Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Il discorso parabolico di Gesù, che raggruppa sette parabole nel capitolo tredicesimo del Vangelo di Matteo, si conclude con le tre similitudini odierne: il tesoro nascosto (v. 44), la perla preziosa (v. 45-46) e la rete da pesca (v. 47-48). Mi soffermo sulle prime due che sottolineano la decisione dei protagonisti di vendere ogni cosa per ottenere quello che hanno scoperto. Nel primo caso si tratta di un contadino che casualmente si imbatte in un tesoro nascosto nel campo dove sta lavorando. Non essendo il campo di sua proprietà deve acquistarlo se vuole entrare in possesso del tesoro: quindi decide di mettere a rischio tutti i suoi averi per non perdere quella occasione davvero eccezionale. Nel secondo caso troviamo un mercante di perle preziose; egli, da esperto conoscitore, ha individuato una perla di grande valore. Anche lui decide di puntare tutto su quella perla, al punto da vendere tutte le altre.
Queste similitudini mettono in evidenza due caratteristiche riguardanti il possesso del Regno di Dio: la ricerca e il sacrificio. È vero che il Regno di Dio è offerto a tutti - è un dono, è un regalo, è grazia - ma non è messo a disposizione su un piatto d’argento, richiede un dinamismo: si tratta di cercare, camminare, darsi da fare. L’atteggiamento della ricerca è la condizione essenziale per trovare; bisogna che il cuore bruci dal desiderio di raggiungere il bene prezioso, cioè il Regno di Dio che si fa presente nella persona di Gesù. È Lui il tesoro nascosto, è Lui la perla di grande valore. Egli è la scoperta fondamentale, che può dare una svolta decisiva alla nostra vita, riempiendola di significato.
Di fronte alla scoperta inaspettata, tanto il contadino quanto il mercante si rendono conto di avere davanti un’occasione unica da non lasciarsi sfuggire, pertanto vendono tutto quello che possiedono. La valutazione del valore inestimabile del tesoro, porta a una decisione che implica anche sacrificio, distacchi e rinunce. Quando il tesoro e la perla sono stati scoperti, quando cioè abbiamo trovato il Signore, occorre non lasciare sterile questa scoperta, ma sacrificare ad essa ogni altra cosa. Non si tratta di disprezzare il resto, ma di subordinarlo a Gesù, ponendo Lui al primo posto. La grazia al primo posto. Il discepolo di Cristo non è uno che si è privato di qualcosa di essenziale; è uno che ha trovato molto di più: ha trovato la gioia piena che solo il Signore può donare. È la gioia evangelica dei malati guariti; dei peccatori perdonati; del ladrone a cui si apre la porta del paradiso.
La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia (cfr Evangelii Gaudium, n. 1). Oggi siamo esortati a contemplare la gioia del contadino e del mercante delle parabole. È la gioia di ognuno di noi quando scopriamo la vicinanza e la presenza consolante di Gesù nella nostra vita. Una presenza che trasforma il cuore e ci apre alle necessità e all’accoglienza dei fratelli, specialmente quelli più deboli.
Preghiamo, per intercessione della Vergine Maria, perché ciascuno di noi sappia testimoniare, con le parole e i gesti quotidiani, la gioia di avere trovato il tesoro del Regno di Dio, cioè l’amore che il Padre ci ha donato mediante Gesù.
[Papa Francesco, Angelus 30 luglio 2017]
Il Signore della Vita (o il segno pallido)
Gv 11,19-27 (1-45)
L’evento della morte sconcerta, e quella di un amico di Dio in comunità [Betania] forse accentua gli interrogativi sul senso del nostro credere e impegnarci a fondo.
Per quale motivo nel momento del massimo bisogno, il Signore lascia che cadiamo? Perché sembra non esserci (v.21)?
Lasciando morire anche i suoi più cari amici, Gesù ci educa: non è sua intenzione procrastinare l’esistenza biologica (vv.14-15), né semplicemente migliorarla un pochino.
Eterna [nei Vangeli, la stessa Vita dell’Eterno: Zoè aiònios] non è questa forma di vita [nei Vangeli: Bìos - magari potenziata] bensì solo i suoi tempi dell’amore forte.
Il Mondo Definitivo non interferisce con il decorso naturale.
Per questo motivo il Signore non entra nel “villaggio” dove altri sono andati a consolare e fare le condoglianze.
Vuole che Maria esca dalla casa dove tutti piangono disperati e porgono cordoglio funebre - come se tutto fosse finito.
Intende tirarci fuori dal “piccolo borgo” dove si crede che la fine terrena possa essere insensatamente solo dilazionata, fino al sepolcro senza futuro.
La naturale commozione per il distacco non trattiene le lacrime, che spontaneamente «scorrono dagli occhi, scivolano giù» [dakryein-edakrysen].
L’emozione non produce un pianto scomposto e urlato [klaiein] come quello inconsolabile dei giudei [vv.33.35 testo greco; la traduzione italiana fa confusione].
Nessun commiato. Per questo motivo, segue l’ordine di togliere la pietra che a quel tempo chiudeva le tombe (v.39).
Il forte richiamo è assolutamente imperativo: i ‘defunti’ non sono ‘morti’, come credono le religioni antiche; la loro vita prosegue.
«Lazzaro, qui fuori!» [v.43 testo greco]: è il grido della vittoria della vita.
Nell’avventura di Fede in Cristo scopriamo che la vita non ha pietre sopra. Basta, piangere le situazioni mortifere, e i “morti”!
L’appello che il Signore fa è che non esiste un mondo di scomparsi, ben separati da noi; a se stante, privo di comunicazione con l’attuale.
Le credenze arcaiche immaginavano infatti che l’Ade o lo Sheôl fosse una grotta buia, intrisa di nebbia, qua e là popolata di larve inconsistenti e vaganti.
Il mondo dei vivi non è separato da quello dei defunti.
«Lazzaro si è addormentato» (v.11), ossia: non è un decaduto, perché gli uomini non muoiono. Essi passano dalla vita creaturale [bìos] alla Vita piena [Zoè].
Il defunto ha lasciato questo mondo ed è entrato nel mondo di Dio, ri-Nato e generato al suo essere autentico, completo, definitivo.
Quindi: «Scioglietelo e lasciatelo andare!».
Insomma, Lazzaro non è semplicemente finito nella fossa, né ben rianimato da Cristo egli si ripresenta in questa forma di vita per un altro tratto… inesorabilmente segnato dal limite.
Nel racconto, infatti, mentre tutti vanno verso Gesù, Lazzaro no.
Non è questo ciò che Gesù può fare di fronte alla morte. Egli non immortala questa condizione, altrimenti l’esistenza continuerebbe ad essere un’inutile fuga dall’appuntamento decisivo.
Ed è ora di finirla di piangere la persona cara: «defunta», non ‘morta’.
Non dobbiamo trattenerla con visite ossessive, memorie tormentate, talismani, condoglianze: lasciamo che esista felice nella sua nuova condizione!
Vita per noi e Vita per coloro che sono già fioriti nel mondo della Pace di Dio - dove si vive appieno: gli uni con gli altri e gli uni per gli altri.
[Ss. Marta, Maria e Lazzaro, 29 luglio]
Il Signore della Vita (o il segno pallido)
(Gv 11,1-45)
Gv 9,1-41 [il celebre passo del Nato Cieco] ci fa riflettere sul segno dell’apertura degli occhi.
Persino nei perdenti, può esserci crescita nella consapevolezza della dignità e vocazione personale per Fede.
Rimane un interrogativo: una Luce, se donata a tempo... forse non serve granché.
Cristo ci trasmette una coscienza colma di percezioni e capace d’intrapresa sapienziale, spirituale, missionaria - ma esiste una Meta finale o tutto si conclude qui?
Se dobbiamo cavarcela da soli, che senso hanno le Promesse bibliche?
Come mai sentiamo desideri di Pienezza, poi il tuffo nel nulla?
Dov’è l’Amore e l’onnipotenza di Dio? E il Risorto, vita dell’Eterno presente fra noi? La sua stessa vita non ci è stata già donata?
L’evento della morte sconcerta, e quella di un amico di Dio in comunità [Betania] forse accentua gli interrogativi sul senso del nostro credere e impegnarci a fondo.
Per quale motivo nel momento del massimo bisogno, il Signore lascia che cadiamo? Perché sembra non esserci (v.21)?
Tuttavia comprendiamo che riuscire a portare avanti un’interminabile vecchiaia non sarebbe una vittoria sulla morte.
La credenza delle antiche culture è che quando gli dèi formarono l'umanità le attribuirono morte, e trattennero per sé la vita.
Chiunque fosse andato alla disperata ricerca della mitica erba che rende giovane il vecchio doveva rassegnarsi: morire significava partire per un paese senza ritorno.
Lasciando perire anche i suoi più cari amici, Gesù ci educa: non è sua intenzione procrastinare l’esistenza biologica (vv.14-15), né semplicemente migliorarla un pochino.
Cristo non è un ‘medico’ che viene a dilazionare l’appuntamento con la morte, bensì Colui che vince la morte - perché la trasforma in una Nascita.
Del resto, una vita davvero autentica, umana e umanizzante, ha necessità di guardare in faccia la nostra condizione.
Salute e vita fisica sono doni che ognuno vuol prolungare, ma che al termine devono essere consegnati, nell’Approdo che non scalfisce più.
Eterna [nei Vangeli, la stessa Vita dell’Eterno: Zoè aiònios] non è questa forma di vita [nei Vangeli: Bìos - magari potenziata] bensì solo i suoi tempi dell’amore forte.
Questa l’autenticità della grazia da chiedere e sviluppare. Perennità cui porgere risposta, condizione unica che non ci dà scacco.
Il Mondo Definitivo non interferisce con il decorso naturale, sebbene esso possa già manifestarsi - nella realtà intima e di coesistenza poliedrica.
Ma tale esperienza superiore [di Alleanza anche coi disagi] si annida unicamente in ciò che è qualità indistruttibile; personale, e nelle micro e macro relazioni.
In particolare, la Comunione: unico segno della forma di Vita che si prende carico ma non vacilla, non ha limiti, e non avrà fine.
Per questo motivo il Signore non entra nel “villaggio” dove altri sono andati a consolare e fare le condoglianze.
Vuole che Maria esca dalla casa dove tutti piangono disperati e porgono cordoglio funebre - come se tutto fosse finito.
Intende tirarci fuori dal “piccolo borgo” dove si crede che la fine terrena possa essere insensatamente solo dilazionata, fino al sepolcro senza futuro.
Ci vuole decisamente fuori dal paesotto dove tutti sono in lutto e restano con la finta consolazione delle pratiche esequiali, ‘sollievo’ condito solo di belle frasette.
La naturale commozione per il distacco non trattiene le lacrime, che spontaneamente «scorrono dagli occhi, scivolano giù» [dakryein-edakrysen].
L’emozione non produce un pianto scomposto e urlato [klaiein] come quello inconsolabile dei giudei [vv.33.35 testo greco; la traduzione italiana fa confusione].
Nessun commiato. Per questo motivo, segue l’ordine di togliere la pietra che a quel tempo chiudeva le tombe (v.39).
Il forte richiamo è assolutamente imperativo: i ‘defunti’ non sono ‘morti’, come credono le religioni antiche; la loro vita prosegue.
«Lazzaro, qui fuori!» [v.43 testo greco]: è il grido della vittoria della vita.
Nell’avventura di Fede in Cristo scopriamo che la vita non ha pietre sopra.
Basta, gemere per situazioni mortifere. Esse ci accostano alle nostre radici, e alla fioritura piena.
E smettiamo di piangere i “morti”!
L’appello che il Signore fa oggi - ancora dopo due millenni! - è che non esiste un mondo inabissato di scomparsi.
Rispetto all’andare sulla terra, i passati a miglior vita non sono ben separati da noi; in luogo a se stante, privo di comunicazione con l’attuale.
Le credenze arcaiche immaginavano infatti che l’Ade o lo Sheôl fosse una grotta buia, intrisa di nebbia, qua e là popolata di larve inconsistenti e vaganti.
Il mondo dei vivi non è separato da quello dei defunti.
«Lazzaro si è addormentato» (v.11), ossia: non è un decaduto, perché gli uomini non muoiono. Essi passano dalla vita creaturale [bìos] alla Vita piena [Zoè].
Il defunto ha lasciato questo mondo ed è entrato nel mondo di Dio, ri-Nato e generato al suo essere autentico, completo, definitivo.
Quindi: «Scioglietelo e lasciatelo andare!».
Insomma, Lazzaro non è semplicemente finito nella fossa, né ben rianimato da Cristo egli si ripresenta in questa forma di vita per un altro tratto… inesorabilmente segnato dal limite.
Nel racconto, infatti, mentre tutti vanno verso Gesù, Lazzaro no.
Non è questo ciò che Gesù può fare di fronte alla morte. Egli non immortala questa condizione, altrimenti l’esistenza continuerebbe ad essere un’inutile fuga dall’appuntamento decisivo.
Ed è ora di finirla di singhiozzare la persona cara: «defunta», non ‘morta’.
Non dobbiamo trattenerla con visite ossessive, memorie tormentate, talismani, condoglianze: lasciamo che esista felice nella sua nuova condizione!
Vita per noi e Vita per coloro che sono già fioriti nel mondo della Pace di Dio - dove si vive appieno: gli uni con gli altri e gli uni per gli altri.
Condizione che in tal guisa possiamo prefigurare, sciogliendo non pochi blocchi intimi, impedimenti esterni, e lacci relazionali; annegati negli umori dell’amarezza, della costernazione, dell’abbattimento:
«Anche oggi Gesù ci ripete: “Togliete la pietra”. Dio non ci ha creati per la tomba, ci ha creati per la vita, bella, buona, gioiosa.
Dunque, siamo chiamati a togliere le pietre di tutto ciò che sa di morte: ad esempio, l’ipocrisia con cui si vive la fede, è morte; la critica distruttiva verso gli altri, è morte; l’offesa, la calunnia, è morte; l’emarginazione del povero, è morte.
Il Signore ci chiede di togliere queste pietre dal cuore, e la vita allora fiorirà ancora intorno a noi.
Cristo vive, e chi lo accoglie e aderisce a Lui entra in contatto con la vita. Senza Cristo, o al di fuori di Cristo, non solo non è presente la vita, ma si ricade nella morte.
Ognuno di noi sia vicino a quanti sono nella prova, diventando per essi un riflesso dell’amore e della tenerezza di Dio, che libera dalla morte e fa vincere la vita».
[Papa Francesco, Angelus 29 marzo 2020]
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Di fronte a un lutto, che atmosfera percepisci in casa, in chiesa, al cimitero, durante le esequie? E le condoglianze, che effetto ti fanno?
Su Betania [prosieguo del passo di Lazzaro]:
Gesù Viene alla Festa, ma da clandestino
(Gv 11,45-56)
Cristo è tutto quello che le feste ebraiche avevano promesso e proclamato.
Esse decifravano autorevolmente, ma in modo incosciente (i vv.47-52 si compiacciono di parole a doppio senso).
Il sommo sacerdote parlava infatti in nome di Dio: interpretava la situazione in modo divinamente ispirato.
In Cristo ci si avviava alla realizzazione della promessa fatta ad Abramo: si chiudeva l’epoca della dispersione degli uomini.
La Croce avrebbe realizzato la vocazione del Tempio: la ricomposizione del popolo e l’unità dell’essere umano dalla terra arida e lontana, nella condivisione e gratuità.
Ma quale poteva essere anche per Gesù il punto di partenza (energetico) per non ritirarsi dentro i limiti del proprio ambiente fin nei dettagli, e attivare un cammino di rinascita?
La comunità di Betania [«casa dei poveri»] è immagine delle prime realtà di fede, indigenti e composte di soli fratelli e sorelle, senza autorità cooptate e preposte. A misura di persona.
Dove si potevano sciogliere quei legami che impedivano di andare oltre il già conosciuto. Senza patriarchi dal controllo tarato, ossessivo e vendicativo - dove non ci si guarda.
Nido di relazioni sane, che riusciva a dare un senso anche alle ferite.
È il solo luogo in cui Gesù si trovava a suo agio, ossia l’unica realtà in cui lo possiamo ancora riconoscere vivo e presente in mezzo - anzi, Sorgente di vita per modesti e bisognosi.
Stride nel passo di Vangelo il confronto con la volgare astuzia dei direttori e la dimensione fuori-scala dei luoghi e feste comandate.
Come se lì nessuna linfa scorresse tra Santità di Dio e vita reale delle persone dimesse.
Malgrado il Maestro compisse il bene - come in tutti i regimi, non mancavano i delatori (v.46).
D’altro canto, buona parte degli abitanti di Gerusalemme trovavano nell’indotto delle attività del Tempio il loro sostentamento materiale.
Figuriamoci se i primi della classe si sarebbero lasciati strappare l’osso di bocca, per andare dietro a uno sconosciuto che intendeva soppiantare l’istituzione ufficiale e le posizioni di privilegio con una utopia disadorna.
Il trono dei prìncipi della Casa fraterna era viceversa privo di cuscini, e la coordinatrice della comunità una donna: Marta [«signora»]. Leader a rovescio, servizievole.
Tutt’Altro che difesa reazionaria di posizioni privilegiate e dell’ordine antico... ancora tutte tensioni al ribasso e a “sistemare” secondo catena di comando, che mai ci danno spunti di vita nuova. Situazione vischiosa che l’iniziativa del cammino sinodale tenta finalmente di scardinare.
Sotto Domiziano queste piccole realtà alternative - sebbene premurose verso i piccoli e lontani - dovettero vivere come Gesù: clandestine.
Pagavano l’unità con la croce. Ma rinnovavano la vita dell’impero.
[Quello di Lazzaro è] l’ultimo grande "segno" compiuto da Gesù, dopo il quale i sommi sacerdoti riunirono il Sinedrio e deliberarono di ucciderlo; e decisero di uccidere anche lo stesso Lazzaro, che era la prova vivente della divinità di Cristo, Signore della vita e della morte. In realtà, questa pagina evangelica mostra Gesù quale vero Uomo e vero Dio. Anzitutto l’evangelista insiste sulla sua amicizia con Lazzaro e le sorelle Marta e Maria. Egli sottolinea che a loro "Gesù voleva molto bene" (Gv 11,5), e per questo volle compiere il grande prodigio. "Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo" (Gv 11,11) – così parlò ai discepoli, esprimendo con la metafora del sonno il punto di vista di Dio sulla morte fisica: Dio la vede appunto come un sonno, da cui ci può risvegliare. Gesù ha dimostrato un potere assoluto nei confronti di questa morte: lo si vede quando ridona la vita al giovane figlio della vedova di Nain (cfr Lc 7,11-17) e alla fanciulla di dodici anni (cfr Mc 5,35-43). Proprio di lei disse: "Non è morta, ma dorme" (Mc 5,39), attirandosi la derisione dei presenti. Ma in verità è proprio così: la morte del corpo è un sonno da cui Dio ci può ridestare in qualsiasi momento.
Questa signoria sulla morte non impedì a Gesù di provare sincera com-passione per il dolore del distacco. Vedendo piangere Marta e Maria e quanti erano venuti a consolarle, anche Gesù "si commosse profondamente, si turbò" e infine "scoppiò in pianto" (Gv 11,33.35). Il cuore di Cristo è divino-umano: in Lui Dio e Uomo si sono perfettamente incontrati, senza separazione e senza confusione. Egli è l’immagine, anzi, l’incarnazione del Dio che è amore, misericordia, tenerezza paterna e materna, del Dio che è Vita. Perciò dichiarò solennemente a Marta: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno". E aggiunse: "Credi tu questo?" (Gv 11,25-26). Una domanda che Gesù rivolge ad ognuno di noi; una domanda che certamente ci supera, supera la nostra capacità di comprendere, e ci chiede di affidarci a Lui, come Lui si è affidato al Padre. Esemplare è la risposta di Marta: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo" (Gv 11,27). Sì, o Signore! Anche noi crediamo, malgrado i nostri dubbi e le nostre oscurità; crediamo in Te, perché Tu hai parole di vita eterna; vogliamo credere in Te, che ci doni una speranza affidabile di vita oltre la vita, di vita autentica e piena nel tuo Regno di luce e di pace.
Affidiamo questa preghiera a Maria Santissima. Possa la sua intercessione rafforzare la nostra fede e la nostra speranza in Gesù, specialmente nei momenti di maggiore prova e difficoltà.
[Papa Benedetto, Angelus 9 marzo 2008]
1. “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” (Gv 11, 21.32).
Queste parole, che avete sentito leggere nel Vangelo della messa odierna, sono pronunciate prima da Marta, poi da Maria, le due sorelle di Lazzaro, e sono rivolte a Gesù di Nazaret, che era amico loro e del fratello.
L’odierna liturgia presenta alla nostra attenzione il tema della morte. Questa è ormai la quinta domenica di Quaresima e si avvicina il tempo della passione di Cristo. Il tempo della morte e della risurrezione. Oggi guardiamo a questo fatto attraverso la morte e la risurrezione di Lazzaro. Nella missione messianica di Cristo questo evento sconvolgente serve di preparazione alla Settimana santa e alla Pasqua.
2. “. . . mio fratello non sarebbe morto”.
Risuona in queste parole la voce del cuore umano, la voce di un cuore che ama e che dà testimonianza di ciò che è la morte. Continuamente sentiamo parlare di morte e leggiamo notizie circa la morte di diverse persone. Esiste una sistematica informazione su questo tema. Esiste anche la statistica della morte. Sappiamo che la morte è un fenomeno comune e incessante. Se ogni giorno muoiono sul globo terrestre circa 145.000 persone, si può dire che ad ogni istante muoiono delle persone. La morte è un fenomeno universale e un fatto ordinario. L’universalità e la normalità del fatto confermano la realtà della morte, l’inevitabilità della morte, ma, al tempo stesso, cancellano in un certo senso la verità sulla morte, la sua penetrante eloquenza.
Non basta qui il linguaggio delle statistiche. È necessaria la voce del cuore umano: la voce di una sorella, come nell’odierno Vangelo, la voce di una persona che ama. La realtà della morte può essere espressa in tutta la sua verità solo col linguaggio dell’amore.
L’amore infatti resiste alla morte, e desidera la vita . . .
Ognuna delle due sorelle di Lazzaro non dice “mio fratello è morto”, ma dice: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”.
La verità sulla morte può essere espressa solamente a partire da una prospettiva di vita, da un desiderio di vita: cioè dalla permanenza nella comunione amorosa di una persona.
La verità sulla morte viene espressa nell’odierna liturgia in rapporto con la voce del cuore umano.
3. Contemporaneamente essa viene espressa in rapporto con la missione di Cristo, il redentore del mondo.
Gesù di Nazaret era amico di Lazzaro e delle sue sorelle. La morte dell’amico si è fatta sentire anche nel suo cuore con un’eco particolare. Quando giunse a Betania, quando udì il pianto delle sorelle e di altre persone affezionate al defunto, Gesù “si commosse profondamente, si turbò”, e in questa disposizione interiore chiese: “Dove l’avete posto?” (Gv 11, 33).
Gesù di Nazaret è al tempo stesso il Cristo, colui che il Padre ha mandato al mondo: è l’eterno testimone dell’amore del Padre. È il definitivo Portavoce di questo amore di fronte agli uomini. È in un certo senso l’Ostaggio di esso riguardo a ciascuno e a tutti. In lui e per lui l’eterno amore del Padre si conferma e compie nella storia dell’uomo, si conferma e compie in modo sovrabbondante.
E l’amore si oppone alla morte e vuole la vita.
La morte dell’uomo, fin da Adamo, si oppone all’amore: si oppone all’amore del Padre, il Dio della vita.
La radice della morte è il peccato, il quale pure si oppone all’amore del Padre. Nella storia dell’uomo la morte è unita al peccato e come il peccato si oppone all’amore.
4. Gesù Cristo è venuto nel mondo per redimere il peccato dell’uomo; ogni peccato che è radicato nell’uomo. Per questo egli si è posto di fronte alla realtà della morte; la morte infatti è unita al peccato nella storia dell’uomo: è frutto del peccato. Gesù Cristo divenne il redentore dell’uomo mediante la sua morte in croce, la quale è stata il sacrificio che ha riparato ogni peccato.
In questa sua morte Gesù Cristo ha confermato la testimonianza dell’amore del Padre. L’amore che resiste alla morte, e desidera la vita, si è espresso nella risurrezione di Cristo, di colui che, per redimere i peccati del mondo, liberamente accettò la morte sulla croce.
Questo evento si chiama Pasqua: il mistero pasquale. Ogni anno ci prepariamo ad essa mediante la Quaresima, e l’odierna domenica ci mostra ormai da vicino questo mistero, nel quale si sono rivelati l’amore e la potenza di Dio, poiché la vita ha riportato la vittoria sulla morte.
5. Ciò che è avvenuto a Betania presso il sepolcro di Lazzaro, fu quasi l’ultimo annuncio del mistero pasquale.
Gesù di Nazaret si fermò accanto al sepolcro del suo amico Lazzaro, e disse: “Lazzaro, vieni fuori!” (Gv 11, 43). Con queste parole, piene di potenza, Gesù lo risuscitò alla vita e lo fece uscire dalla tomba.
Prima di compiere questo miracolo, Cristo “alzò gli occhi e disse: "Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato"” (Gv 11, 41-42).
Presso il sepolcro di Lazzaro avvenne un particolare confronto della morte con la missione redentrice di Cristo. Cristo era il testimone dell’eterno amore del Padre, di quell’amore che resiste alla morte e desidera la vita. Risuscitando Lazzaro, rese testimonianza a quest’amore. Rese anche testimonianza all’esclusiva potenza di Dio sulla vita e sulla morte.
Al tempo stesso, presso la tomba di Lazzaro, Cristo fu il profeta del suo proprio mistero: del mistero pasquale, nel quale la morte redentrice sulla croce divenne la sorgente della nuova vita nella risurrezione.
8. Il pellegrinaggio, che oggi avete intrapreso a motivo del Giubileo, vi introduce, cari militari qui convenuti da Paesi differenti, nel mistero della redenzione, mediante la liturgia dell’odierna domenica di Quaresima, la quale ci invita a fermarci, direi, sulla frontiera della vita e della morte, per adorare la presenza e l’amore di Dio.
Ecco le parole del profeta Ezechiele: “Dice il Signore Dio: "Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio"” (Ez 37, 12.13).
Queste parole si sono compiute presso il sepolcro di Lazzaro in Betania. Si sono compiute definitivamente presso il sepolcro di Cristo sul Calvario. Di questo ci rende consapevoli l’odierna liturgia.
Nella risurrezione di Lazzaro si è manifestata la potenza di Dio sullo spirito e sul corpo dell’uomo.
Nella risurrezione di Cristo è stato concesso lo Spirito Santo come sorgente della nuova vita: la vita divina. Questa vita è l’eterno destino dell’uomo. È la sua vocazione ricevuta da Dio. In questa vita si realizza l’eterno amore del Padre.
L’amore infatti desidera la vita e si oppone alla morte.
Cari fratelli! Viviamo di questa vita! Che in noi non domini il peccato! Viviamo di questa vita, il prezzo della quale è la redenzione mediante la morte sulla croce di Cristo!
“E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 11).
Che lo Spirito Santo abiti in voi sempre per mezzo della grazia della redenzione di Cristo. Amen.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia per il Giubileo dei Militari 8 aprile 1984]
Il Vangelo […] è quello della risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). Lazzaro era fratello di Marta e Maria; erano molto amici di Gesù. Quando Lui arriva a Betania, Lazzaro è morto già da quattro giorni; Marta corre incontro al Maestro e gli dice: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (v. 21). Gesù le risponde: «Tuo fratello risorgerà» (v. 23); e aggiunge: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà» (v. 25). Gesù si fa vedere come il Signore della vita, Colui che è capace di dare la vita anche ai morti. Poi arrivano Maria e altre persone, tutti in lacrime, e allora Gesù – dice il Vangelo - «si commosse profondamente e […] scoppiò in pianto» (vv. 33.35). Con questo turbamento nel cuore, va alla tomba, ringrazia il Padre che sempre lo ascolta, fa aprire il sepolcro e grida forte: «Lazzaro, vieni fuori!» (v. 43). E Lazzaro esce con «i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario» (v. 44).
Qui tocchiamo con mano che Dio è vita e dona vita, ma si fa carico del dramma della morte. Gesù avrebbe potuto evitare la morte dell’amico Lazzaro, ma ha voluto fare suo il nostro dolore per la morte delle persone care, e soprattutto ha voluto mostrare il dominio di Dio sulla morte. In questo passo del Vangelo vediamo che la fede dell’uomo e l’onnipotenza di Dio, dell’amore di Dio si cercano e infine si incontrano. È come una doppia strada: la fede dell’uomo e l’onnipotenza dell’amore di Dio che si cercano e alla fine si incontrano. Lo vediamo nel grido di Marta e Maria e di tutti noi con loro: “Se tu fossi stato qui!...”. E la risposta di Dio non è un discorso, no, la risposta di Dio al problema della morte è Gesù: “Io sono la risurrezione e la vita… Abbiate fede! In mezzo al pianto continuate ad avere fede, anche se la morte sembra aver vinto. Togliete la pietra dal vostro cuore! Lasciate che la Parola di Dio riporti la vita dove c’è morte”.
Anche oggi Gesù ci ripete: “Togliete la pietra”. Dio non ci ha creati per la tomba, ci ha creati per la vita, bella, buona, gioiosa. Ma «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 2,24), dice il Libro della Sapienza, e Gesù Cristo è venuto a liberarci dai suoi lacci.
Dunque, siamo chiamati a togliere le pietre di tutto ciò che sa di morte: ad esempio, l’ipocrisia con cui si vive la fede, è morte; la critica distruttiva verso gli altri, è morte; l’offesa, la calunnia, è morte; l’emarginazione del povero, è morte. Il Signore ci chiede di togliere queste pietre dal cuore, e la vita allora fiorirà ancora intorno a noi. Cristo vive, e chi lo accoglie e aderisce a Lui entra in contatto con la vita. Senza Cristo, o al di fuori di Cristo, non solo non è presente la vita, ma si ricade nella morte.
La risurrezione di Lazzaro è segno anche della rigenerazione che si attua nel credente mediante il Battesimo, con il pieno inserimento nel Mistero Pasquale di Cristo. Per l’azione e la forza dello Spirito Santo, il cristiano è una persona che cammina nella vita come una nuova creatura: una creatura per la vita e che va verso la vita.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere compassionevoli come il suo Figlio Gesù, che ha fatto suo il nostro dolore. Ognuno di noi sia vicino a quanti sono nella prova, diventando per essi un riflesso dell’amore e della tenerezza di Dio, che libera dalla morte e fa vincere la vita.
[Papa Francesco, Angelus 29 marzo 2020]
(Mt 13,31-35)
Gesù aiuta le persone a scoprire le cose di Dio e dell’uomo nella vita di ogni giorno.
Il Maestro insegna che lo straordinario del mondo eterno si cela nelle cose comuni: la vita stessa è trasparenza del Mistero.
Egli rivela il Regno che si fa Presente, descrivendo appunto le caratteristiche essenziali della comunità dei discepoli - e utilizzando qui i semplici raffronti del «granello di senapa» e del «lievito».
A dire: la Chiesa autentica è a portata di mano di tutti, ovunque - nondimeno esigua; inapparente, eppur intimamente dinamica.
In essa viviamo un contrasto fra inizi e termine: facciamo esperienza di Regno ‘dentro’ ciascuno che accoglie il carattere d’una Parola-evento dimessa, ma che attiva capacità trasformative e ospitali.
Il primo termine di paragone legato alla vita della gente [il semino] cita la vicenda di un grano ben piccolo: vicenda concreta comune, che non si nota granché.
Intorno al lago di Galilea gli arbusti di senape possono giungere al massimo a un’altezza di 3 metri, non più.
Non si tratta dello sviluppo di maestosi cedri del Libano - piuttosto d’un alberetto qualsiasi dell’orto di casa (v.32) però in grado di dare un poco di ristoro ai volatili che vi si rifugiano.
Sta a indicare una Presenza di scarso clamore: del tutto normale, frammista tra melanzane, zucchine e cetrioli…
Nulla di grande, eppur ospitale per coloro che soffrono la potente calura di quei luoghi.
Insomma, le fraternità che il Signore sogna non avranno nulla di magnifico ed esteriore, però sapranno donare riparo e riposo.
La forza del «granellino di senape» è intima, tuttavia caparbia: crescerà - anche se non di molto.
Ossia, la Chiesa autentica non dovrà somigliare a un transatlantico maestoso.
Magari sarà più simile a una barchetta: niente di che - eppure potrà suscitare speranze di vita.
Lo farà attraverso la testimonianza discreta di evangelizzatori amabili, che ancora annunciano e operano, irradiando luce, affascinando persone.
Chiunque si accostasse alle soglie delle chiese - il riferimento è ai lontani e pagani - dovrà sentirsi a suo agio, a casa propria.
Anche i ‘vaganti’ avranno pieno diritto di prendervi posizione e costruire il loro nido [proprio in tale Dimora comune] perfino se poi decidessero di riprendere il volo non appena se ne saranno serviti.
Il paragone successivo - del «lievito» (v.33) - insiste sulla cura degli obbiettivi di vita di altri fratelli, rispetto alla Comunità dei credenti.
In tal guisa, essa è chiamata a essere segno delle premure del Padre verso tutti i suoi figli.
Il lievito non è utile a se stesso, bensì alla massa.
Allo stesso modo, la Chiesa non dovrà servire se stessa; non sarà in ordine alla propria celebrazione e sviluppo [materiale, o in proselitismi; così via].
Ogni Fraternità in Cristo è funzione della sola vita della gente, dove e come si trova - così com’è.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale seme avevi trascurato per la sua piccolezza, e poi si è rivelato essenziale per la tua crescita e le esigenze anche altrui?
[Lunedì 17.a sett. T.O. 28 luglio 2025]
(Mt 13,31-35)
Gesù aiuta le persone a scoprire le cose di Dio e dell’uomo nella vita di ogni giorno.
Il Maestro insegna che lo straordinario del mondo eterno si cela nelle cose comuni: la vita stessa è trasparenza del Mistero.
Egli rivela il Regno che si fa Presente, descrivendo appunto le caratteristiche essenziali della comunità dei discepoli - e utilizzando qui i semplici raffronti del «granello di senapa» e del «lievito».
A dire: la Chiesa autentica è a portata di mano di tutti, ovunque - nondimeno esigua; inapparente, eppur intimamente dinamica.
In essa viviamo un contrasto fra inizi e termine: facciamo esperienza di Regno ‘dentro’ ciascuno che accoglie il carattere d’una Parola-evento dimessa, ma che attiva capacità trasformative e ospitali.
Il primo termine di paragone legato alla vita della gente [il semino] cita la vicenda di un grano ben piccolo: vicenda concreta comune, che non si nota granché.
Intorno al lago di Galilea gli arbusti di senape possono giungere al massimo ad un’altezza di 3 metri, non più.
Non si tratta dello sviluppo di maestosi cedri del Libano - piuttosto d’un alberetto qualsiasi dell’orto di casa (v.32) però in grado di dare un poco di ristoro ai volatili che vi si rifugiano.
Sta a indicare una Presenza di scarso clamore: del tutto normale, frammista tra melanzane, zucchine e cetrioli…
Nulla di grande, eppur ospitale per coloro che soffrono la potente calura di quei luoghi.
Insomma, le fraternità che il Signore sogna non avranno nulla di magnifico ed esteriore, però sapranno donare riparo e riposo.
La forza del «granellino di senape» è intima, tuttavia caparbia: crescerà - anche se non di molto.
Ossia, la Chiesa autentica non dovrà somigliare a un transatlantico maestoso.
Magari sarà più simile a una barchetta: niente di che - eppure potrà suscitare speranze di vita.
Lo farà attraverso la testimonianza discreta di evangelizzatori amabili, che ancora annunciano e operano, irradiando luce, affascinando persone.
Chiunque si accostasse alle soglie delle chiese - il riferimento è ai lontani e pagani - dovrà sentirsi a suo agio, a casa propria.
Anche i ‘vaganti’ avranno pieno diritto di prendervi posizione e costruire il loro nido [proprio in tale Dimora comune] perfino se poi decidessero di riprendere il volo non appena se ne saranno serviti.
Il paragone successivo - del «lievito» (v.33) - insiste sulla cura degli obbiettivi di vita di altri fratelli, rispetto alla Comunità dei credenti.
In tal guisa, essa è chiamata ad essere segno delle premure del Padre verso tutti i suoi figli.
Il lievito non è utile a se stesso, bensì alla massa.
Allo stesso modo, la Chiesa non dovrà servire se stessa; non sarà in ordine alla propria celebrazione o sviluppo (materiale, in proselitismi, così via).
Ogni Fraternità in Cristo è funzione della sola vita della gente, dove e come si trova - così com’è.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale seme avevi trascurato per la sua piccolezza, e poi si è rivelato essenziale per la tua crescita e le esigenze anche altrui?
[Parabole: Narrazione per la trasmutazione]
Il mistero della comune cecità. Smarriti? Pronti per la trasformazione
(Mt 13,34-35)
San Paolo esprime il senso del “mistero della cecità” che gli fa contrasto nel cammino con la celebre espressone «spina nel fianco»: dovunque andasse, erano già pronti i nemici; e disaccordi inattesi.
Così anche per noi: eventi funesti, catastrofi, emergenze, disgregazione delle antiche certezze rassicuranti - tutte esterne e paludose; sino a poco prima valutate con senso di permanenza.
Forse nell’arco della nostra esistenza, già ci siamo resi conto che le incomprensioni sono state i modi migliori per riattivarci, e introdurre le energie della Vita rinnovata.
Si tratta di quelle risorse o situazioni che forse mai avremmo immaginato alleate della nostra e altrui realizzazione.
Dice Erich Fromm:
«Vivere significa nascere in ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere. La nascita non è quindi un atto; è un processo ininterrotto. Lo scopo della vita è di nascere pienamente, ma la tragedia è che la maggior parte di noi muore prima di essere veramente nato».
Infatti, nel clima dei disordini o delle divergenze assurde [che ci obbligano a rigenerare] si affacciano talora le più trascurate virtù intime.
Energie nuove - che cercano spazio - e potenze esterne. Entrambi plasmabili; inconsuete, inimmaginabili, eterodosse.
Ma che trovano le soluzioni, la vera via d’uscita ai nostri problemi; la strada per un futuro che non sia un semplice riassetto della situazione precedente, o di come abbiamo immaginato “si sarebbe dovuti essere e fare”.
Concluso un ciclo, iniziamo una nuova fase; forse con maggiore rettitudine e franchezza - più luminosa e naturale, umanizzante, vicina al ‘divino’.
Il contatto autentico e coinvolgente con i nostri stati dell’essere profondi viene generato in modo acuto proprio dai distacchi.
Essi ci portano al dialogo dinamico con le riserve eterne di forze trasmutatrici che ci abitano, e più ci appartengono.
Esperienza primordiale che arriva dritta al cuore.
Dentro di noi tale via “pesca” l’opzione creativa, fluttuante, inedita.
In tal guisa il Signore trasmette e apre la sua proposta servendosi di ‘immagini’.
Freccia di Mistero che va oltre i frammenti della coscienza, della cultura, delle procedure, di ciò che è comune.
Per una conoscenza di se stessi e del mondo che travalica quella della storia e della cronaca; per la consapevolezza attiva di altri contenuti.
Sino a che il travaglio e il caos stesso guidano l’anima e la obbligano a un Altro inizio, a un differente sguardo (tutto spostato), a un’inedita comprensione di noi stessi e del mondo.
Ebbene, la trasformazione dell’universo non può esser frutto di un insegnamento cerebrale o dirigista; piuttosto, di una esplorazione narrativa - che non allontana la gente da se stessa.
E Gesù lo sa.
Parlare di Dio vuol dire anzitutto avere ben chiaro ciò che dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo: non un Dio astratto, una ipotesi, ma un Dio concreto, un Dio che esiste, che è entrato nella storia ed è presente nella storia; il Dio di Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del come vivere. Per questo, parlare di Dio richiede una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, suppone una nostra personale e reale conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza, senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio stesso. Il metodo di Dio è quello dell’umiltà – Dio si fa uno di noi – è il metodo realizzato nell’Incarnazione nella semplice casa di Nazaret e nella grotta di Betlemme, quello della parabola del granellino di senape. Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33). Nel parlare di Dio, nell’opera di evangelizzazione, sotto la guida dello Spirito Santo, è necessario un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia di un Dio che è reale e concreto, un Dio che si interessa di noi, un Dio-Amore che si fa vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce e che nella Risurrezione ci dona la speranza e ci apre ad una vita che non ha fine, la vita eterna, la vita vera. Quell’eccezionale comunicatore che fu l’apostolo Paolo ci offre una lezione che va proprio al centro della fede del problema “come parlare di Dio” con grande semplicità.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 28 novembre 2012]
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2) [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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