the problem. In Holy Scripture and according to the evangelical categories, "alms" means in the first place an interior gift. It means the attitude of opening "to the other" (John Paul II)
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro” (Giovanni Paolo II)
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
St Teresa of Avila wrote: «the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ» (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7). Therefore, only by believing in Christ, by remaining united to him, may the disciples, among whom we too are, continue their permanent action in history [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia [Papa Benedetto]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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