don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Il Giogo sui Piccoli: Religione trasformata in ossessione (per “trattenuti”)

(Mt 11,28-30)

 

I rabbini sceglievano i discepoli fra coloro che avevano maggiori capacità intellettive e ascetiche.

Gesù invece va a cercare i fuori del giro, gli «infanti» (v.25) che neppure avevano stima di sé.

Egli liberava proprio i malfermi da costrizioni esterne, e consentiva che ciascuno sprigionasse la sua forza interiore.

Cristo non annuncia un Dio lontanissimo, bensì vicinissimo; e l’itinerario efficace per diventare intimi col Padre è sapersi famigliari disciolti.

Solo qui possiamo coglierlo nel centro del suo ‘svelamento’: potenza sapiente, soccorrevole, unita; per noi, come siamo.

Gli esperti della religione ufficiale - stracolmi di amor proprio e senso d’elezione - predicavano un onnipotente Sovrano da convincere con atteggiamenti sicuri e fare artificioso, tagliente, imperioso.

Non lasciavano essere né diventare. L’intransigenza era segno che non conoscevano il Padre.

L’Eterno trasformato in Controllore era divenuto fonte di discriminazione e ossessione per la vita intima delle persone minute, vessate dall’insicurezza del distinguere-evitare-osservare, e dai dubbi di coscienza.

Scomodati dal vivere in prima persona [e come ceto] la conversione che predicavano agli altri, i professori non s’accorgevano di doversi svuotare di assurde presunzioni e diventare - loro - alunni della gente normale.

Non siamo i sottoposti d’un Signore accigliato e tutto distante - però manipolatore. E che chiede di stare sempre allerta, con sforzo.

 

I nuovi, le nullità, i senza voce, inadeguati e invisibili, non sanno calcolare in termini di norma e codice - «giogo» antico (vv.29-30) che schiaccia le vocazioni.

Nessuno è abilitato da Dio a forzare le direzioni, tener d’occhio gli altri in modo maniacale, perfezionista e meticoloso [esasperando i fallimenti].

Il Padre non vuole esacerbare gli eventi regolando ogni dettaglio anche “spirituale” a partire da schemi irritanti di vigilanza che non ci appartengono.

I figli preferiscono lasciar fluire i modi personali di affrontare la realtà; così rintracciandone le energie essenziali e spontanee.

Ragioniamo secondo codici di vita e umanizzazione: indole, storia irripetibile, influssi culturali, amicizie di carattere largo. Non viviamo per prevenire.

Solo così possiamo arricchire l’esperienza fondamentale: l’Amore - che non viene da giudizi, tagli e separazioni, ma dalla relazione Padre-Figlio. Unica che non stizzisce.

 

Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è appunto il nascondimento, la ‘tapineria’ [(tapeínōsis, ‘abbassamento’), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29; Lc 1,48].

Solo chi ama la forza inizia dal troppo distante da sé.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Subisci da qualche guida o da te stesso una sorta di complesso del controllore?

 

 

[Mercoledì 2.a sett. Avvento, 10 dicembre 2025]

Dic 2, 2025

Il Giogo sui Piccoli

Pubblicato in il Mistero

Religione trasformata in ossessione - per “trattenuti”

(Mt 11,28-30)

 

I rabbini sceglievano i discepoli fra coloro che avevano maggiori capacità intellettive e ascetiche. Gesù invece va a cercare i fuori del giro, gli «infanti» (v.25) che neppure avevano stima di sé.

Anche per la rinascita che oggi si prospetta, Cristo non ha bisogno di finti fenomeni, anzi è Lui che libera da costrizioni esterne; sprigiona la forza interiore [e sana pure il cervello]. 

Nell’intimità del Mistero della vita divina entra chi sa ricevere tutto e molla la presa - ma rimane se stesso.

Dio non è lontanissimo, bensì vicinissimo; non è grande, ma piccolo: l’itinerario efficace per diventare intimi col Padre non è farsi subalterni con sforzo, ma sapersi famigliari disciolti.

Solo qui possiamo coglierlo nel centro del suo svelamento: potenza sapiente, soccorrevole, unita; per noi, come siamo.

 

Gli esperti della religione ufficiale - stracolmi di amor proprio e senso d’elezione - predicavano un Dio da convincere con atteggiamenti sicuri e fare artificioso, tagliente, imperioso.

Non lasciavano essere né diventare. L’intransigenza era segno che non conoscevano il Padre.

L’Eterno trasformato in Controllore era divenuto fonte di discriminazione e ossessione per la vita intima delle persone minute, vessate dall’insicurezza del distinguere-evitare-osservare, e dai dubbi di coscienza.

Scomodati dal vivere in prima persona (e come ceto) la conversione che predicavano agli altri, i professori non s’accorgevano di doversi svuotare di assurde presunzioni e diventare - loro - alunni della gente normale.

 

Insomma, come figli siamo incessantemente invitati a edificare Famiglia poliedrica, dove non si sta sempre in allerta.

Non siamo i sottoposti d’un Signore accigliato e tutto distante - però manipolatore.

Piuttosto, i chiamati a una scelta paradossale, personale e di ceto: e senza forzature, riconoscersi - mettersi a fianco degli umiliati e vessati.

Ciò mentre la falsa pietà di provincia continua a far trascinare fardelli - proprio quelli dei contrastati e stancati, dall’esistenza resa più esitante anziché libera; ossessionata e greve, anziché leggera.

Perché? Senza giri di parole, l’Enciclica Fratelli Tutti risponderebbe:

«Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori» (n.15).

Come dire: quando le autorità e i primi della classe sono poco credibili, unicamente la seminagione della paura produce significativi condizionamenti nel popolo, e lo mette a guinzaglio.

 

Nella Chiesa diffusa, solo da pochi decenni abbiamo superato il cliché delle predicazioni moralistiche e terroristiche [ad es. anche in tempo di Avvento] disgiunte da un meridiano senso di umanizzazione.

Gli esclusi, abbattuti e sfiancati da adempimenti senza senso hanno tuttavia continuato a incontrare il Salvatore francamente, trovando riposo dell’anima, convinzione, pace, equilibrio, speranza.

D’istinto, sono riusciti a ritagliarsi ciò che nessuna religione piramidale aveva mai saputo porgere e dispiegare.

In tal guisa, i nuovi, le nullità, i senza voce inadeguati e invisibili, mai sanno calcolare in termini di dottrina e leggi, norma e codice - «giogo» antico (vv.29-30) insopportabile, che schiaccia persone e vocazioni concrete; autonomie o comunionalità particolari.

Insomma, nessun “patriarca” è abilitato da Dio a impacchettare la nostra anima, forzare le direzioni, e tenerci d’occhio in modo maniacale, perfezionista e meticoloso.

Esasperando i fallimenti, a tutto campo.

 

Ciascuno ha un modo di stare al mondo connaturato, tutto suo - perfino se abitudinario. È opportunità d’impulso e ricchezza per tutti.

Noi stessi non vogliamo esacerbare gli eventi regolando ogni dettaglio anche “spirituale” a partire da schemi irritanti di vigilanza che non ci appartengono.

Preferiamo lasciar fluire i modi personali di affrontare la realtà; così rintracciandone le energie essenziali e spontanee.

Ragioniamo secondo codici di vita e umanizzazione: indole, storia irripetibile, influssi culturali, amicizie di carattere largo. Non viviamo per prevenire.

Solo così possiamo arricchire l’esperienza fondamentale: l’Amore - che non viene da giudizi, tagli e separazioni, ma dalla relazione Padre-Figlio. Unica che non stizzisce.

Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è appunto il nascondimento, la ‘tapineria’ [(tapeínōsis, ‘abbassamento’), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29 testo greco; Lc 1,48].

 

Solo chi ama la forza inizia dal troppo distante da sé.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In comunità ti cogli più o meno libero e sereno?

La tua Chiamata ottiene respiro o senti l’aggravio altrui di dubbi, giudizi, divieti e prescrizioni?

Subisci da qualche guida o da te stesso una sorta di complesso del controllore?

L'uomo ha bisogno di essere liberato dalle oppressioni materiali, ma deve essere salvato, e più profondamente, dai mali che affliggono lo spirito. E chi può salvarlo se non Dio, che è Amore e ha rivelato il suo volto di Padre onnipotente e misericordioso in Gesù Cristo? La nostra salda speranza è dunque Cristo: in Lui, Dio ci ha amato fino all'estremo e ci ha dato la vita in abbondanza (cfr Gv 10,10), quella vita che ogni persona, talora persino inconsapevolmente, anela a possedere.

"Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro". Queste parole di Gesù, scritte a grandi lettere sopra la porta della vostra Cattedrale di Brno, Egli le indirizza ora a ciascuno di noi ed aggiunge: "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita" (Mt 11,29-30). Possiamo restare indifferenti dinanzi al suo amore? Qui, come altrove, nei secoli passati tanti hanno sofferto per mantenersi fedeli al Vangelo e non hanno perso la speranza; tanti si sono sacrificati per ridare dignità all'uomo e libertà ai popoli, trovando nell'adesione generosa a Cristo la forza per costruire una nuova umanità. E pure nell'attuale società, dove tante forme di povertà nascono dall'isolamento, dal non essere amati, dal rifiuto di Dio e da un'originaria tragica chiusura dell'uomo che pensa di poter bastare a se stesso, oppure di essere solo un fatto insignificante e passeggero; in questo nostro mondo che è alienato "quando si affida a progetti solo umani" (cfr Caritas in veritate, 53), solo Cristo può essere la nostra certa speranza. Questo è l'annuncio che noi cristiani siamo chiamati a diffondere ogni giorno, con la nostra testimonianza.

[Papa Benedetto, omelia Aeroporto Tuřany di Brno 27 settembre 2009]

1. “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli...” (Mt 11,25).

Questa frase del Vangelo dell’odierna domenica di luglio si affaccia alla mente, cari fratelli e sorelle, nel momento in cui ci siamo riuniti per la recita dell’Angelus.

Maria è colei alla quale è stato rivelato di più, nel momento in cui si presentò innanzi a Lei l’Angelo del Signore, annunziando: “Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù” (Lc 1,31).

A Lei per prima giunge questa Verità che trasforma il mondo..., Verità tanto spesso nascosta “ai sapienti ed agli intelligenti” di questo mondo... Ed Essa, Maria di Nazaret, l’accetta con la massima semplicità dello spirito e, perciò, nella più autentica pienezza.

Riunendoci per la preghiera dell’Angelus, apriamo continuamente i nostri cuori alla stessa Verità Divina con una simile semplicità! Giunga essa a noi sempre di nuovo, nei diversi luoghi e nelle diverse circostanze della vita, sia nel lavoro che nel riposo, come adesso nel tempo delle vacanze.

Questa Verità Divina ci permetta di costruire dappertutto e quotidianamente la vita alla quale siamo stati chiamati in Cristo...: ci permetta ripetere con Cristo: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra”. Tale frutto della preghiera dell’Angelus io invoco sia per voi, cari fratelli e sorelle, sia per me.

2. Prego poi per voi, per ciascuno di voi, e per me, affinché si compiano su di noi le parole che Gesù rivolge nell’odierna liturgia a tutti coloro che sono “affaticati ed oppressi”, diciamo: sofferenti.

Ecco, Egli dice: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,29-30).

Per il compimento di queste sacre parole su me stesso, particolarmente nel presente periodo della mia vita, e anche su tanti, tanti miei fratelli e sorelle che risentono forse ancor di più il loro “dolce giogo”, prego Maria, Salute degli infermi, / Maria, Rifugio dei peccatori / Conforto degli afflitti, / Maria, Aiuto dei Cristiani / e prego tutti i santi.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 5 luglio 1981]

Imparate da me (cfr Mt 11,28-30)

Durante questo Giubileo abbiamo riflettuto più volte sul fatto che Gesù si esprime con una tenerezza unica, segno della presenza e della bontà di Dio. Oggi ci soffermiamo su un passo commovente del Vangelo (cfr Mt 11,28-30), nel quale Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. […] Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (vv. 28-29). L’invito del Signore è sorprendente: chiama a seguirlo persone semplici e gravate da una vita difficile, chiama a seguirlo persone che hanno tanti bisogni e promette loro che in Lui troveranno riposo e sollievo. L’invito è rivolto in forma imperativa: «venite a me», «prendete il mio giogo», «imparate da me». Magari tutti i leaders del mondo potessero dire questo! Cerchiamo di cogliere il significato di queste espressioni.

Il primo imperativo è «Venite a me». Rivolgendosi a coloro che sono stanchi e oppressi, Gesù si presenta come il Servo del Signore descritto nel libro del profeta Isaia. Così dice il passo di Isaia: «Il Signore mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato» (50,4). A questi sfiduciati della vita, il Vangelo affianca spesso anche i poveri (cfr Mt 11,5) e i piccoli (cfr Mt 18,6). Si tratta di quanti non possono contare su mezzi propri, né su amicizie importanti. Essi possono solo confidare in Dio. Consapevoli della propria umile e misera condizione, sanno di dipendere dalla misericordia del Signore, attendendo da Lui l’unico aiuto possibile. Nell’invito di Gesù trovano finalmente risposta alla loro attesa: diventando suoi discepoli ricevono la promessa di trovare ristoro per tutta la vita. Una promessa che al termine del Vangelo viene estesa a tutte le genti: «Andate dunque – dice Gesù agli Apostoli – e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). Accogliendo l’invito a celebrare questo anno di grazia del Giubileo, in tutto il mondo i pellegrini varcano la Porta della Misericordia aperta nelle cattedrali, nei santuari, in tante chiese del mondo, negli ospedali, nelle carceri. Perché varcano questa Porta della Misericordia? Per trovare Gesù, per trovare l’amicizia di Gesù, per trovare il ristoro che soltanto Gesù dà. Questo cammino esprime la conversione di ogni discepolo che si pone alla sequela di Gesù. E la conversione consiste sempre nello scoprire la misericordia del Signore. Essa è infinita e inesauribile: è grande la misericordia del Signore! Attraversando la Porta Santa, quindi, professiamo «che l’amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male, in cui l’uomo, l’umanità, il mondo sono coinvolti» (Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia, 7).

Il secondo imperativo dice: “Prendete il mio giogo”. Nel contesto dell’Alleanza, la tradizione biblica utilizza l’immagine del giogo per indicare lo stretto vincolo che lega il popolo a Dio e, di conseguenza, la sottomissione alla sua volontà espressa nella Legge. In polemica con gli scribi e i dottori della legge, Gesù pone sui suoi discepoli il suo giogo, nel quale la Legge trova il suo compimento. Vuole insegnare loro che scopriranno la volontà di Dio mediante la sua persona: mediante Gesù, non mediante leggi e prescrizioni fredde che lo stesso Gesù condanna. Basta leggere il capitolo 23 di Matteo! Lui sta al centro della loro relazione con Dio, è nel cuore delle relazioni fra i discepoli e si pone come fulcro della vita di ciascuno. Ricevendo il “giogo di Gesù” ogni discepolo entra così in comunione con Lui ed è reso partecipe del mistero della sua croce e del suo destino di salvezza.

Ne consegue il terzo imperativo: “Imparate da me”. Ai suoi discepoli Gesù prospetta un cammino di conoscenza e di imitazione. Gesù non è un maestro che con severità impone ad altri dei pesi che lui non porta: questa era l’accusa che faceva ai dottori della legge. Egli si rivolge agli umili, ai piccoli, ai poveri, ai bisognosi perché Lui stesso si è fatto piccolo e umile. Comprende i poveri e i sofferenti perché Lui stesso è povero e provato dai dolori. Per salvare l’umanità Gesù non ha percorso una strada facile; al contrario, il suo cammino è stato doloroso e difficile. Come ricorda la Lettera ai Filippesi: «Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (2,8). Il giogo che i poveri e gli oppressi portano è lo stesso giogo che Lui ha portato prima di loro: per questo è un giogo leggero. Egli si è caricato sulle spalle i dolori e i peccati dell’intera umanità. Per il discepolo, dunque, ricevere il giogo di Gesù significa ricevere la sua rivelazione e accoglierla: in Lui la misericordia di Dio si è fatta carico delle povertà degli uomini, donando così a tutti la possibilità della salvezza. Ma perché Gesù è capace di dire queste cose? Perché Lui si è fatto tutto a tutti, vicino a tutti, ai più poveri! Era un pastore tra la gente, tra i poveri: lavorava tutto il giorno con loro. Gesù non era un principe. E’ brutto per la Chiesa quando i pastori diventano principi, lontani dalla gente, lontani dai più poveri: quello non è lo spirito di Gesù. Questi pastori Gesù rimproverava, e di loro Gesù diceva alla gente: “fate quello che loro dicono, ma non quello che fanno”.

Cari fratelli e sorelle, anche per noi ci sono momenti di stanchezza e di delusione. Allora ricordiamoci queste parole del Signore, che ci danno tanta consolazione e ci fanno capire se stiamo mettendo le nostre forze al servizio del bene. Infatti, a volte la nostra stanchezza è causata dall’aver posto fiducia in cose che non sono l’essenziale, perché ci siamo allontanati da ciò che vale realmente nella vita. Il Signore ci insegna a non avere paura di seguirlo, perché la speranza che poniamo in Lui non sarà delusa. Siamo chiamati quindi a imparare da Lui cosa significa vivere di misericordia per essere strumenti di misericordia. Vivere di misericordia per essere strumenti di misericordia: vivere di misericordia è sentirsi bisognoso della misericordia di Gesù, e quando noi ci sentiamo bisognosi di perdono, di consolazione, impariamo a essere misericordiosi con gli altri. Tenere fisso lo sguardo sul Figlio di Dio ci fa capire quanta strada dobbiamo ancora fare; ma al tempo stesso ci infonde la gioia di sapere che stiamo camminando con Lui e non siamo mai soli. Coraggio, dunque, coraggio! Non lasciamoci togliere la gioia di essere discepoli del Signore. “Ma, Padre, io sono peccatore, come posso fare?” – “Lasciati guardare dal Signore, apri il tuo cuore, senti su di te il suo sguardo, la sua misericordia, e il tuo cuore sarà riempito di gioia, della gioia del perdono, se tu ti avvicini a chiedere il perdono”. Non lasciamoci rubare la speranza di vivere questa vita insieme con Lui e con la forza della sua consolazione. Grazie.

[Papa Francesco, Udienza Generale 14 settembre 2016]

Valore dell'unicità imperfetta

(Mt 18,12-14)

 

Gesù si guarda bene dal proporre un universalismo dettato o pianificato, come se il suo fosse un modello ideale, «allo scopo di omogeneizzare» [FT n.100].

Il tipo di Comunione che il Signore ci propone non mira a «un’uniformità unidimensionale che cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità».

Perché «il futuro non è “monocromatico” ma se ne abbiamo il coraggio è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!».

Nel Figlio, Dio viene rivelato non più come proprietà esclusiva, bensì Potenza d’un Amore che perdona gli emarginati e smarriti: salva e crea, liberando.

Sembra un’utopia impossibile da realizzare nel concreto (oggi della crisi globale) ma è il senso del passaggio di consegne alla Chiesa, chiamata a farsi incessante pungolo d’Infinito e fermento d’un mondo alternativo, per lo sviluppo umano integrale.

Come sottolinea ancora l’enciclica Fratelli Tutti: Gesù - nostro Motore e Motivo - «aveva un cuore aperto, che faceva propri i drammi degli altri» [n.84].

In tal guisa, attraverso una domanda assurda (formulata in modo retorico), Gesù vuole destare la coscienza dei “giusti”: c’è un lato di noi che suppone di sé, molto pericoloso perché porta all’esclusione e all’abbandono.

Invece l’Amore inesauribile cerca. E trova l’imperfetto e irrequieto.

La palude di energia stagnante che si genera accentuando i confini non fa crescere nessuno: blocca nelle solite posizioni e lascia che ciascuno si arrangi o si perda. Per disinteresse interessato - che impoverisce tutti.

Tutto ciò faceva cadere le virtù creative nella disperazione.

Invece Dio è alla ricerca di colui che vaga malfermo, facilmente si disorienta, smarrisce la strada. 

Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino. Per questo motivo il Padre è alla ricerca dell’insufficiente.

La persona così limpida e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro i lati apparentemente detestabili. Forse ch’egli stesso non apprezza.

Questo il principio di Redenzione che sbalordisce e rende interessanti i nostri percorsi spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore” - nella Fede generando però autostima, credito, pienezza e gioia.

Insomma, Gesù non viene per puntare il dito sui ‘momenti no’, ma per recuperare, facendo leva sul coinvolgimento intimo.

Questo lo stile di una Chiesa dal Cuore Sacro, amabile, elevato e benedetto.

 

 

[Martedì 2.a sett. Avvento, 9 dicembre 2025]

Valore dell'unicità imperfetta

(Mt 18,12-14)

 

Il cambiamento di rotta e di sorte del Regno. Un Dio in ricerca dei perduti e disuguali, per dilatarci la vita. Cristologia del Pallio, potenza delle carezze, energia gioiosa (nella dissociazione).

 

Dice il Tao Tê Ching (x): «Preserva l’Uno dimorando nelle due anime: sei capace di non farle separare?».

Anche nel cammino spirituale, Gesù si guarda bene dal proporre un universalismo dettato o pianificato, come se il suo fosse un modello ideale, «allo scopo di omogeneizzare» [Fratelli Tutti n.100].

Il tipo di Comunione che il Signore ci propone non mira a «un’uniformità unidimensionale che cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità».

Perché «il futuro non è “monocromatico” ma se ne abbiamo il coraggio è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» [da un Discorso ai giovani in Tokyo, novembre 2019].

 

Sebbene la pietà e la speranza dei rappresentanti della religiosità ufficiale fosse fondata su una struttura di sicurezze umane, etniche, culturali e una visione del Mistero consolidati da una grande tradizione, Gesù sgretola tutte le prevedibilità.

Nel Figlio, Dio viene rivelato non più come proprietà esclusiva, bensì Potenza d’Amore che perdona gli emarginati e smarriti: salva e crea, liberando. E mediante i discepoli dispiega il suo Volto che recupera, abbatte le barriere consuete, chiama moltitudini misere.

Sembra un’utopia impossibile da realizzare nel concreto (oggi della crisi sanitaria e globale) ma è il senso del passaggio di consegne alla Chiesa, chiamata a farsi incessante pungolo d’Infinito e fermento d’un mondo alternativo, per lo sviluppo umano integrale:

«Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» [FT n.8].

 

Attraverso una domanda assurda (formulata in modo retorico) Gesù vuole destare la coscienza dei “giusti”: c’è una controparte di noi che suppone di sé, molto pericolosa, perché porta all’esclusione, all’abbandono.

Invece l’Amore inesauribile cerca. E trova l’imperfetto e irrequieto.

La palude di energia stagnante che si genera accentuando i confini non fa crescere nessuno: blocca nelle solite posizioni e lascia che ciascuno si arrangi o si perda. Per disinteresse interessato - che impoverisce tutti.

Tutto ciò faceva cadere le virtù creative nella disperazione.

Fa cadere nella disperazione chi è fuori del giro degli eletti - anteposti che non avevano nulla di superiore. Infatti gli evangelisti li tratteggiano del tutto incapaci di trasalire di gioia umana per il progresso altrui.

Calcolatori, recitanti e conformi - i dirigenti fondamentalisti o troppo sofisticati e disincarnati usano la religione come un’arma.

Invece Dio è agli antipodi degli sterilizzati finti - o del pensiero disincarnato - e alla ricerca di colui che vaga malfermo, facilmente si disorienta, smarrisce la strada. 

Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino. Per questo motivo il Padre è alla ricerca dell’insufficiente.

La persona così limpida e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro i lati apparentemente detestabili. Forse ch’egli stesso non apprezza.

Questo il principio di Redenzione che sbalordisce e rende interessante i nostri percorsi spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore” - nella Fede generando però autostima, credito, pienezza e gioia.

 

L’impegno del purificatore e l’impeto del riformatore sono “mestieri” che in apparenza si contrappongono, ma facili facili… e tipici di chi pensa che le cose da contestare e cambiare siano sempre fuori di sé.

Ad esempio nei meccanismi, nelle regole generali, nell’assetto giuridico, nelle visioni del mondo, negli aspetti formali (o istrionici) invece che nell’artigianato del bene particolare concreto; così via.

Sembrano scuse per non guardarsi dentro e mettersi in gioco, per non incontrare i propri stati profondi in tutti i versanti e non solo nelle linee guida. E recuperare o rallegrare individui concretamente smarriti, tristi, in tutti i lati oscuri e difficili.

Ma Dio è agli antipodi degli sterilizzati di maniera o degli idealisti finti, e alla ricerca dell’insufficiente: colui che vaga e smarrisce la strada. Peccatore eppure vero, quindi più disposto all’Amore genuino.

La persona trasparente e spontanea - anche se debole - cela la sua parte migliore e ricchezza vocazionale proprio dietro gli aspetti apparentemente detestabili (forse ch’egli stesso non apprezza).

Chiediamo allora soluzione alle nuove energie interpersonali misteriose, imprevedibili, che entrano in gioco; da dentro le cose.

Senza interferire con idee di passato o di futuro che non vediamo, ovvero opponendosi ad esse. Piuttosto possedendone l’anima, il suo farmaco spontaneo.

Questo il principio della Salvezza che sbalordisce e rende interessanti i nostri percorsi [spesso distratti, condotti a fiuto, come “a tentativo ed errore”] - generando infine autostima, credito e gioia.

 

L’idea che l’Altissimo sia un notaio o principe di un foro, e che operi netta distinzione fra giusti e trasgressori, è caricatura.

Del resto, una vita da salvati non è produzione propria, né possesso esclusivo o proprietà privata - che si capovolge in doppiezza.

Non è l’atteggiamento schizzinoso, né quello cerebrale, che unisce a Lui. Il Padre non blandisce amicizie supponenti, né ha interessi esterni.

Egli si rallegra con tutti, ed è il bisogno che lo attira a noi. Quindi non temiamo di farci trovare e lasciarci riportare (cf. Lc 15,5) in Casa sua, che è casa nostra.

Se c’è uno smarrimento, vi sarà un ritrovamento, e questo non è una perdita per nessuno - salvo per gli invidiosi nemici della libertà (v.10).

L’Eterno infatti non si compiace di emarginazioni, né intende spegnere il lucignolo fumigante.

Gesù non viene per puntare il dito sui momenti no, ma per recuperare, facendo leva sul coinvolgimento intimo. Forza invincibile di fedeltà.

Questo lo stile d’una Chiesa dal Cuore Sacro, amabile, elevato e benedetto.

[Ciò che attira a partecipare ed esprimersi è sentirsi capiti, restituiti a dignità piena - non condannati].

Diceva Carlo Carretto: «È sentendosi amato, non criticato, che l’uomo inizia il suo cammino di trasformazione».

 

Come sottolinea ancora l’enciclica Fratelli Tutti:

Gesù - nostro Motore e Motivo - «aveva un cuore aperto, che faceva propri i drammi degli altri» (n.84).

E aggiunge ad esempio della nostra grande Tradizione:

«Le persone possono sviluppare alcuni atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà, laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti [...] bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un dinamismo di apertura e di unione [...] Altrimenti avremo solo apparenza».

«San Bonaventura spiegava che le altre virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti come Dio li intende» (n.91).

 

Nelle sètte o nei gruppi d’ispirazione unilaterale, per emarginazione saccente le ricchezze umane e spirituali vengono depositate in luogo appartato, così invecchiano e sviliscono.

Nelle assemblee dei figli sono invece condivise: si accrescono e comunicano; moltiplicandosi rinverdiscono, con beneficio universale.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ti attira della Chiesa? Nei confronti coi primi della classe, ti senti giudicato o adeguato?

Provi l’Amore che salva, anche se permani incerto?

 

 

Cristologia del Pallio: tutti siamo portati da Cristo

L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza.

[Papa Benedetto, omelia inizio ministero petrino 24 aprile 2005]

Potenza delle carezze. Una è unica

 

Il «lieto annuncio del Natale» è che «viene il Signore con la sua potenza», ma soprattutto che quella potenza «sono le sue carezze», la sua «tenerezza». Una tenerezza che, come il buon pastore con le pecore, è per ognuno di noi: Dio non dimentica mai nessuno di noi, neanche se ci fossimo tragicamente «smarriti» come accadde a Giuda il quale, perso nel suo «buio interiore», è in qualche modo il prototipo, l’«icona» della pecorella della parabola evangelica.

Nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta martedì 6 dicembre, Papa Francesco è entrato nel cuore di questo «lieto annuncio» di fronte al quale, si legge nella liturgia del giorno, siamo chiamati a «sincera esultanza». E «davanti al Natale — ha detto il Pontefice — chiediamo questa grazia di ricevere questo lieto annuncio con sincera esultanza e di rallegrarci», ma anche «di lasciare che il Signore ci consoli». Perché, si è chiesto, nella liturgia si parla anche di consolazione? Perché, è stata la sua risposta, «viene il Signore e quando viene il Signore tocca l’anima con questi sentimenti». Infatti «lui viene come un giudice, sì, ma un giudice che carezza, un giudice che è pieno di tenerezza» e «fa di tutto per salvarci». Dio, ha continuato, «giudica con amore, tanto, tanto, tanto che ha inviato suo figlio, e Giovanni sottolinea: non a giudicare ma a salvare, non a condannare ma a salvare». Perciò «sempre il giudizio di Dio ci porta a questa speranza di essere salvati».

Andando più in profondità nella meditazione, il Papa ha preso come riferimento il vangelo del giorno, nel quale Matteo (18, 12-14) parla del buon pastore. Questo giudice «che carezza» e che viene «a salvare», ha detto Francesco, ha «l’atteggiamento del pastore: “Cosa vi pare? Se una delle sue pecore si smarrisce, non lascerà le 99 sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita?”». Anche il Signore, quando viene, «non dice: “Ma, faccio i conti e ne perdo una, 99... è ragionevole...”. No, no. Una è unica». Il pastore infatti, non possiede semplicemente 99 pecore, ma ne «ha una, una, una, una, una...»: cioè «ognuna è diversa». Ed egli «ama ognuna personalmente. Non ama la massa indistinta. No! Ci ama per nome, ci ama come siamo».

Seguendo il filo dell’analogia, il Pontefice ha spiegato che quella pecora smarrita il pastore «la conosceva bene», non si era persa, «conosceva bene il cammino»: si era persa «perché aveva il cuore smarrito, aveva il cuore malato. Era accecata da qualcosa interiore e, mossa da quella dissociazione interiore, fuggì al buio per sfogarsi». Ma «non era una ragazzata quella che ha fatto lei... È scappata: una fuga proprio per allontanarsi dal Signore, per saziare quel buio interiore che la portava alla doppia vita», a «essere nel gregge e scappare dal buio, nel buio». Ed ecco il messaggio consolatorio: «Il Signore conosce queste cose e lui va a cercarla».

È a questo punto che Papa Francesco ha introdotto un altro elemento nella sua meditazione: «Per me, la figura che più mi fa capire l’atteggiamento del Signore con la pecora smarrita è l’atteggiamento del Signore con Giuda. La pecora smarrita più perfetta nel Vangelo è Giuda». Egli infatti, ha ricordato il Pontefice, è «un uomo che sempre, sempre aveva qualcosa di amarezza nel cuore, qualcosa da criticare degli altri, sempre in distacco»: un uomo che non conosceva «la dolcezza della gratuità di vivere con tutti gli altri». E giacché questa “pecora” «non era soddisfatta», allora «scappava».

Giuda, ha detto il Papa, «scappava perché era ladro», altri «sono lussuriosi» e ugualmente «scappano perché c’è quel buio nel cuore che li distacca dal gregge». Siamo di fronte a «quella doppia vita» che è «di tanti cristiani» e anche — ha aggiunto «con dolore» — di «preti» e «vescovi». Del resto, anche «Giuda era vescovo, era uno dei primi vescovi...».

Quindi anche Giuda è una «pecora smarrita» ha concluso Francesco aggiungendo: «Poveretto! Poveretto questo fratello Giuda come lo chiamava don Mazzolari, in quel sermone tanto bello: “Fratello Giuda, cosa succede nel tuo cuore?”».

Si tratta di una realtà alla quale anche i cristiani di oggi non sono estranei. Perciò «anche noi dobbiamo capire le pecore smarrite». Infatti, ha sottolineato il Papa, «anche noi abbiamo sempre qualcosina, piccolina o non tanto piccolina, delle pecore smarrite». Dobbiamo quindi capire che «non è uno sbaglio quello che ha fatto la pecora smarrita: è una malattia, è una malattia che aveva nel cuore» e di cui il diavolo approfitta. Riprendendo il paragone usato in precedenza, il Pontefice ha ripercorso gli ultimi momenti della vita di Giuda: «quando è andato al tempio a fare la doppia vita», quando ha dato «il bacio al Signore all’orto», e poi «le monete che ha ricevuto dai sacerdoti...». E ha commentato: «non è uno sbaglio. Lo ha fatto... Era nel buio! Aveva il cuore diviso, dissociato. “Giuda, Giuda...». Perciò si può dire che egli «è l’icona della pecora smarrita».

Gesù, «il pastore, va a cercarlo: “Fa’ quello che devi fare, amico”, e lo bacia». Ma Giuda «non capisce». E alla fine, quando si rende conto di «quello che la propria doppia vita ha fatto nella comunità, il male che ha seminato, col suo buio interiore, che lo portava a scappare sempre, cercando luci che non erano la luce del Signore» ma «luci artificiali», come quelle degli «addobbi di Natale», quando capisce tutto questo, alla fine «si è disperato». Ed è quello che accade «se le pecore smarrite non accettano le carezze del Signore».

Ma c’è ancora un ulteriore livello di profondità al quale è scesa la riflessione del Papa. Il quale, facendo notare che «il Signore è buono, anche per queste pecore» e non smette mai di andare a cercarle», ha evidenziato una parola che ritroviamo nella Bibbia, «una parola che dice che Giuda si è impiccato, impiccato e “pentito”». E ha commentato: «Io credo che il Signore prenderà quella parola e la porterà con sé, non so, può darsi, ma quella parola ci fa dubitare». Soprattutto ha sottolineato: «Ma quella parola cosa significa? Che fino alla fine l’amore di Dio lavorava in quell’anima, fino al momento della disperazione». Ed è proprio questo, ha detto chiudendo il cerchio della sua riflessione, «l’atteggiamento del buon pastore con le pecore smarrite».

Ecco allora «l’annuncio» di cui si parlava all’inizio dell’omelia, «il lieto annuncio che ci porta il Natale e che ci chiede questa sincera esultanza che cambia il cuore, che ci porta a lasciarci consolare dal Signore e non dalle consolazioni che noi andiamo a cercare per sfogarci, per fuggire dalla realtà, fuggire dalla tortura interiore, dalla divisione interiore». Il «lieto annuncio», la «sincera esultanza», la «consolazione», il «rallegrarsi nel Signore» scaturiscono dal fatto che «viene il Signore con la sua potenza. E quale è la potenza del Signore? Le carezze del Signore!». È come il buon pastore che «quando ha trovato la pecora smarrita non l’ha insultata, no», anzi, le avrà detto: «Ma hai fatto tanto male? Vieni, vieni...». E allo stesso modo, «nell’orto degli ulivi» cosa ha detto alla “pecora smarrita”, Giuda? Lo ha chiamato «amico. Sempre le carezze».

Di fronte a tutto ciò il Papa a questo punto ha affermato: «Chi non conosce le carezze del Signore non conosce la dottrina cristiana. Chi non si lascia carezzare dal Signore è perduto». Ed è proprio «questo il lieto annuncio, questa è la sincera esultanza che noi oggi vogliamo. Questa è la gioia, questa è la consolazione che cerchiamo: che venga il Signore con la sua potenza, che sono le carezze, a trovarci, a salvarci, come la pecora smarrita e a portarci nel gregge della sua Chiesa».

La conclusione è stata, come di consueto, una preghiera: «Che il Signore ci dia questa grazia, di aspettare il Natale con le nostre ferite, con i nostri peccati, sinceramente riconosciuti, di aspettare la potenza di questo Dio che viene a consolarci, che viene con potere, ma il suo potere è la tenerezza, le carezze che sono nate dal suo cuore, il suo cuore tanto buono che ha dato la vita per noi».

 

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 07/12/2016]

L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi – Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l’un l’altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo. La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza.

[Papa Benedetto, omelia inizio ministero petrino 24 aprile 2005]

Già l’Antico Testamento parla comunemente di Dio come Pastore di Israele, del popolo dell’alleanza, da lui scelto per realizzare il progetto della salvezza. Il Salmo 22 è un inno meraviglioso al Signore, Pastore delle nostre anime: “Il Signore è il mio Pastore; non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce; mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino... Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me...” (Sal 23,1-3).

I profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele ritornano sovente sul tema del popolo “gregge del Signore”: “Ecco il vostro Dio!... Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna...” (Is 40,11) e soprattutto annunciano il Messia come Pastore che pascerà veramente le sue pecore e non le lascerà più sbandare: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore...” (Ez 34,23).

Nel Vangelo è familiare questa dolce e commovente figura del pastore, la quale anche se i tempi sono cambiati a causa dell’industrializzazione e dell’urbanesimo, mantiene sempre il suo fascino e la sua efficacia; e tutti ricordiamo la parabola tanto toccante e suggestiva del Buon Pastore che va in cerca della pecorella smarrita (Lc 15,3-7).

Nei primi tempi della Chiesa poi l’iconografia cristiana si servì grandemente e sviluppò questo tema del Buon Pastore la cui immagine appare spesso, dipinta o scolpita, nelle Catacombe, nei sarcofagi, nei battisteri. Tale iconografia, così interessante e devota, ci attesta che, fin dai primi tempi della Chiesa, Gesù “Buon Pastore” colpì e commosse gli animi dei credenti e dei non credenti e fu motivo di conversione, di impegno spirituale e di conforto. Ebbene, Gesù “Buon Pastore” è vivo e vero ancora oggi in mezzo a noi, in mezzo all’umanità intera, e a ciascuno vuol far sentire la sua voce e il suo amore.

1. Che cosa significa essere il Buon Pastore?

Gesù ce lo spiega con chiarezza convincente:

– il pastore conosce le sue pecore e le pecore conoscono lui: come è bello e consolante sapere che Gesù ci conosce uno per uno, che non siamo degli anonimi per lui, che il nostro nome (quel nome che è concordato dall’amore dei genitori e degli amici) lui lo conosce! Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20).

[…]

(Papa Giovanni Paolo II, omelia 6 maggio 1979)

Conosciamo tutti l’immagine del Buon Pastore che si carica sulle spalle la pecorella smarrita. Da sempre questa icona rappresenta la sollecitudine di Gesù verso i peccatori e la misericordia di Dio che non si rassegna a perdere alcuno. La parabola viene raccontata da Gesù per far comprendere che la sua vicinanza ai peccatori non deve scandalizzare, ma al contrario provocare in tutti una seria riflessione su come viviamo la nostra fede. Il racconto vede da una parte i peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo e dall’altra parte i dottori della legge, gli scribi sospettosi che si discostano da Lui per questo suo comportamento. Si discostano perchè Gesù si avvicinava ai peccatori. Questi erano orgogliosi, erano superbi, si credevano giusti.

La nostra parabola si snoda intorno a tre personaggi: il pastore, la pecora smarrita e il resto del gregge. Chi agisce però è solo il pastore, non le pecore. Il pastore quindi è l’unico vero protagonista e tutto dipende da lui. Una domanda introduce la parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (v. 4). Si tratta di un paradosso che induce a dubitare dell’agire del pastore: è saggio abbandonare le novantanove per una pecora sola? E per di più non al sicuro di un ovile ma nel deserto? Secondo la tradizione biblica il deserto è luogo di morte dove è difficile trovare cibo e acqua, senza riparo e in balia delle fiere e dei ladri. Cosa possono fare novantanove pecore indifese? Il paradosso comunque continua dicendo che il pastore, ritrovata la pecora, «se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: Rallegratevi con me» (v. 6). Sembra quindi che il pastore non torni nel deserto a recuperare tutto il gregge! Proteso verso quell’unica pecora sembra dimenticare le altre novantanove. Ma in realtà non è così. L’insegnamento che Gesù vuole darci è piuttosto che nessuna pecora può andare perduta. Il Signore non può rassegnarsi al fatto che anche una sola persona possa perdersi. L’agire di Dio è quello di chi va in cerca dei figli perduti per poi fare festa e gioire con tutti per il loro ritrovamento. Si tratta di un desiderio irrefrenabile: neppure novantanove pecore possono fermare il pastore e tenerlo chiuso nell’ovile. Lui potrebbe ragionare così: “Faccio il bilancio: ne ho novantanove, ne ho persa una, ma non è una grande perdita”. Lui invece va a cercare quella, perchè ognuna è molto importante per lui e quella è la più bisognosa, la più abbandonata, la più scartata; e lui va a cercarla. Siamo tutti avvisati: la misericordia verso i peccatori è lo stile con cui agisce Dio e a tale misericordia Egli è assolutamente fedele: nulla e nessuno potrà distoglierlo dalla sua volontà di salvezza. Dio non conosce la nostra attuale cultura dello scarto, in Dio questo non c’entra. Dio non scarta nessuna persona; Dio ama tutti, cerca tutti: uno per uno! Lui non conosce questa parola “scartare la gente”, perchè è tutto amore e tutta misericordia.

Il gregge del Signore è sempre in cammino: non possiede il Signore, non può illudersi di imprigionarlo nei nostri schemi e nelle nostre strategie. Il pastore sarà trovato là dove è la pecora perduta. Il Signore quindi va cercato là dove Lui vuole incontrarci, non dove noi pretendiamo di trovarlo! In nessun altro modo si potrà ricomporre il gregge se non seguendo la via tracciata dalla misericordia del pastore. Mentre ricerca la pecora perduta, egli provoca le novantanove perché partecipino alla riunificazione del gregge. Allora non solo la pecora portata sulle spalle, ma tutto il gregge seguirà il pastore fino alla sua casa per far festa con “amici e vicini”.

Dovremmo riflettere spesso su questa parabola, perché nella comunità cristiana c’è sempre qualcuno che manca e se ne è andato lasciando il posto vuoto. A volte questo è scoraggiante e ci porta a credere che sia una perdita inevitabile, una malattia senza rimedio. E’ allora che corriamo il pericolo di rinchiuderci dentro un ovile, dove non ci sarà l’odore delle pecore, ma puzza di chiuso! E i cristiani? Non dobbiamo essere chiusi, perchè avremo la puzza delle cose chiuse. Mai! Bisogna uscire e non chiudersi in sè stessi, nelle piccole comunità, nella parrocchia, ritenendosi “i giusti”. Questo succede quando manca lo slancio missionario che ci porta ad incontrare gli altri. Nella visione di Gesù non ci sono pecore definitivamente perdute, ma solo pecore che vanno ritrovate. Questo dobbiamo capirlo bene: per Dio nessuno è definitivamente perduto. Mai! Fino all’ultimo momento, Dio ci cerca. Pensate al buon ladrone; ma solo nella visione di Gesù nessuno è definitivamente perduto. La prospettiva pertanto è tutta dinamica, aperta, stimolante e creativa. Ci spinge ad uscire in ricerca per intraprendere un cammino di fraternità. Nessuna distanza può tenere lontano il pastore; e nessun gregge può rinunciare a un fratello. Trovare chi si è perduto è la gioia del pastore e di Dio, ma è anche la gioia di tutto il gregge! Siamo tutti noi pecore ritrovate e raccolte dalla misericordia del Signore, chiamati a raccogliere insieme a Lui tutto il gregge!

[Papa Francesco, Udienza Generale 4 maggio 2016]

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Experts in the Holy Scriptures believed that Elijah's return should anticipate and prepare for the advent of the Kingdom of God. Since the Lord was present, the first disciples wondered what the value of that teaching was. Among the people coming from Judaism the question arose about the value of ancient doctrines…
Gli esperti delle sacre Scritture ritenevano che il ritorno di Elia dovesse anticipare e preparare l’avvento del Regno di Dio. Poiché il Signore era presente, i primi discepoli si chiedevano quale fosse il valore di quell’insegnamento. Tra i provenienti dal giudaismo sorgeva il quesito circa il peso delle dottrine antiche...
Gospels make their way, advance and free, making us understand the enormous difference between any creed and the proposal of Jesus. Even within us, the life of Faith embraces all our sides and admits many things. Thus we become more complete and emancipate ourselves, reversing positions.
I Vangeli si fanno largo, avanzano e liberano, facendo comprendere l’enorme differenza tra credo qualsiasi e proposta di Gesù. Anche dentro di noi, la vita di Fede abbraccia tutti i nostri lati e ammette tante cose. Così diventiamo più completi e ci emancipiamo, ribaltando posizioni
We cannot draw energy from a severe setting, contrary to the flowering of our precious uniqueness. New eyes are transmitted only by the one who is Friend. And Christ does it not when we are well placed or when we equip ourselves strongly - remaining in a managerial attitude - but in total listening
Non possiamo trarre energia da un’impostazione severa, contraria alla fioritura della nostra preziosa unicità. Gli occhi nuovi sono trasmessi solo da colui che è Amico. E Cristo lo fa non quando ci collochiamo bene o attrezziamo forte - permanendo in atteggiamento dirigista - bensì nell’ascolto totale
The Evangelists Matthew and Luke (cf. Mt 11:25-30 and Lk 10:21-22) have handed down to us a “jewel” of Jesus’ prayer that is often called the Cry of Exultation or the Cry of Messianic Exultation. It is a prayer of thanksgiving and praise [Pope Benedict]
Gli evangelisti Matteo e Luca (cfr Mt 11,25-30 e Lc 10,21-22) ci hanno tramandato un «gioiello» della preghiera di Gesù, che spesso viene chiamato Inno di giubilo o Inno di giubilo messianico. Si tratta di una preghiera di riconoscenza e di lode [Papa Benedetto]
The human race – every one of us – is the sheep lost in the desert which no longer knows the way. The Son of God will not let this happen; he cannot abandon humanity in so wretched a condition. He leaps to his feet and abandons the glory of heaven, in order to go in search of the sheep and pursue it, all the way to the Cross. He takes it upon his shoulders and carries our humanity (Pope Benedict)
L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità (Papa Benedetto)
"Too bad! What a pity!" “Sin! What a shame!” - it is said of a missed opportunity: it is the bending of the unicum that we are inside, which every day surrenders its exceptionality to the normalizing and prim outline of common opinion. Divine Appeal of every moment directed Mary's dreams and her innate knowledge - antechamber of her trust, elsewhere
“Peccato!” - si dice di una occasione persa: è la flessione dell’unicum che siamo dentro, che tutti i giorni cede la sua eccezionalità al contorno normalizzante e affettato dell’opinione comune

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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