don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

E Maria: la Domanda ch’è la Risposta

(Lc 2,15-20)

 

Ci chiediamo: in questo tempo, cosa può renderci intimi al Signore?

I pastori sperimentano la predilezione d’un vero e proprio Amore eccessivo, per benedizione dell’eccentrico - e Meraviglia.

Preferenza che non viene concessa dietro scambio coi meriti, ma a motivo dei bisogni.

Lc vuol sottolineare che - lodando e glorificando Dio (v.20) proprio come fanno gli Angeli - gl’imperfetti e inadempienti si ritrovano paradossalmente più vicini al trono divino rispetto alla posizione sempre arrembante dei piissimi sterilizzati.

Sbalordiamo anche noi di conoscere un Padre che invece di incenerirci a motivo delle nostre oscillazioni, non solo avvolge di luce (v.9), ma proprio su quelle stesse insicurezze costruisce la sua Novità.

Pensavamo tutti di essere nati per fare i figli devoti e obbedienti. Invece di metterci sotto stress, il Padre vuole che ritroviamo il piacere e lo stupore della gratuità e dello stare insieme. Senza prima badare a obblighi, modi, orari, luoghi, doveri, riverenze, prostrazioni e baciamani di nessun genere!

Dio sa che siamo circondati da ambiti, stimoli, spostamenti, faccende, che ci portano via. Ma neanche pretende un minimo sindacale tutto suo, perché non fa come il ragazzino capriccioso che vuole la fetta grande di torta a merenda [corrispondente al suo rango].

La relazione con Lui non è un impegno continuo, cui star dietro con fatica. È un alleggerimento, e addirittura si fortifica nei contrappesi.

 

In Avvento abbiamo già sottolineato: quello del Signore che viene è un Raggio che non s’introduce nell’orizzonte delle aspettative normali, adattandosi ai nostri sogni esterni - quelli che vivono di traguardi attesi, e poi diventano un tormento.

Nell’arco della vita l’incontro con tale Luce sapiente che squarcia le tenebre della notte è nelle difficoltà che costringono a spostare lo sguardo, nell’insuccesso che obbliga a rigenerare la creatività, nello smarrimento che ci fa contattare nuovi modi di essere.

La vita di Fede non sopporta il demone della perfezione immaginata dalle religioni arcaiche.

Esse volentieri sostituiscono ogni Gratis con il senso del dovere adultoide - che inevitabilmente partorisce strategie snervanti e addirittura compensatorie [grazie a Dio, oggi sempre meno occulte].

 

Secondo il pensiero cinese, per acquistare smalto e fuggire un servilismo inquinato e logoro, i Santi «si fanno insegnare dalle bestie l’arte di evitare gli effetti nocivi della domesticazione, che la vita in società impone».

Infatti: «Gli animali domestici muoiono prematuramente. E così gli uomini, cui le convenzioni sociali vietano di obbedire spontaneamente al ritmo della vita universale».

«Queste convenzioni impongono un’attività continua, interessata, estenuante [mentre è opportuno] alternare i periodi di vita rallentata e di tripudio».

«Il Santo non si sottomette al ritiro o al digiuno se non al fine di giungere, grazie all’estasi, a evadere per lunghi viaggi. Questa liberazione è preparata da giochi vivificanti, che la natura insegna».

«Ci si allena alla vita paradisiaca imitando i sollazzi degli animali. Per santificarsi, bisogna prima abbrutirsi – si intenda: imparare dai bambini, dalle bestie, dalle piante, l’arte semplice e gioiosa di non vivere che in vista della vita».

[M. Granet, Il Pensiero Cinese, Adelphi 2019, kindle pp. 6904-6909].

 

I pastori pongono immediatamente sullo sfondo della propria esistenza reale sia i sensi di colpa che il tempo obbligato degli adempimenti, conservando carica ed entusiasmo.

In tal guisa, anche per noi nulla della vita sembra più un muro invalicabile - a parte il pregiudizio dei giusti [quelli dei “condizionali”: i “se”, i “ma”, i “però”].

Anche la routine non toglie energie e voglia di fare - come mai? Perché le anime spontanee non hanno bisogno di occuparsi del look esterno, di piacere all’opinione altrui; così via.

Senza neppure rendersi conto, non avendo da tenere in piedi paraventi artificiosi, i genuini possono affrontare la vita guardandola in faccia, e partire col piede giusto.

Così, attirare grandi opportunità di cambiamento.

 

Forse non vanno troppo in profondità, ma ascoltano i bisogni.

E allargano i loro spazi senza chiedere l’autorizzazione a coloro che mai la concederanno; intuiscono l’essenziale che sgorga dalla libertà di mente e di codice.

Il loro “dover essere” non ha aspettative artefatte: è semplice sintonia con la natura e con se stessi.

Posizione risolutiva, perché su tale raggio riescono a guardare il lato debole come un contenitore di grande forza, che attiva capacità in grado di costruire tutto un altro destino.

Non si pongono il problema di dover sembrare all’altezza, o di non essere quel che sono. Poi di non potersi concedere tempo in abbondanza, e di farsi vedere ordinati e buonisti, senza malesseri; in armonia con tutti.

Seguono la loro storia, e senza troppe aspettative o propositi, imparano ad affidarsi al flusso degli eventi, anche intimi.

Sanno accogliere quali ospiti degni tutti i propri stati interiori, senza sentirsi in colpa.

Nei propri moventi, sono chiari. Quindi non cadono nelle nevrosi.

L’incontro con l’Autenticità serena li ha riqualificati.

Luce che ha espugnato l’autostima.

Si sentono legittimati, invece che bersagli. E la riconquistata fiducia li renderà aperti e accoglienti verso gli altri.

Hanno capito di doversi affidare a un sapere più profondo di quello inoculato dai pregiudizi dei capi decisionisti.

Dio è l’esatto contrario del catechismo dei veterani: è solo l’Incontro con Lui che purifica - non il viceversa apparente.

 

Anche noi desideriamo aprirci al nuovo Mistero. Esperienza che in questo tempo ci sta preparando il grembo dell’anima.

Siamo in una transumanza piena di scoperte e avventure: possiamo apprendere come stare con ciò che Viene e reinterpretarlo, imparando a camminare sulle nostre gambe e mettendo in campo le attitudini.

Accanto ai pastori, che incessantemente rimettono in circolo le energie - la nostra vita può rivelarsi assai più ricca della vicenda dei precisi e inappuntabili.

Vogliamo trasformare la routine in un’avventura che scorge il Sacro autentico nel piccolo Seme che ci abita.

Lo faremo senza troppe efficienze: forse anche noi costruiremo un rifugio d’altura rigenerante, per allenare l’intuizione - e da lì ricreare la Visione, e il mondo.

 

Nessuno deve sentirsi inadeguato, escluso dall’azione dell’Amore di Dio e dalla capacità d’irradiarlo.

Come nel Vangelo della mattina di Pasqua, possiamo scrutare nel buio e intuire anche fra segni di morte le grandi energie della Vita.

 

Il mondo delle ombre non è più nel medesimo assetto di prima.

 

Fra gli umiliati, anche Maria è stupita, ma cerca di capire e fa il suo percorso. Anzi, comprende che la Risposta è già nella Domanda.

Confrontando dentro sé Parola e vicende attorno al Figlio, intuisce che nel “problema” (che la sorprendeva) c’era già l’energia della “soluzione”.

 

Chi è Gesù?

Il contrasto fra la straordinaria figura del Messia atteso e frainteso, e l’ottusità del giudizio elusivo delle dottrine popolari, finiva per lasciare le cose come stavano.

Anzi, peggio: racchiudeva il Mistero - quello più normale del mondo [ma che rimane per sempre]: l'umanità di Dio.

E smarriva il suo “dove”.

Non poteva comprendere la Persona del Cristo a partire dalle cose che conosceva o cercando d’inquadrarlo nei criteri famigliari del Primo Testamento; nel sentire comune, coi modelli magici del tempo.

Il Maestro suo allievo non si poteva accontentare d’un miglioramento della situazione.

Doveva sostituirla, annunciando la Verità del Padre; della donna e dell’uomo autentici.

Proponendo un germe di mondo alternativo alla società spietata e piramidale; quella che istituisce cosa pensare e dire, come bisogna essere e comportarsi.

 

Dio intende far emergere e valorizzare l’intuizione delle coscienze più che imporre doveri o smanie di analizzare i comportamenti.

Questo l’incredibile.

 

Ogni gruppo religioso chiudeva il Messia nel suo modello interpretativo, consono a un ambiente venato di speranze antiche: difesa dei beni e delle consuetudini, benessere a scapito altrui, espansione, prodigi.

La rivoluzione dei figli pone una tematica che cerca la sua Via Altrove - in fondo dietro l’angolo, ma non relegata “dentro” un angolo.

Perché interrogarsi sulla Persona del Cristo significa già iniziare a superare le piccine interpretazioni abitudinarie, e abbracciare l’irruzione di Dio.

Il Signore sempre fanciullo rovescerà le sorti, il destino del regno dell’uomo, e le sue rivendicazioni che ingabbiano l'anima, immobilizzando la vita.

La conoscenza della sua vicenda, l’adesione alla sua Persona, e l’Azione dello Spirito, non lasceranno perdurare nella mente di Maria i pensieri fissi, gli attaccamenti, i luoghi comuni, le vetrine che poi impregnano tutta l’anima privandola di ebbrezza e fecondità.

È nel Figlio ch’ella diviene Madre, Presenza del tutto personale, nuovo Fiuto.

Maternità la sua, d’innata Sapienza, che apre gli orizzonti: nella Chiesa ci sta conducendo a differenti Sogni dell’essere.

 

Donna che vuole esprimersi umanizzandoci.

(Lc 2,1-20)

 

Il salto di qualità (umanizzante) dell’Incarnazione

(Lc 2,1-14)

 

Nella letteratura antica erano valutate significative solo le vicende della vita pubblica, non certo quelle dell’infanzia - anche dei grandi della storia.

Paolo e Mc, gli autori più antichi del Nuovo Testamento, non stimarono opportuno riferirsi alla vicenda della nascita umana, dell’adolescenza e della vita nascosta del Signore.

Nei primi tempi, riferimento unico e sostanziale era la presenza di Dio attraverso la nuova e autentica Pasqua, ora in Cristo del tutto priva di epopee clamorose.

Anche per l’ultimo dei Vangeli, la dimora di Dio fra gli uomini e il suo innalzamento (sul patibolo del rifiuto) nulla ha di glorificante e luminoso in senso banale e marginale. Piuttosto di profondità permanente.

Ma i primi cristiani si trovarono di fronte a obiezioni importanti: così vennero costretti a dare una risposta teologica, e presentare in modo diverso il centro del Messaggio delle chiese [la salvezza in Cristo].

 

Prima eccezione, sollevata da parte dei seguaci del Battista; in breve: “Voi dite che Gesù è il Messia vero, ma non ricordate che è stato allievo del nostro maestro?”.

La seconda, da parte dei pagani: “Voi affermate che Gesù è Figlio di Dio, ma come mai è nato come tutti gli altri uomini, in modo normale, da una donna?”.

Sorse allora la necessità di un’apologetica sulla parte della vicenda famigliare e non pubblica di Cristo, antecedente appunto alla sua Manifestazione.

I Vangeli dell’infanzia non intendono fornire notizie e dettagli storici - come pure faranno fantasiosamente alcuni vangeli apocrifi. Essi sono testimonianza della Fede popolare consolidata nelle liturgie comunitarie.

 

La nuova Parola è proclamazione di una Notizia a nostro favore che comprende l’intera vita del Maestro.

Nella sua vicenda tutta umana Egli ha rivelato la condizione divina - sin dal Battesimo, con la testimonianza dei cieli squarciati; e fin dalla nascita stessa.

Ma tutto lo sfondo narrativo e letterario viene utilizzato dagli evangelisti per delineare una sorta di racconto sintetico di “circostanze” atte a veicolare il significato della figura del «Figlio dell’uomo».

In tal guisa, infatti, amava autodefinirsi Gesù - divenuto Signore: così come veniva annunciato nella predicazione apostolica, e vissuto nelle comunità.

 

In tale logica, Lc ci conduce a Betlemme, villaggio delle promesse d’Israele - per sottolineare una contrapposizione col Messia davidico atteso.

Cristo è [paradossalmente] suo discendente - eppure solo, abbandonato nel luogo impuro di una mangiatoia.

Anche il Messaggio per i lontani dai cerimoniali rompe gli schemi di grandezza: «è stato partorito per voi oggi un Salvatore» (v.11).

Richiamo per tutti i piccoli della terra, e Appello-Lieta Novella anche per i non anonimi.

 

In diversi passi, onde sottolineare il Signore come culmine e superamento del Primo Testamento, Lc e Gv mettono in parallelo Cristo e il Battista.

Anche qui lo scopo è quello di proclamare la superiorità del Figlio di Dio sull’ultimo dei profeti, ancorato all’idea “religiosa” dell’Altissimo come Legislatore e Giudice.

Il Padre non annota né fa inchieste: solo trasmette vita e continua a generarla, sempre nuova.

Dio Creatore e Redentore della nostra intelligenza e libertà è rivelato in tutta la sua vicenda, senso, e Parola, già a partire dal Natale e non solo dall’inizio della vita pubblica.

Con Lui non siamo più tenuti a un rapporto subordinato, di obbedienza cieca, ma di simpatia, collaborazione, rassomiglianza.

Nel Bimbo a braccia aperte è il Padre stesso che ci strizza l’occhiolino e si riconosce nelle nostre indifese precarietà, povero fra poveri; persino complice.

Non potente arcigno, munito di tutto, guardingo e pretenzioso.

Una Rivelazione impensabile per le filosofie e le religioni antiche, compreso il pensiero pur dignitoso di Giovanni [il Battezzatore era celebre e ritenuto convincente più di Gesù stesso - perfino da decollato].

 

Sul piano della Fede che doveva superare le ideologie devote o rigide, il nuovo Rabbi proponeva una immedesimazione incredibile per qualsiasi istituzione o credo.

Egli proclamava l’identità fra condizione divina e pienezza di umanizzazione.

L’istinto belluino dei violenti e trionfatori non aveva nulla a che fare con Dio. Piuttosto, Egli si riconosceva nel ceto degl’indifesi e senza voce.

Pertanto, il Padre non poteva essere un protettore che pretendesse riconoscimenti, bensì un Genitore che sempre vuol far crescere. 

Riconoscendosi e unendosi a noi, l’Eterno dilata la vita; non la umilia, né la rattrappisce.

 

È ciò che chiamiamo Incarnazione, in senso proprio.

Ogni dono del Cielo non cade per simpatia degli dei, fortuna cieca, o loro predilezione a caso; né per merito e adempimenti, bensì per bisogno.

Ora le necessità della donna e dell’uomo spingono all’Esodo e passano attraverso una dimensione di completamento, di pienezza di essere che supera il pre-umano, rivelando un Dio fra noi e con noi.

L’Eterno che scende, viene, e bussa, chiede di essere accolto, non ubbidito.

 

Il volto di un Bimbo sguarnito, simpatico, accogliente - talora in lacrime - è il tratto della persona autentica, che sostituisce l’uomo antico, tutto d’un pezzo, assomigliante al dio della guerra.

L’Altissimo non chiede sottomissione, né impone che lo incontriamo a mezza strada, allestendo inutili impalcature per salire noi verso il Cielo - come per la religione tipo torre di Babele, inesorabilmente destinata al crollo.

 

Con lo Svelamento del nuovo Volto dell’autentico Dio e del vero uomo iniziano tempi nuovi.

Non siamo più chiamati a vivere in funzione dell’Onnipotente: viviamo del Padre e in Lui, col Figlio, per noi e i fratelli.

Ecco la Luce dal basso e dall’alto insieme, che squarcia le tenebre di questa notte.

 

Quel Bimbo rompe le vene artificiose, rimette in contatto con le energie dei primordi.

Spegne i pensieri e i tormenti che forse [per “demerito”] dovevamo subire.

Rompe l’isolamento; apre la parte sognante dell’uomo vecchio, cronico e chiuso, che non vorrebbe il balzo.

 

In tale Sguardo aperto, Gesù fratello viene a trovare la nostra coscienza.

La condizione divina irrompe onde posizionarsi nell’immaginazione.

Essa chiede spazio... per farci perdere la testa - così spinge via dalle continuità e dai controlli rigidi, offrendo una piena, nuova esistenza.

 

 

Natale aurora

 

Il posto per noi

(Lc 2,15-20)

 

Nelle gabbie della nostra devozione, forse non c’è ancora posto per Gesù che si offre. Egli continua a nascere bambino come gli altri, lontano e povero, rifiutato.

Solo i marginali della società sembrano capaci di attesa, apertura al mistero, e ricerca: vegliare di notte (v.8), passare e vedere (v.15), venire affrettandosi (v.16), lodare (v.20).

La Madre sta facendo già il suo cammino per passare dalla religiosità dei padri alla Fede nel Padre: Contemplativa che ascolta, incontra i suoi stati profondi e cerca di non perdere nulla.

Chi non è nessuno ma sente ansia di ricerca e cuore orante può cantare un canto nuovo.

In tal guisa, sarà in grado di decifrare i segni della Presenza divina iscritti nelle vicende, e accogliere Cristo nella propria dimora interna (v.7) [cf. commento al Prologo di Gv].

Nella semplicità del Figlio - nella Libertà dei figli - il Dio Eterno indica alle moltitudini misere e abbandonate una Via nuova, in grado di valorizzare i limiti e perfino le eccentricità di ciascuno.

 

Lungo tutto il primo secolo, sia in Palestina che in Asia Minore [chiese giovannee e lucane] le diverse scuole teologiche e di servitori di Dio - del giudaismo tradizionale, di Gesù, del Battista - si confrontavano in modo alternativo.

Dove c’erano comunità di giudei, non mancavano polemiche tra cristiani e vari osservanti (più o meno radicali) della religione dei padri - nonché persone che erano state battezzate da Giovanni, o almeno a contatto con i suoi allievi. Anche il Maestro e i primi apostoli lo erano stati.

Più che confusione, tra il gruppo dei discepoli di Cristo e quelli del Battezzatore, si notavano vere e proprie competizioni.

Ciò, sebbene entrambe proclamassero la venuta del Regno di Dio, e proponessero giustizia sociale, nonché il perdono dei peccati nella vita pratica - invece che mediante riti e gesti sacrificali al Tempio di Gerusalemme.

Eppure, grazie al Figlio di Dio, gli apostoli coglievano la profondità del cuore del Padre, che mai somiglia a un giustizialista, bensì opera esclusivamente per il bene e la promozione della vita.

Quindi nella Fede essi stessi ottenevano recuperi inspiegabili - proprio integrando gratuitamente i lati deboli delle persone - senza opere di mortificazione della donna e dell’uomo insicuri, né pretendere perfezioni preventive impossibili.

 

Ancora oggi, proprio a partire dai versanti oscuri della nostra personalità, il Padre crea nello Spirito delle Beatitudini la sua Novità, che ribalta le carte in tavola.

Mutamento del tutto inatteso, impossibile da immaginare e proporsi; almeno sulla base di pregiudizi o idee già consolidate - tutte concorrenziali con la stima di sé e la gioia di vivere.

Il Dio dall’amore senza condizioni e che scaccia i sensi di colpa era appunto appannaggio esclusivo delle nuove persone di Fede in Cristo, le quali avevano superato le cappe accusatorie, moralistiche e pignole della tradizione.

Anche allora le diversità mettevano in gioco la questione delle purificazioni richieste dai credo e dai riti identitari.

Gesù sembrava del tutto estraneo alla mentalità delle abluzioni cultuali. 

Era la consuetudine di vita con Lui che rigenerava anime a tutto tondo, anche a partire dalle eccentricità di ciascuno.

Unicità preziose, interpretate come segno di eccezionalità vocazionali.

 

Insegnava ai miseri e ai condannati dalla religione a rimettersi in piedi facendo leva sulla possibilità d’incontrare i diversi volti annidati nell’anima di ciascuno: assumerli e investirli invece che rinnegarli. 

Personalità tutte... non sterilizzate in via preventiva; anche dalle espressioni stravaganti, o dai lati inconsapevoli, malfermi, inespressi - nei quali Gesù insegnava a scoprire i tratti della Chiamata missionaria personale.

E proprio da qui - sembra incredibile - anche noi inviati all’Annuncio.

Tutto ciò resta fondamentale ogni giorno.

Infatti, le pie proposte possono presentarsi in forme dignitosissime - ma esse restano solo battistrada del nuovo salto di qualità.

Quest’ultimo, capace di stupore e tutto umanizzante: senza la tara di sentirsi segnati a vita dalle opinioni esterne.

Ovviamente, queste forme di scioltezza e immediatezza famigliare nei confronti del Dio Eterno suscitavano l’invidia dei veterani ancora ingabbiati nei vecchi timori della retribuzione e nel mucchio delle opere di legge.

In nessun adempimento, bensì solo in Cristo, i suoi amici e fratelli riconoscevano la Voce del Dio amabile.

Egli non distingue fra puri e impuri, capaci e incapaci, amici e nemici; reduci, eletti, predestinati, e non.

 

Insomma, nella nostra vita reale non attendiamo un fenomeno che turbi e opprima di continuo, riempiendoci di paure e deviazioni da correggere [che fiaccano tutte le energie].

Badiamo solo a un Amico che consenta di esprimersi in modo inedito e avere una speranza lunga - anche immeritata.

Facciamo come i pastori: nessuno ha mai capito cosa li abbia convinti, se non lo stupore della gratuità imprevedibile (vv.15-18.20).

Paradossalmente pronti a fondare un nuovo popolo - senza troppi regolamenti - a partire da come e dove ciascuno si trovasse.

Ormai anche a noi non serve più l’imprimatur dei settarismi.

Le nostre più infantili stranezze [cf. commento al Prologo di Gv] possono avvicinare la condizione umana a quella divina.

Quindi hanno l’approvazione del Signore di tutti i cosmi.

Genealogia

Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!

Cristo è nato per noi! Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama. A tutti giunga l’eco dell’annuncio di Betlemme, che la Chiesa Cattolica fa risuonare in tutti i continenti, al di là di ogni confine di nazionalità, di lingua e di cultura. Il Figlio di Maria Vergine è nato per tutti, è il Salvatore di tutti.

Così lo invoca un’antica antifona liturgica: “O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio”. Veni ad salvandum nos! Vieni a salvarci! Questo è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sente di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli. Ha bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte, una mano che dall’alto si tenda verso di lui. Cari fratelli e sorelle, questa mano è Cristo, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. Lui è la mano che Dio ha teso all’umanità, per farla uscire dalle sabbie mobili del peccato e metterla in piedi sulla roccia, la salda roccia della sua Verità e del suo Amore (cfr Sal 40,3).

Sì, questo significa il nome di quel Bambino, il nome che, per volere di Dio, gli hanno dato Maria e Giuseppe: si chiama Gesù, che significa “Salvatore” (cfr Mt 1,21; Lc 1,31). Egli è stato inviato da Dio Padre per salvarci soprattutto dal male profondo, radicato nell’uomo e nella storia: quel male che è la separazione da Dio, l’orgoglio presuntuoso di fare da sé, di mettersi in concorrenza con Dio e sostituirsi a Lui, di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di essere il padrone della vita e della morte (cfr Gen 3,1-7). Questo è il grande male, il grande peccato, da cui noi uomini non possiamo salvarci se non affidandoci all’aiuto di Dio, se non gridando a Lui: “Veni ad salvandum nos! - Vieni a salvarci!”.

Il fatto stesso di elevare al Cielo questa invocazione, ci pone già nella giusta condizione, ci mette nella verità di noi stessi: noi infatti siamo coloro che hanno gridato a Dio e sono stati salvati (cfr Est [greco] 10,3f). Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati. Riconoscerlo, è il primo passo verso la salvezza, verso l’uscita dal labirinto in cui noi stessi ci chiudiamo con il nostro orgoglio. Alzare gli occhi al Cielo, protendere le mani e invocare aiuto è la via di uscita, a patto che ci sia Qualcuno che ascolta, e che può venire in nostro soccorso.

Gesù Cristo è la prova che Dio ha ascoltato il nostro grido. Non solo! Dio nutre per noi un amore così forte, da non poter rimanere in Se stesso, da uscire da Se stesso e venire in noi, condividendo fino in fondo la nostra condizione (cfr Es 3,7-12). La risposta che Dio ha dato in Gesù al grido dell’uomo supera infinitamente la nostra attesa, giungendo ad una solidarietà tale che non può essere soltanto umana, ma divina. Solo il Dio che è amore e l’amore che è Dio poteva scegliere di salvarci attraverso questa via, che è certamente la più lunga, ma è quella che rispetta la verità sua e nostra: la via della riconciliazione, del dialogo, della collaborazione.

Perciò, cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero, in questo Natale 2011, rivolgiamoci al Bambino di Betlemme, al Figlio della Vergine Maria, e diciamo: “Vieni a salvarci!”. Lo ripetiamo in unione spirituale con tante persone che vivono situazioni particolarmente difficili, e facendoci voce di chi non ha voce.

Insieme invochiamo il divino soccorso per le popolazioni del Corno d’Africa, che soffrono a causa della fame e delle carestie, talvolta aggravate da un persistente stato di insicurezza. La Comunità internazionale non faccia mancare il suo aiuto ai numerosi profughi provenienti da tale Regione, duramente provati nella loro dignità.

Il Signore doni conforto alle popolazioni del Sud-Est asiatico, particolarmente della Thailandia e delle Filippine, che sono ancora in gravi situazioni di disagio a causa delle recenti inondazioni.

Il Signore soccorra l’umanità ferita dai tanti conflitti, che ancora oggi insanguinano il Pianeta. Egli, che è il Principe della Pace, doni pace e stabilità alla Terra che ha scelto per venire nel mondo, incoraggiando la ripresa del dialogo tra Israeliani e Palestinesi. Faccia cessare le violenze in Siria, dove tanto sangue è già stato versato. Favorisca la piena riconciliazione e la stabilità in Iraq ed in Afghanistan. Doni un rinnovato vigore nell’edificazione del bene comune a tutte le componenti della società nei Paesi nord africani e mediorientali.

La nascita del Salvatore sostenga le prospettive di dialogo e di collaborazione in Myanmar, nella ricerca di soluzioni condivise. Il Natale del Redentore garantisca stabilità politica ai Paesi della Regione africana dei Grandi Laghi ed assista l’impegno degli abitanti del Sud Sudan per la tutela dei diritti di tutti i cittadini.

Cari fratelli e sorelle, rivolgiamo lo sguardo alla Grotta di Betlemme: il Bambino che contempliamo è la nostra salvezza! Lui ha portato al mondo un messaggio universale di riconciliazione e di pace. Apriamogli il nostro cuore, accogliamolo nella nostra vita. Ripetiamogli con fiducia e speranza: “Veni ad salvandum nos!”.

[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2011]

 

Oggi è nato per voi

Cari fratelli e sorelle,

“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9, 5). Ciò che Isaia, guardando da lontano verso il futuro, dice a Israele come consolazione nelle sue angustie ed oscurità, l’Angelo, dal quale emana una nube di luce, lo annuncia ai pastori come presente: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2, 11). Il Signore è presente. Da questo momento, Dio è veramente un “Dio con noi”. Non è più il Dio distante, che, attraverso la creazione e mediante la coscienza, si può in qualche modo intuire da lontano. Egli è entrato nel mondo. È il Vicino. Il Cristo risorto lo ha detto ai suoi, a noi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Per voi è nato il Salvatore: ciò che l’Angelo annunciò ai pastori, Dio ora lo richiama a noi per mezzo del Vangelo e dei suoi messaggeri. È questa una notizia che non può lasciarci indifferenti. Se è vera, tutto è cambiato. Se è vera, essa riguarda anche me. Allora, come i pastori, devo dire anch’io: Orsù, voglio andare a Betlemme e vedere la Parola che lì è accaduta. Il Vangelo non ci racconta senza scopo la storia dei pastori. Essi ci mostrano come rispondere in modo giusto a quel messaggio che è rivolto anche a noi. Che cosa ci dicono allora questi primi testimoni dell’incarnazione di Dio?

Dei pastori è detto anzitutto che essi erano persone vigilanti e che il messaggio poteva raggiungerli proprio perché erano svegli. Noi dobbiamo svegliarci, perché il messaggio arrivi fino a noi. Dobbiamo diventare persone veramente vigilanti. Che significa questo? La differenza tra uno che sogna e uno che sta sveglio consiste innanzitutto nel fatto che colui che sogna si trova in un mondo particolare. Con il suo io egli è rinchiuso in questo mondo del sogno che, appunto, è soltanto suo e non lo collega con gli altri. Svegliarsi significa uscire da tale mondo particolare dell’io ed entrare nella realtà comune, nella verità che, sola, ci unisce tutti. Il conflitto nel mondo, l’inconciliabilità reciproca, derivano dal fatto che siamo rinchiusi nei nostri propri interessi e nelle opinioni personali, nel nostro proprio minuscolo mondo privato. L’egoismo, quello del gruppo come quello del singolo, ci tiene prigionieri dei nostri interessi e desideri, che contrastano con la verità e ci dividono gli uni dagli altri. Svegliatevi, ci dice il Vangelo. Venite fuori per entrare nella grande verità comune, nella comunione dell’unico Dio. Svegliarsi significa così sviluppare la sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui Egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza. Ci sono persone che dicono di essere “religiosamente prive di orecchio musicale”. La capacità percettiva per Dio sembra quasi una dote che ad alcuni è rifiutata. E in effetti – la nostra maniera di pensare ed agire, la mentalità del mondo odierno, la gamma delle nostre varie esperienze sono adatte a ridurre la sensibilità per Dio, a renderci “privi di orecchio musicale” per Lui. E tuttavia in ogni anima è presente, in modo nascosto o aperto, l’attesa di Dio, la capacità di incontrarlo. Per ottenere questa vigilanza, questo svegliarsi all’essenziale, vogliamo pregare, per noi stessi e per gli altri, per quelli che sembrano essere “privi di questo orecchio musicale” e nei quali, tuttavia, è vivo il desiderio che Dio si manifesti. Il grande teologo Origene ha detto: se io avessi la grazia di vedere come ha visto Paolo, potrei adesso (durante la Liturgia) contemplare una grande schiera di Angeli (cfr in Lc 23, 9). Infatti – nella Sacra Liturgia, gli Angeli di Dio e i Santi ci circondano. Il Signore stesso è presente in mezzo a noi. Signore, apri gli occhi dei nostri cuori, affinché diventiamo vigilanti e veggenti e così possiamo portare la tua vicinanza anche ad altri!

Torniamo al Vangelo di Natale. Esso ci racconta che i pastori, dopo aver ascoltato il messaggio dell’Angelo, si dissero l’un l’altro: “'Andiamo fino a Betlemme' … Andarono, senza indugio” (Lc 2, 15s.). “Si affrettarono” dice letteralmente il testo greco. Ciò che era stato loro annunciato era così importante che dovevano andare immediatamente. In effetti, ciò che lì era stato detto loro andava totalmente al di là del consueto. Cambiava il mondo. È nato il Salvatore. L’atteso Figlio di Davide è venuto al mondo nella sua città. Che cosa poteva esserci di più importante? Certo, li spingeva anche la curiosità, ma soprattutto l’agitazione per la grande cosa che era stata comunicata proprio a loro, i piccoli e uomini apparentemente irrilevanti. Si affrettarono – senza indugio. Nella nostra vita ordinaria le cose non stanno così. La maggioranza degli uomini non considera prioritarie le cose di Dio, esse non ci incalzano in modo immediato. E così noi, nella stragrande maggioranza, siamo ben disposti a rimandarle. Prima di tutto si fa ciò che qui ed ora appare urgente. Nell’elenco delle priorità Dio si trova spesso quasi all’ultimo posto. Questo – si pensa – si potrà fare sempre. Il Vangelo ci dice: Dio ha la massima priorità. Se qualcosa nella nostra vita merita fretta senza indugio, ciò è, allora, soltanto la causa di Dio. Una massima della Regola di san Benedetto dice: “Non anteporre nulla all’opera di Dio (cioè all’ufficio divino)”. La Liturgia è per i monaci la prima priorità. Tutto il resto viene dopo. Nel suo nucleo, però, questa frase vale per ogni uomo. Dio è importante, la realtà più importante in assoluto nella nostra vita. Proprio questa priorità ci insegnano i pastori. Da loro vogliamo imparare a non lasciarci schiacciare da tutte le cose urgenti della vita quotidiana. Da loro vogliamo apprendere la libertà interiore di mettere in secondo piano altre occupazioni – per quanto importanti esse siano – per avviarci verso Dio, per lasciarlo entrare nella nostra vita e nel nostro tempo. Il tempo impegnato per Dio e, a partire da Lui, per il prossimo non è mai tempo perso. È il tempo in cui viviamo veramente, in cui viviamo lo stesso essere persone umane.

Alcuni commentatori fanno notare che per primi i pastori, le anime semplici, sono venuti da Gesù nella mangiatoia e hanno potuto incontrare il Redentore del mondo. I sapienti venuti dall’Oriente, i rappresentanti di coloro che hanno rango e nome, vennero molto più tardi. I commentatori aggiungono: questo è del tutto ovvio. I pastori, infatti, abitavano accanto. Essi non dovevano che “attraversare” (cfr Lc 2, 15) come si attraversa un breve spazio per andare dai vicini. I sapienti, invece, abitavano lontano. Essi dovevano percorrere una via lunga e difficile, per arrivare a Betlemme. E avevano bisogno di guida e di indicazione. Ebbene, anche oggi esistono anime semplici ed umili che abitano molto vicino al Signore. Essi sono, per così dire, i suoi vicini e possono facilmente andare da Lui. Ma la maggior parte di noi uomini moderni vive lontana da Gesù Cristo, da Colui che si è fatto uomo, dal Dio venuto in mezzo a noi. Viviamo in filosofie, in affari e occupazioni che ci riempiono totalmente e dai quali il cammino verso la mangiatoia è molto lungo. In molteplici modi Dio deve ripetutamente spingerci e darci una mano, affinché possiamo trovare l’uscita dal groviglio dei nostri pensieri e dei nostri impegni e trovare la via verso di Lui. Ma per tutti c’è una via. Per tutti il Signore dispone segnali adatti a ciascuno. Egli chiama tutti noi, perché anche noi si possa dire: Orsù, “attraversiamo”, andiamo a Betlemme – verso quel Dio, che ci è venuto incontro. Sì, Dio si è incamminato verso di noi. Da soli non potremmo giungere fino a Lui. La via supera le nostre forze. Ma Dio è disceso. Egli ci viene incontro. Egli ha percorso la parte più lunga del cammino. Ora ci chiede: Venite e vedete quanto vi amo. Venite e vedete che io sono qui. Transeamus usque Bethleem, dice la Bibbia latina. Andiamo di là! Oltrepassiamo noi stessi! Facciamoci viandanti verso Dio in molteplici modi: nell’essere interiormente in cammino verso di Lui. E tuttavia anche in cammini molto concreti – nella Liturgia della Chiesa, nel servizio al prossimo, in cui Cristo mi attende.

Ascoltiamo ancora una volta direttamente il Vangelo. I pastori si dicono l’un l’altro il motivo per cui si mettono in cammino: “Vediamo questo avvenimento”. Letteralmente il testo greco dice: “Vediamo questa Parola, che lì è accaduta”. Sì, tale è la novità di questa notte: la Parola può essere guardata. Poiché si è fatta carne. Quel Dio di cui non si deve fare alcuna immagine, perché ogni immagine potrebbe solo ridurlo, anzi travisarlo, quel Dio si è reso, Egli stesso, visibile in Colui che è la sua vera immagine, come dice Paolo (cfr 2 Cor 4, 4; Col 1, 15). Nella figura di Gesù Cristo, in tutto il suo vivere ed operare, nel suo morire e risorgere, possiamo guardare la Parola di Dio e quindi il mistero dello stesso Dio vivente. Dio è così. L’Angelo aveva detto ai pastori: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2, 12; cfr 16). Il segno di Dio, il segno che viene dato ai pastori e a noi, non è un miracolo emozionante. Il segno di Dio è la sua umiltà. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo; diventa bambino; si lascia toccare e chiede il nostro amore. Quanto desidereremmo noi uomini un segno diverso, imponente, inconfutabile del potere di Dio e della sua grandezza. Ma il suo segno ci invita alla fede e all’amore, e pertanto ci dà speranza: così è Dio. Egli possiede il potere ed è la Bontà. Ci invita a diventare simili a Lui. Sì, diventiamo simili a Dio, se ci lasciamo plasmare da questo segno; se impariamo, noi stessi, l’umiltà e così la vera grandezza; se rinunciamo alla violenza ed usiamo solo le armi della verità e dell’amore. Origene, seguendo una parola di Giovanni Battista, ha visto espressa l’essenza del paganesimo nel simbolo delle pietre: paganesimo è mancanza di sensibilità, significa un cuore di pietra, che è incapace di amare e di percepire l’amore di Dio. Origene dice dei pagani: “Privi di sentimento e di ragione, si trasformano in pietre e in legno” (in Lc 22, 9). Cristo, però, vuole darci un cuore di carne. Quando vediamo Lui, il Dio che è diventato un bambino, ci si apre il cuore. Nella Liturgia della Notte Santa Dio viene a noi come uomo, affinché noi diventiamo veramente umani. Ascoltiamo ancora Origene: “In effetti, a che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge fin nella tua anima? Preghiamo che venga quotidianamente a noi e che possiamo dire: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20)” (in Lc 22, 3).

Sì, per questo vogliamo pregare in questa Notte Santa. Signore Gesù Cristo, tu che sei nato a Betlemme, vieni a noi! Entra in me, nella mia anima. Trasformami. Rinnovami. Fa’ che io e tutti noi da pietra e legno diventiamo persone viventi, nelle quali il tuo amore si rende presente e il mondo viene trasformato. Amen.

[Papa Benedetto, omelia della Notte 24 dicembre 2009]

 

I pastori trovarono

Un giorno santo è spuntato per noi:
venite tutti ad adorare il Signore;
oggi una splendida luce è discesa sulla terra
(Messa del giorno di Natale, Acclamazione al Vangelo).

Cari fratelli e sorelle! “Un giorno santo è spuntato per noi”. Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell’umanità! La nascita di un bambino porta normalmente una luce di speranza a quanti lo attendono trepidanti. Quando nacque Gesù nella grotta di Betlemme, una “grande luce” apparve sulla terra; una grande speranza entrò nel cuore di quanti lo attendevano: “lux magna”, canta la liturgia di questo giorno di Natale. Non fu certo “grande” alla maniera di questo mondo, perché a vederla, dapprima, furono solo Maria, Giuseppe e alcuni pastori, poi i Magi, il vecchio Simeone, la profetessa Anna: coloro che Dio aveva prescelto. Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: “il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,14)

“Dio è luce – afferma san Giovanni – e in lui non ci sono tenebre” (1 Gv 1,5). Nel Libro della Genesi leggiamo che quando ebbe origine l’universo, “la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”. “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu” (Gn 1,2-3). La Parola creatrice di Dio è Luce, sorgente della vita. Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (cfr Gv 1,3). Ecco perchè tutte le creature sono fondamentalmente buone, e recano in sé l’impronta di Dio, una scintilla della sua luce. Tuttavia, quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo: “Dio da Dio, Luce da Luce”, professiamo nel Credo. In Gesù Dio ha assunto ciò che non era rimanendo ciò che era: “l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo” (cfr Agostino, Serm 184, 1 sul Natale). Si è fatto uomo Colui che è il creatore dell’uomo per recare al mondo la pace. Per questo, nella notte di Natale, le schiere degli Angeli cantano: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14).

Oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. La Luce di Cristo è portatrice di pace. Nella Messa della notte la liturgia eucaristica si è aperta proprio con questo canto: “Oggi la vera pace è scesa a noi dal cielo” (Antifona d’ingresso). Anzi, solo la “grande” luce apparsa in Cristo può donare agli uomini la “vera” pace: ecco perchè ogni generazione è chiamata ad accoglierla, ad accogliere il Dio che a Betlemme si è fatto uno di noi.

Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. E’ il giorno santo in cui rifulge la “grande luce” di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L’umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l’umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l’umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l’annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio (cfr Lc 2,15-20). I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi; i protagonisti di sempre della storia di Dio, i costruttori infaticabili del suo Regno di giustizia, di amore e di pace.

Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto e orante? Chi attende l’aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? Sì! È per tutti il suo messaggio di pace; è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza.

La luce di Cristo, che viene ad illuminare ogni essere umano, possa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell'ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una più sicura sussistenza, alla salute, all'istruzione, a un'occupazione stabile, a una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti ambientali.

In questo giorno di pace, il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell'Eritrea e dell'Etiopia, all'intero Medio Oriente, in particolare all'Iraq, al Libano e alla Terrasanta, all'Afghanistan, al Pakistan e allo Sri Lanka, alla regione dei Balcani, e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cercare e trovare soluzioni umane, giuste e durature. Alla sete di senso e di valore che avverte il mondo oggi, alla ricerca di benessere e di pace che segna la vita di tutta l’umanità, alle attese dei poveri Cristo, vero Dio e vero Uomo, risponde con il suo Natale. Non temano gli individui e le nazioni di riconoscerlo e di accoglierlo: con Lui “una splendida luce” rischiara l’orizzonte dell’umanità; con Lui si apre “un giorno santo” che non conosce tramonto. Questo Natale sia veramente per tutti un giorno di gioia, di speranza e di pace!

Venite tutti ad adorare il Signore”. Con Maria, Giuseppe e i pastori, con i Magi e la schiera innumerevole di umili adoratori del neonato Bambino, che lungo i secoli hanno accolto il mistero del Natale, anche noi, fratelli e sorelle di ogni continente, lasciamo che la luce di questo giorno si diffonda dappertutto: entri nei nostri cuori, rischiari e riscaldi le nostre case, porti serenità e speranza nelle nostre città, dia al mondo la pace. E’ questo il mio augurio per voi che mi ascoltate. Augurio che si fa preghiera umile e fiduciosa al Bambino Gesù, perché la sua luce disperda ogni tenebra dalla vostra vita e vi ricolmi dell’amore e della pace. Il Signore, che ha fatto risplendere in Cristo il suo volto di misericordia, vi appaghi della sua felicità e vi renda messaggeri della sua bontà. Buon Natale!

[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2007]

 

Il Logos si fece Carne

Verbum caro factum est” - “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14).

Cari fratelli e sorelle, che mi ascoltate da Roma e dal mondo intero, con gioia vi annuncio il messaggio del Natale: Dio si è fatto uomo, è venuto ad abitare in mezzo a noi. Dio non è lontano: è vicino, anzi, è l’“Emmanuele”, Dio-con-noi. Non è uno sconosciuto: ha un volto, quello di Gesù.

E’ un messaggio sempre nuovo, sempre sorprendente, perché oltrepassa ogni nostra più audace speranza. Soprattutto perché non è solo un annuncio: è un avvenimento, un accadimento, che testimoni credibili hanno veduto, udito, toccato nella Persona di Gesù di Nazareth! Stando con Lui, osservando i suoi atti e ascoltando le sue parole, hanno riconosciuto in Gesù il Messia; e vedendolo risorto, dopo che era stato crocifisso, hanno avuto la certezza che Lui, vero uomo, era al tempo stesso vero Dio, il Figlio unigenito venuto dal Padre, pieno di grazia e di verità (cfr Gv 1,14).

“Il Verbo si fece carne”. Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo.

In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà (cfr Es 3,14-15; 34,6). Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. E’ in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio.

“Il Verbo si fece carne”. La luce di questa verità si manifesta a chi la accoglie con fede, perché è un mistero d’amore. Solo quanti si aprono all’amore sono avvolti dalla luce del Natale. Così fu nella notte di Betlemme, e così è anche oggi. L’incarnazione del Figlio di Dio è un avvenimento che è accaduto nella storia, ma nello stesso tempo la oltrepassa. Nella notte del mondo si accende una luce nuova, che si lascia vedere dagli occhi semplici della fede, dal cuore mite e umile di chi attende il Salvatore. Se la verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “sì” del nostro cuore.

E che cosa cerca, in effetti, il nostro cuore, se non una Verità che sia Amore? La cerca il bambino, con le sue domande, così disarmanti e stimolanti; la cerca il giovane, bisognoso di trovare il senso profondo della propria vita; la cercano l’uomo e la donna nella loro maturità, per guidare e sostenere l’impegno nella famiglia e nel lavoro; la cerca la persona anziana, per dare compimento all’esistenza terrena.

“Il Verbo si fece carne”. L’annuncio del Natale è luce anche per i popoli, per il cammino collettivo dell’umanità. L’“Emmanuele”, Dio-con-noi, è venuto come Re di giustizia e di pace. Il suo Regno – lo sappiamo – non è di questo mondo, eppure è più importante di tutti i regni di questo mondo. E’ come il lievito dell’umanità: se mancasse, verrebbe meno la forza che manda avanti il vero sviluppo: la spinta a collaborare per il bene comune, al servizio disinteressato del prossimo, alla lotta pacifica per la giustizia. Credere nel Dio che ha voluto condividere la nostra storia è un costante incoraggiamento ad impegnarsi in essa, anche in mezzo alle sue contraddizioni. E’ motivo di speranza per tutti coloro la cui dignità è offesa e violata, perché Colui che è nato a Betlemme è venuto a liberare l’uomo dalla radice di ogni schiavitù.

La luce del Natale risplenda nuovamente in quella Terra dove Gesù è nato e ispiri Israeliani e Palestinesi nel ricercare una convivenza giusta e pacifica. L’annuncio consolante della venuta dell’Emmanuele lenisca il dolore e consoli nelle prove le care comunità cristiane in Iraq e in tutto il Medio Oriente, donando loro conforto e speranza per il futuro ed animando i Responsabili delle Nazioni ad una fattiva solidarietà verso di esse. Ciò avvenga anche in favore di coloro che ad Haiti soffrono ancora per le conseguenze del devastante terremoto e della recente epidemia di colera. Così pure non vengano dimenticati coloro che in Colombia ed in Venezuela, ma anche in Guatemala e in Costa Rica, hanno subito le recenti calamità naturali.

La nascita del Salvatore apra prospettive di pace duratura e di autentico progresso alle popolazioni della Somalia, del Darfur e della Costa d’Avorio; promuova la stabilità politica e sociale del Madagascar; porti sicurezza e rispetto dei diritti umani in Afghanistan e in Pakistan; incoraggi il dialogo fra Nicaragua e Costa Rica; favorisca la riconciliazione nella Penisola Coreana.

La celebrazione della nascita del Redentore rafforzi lo spirito di fede, di pazienza e di coraggio nei fedeli della Chiesa nella Cina continentale, affinché non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza e, perseverando nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, mantengano viva la fiamma della speranza. L’amore del “Dio con noi” doni perseveranza a tutte le comunità cristiane che soffrono discriminazione e persecuzione, ed ispiri i leader politici e religiosi ad impegnarsi per il pieno rispetto della libertà religiosa di tutti.

Cari fratelli e sorelle, “il Verbo si fece carne”, è venuto ad abitare in mezzo a noi, è l’Emmanuele, il Dio che si è fatto a noi vicino. Contempliamo insieme questo grande mistero di amore, lasciamoci illuminare il cuore dalla luce che brilla nella grotta di Betlemme! Buon Natale a tutti!

[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2010]

1. "Oggi è nato per noi il Salvatore" (Rit. Salmo resp.).

Risuona in questa notte, antico e sempre nuovo, l'annuncio del Natale del Signore. Risuona per chi veglia, come i pastori di Betlemme duemila anni or sono; risuona per chi ha seguito il richiamo dell'Avvento e, vigilante nell'attesa, è pronto ad accogliere il lieto messaggio, che nella liturgia si fa canto: "Oggi è nato per noi il Salvatore".

Veglia il popolo cristiano; veglia il mondo intero, in questa notte di Natale che si riallaccia a quella memorabile di un anno fa, quando fu aperta la Porta Santa del Grande Giubileo, Porta della grazia spalancata per tutti.

2. In ogni giorno dell'Anno giubilare è come se la Chiesa non avesse mai cessato di ripetere: "Oggi è nato per noi il Salvatore". Quest'annuncio, che possiede un'inesauribile carica di rinnovamento, riecheggia in questa notte santa con forza singolare: è il Natale del Grande Giubileo, memoria viva dei duemila anni di Cristo, della sua nascita prodigiosa, che ha segnato il nuovo inizio della storia. Oggi "il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14).

"Oggi". In questa notte, il tempo si apre all'eterno, perché Tu, o Cristo, sei nato tra noi sorgendo dall'alto. Sei venuto alla luce dal grembo di una Donna tra tutte benedetta, Tu, il "Figlio dell'Altissimo". La tua santità ha santificato una volta per sempre il nostro tempo: i giorni, i secoli, i millenni. Con la tua nascita hai fatto del tempo un "oggi" di salvezza.

3. "Oggi è nato per noi il Salvatore".

Celebriamo in questa notte il mistero di Betlemme, il mistero di una notte singolare che sta, in un certo senso, nel tempo e oltre il tempo. Nel grembo della Vergine è nato un Bambino, una mangiatoia è stata culla per la Vita immortale.

Natale è la festa della vita, perché Tu, Gesù, venendo alla luce come ognuno di noi, hai benedetto l'ora della nascita: un'ora che simbolicamente rappresenta il mistero dell'umana esistenza, unendo il travaglio alla speranza, il dolore alla gioia. Tutto questo è avvenuto a Betlemme: una Madre ha partorito; "è venuto al mondo un uomo" (Gv 16,21), il Figlio dell'uomo. Mistero di Betlemme!

4. Con interiore commozione ripenso ai giorni del mio pellegrinaggio giubilare in Terra Santa. Torno con la mente a quella grotta nella quale mi è stata concessa la grazia di sostare in preghiera. Bacio nello spirito quella terra benedetta in cui è sbocciata per il mondo la gioia imperitura.

Penso con apprensione ai Luoghi santi e, in modo speciale, alla città di Betlemme, dove, purtroppo, a causa della difficile situazione politica, non potranno svolgersi con la consueta solennità i suggestivi riti del Santo Natale. Vorrei che in questa notte quelle comunità cristiane sentissero la piena solidarietà di tutta la Chiesa.

Vi siamo vicini, carissimi Fratelli e Sorelle, con una preghiera particolarmente intensa. Insieme con voi trepidiamo per le sorti dell'intera regione medio-orientale. Voglia il Signore ascoltare la nostra invocazione! Da questa Piazza, centro del mondo cattolico, risuoni ancora una volta con rinnovato vigore l'annuncio degli angeli ai pastori: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama" (Lc 2, 14).

Non può vacillare la nostra fiducia, come non può venir meno la meraviglia per quanto stiamo commemorando. Nasce oggi Colui che dona al mondo la pace.

5. "Oggi è nato per noi il Salvatore".

Il Verbo vagisce in una mangiatoia. Si chiama Gesù, che significa "Dio salva", perché "salverà il suo popolo dai suoi peccati" (Mt 1,21).

Non è una reggia quella in cui nasce il Redentore, destinato ad instaurare il Regno eterno e universale. Nasce in una stalla e, venendo fra noi, accende nel mondo il fuoco dell'amore di Dio (cfr Lc 12,49). Questo fuoco non si spegnerà mai più.

Possa questo fuoco ardere nei cuori come fiamma di carità fattiva, che diventi accoglienza e sostegno per tanti fratelli provati dal bisogno e dalla sofferenza!

6. Signore Gesù, che contempliamo nella povertà di Betlemme, rendici testimoni del tuo amore, di quell'amore che Ti ha spinto a spogliarTi della gloria divina, per venire a nascere fra gli uomini e a morire per noi.

Mentre il Grande Giubileo entra nella sua fase finale, infondi in noi il tuo Spirito, perché la grazia dell'Incarnazione susciti in ogni credente l'impegno di una più generosa corrispondenza alla vita nuova ricevuta nel Battesimo.

Fa' che la luce di questa notte più splendente del giorno si proietti sul futuro ed orienti i passi dell'umanità sulla via della pace.

Tu, Principe della pace, Tu Salvatore nato oggi per noi, cammina con la tua Chiesa sulla strada che le si apre dinanzi nel nuovo millennio!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia di mezzanotte 24 dicembre 2000]

1. «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1).

Questa profezia di Isaia non finisce mai di commuoverci, specialmente quando la ascoltiamo nella Liturgia della Notte di Natale. E non è solo un fatto emotivo, sentimentale; ci commuove perché dice la realtà profonda di ciò che siamo: siamo popolo in cammino, e intorno a noi – e anche dentro di noi – ci sono tenebre e luce. E in questa notte, mentre lo spirito delle tenebre avvolge il mondo, si rinnova l’avvenimento che sempre ci stupisce e ci sorprende: il popolo in cammino vede una grande luce. Una luce che ci fa riflettere su questo mistero: mistero del camminare e del vedere.

Camminare. Questo verbo ci fa pensare al corso della storia, a quel lungo cammino che è la storia della salvezza, a cominciare da Abramo, nostro padre nella fede, che il Signore chiamò un giorno a partire, ad uscire dal suo paese per andare verso la terra che Lui gli avrebbe indicato. Da allora, la nostra identità di credenti è quella di gente pellegrina verso la terra promessa. Questa storia è sempre accompagnata dal Signore! Egli è sempre fedele al suo patto e alle sue promesse. Perché fedele, «Dio è luce, e in lui non c’è tenebra alcuna» (1 Gv 1,5). Da parte del popolo, invece, si alternano momenti di luce e di tenebra, fedeltà e infedeltà, obbedienza e ribellione; momenti di popolo pellegrino e momenti di popolo errante.

Anche nella nostra storia personale si alternano momenti luminosi e oscuri, luci e ombre. Se amiamo Dio e i fratelli, camminiamo nella luce, ma se il nostro cuore si chiude, se prevalgono in noi l’orgoglio, la menzogna, la ricerca del proprio interesse, allora scendono le tenebre dentro di noi e intorno a noi. «Chi odia suo fratello – scrive l’apostolo Giovanni – è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1 Gv 2,11). Popolo in cammino, ma popolo pellegrino che non vuole essere popolo errante.

2. In questa notte, come un fascio di luce chiarissima, risuona l’annuncio dell’Apostolo: «È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11).

La grazia che è apparsa nel mondo è Gesù, nato dalla Vergine Maria, vero uomo e vero Dio. Egli è venuto nella nostra storia, ha condiviso il nostro cammino. È venuto per liberarci dalle tenebre e donarci la luce. In Lui è apparsa la grazia, la misericordia, la tenerezza del Padre: Gesù è l’Amore fattosi carne. Non è soltanto un maestro di sapienza, non è un ideale a cui tendiamo e dal quale sappiamo di essere inesorabilmente lontani, è il senso della vita e della storia che ha posto la sua tenda in mezzo a noi.

3. I pastori sono stati i primi a vedere questa “tenda”, a ricevere l’annuncio della nascita di Gesù. Sono stati i primi perché erano tra gli ultimi, gli emarginati. E sono stati i primi perché vegliavano nella notte, facendo la guardia al loro gregge. E’ legge del pellegrino vegliare, e loro vegliavano. Con loro ci fermiamo davanti al Bambino, ci fermiamo in silenzio. Con loro ringraziamo il Signore di averci donato Gesù, e con loro lasciamo salire dal profondo del cuore la lode della sua fedeltà: Ti benediciamo, Signore Dio Altissimo, che ti sei abbassato per noi. Tu sei immenso, e ti sei fatto piccolo; sei ricco, e ti sei fatto povero; sei l’onnipotente, e ti sei fatto debole.

In questa Notte condividiamo la gioia del Vangelo: Dio ci ama, ci ama tanto che ha donato il suo Figlio come nostro fratello, come luce nelle nostre tenebre. Il Signore ci ripete: «Non temete» (Lc 2,10). Come hanno detto gli angeli ai pastori: «Non temete». E anch’io ripeto a tutti voi: Non temete! Il nostro Padre è paziente, ci ama, ci dona Gesù per guidarci nel cammino verso la terra promessa. Egli è la luce che rischiara le tenebre. Egli è la misericordia: il nostro Padre ci perdona sempre. Egli è la nostra pace. Amen.

[Papa Francesco, omelia di mezzanotte 24 dicembre 2013]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 Da oggi, 17 al 23 dicembre hanno inizio “le ferie maggiori d’Avvento”,  ”ferie privilegiate d’Avvento”, caratterizzate da un elemento distintivo che sono le “Antifone O” recitate o cantate durante i Vespri. Iniziano tutte con l’invocazione “O” seguita da un titolo messianico tratto dalle profezie dell’A.T per esprimere l’attesa del Salvatore: Oggi 17 si proclama “O Sapienza”, il 18 “O Adonai” e così via ogni giorno culminando il 23 dicembre con “O Emmanuele”. In questi giorni la liturgia è più solenne con letture e preghiere specifiche che orientano i fedeli verso la nascita di Cristo. Buona preparazione al Santo Natale di. Cristo!

Per questo periodo ho preparato i commenti per la IV Domenica di Avvento 22 dicembre, per le messe di Natale (la notte e quella del giorno), per la Festa della Santa Famiglia domenica 29 dicembre, per la festa della Madre di Dio, 1 gennaio, per l’Epifania, 6 gennaio,  e per  la conclusione del tempo di Natale la domenica del battesimo di Gesù 12 gennaio. Oggi invio i commenti del  22 Dicembre 2024 IV Domenica di Avvento

 

Prima Lettura dal libro del profeta Michea 5, 1-4a

 *In certi momenti diventa difficile sperare 

I profeti nell’Antico Testamento fanno sempre ricorso a due tipi di linguaggio: quello dei rimproveri e degli avvertimenti per coloro che dimenticano l’Alleanza con Dio e le sue esigenze, perché con le loro stesse mani si preparano una rovina; quello del sostegno a coloro che restano fedeli all’Alleanza perché non si perdano d’animo davanti le contrarietà. La prima lettura quest’oggi richiama chiaramente il linguaggio dell’incoraggiamento e si intuisce che il popolo sta attraversando un periodo critico, quasi sul punto di buttare la spugna perché ha l’impressione di essere stato abbandonato da Dio.  Arriva persino a dire che tutte le promesse di felicità rinnovate nei secoli erano solo belle parole, dato che il re ideale preannunciato e promesso non è mai nato e forse mai nascerà. Non si sa bene se autore di questo testo sia il profeta Michea perché non si capisce esattamente in quale periodo storico ci troviamo. Se è Michea, profeta contadino come Amos e discepolo di Isaia, siamo nell’VIII secolo a.C. nella regione di Gerusalemme, in un’epoca in cui l’impero assiro rappresentava una grande minaccia e i re d’Israele non somigliavano per nulla al re-Messia che si stava aspettando: era pertanto facile cadere nella tentazione di sentirsi abbandonati. Per ragioni legate alla lingua, allo stile e al vocabolario, si è propensi a ritenere che si tratti di un testo molto più tardivo e inserito in seguito nel libro di Michea. In tal caso, lo scoraggiamento è motivato dal fatto che, dopo l’esilio babilonese e la dominazione straniera ininterrotta, il trono di Gerusalemme non esisteva più e quindi non c’era più un discendente di Davide. Il profeta riprende la promessa che nascerà dalla discendenza di Davide un re che sarà pastore, regnerà con giustizia e porterà pace; una pace che riguarderà l’intera umanità nel tempo: “Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” e nello spazio: “Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra”. Quest’accento sull’universalismo (v 3) fa supporre che questa predicazione (inserita nel libro di Michea) non appartiene al profeta Michea, ma a un suo discepolo posteriore dato che l’universalismo del progetto di Dio e il monoteismo rigoroso che lo caratterizza sono stati compresi solo durante l’esilio a Babilonia. A maggior ragione occorreva far memoria delle promesse riguardanti il Messia e il profeta (che sia Michea o un altro non cambia il senso) incoraggia il popolo di Dio dicendo che, pur se vi sentite abbandonati, dovete essere certi che il progetto di Dio si realizzerà; verrà sicuramente “il giorno in cui partorirà colei che deve partorire” perché Dio è fedele alle sue promesse. Parlando di “Colei che deve partorire” insisteva sul fatto che quel momento era solo un tempo di apparente abbandono nel corso della storia umana. Inoltre proclamando: “E tu, Betlemme Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà colui che dovrà governare Israele”, il profeta ricordava che il Messia promesso - profezia da Natan a Davide (2Sam,7) - sarebbe stato un vero discendente di Davide, perché a Betlemme il profeta Samuele, su ordine di Dio, andò a scegliere un re tra gli otto figli di Iesse (1Sam,16). Per gli ebrei abituati alle sacre scritture, Betlemme evocava immediatamente la promessa del Messia e il profeta unisce a Betlemme il termine “Efrata” che significa “feconda”, nome di uno dei clan della regione di Betlemme.  In seguito tutta Betlemme viene identificata con Efrata e anche così il profeta tiene a far emergere il contrasto fra la grande e superba Gerusalemme e l’umile borgo di Betlemme, “il più piccolo tra i clan di Giuda” perché è nella piccolezza e nella fragilità, che si manifesta la potenza di Dio, il quale sceglie i piccoli per realizzare grandi progetti. Questa profezia di Michea sulla nascita del Messia a Betlemme era ben nota al popolo ebraico come emerge nell’episodio dei Magi che visitano Gesù (Mt 2,6): l’evangelista Matteo racconta che gli scribi citarono al re Erode il passo di Michea per indirizzarli verso Betlemme.  All’epoca i contemporanei di Gesù sapevano che era il Nazareno ed era inconcepibile che un galileo fosse il Messia. Anche il quarto evangelista osserva che quando si cominciò a discutere sull’identità di Gesù, alcuni dicevano: “Forse è lui il Cristo”, ma altri rispondevano: “il Cristo non può venire dalla Galilea, Michea lo ha detto chiaramente” (Gv 7,40-43). Il breve testo della prima lettura i chiude così: “Egli stesso sarà la pace”: shalom è la pace che solo il Messia può donare all’umanità

 

Salmo responsoriale 79 (80) 2ac. 3bc, 15-16, 18-19

 *Dio si fa premura della sua vigna  

L’accenno ai cherubini, in ebraico Kéroubim (Due cherubini sovrastavano l’arca dell’Alleanza nel Santo dei Santi del Tempio di Gerusalemme), statue di animali alati con testa d’uomo e corpo e zampe di leone, simboleggiano il trono di Dio.  “Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome”: siamo in una celebrazione penitenziale e “mai più” costituisce una risoluzione: “Da te mai più ci allontaneremo” significa che il popolo riconosce le proprie infedeltà e ne considera i propri mali come conseguenza. Il resto del salmo dettaglierà queste disgrazie, ma già qui si dice: “Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”, il che indica un profondo bisogno di essere salvati. Nelle difficoltà il popolo si rivolge al suo Dio che mai l’ha abbandonato e lo supplica invocandolo con due titoli: il pastore d’Israele e il vignaiolo, immagini che evocano sollecitudine, attenzione costante, ispirate alla vita quotidiana in Palestina, dove pastori e vignaioli erano figure centrali nella vita economica. La prima metafora è quella del Pastore di Israele. Nel linguaggio di corte dei paesi dell’antico medio oriente, il titolo di pastore era attribuito ai re; nella Bibbia, invece è prima di tutto attribuito a Dio e chiamavano i re di Israele “pastori del popolo” solo per delega dato che il vero pastore di Israele è Dio. Nel Salmo 22/23 leggiamo: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Nel libro della Genesi, quando Giacobbe benedice suo figlio Giuseppe, invoca “il Dio alla cui presenza hanno camminato i miei padri, Abramo e Isacco, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino a oggi” (Gen 48,15). E quando benedice i suoi dodici figli, lo fa “nel nome del Pastore, la Roccia d’Israele” (Gen 49,24). Anche Isaia usa questa immagine: “Ecco il vostro Dio!… Come un pastore, fa pascolare il suo gregge, con il suo braccio raduna gli agnelli, li porta sul petto, conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,9-11). E il popolo di Israele è il gregge di Dio come leggiamo nel Salmo 94/95: “Sì, egli è il nostro Dio e noi siamo il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce con la sua mano”. Si tratta di un salmo che è una meditazione sull’Esodo dove Israele ha fatto la prima esperienza della sollecitudine di Dio perché, senza di lui, non sarebbe sopravvissuto. Dio infatti ha radunato il suo popolo come un pastore raduna il suo gregge, permettendogli di superare ogni ostacolo. E oggi nel salmo responsoriale quando si dice: “Tu, pastore d’Israele, ascolta”, è all’esperienza fondamentale dell’Esodo e della liberazione dall’Egitto che ci si riferisce.

Nella seconda metafora il salmo chiama Dio vignaiolo: “Dio degli eserciti ritorna! Guarda dal cielo e vedi: visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato”. Il salmo si ispira al Canto della vigna di Isaia: ”Voglio cantare per il mio diletto il cantico del mio amato per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata, sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate. Nel mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino” (Is 5,1-2). Si tratta probabilmente di un canto popolare, che s’intonava durante i matrimoni come simbolo della cura del giovane sposo per la sua amata e questo salmo riprende l’ immagine per descrivere la sollecitudine di Dio come leggiamo nei versetti (9-12) non ripresi nel salmo responsoriale: ”Hai sradicato una vigna dall’Egitto, hai scacciato le nazioni per piantarla. Le hai preparato il terreno, l’hai radicata perché riempisse il paese. La sua ombra copriva le montagne, i suoi rami i cedri più alti; estendeva i suoi tralci fino al mare e i suoi germogli fino al Fiume”.  L’Esodo, l’ingresso nella Terra Promessa, l’Alleanza con Dio, la conquista della terra e l’espansione sotto il regno di Davide, in tutte queste glorie Israele vi riconosce l’opera di Dio, della sua continua presenza e cura. La crescita di Israele fu talmente straordinaria da poter  parlare di un’epoca di gloria: “La sua ombra copriva le montagne, i suoi rami i cedri più alti”, pensando alle conquiste di Davide  che estese i confini del regno a livelli mai raggiunti prima. 

La luna di miele non è durata a lungo perché già in Isaia il canto raccontava un amore felice all’inizio, finito male per l’infedeltà dell’amata ( cf Is 5, 2-4). E alla fine, il vignaiolo abbandona la sua vigna (cfIs 5, 5-6). Nel salmo di oggi troviamo la stessa avventura di un amore tradito: si parla di Israele e le sue infedeltà sono l’idolatria con ogni tipo di trasgressione alla Legge di Dio che porta delle conseguenze come ben si comprende quando si legge tutto il salmo.  Mi limito solo a qualche versetto non presente nel salmo responsoriale. “Perché hai abbattuto la sua siepe? Chiunque passa la saccheggia; il cinghiale della foresta la devasta e gli animali dei campi la brucano” (Sal 80, 13-14). E poco dopo:

“È distrutta, incendiata” (v. 17). E ancora: “Ci hai resi lo scherno dei vicini, i nostri nemici ridono di noi” (v. 7). In altre parole, siamo in un periodo di occupazione straniera e chi siano i nemici, la storia non lo dice; vengono però paragonati agli animali che devastano la vigna — come i cinghiali, ritenuti animali impuri. Israele riconosce la colpa per la quale è stato punito da Dio e il salmo invoca il perdono, dicendo: “Fino a quando resterai adirato contro le preghiere del tuo popolo? Ci hai fatto mangiare un pane di lacrime, ci hai dato da bere lacrime in abbondanza” (v. 5-6). Il salmo riflette lo stato della teologia dell’epoca quando si credeva che tutto, la felicità come la sventura, fossero opera da Dio.  Di certo oggi, grazie alla paziente pedagogia divina, c’è stato un progresso nella comprensione della rivelazione e abbiamo compreso che Dio rispetta la libertà dell’uomo e di certo non controlla ogni dettaglio della storia. Questo salmo offre però una magnifica lezione di fede e umiltà: il popolo riconosce le sue infedeltà e prende la ferma risoluzione di non ripeterle più:

“Da te mai più ci allontaneremo” e si rivolge a Dio implorando la forza della conversione:

“Facci vivere e noi invocheremo il tuo nome”.

 

Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei 10,  5-10

 *La disponibilità vale più di tutti i sacrifici

In queste poche righe per due volte ricorre quest’espressione: “Ecco, io vengo… per fare, o Dio, la tua volontà”, tratta dal Salmo 39/40, un salmo di rendimento di grazie. Breve commento a questo salmo che inizia con il descrivere il pericolo mortale da cui Israele è stato liberato: “Con pazienza ho sperato nel Signore: si è chinato su di me, ha ascoltato il mio grido. Mi ha tratto dalla fossa della morte, dal fango e dalla melma; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”. Dopo aver ringraziato per la liberazione dall’Egitto, prosegue: “Sulle mie labbra ha posto un canto nuovo, una lode al nostro Dio”; poi: “Non hai voluto né sacrifici né offerte, ma mi hai dato un corpo. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo, mio Dio, per fare la tua volontà”. Chiaro il messaggio: la maniera migliore per ringraziare è offrire a Dio non sacrifici, ma la disponibilità a compiere la sua volontà. La risposta che Dio attende è: “Eccomi”, tipico dei grandi servitori di Dio. Abramo, chiamato da Dio al momento del sacrificio di Isacco, rispose semplicemente: “Eccomi” e la sua disponibilità è esempio per i figli d’Israele (Gen 22): nonostante Isacco non sia stato immolato, la disponibilità vale più di tutti i sacrifici. Mosè risponde “Eccomi” di fronte al roveto ardente e la sua disponibilità trasformò un semplice pastore persino impacciato nel parlare nel grande condottiero d‘Israele. Samuele, secoli dopo, al tempo dei Giudici, con il suo “Eccomi” divenne grande profeta di Israele (1 Sam 3, 1-9) che da adulto ebbe il coraggio di dire al re Saul: “Il Signore gradisce forse gli olocausti e i sacrifici quanto l’obbedienza alla sua parola? No! L’obbedienza vale più del sacrificio, l’ascolto più del grasso degli arieti” (1 Sam 15, 22).

Nella Bibbia, il titolo di «servitore» di Dio è il più grande complimento per un credente, come pure nei primi secoli dell’era cristiana, nei paesi di lingua greca, era comune dare ai figli il nome «Christodule» (Christodoulos), che significa servitore di Cristo. L’insistenza sulla disponibilità diventa per ognuno anzitutto incoraggiante perché Dio chiede solo la nostra disponibilità e tutti, nonostante i limiti umani, possiamo diventare utili per il Regno di Dio. Al tempo stesso quest’insistenza è esigente poiché se Dio ci chiama a servirlo non possiamo accampare scuse come l’incompetenza, l’ignoranza, l’indegnità, la stanchezza, etc…

L’autore della Lettera agli Ebrei applica il Salmo 39/40 a Gesù Cristo, il quale dice: “Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ‘Ecco, io vengo per fare,o Dio la tua volontà”.  Disponibilità totale che non iniziò la sera del Giovedì Santo, ma abbraccia tutta la vita, giorno dopo giorno, fin dall’inizio perché “entrando nel mondo, Cristo dice… un corpo mi hai preparato …ecco, io vengo” (vv5-7). 

Dire che la disponibilità vale più di tutti i sacrifici non significa che i sacrifici vengano aboliti, ma perdono il loro valore quando non sono accompagnati da totale disponibilità al servizio di Dio e degli uomini. Inoltre in Israele, nel contesto della lotta contro le idolatrie, i profeti insistono, sul “sacrificio delle labbra”, preghiera e lode da rivolgere aesclusivamente al Dio d’Israele poiché avveniva che, pur offrendo  sacrifici costosi nel tempio di Gerusalemme, alcuni continuavano a rivolgersi  anche ad altri dèi. Offrire a Dio il “sacrificio delle labbra” indica la decisione di appartenere a Lui senza riserve e questo, come leggiamo in Osea,  valeva più di tutti i sacrifici animali: “Al posto di tori, ti offriremo in sacrificio le parole delle nostre labbra” (Os 14,3). Anche il salmo 49/50 lo ribadisce: “Offri a Dio come sacrificio la lode e sciogli i tuoi voti all’Altissimo… Chi offre la lode come sacrificio, mi glorifica (Sal 49/50,14.23).

Giacobbe è considerato un esempio di disponibilità assoluta a Dio, nonostante le sue malefatte, perché la sua vita testimonia una profonda trasformazione interiore e un’intensa ricerca di Dio. Il percorso di Giacobbe rappresenta il viaggio spirituale di ogni credente: da una vita caratterizzata da inganni e lotte a una vita di fede, di incontro con Dio e di adesione al suo progetto. Queste le malefatte di Giacobbe: fin dalla giovinezza, commette diverse azioni discutibili: inganna il fratello Esaù per ottenere la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie (Gen 25,29-34); truffa suo padre Isacco per ricevere la benedizione che spettava al primogenito, con l’aiuto della madre Rebecca (Gen 27), manipola lo zio Labano per arricchirsi durante il periodo in cui lavora per lui (Gen 30,25-43). Questa la sua disponibilità a Dio: nonostante questi comportamenti, Giacobbe è aperto all’incontro con Dio e mostra una crescente disponibilità a lasciarsi trasformare. La sua storia è scandita da episodi che dimostrano il cambiamento del suo cuore: il sogno di Betel (Gen 28,10-22): dopo aver ingannato il fratello ed essere fuggito, Giacobbe ha una visione di una scala che collega la terra al cielo. In questo sogno, Dio gli rinnova le promesse fatte ad Abramo e Isacco. Qui egli promette: “Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio… allora il Signore sarà il mio Dio” (Gen 28,20-21).

Poi a Peniel (Gen 32,23-32) lotta tutta la notte con un uomo misterioso, che si rivela essere Dio stesso o un suo messaggero e riceve un nuovo nome, Israele, che significa “Colui che lotta con Dio”. È il simbolo di una trasformazione profonda: “Non ti lascerò andare, se non mi avrai benedetto!” (Gen 32,27). Qui emerge la sua disponibilità totale a dipendere da Dio, a riconoscere la sua necessità di essere benedetto e guidato. Segue la riconciliazione con Esaù (Gen 33) e questo dimostra che il cambiamento interiore produce frutti concreti nelle relazioni umane. La sete di Dio: ciò che distingue Giacobbe non è la perfezione morale, ma la sua sete di Dio: lo ha sempre cercato anche quando le sue azioni erano dettate dall’ambizione personale e questa ricerca costante di Dio lo rende un esempio di disponibilità perché appare un uomo che, nonostante le sue debolezze e i suoi errori, ha sempre desiderato la benedizione e la presenza di Dio nella sua vita. La sua storia insegna che: Dio non sceglie i perfetti, ma coloro che sono disposti a lasciarsi trasformare; le nostre imperfezioni non sono un ostacolo alla chiamata di Dio, purché siamo disponibili a camminare con Lui; la disponibilità a Dio è più importante dei sacrifici o delle opere esteriori, perché Dio guarda il cuore e il desiderio di conversione. In sintesi, Giacobbe è un esempio di disponibilità assoluta a Dio perché, nonostante le sue malefatte, ha accolto la chiamata divina, ha lottato per la benedizione di Dio e si è lasciato trasformare da quell’incontro, diventando uno dei patriarchi fondamentali della fede di Israele.

 

Vangelo secondo Luca 1,39-45

*Tu sei benedetta fra tutte le donne  

Nel vangelo di Luca, dopo i due racconti dell’Annunciazione: a Zaccaria per la nascita di Giovanni Battista, e a Maria per la nascita di Gesù, segue il racconto della “Visitazione” che a prima vista appare una semplice scena di famiglia, ma non dobbiamo farci ingannare: Luca scrive un’opera profondamente teologica e per meglio capire occorre dare giusto valore alla frase centrale: “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce” (Lc 1,41-42). E’ quindi lo Spirito Santo che parla e annuncia fin dall’inizio la grande notizia di tutto il Vangelo di Luca: colui che è stato appena concepito è il “Signore”. Lo Spirito ispira a Elisabetta: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”: ciò significa che Dio agisce in te e attraverso di te, Dio agisce in tuo Figlio e attraverso tuo Figlio. Come sempre, lo Spirito Santo è colui che ci permette di scoprire, nelle nostre vite e in quelle degli altri, i segni dell’opera di Dio. Luca non ignora che questa frase di Elisabetta  ne riprende in parte, una che troviamo nel libro di Giuditta (Gdt 13,18-19): quando dopo aver decapitato il generale Oloferne, Giuditta ritorna dall’accampamento nemico, viene accolta da Ozia che le dice: “Tu sei benedetta fra tutte le donne, e benedetto è il Signore Dio”. Maria è qui paragonata a Giuditta, un parallelismo che suggerisce due cose: l’espressione “Benedetta  tu fra tutte le donne” fa capire che Maria è la donna che garantisce all’umanità la vittoria definitiva sul male. Quanto invece alla conclusione della frase (per Giuditta “benedetto è il Signore Dio” mentre per Maria “benedetto il frutto del tuo grembo”), annuncia che il Signore stesso è il frutto del suo grembo: ecco perché il racconto di Luca non è solo un quadretto di gioia familiare, ma qualcosa di ben più profondo. Di fronte al mutismo di Zaccaria, diventato muto perché aveva dubitato delle parole dell’angelo annunciatrici della nascita di Giovanni Battista, appare tutto il contrasto della potenza della parola di Elisabetta piena di Spirito Santo. Giovanni Battista, ancora nel grembo materno, già pieno di Spirito Santo manifesta la sua gioia: Elisabetta dice che “ha sussultato di gioia nel mio grembo” quando ha udito la voce di Maria. Lo aveva preannunciato l’angelo a Zaccaria: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e lo chiamerai Giovanni. Sarai nella gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita… sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo di sua madre” (Lc 1,13-15).

Riprendiamo le parole di Elisabetta: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?” (Lc 1,43). Anche questa frase richiama un episodio dell’Antico Testamento, cioè l’arrivo dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6,2-11). Quando Davide diventato re a Gerusalemme costruì un degno palazzo, decise di trasferire l’Arca dell’Alleanza nella nuova capitale. Pieno di fervore e di timore organizzò una processione festosa con tutti gli uomini migliori d’Israele, circa trentamila, e con tutto il popolo partì per far salire l’Arca di Dio… La trasportarono su un carro nuovo… Davide e tutta la casa d’Israele danzavano davanti al Signore al suono di cetre, arpe, tamburelli, sistri e cembali (cf 2 Sam 6,5). Durante il tragitto, però, un uomo che aveva toccato l’Arca senza esserne autorizzato morì immediatamente e, preso dal timore, Davide esclamò: “Come potrà l’Arca del Signore venire da me?” (2 Sam 6,9). Decise quindi di lasciare l’Arca nella casa di Obed-Edom, dove rimase per tre mesi e poi, poiché si diffuse la voce che la presenza dell’Arca portava benedizione a quella casa, Davide decise di completare il viaggio e così Davide e tutta la casa d’Israele fecero salire l’Arca del Signore tra canti di gioia e al suono del corno (cf 2 Sam 6,15) e pieno di gioia, Davide pure danzava davanti all’Arca “con tutte le sue forze” (cf 2 Sam 6,14).

Molti dettagli  accomunano il racconto della Visitazione  con il viaggio dell’Arca dell’Alleanza: Entrambi i viaggi, quello dell’Arca e quello di Maria, si svolgono nella stessa regione, le colline di Giudea; l’Arca entra nella casa di Obed-Edom e porta benedizione; Maria entra nella casa di Zaccaria ed Elisabetta e porta gioia; l’Arca rimane tre mesi nella casa di Obed-Edom; Maria resta tre mesi presso Elisabetta; Davide danza davanti all’Arca; Giovanni Battista “esulta di gioia” davanti a Maria che porta in sé il Signore. Poiché tutto questo non è casuale, l’evangelista invita a contemplare Maria come la nuova Arca dell’Alleanza. L’Arca era il luogo della Presenza di Dio, e Maria porta in sé, in modo misterioso, la Presenza divina e da quel momento Dio abita per sempre la nostra umanità: “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare fra noi” (Gv 1,14).

Dic 17, 2024

Benedictus e Alleanza

Pubblicato in Commento precedente

(Lc 1,67-79)

 

L’inno è una preghiera di lode delle prime comunità, e ci dà un’idea di come erano vissute la vita di fede e la liturgia: insieme celebrazione del mistero, professione, animazione della speranza e catechesi.

Il Cantico di Zaccaria si mantiene a un livello teologico giudaizzante che esprime il compimento del Patto, e sprizza letizia per la consapevolezza di essere stati visitati da Dio.

Nel Figlio, l’Eterno Padre ‘viene’ a coronare le Promesse.

Il componimento risponde al medesimo schema dell’inno di Maria (vv.46-55) che loda Dio perché rivela il suo potere in modo convergente e decisivo, donandoci il passo d’una vita liberata dalle oppressioni.

Nella nascita di Giovanni è annunciato il Cristo: l’attesa d’Israele - qui ancora vagamente confusa con un Germoglio dominante (davidico) dalle venature culturali vincolate, particolari.

Ora però l’aspettativa dei cuori si rende viva in una realtà di unione umana - imprevedibile per culture targate: in modo diverso da quello che ci si aspetterebbe.

Tutto un popolo è sacerdotale.

Giunge finalmente il mondo della verità e della pienezza nel vivere: della presenza divina non ingessata, bensì ‘in mezzo’.

Certezza precisata nelle forme tradizionali della “nazione eletta”, sulla quale però si eleva la fiducia generata dall’esperienza di un nuovo assetto fraterno.

L’intervento di Giovanni e Gesù sostanzia l’invocata pienezza dei tempi. Così «il Dio d’Israele ha visitato e fatto la redenzione per il suo popolo, e ha suscitato per noi un corno di salvezza» (vv.68-69).

In questo passaggio dalla Prima alla Nuova Alleanza le comunità di Lc esprimono una voglia di testimoniare convinzioni di Fede ormai «senza paura» (v.74), con senso di Presenza: «dinanzi» (vv.75.76).

Ciò per consapevolezza di «perdono» incondizionato e «conoscenza»: «Via di Pace» (vv.77.79).

Un’esperienza che evolve armonizzando le Scritture antiche, lasciando avanzare una nuova Liberazione.

Riscatto per opera intrinseca, non accessoria: azione della Luce che evita condanne; solo concilia.

L’unità della storia della salvezza produce l’affrancamento delle sue esigenze spirituali, sociali e di criterio, senza più contese convenzionali - nell’Aurora del Messia atteso.

 

 

[Feria propria del 24 dicembre]

Cari fratelli e sorelle,

la celebrazione del Santo Natale è ormai imminente. L’odierna vigilia ci prepara a vivere intensamente il mistero che questa Notte la liturgia ci inviterà a contemplare con gli occhi della fede. Nel divino Neonato, che deporremo nel presepe, si rende manifesta la nostra salvezza. Nel Dio che si fa uomo per noi, ci sentiamo tutti amati ed accolti, scopriamo di essere preziosi e unici agli occhi del Creatore. Il Natale di Cristo ci aiuta a prendere coscienza di quanto valga la vita umana, la vita di ogni essere umano, dal suo primo istante al suo naturale tramonto. A chi apre il cuore a questo "bambino avvolto in fasce" e giacente "in una mangiatoia" (cfr Lc 2,12), egli offre la possibilità di guardare con occhi nuovi le realtà di ogni giorno. Potrà assaporare la potenza del fascino interiore dell’amore di Dio, che riesce a trasformare in gioia anche il dolore.

Prepariamoci, cari amici, ad incontrare Gesù, l’Emmanuele, Dio con noi. Nascendo nella povertà di Betlemme, Egli vuole farsi compagno di viaggio di ciascuno. In questo mondo, da quando Lui stesso ha voluto porvi la sua "tenda", nessuno è straniero. È vero, siamo tutti di passaggio, ma è proprio Gesù a farci sentire a casa in questa terra santificata dalla sua presenza. Egli ci chiede però di renderla casa accogliente per tutti. Il dono sorprendente del Natale è proprio questo: Gesù è venuto per ciascuno di noi e in lui ci ha resi fratelli. L’impegno corrispondente è quello di superare sempre più i preconcetti e i pregiudizi, abbattere le barriere ed eliminare i contrasti che dividono, o peggio, contrappongono gli individui e i popoli, per costruire insieme un mondo di giustizia e di pace.

Con questi sentimenti, cari fratelli e sorelle, viviamo le ultime ore che ci separano dal Natale, preparandoci spiritualmente ad accogliere il Bambino Gesù. Nel cuore della notte Egli verrà per noi. È suo desiderio però anche venire in noi, ad abitare cioè nel cuore di ognuno di noi. Perché ciò avvenga, è indispensabile che siamo disponibili e ci apprestiamo a riceverlo, pronti a fargli spazio dentro di noi, nelle nostre famiglie, nelle nostre città. Che la sua nascita non ci colga impegnati a festeggiare il Natale, dimenticando che il protagonista della festa è proprio Lui! Ci aiuti Maria a mantenere il raccoglimento interiore indispensabile per gustare la gioia profonda che apporta la nascita del Redentore. A Lei ci rivolgiamo ora con la nostra preghiera, pensando particolarmente a quanti si apprestano a trascorrere il Natale nella tristezza e nella solitudine, nella malattia e nella sofferenza: a tutti la Vergine arrechi conforto e consolazione.

[Papa Benedetto, Angelus 24 dicembre 2006]

(Lettura: Lc 1,68-69.76.78-79)

1. Giunti al termine del lungo itinerario all’interno dei Salmi e dei Cantici della Liturgia delle Lodi, vogliamo sostare su quella preghiera che, ogni mattina, scandisce il momento orante della lode. Si tratta del Benedictus, il Cantico intonato dal padre di Giovanni Battista, Zaccaria, allorché la nascita di quel figlio aveva mutato la sua vita, cancellando il dubbio che l’aveva reso muto, una punizione significativa per la sua mancanza di fede e di lode.

Ora, invece, Zaccaria può celebrare Dio che salva e lo fa con questo inno, riportato dall’evangelista Luca in una forma che certamente ne riflette l’uso liturgico all’interno della comunità cristiana delle origini (cfr Lc 1,68-79).

Lo stesso evangelista lo definisce come un canto profetico, sbocciato attraverso il soffio dello Spirito Santo (cfr 1,67). Siamo, infatti, di fronte ad una benedizione che proclama le azioni salvifiche e la liberazione offerta dal Signore al suo popolo. E’, quindi, una lettura «profetica» della storia, ossia la scoperta del senso intimo e profondo dell’intera vicenda umana, guidata dalla mano nascosta ma operosa del Signore, che s’intreccia con quella più debole e incerta dell’uomo.

2. Il testo è solenne e, nell’originale greco, si compone di due sole frasi (cfr vv. 68-75; 76-79). Dopo l’introduzione, segnata dalla benedizione laudativa, possiamo identificare nel corpo del Cantico quasi tre strofe, che esaltano altrettanti temi, destinati a scandire tutta la storia della salvezza: l’alleanza davidica (cfr vv. 68-71), l’alleanza abramitica (cfr vv. 72-75), il Battista che ci introduce nella nuova alleanza in Cristo (cfr vv. 76-79). La tensione di tutta la preghiera è, infatti, verso quella meta che Davide e Abramo indicano con la loro presenza.

Il vertice è appunto in una frase quasi conclusiva: «Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge» (v. 78). L’espressione a prima vista paradossale col suo unire «l’alto» e il «sorgere», è in realtà significativa.

3. Infatti nell’originale greco il «sole che sorge» è anatolè, un vocabolo che in sé significa sia la luce solare che brilla sul nostro pianeta, sia il germoglio che spunta. Entrambe le immagini nella tradizione biblica hanno un valore messianico.

Da un lato, Isaia ci ricorda, parlando dell’Emmanuele, che «il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1). D’altro lato, ancora riferendosi al re-Emmanuele, lo raffigura come il «germoglio spuntato dal tronco di Iesse», cioè dalla dinastia davidica, un virgulto avvolto dallo Spirito di Dio (cfr Is 11,1-2).

Con Cristo, dunque, appare la luce che illumina ogni creatura (cfr Gv 1,9) e fiorisce la vita, come dirà l’evangelista Giovanni unendo proprio queste due realtà: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4).

4. L’umanità che è avvolta «nelle tenebre e nell’ombra della morte» è rischiarata da questo fulgore di rivelazione (cfr Lc 1,79). Come aveva annunziato il profeta Malachia, «per voi cultori del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (3,20). Questo sole «dirigerà i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79).

Ci muoviamo, allora, avendo come punto di riferimento quella luce; e i nostri passi incerti, che durante il giorno spesso deviano su strade oscure e scivolose, sono sostenuti dal chiarore della verità che Cristo diffonde nel mondo e nella storia.

Vorremmo, a questo punto, lasciare la parola a un maestro della Chiesa, a un suo Dottore, il britannico Beda il Venerabile (VII-VIII sec.) che nella sua Omelia per la nascita di san Giovanni Battista, così commentava il Cantico di Zaccaria: «Il Signore… ci ha visitati come un medico i malati, perché per sanare l’inveterata infermità della nostra superbia, ci ha offerto il nuovo esempio della sua umiltà; ha redento il suo popolo, perché ha liberato a prezzo del suo sangue noi che eravamo diventati servi del peccato e schiavi dell’antico nemico… Cristo ci ha trovato che giacevamo "nelle tenebre e nell’ombra della morte", cioè oppressi dalla lunga cecità del peccato e dell’ignoranza… Ci ha portato la vera luce della sua conoscenza e, rimosse le tenebre dell’errore, ci ha mostrato il sicuro cammino per la patria celeste. Ha diretto i passi delle nostre opere per farci camminare nella via della verità, che ci ha mostrato, e per farci entrare nella casa della pace eterna, che ci ha promesso».

5. Infine, attingendo ad altri testi biblici, il Venerabile Beda così concludeva, rendendo grazie per i doni ricevuti: «Dato che siamo in possesso di questi doni della bontà eterna, fratelli carissimi, …benediciamo anche noi il Signore in ogni tempo (cfr Sal 33,2), perché "ha visitato e redento il suo popolo". Sulla nostra bocca ci sia sempre la sua lode, conserviamo il suo ricordo e a nostra volta proclamiamo la virtù di colui che "dalle tenebre ci ha chiamato alla sua ammirabile luce" (1Pt 2,9). Chiediamo continuamente il suo aiuto, perché conservi in noi la luce della conoscenza che ci ha portato, e ci conduca fino al giorno della perfezione» (Omelie sul Vangelo, Roma 1990, pp. 464-465).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 1 ottobre 2003]

Il Vangelo che è stato appena proclamato è il prologo di due grandi cantici: quello di Maria noto come il “Magnificat” e quello di Zaccaria, il “Benedictus”, che mi piace chiamare “il cantico di Elisabetta o della fecondità”. Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva”. In tal modo i credenti di diversi popoli, giorno per giorno, cercano di fare memoria; di ricordare che, di generazione in generazione, la misericordia di Dio si diffonde su tutto il popolo come aveva promesso ai nostri padri. E da questo contesto di memoria grata sgorga il canto di Elisabetta sotto forma di domanda: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?”. Troviamo Elisabetta, la donna marcata dal segno della sterilità, che canta sotto il segno della fecondità e dello stupore.

Vorrei sottolineare proprio questi due aspetti. Elisabetta, la donna sotto il segno della sterilità e sotto il segno della fecondità.

1. Elisabetta la donna sterile, con tutto ciò che implicava per la mentalità religiosa della sua epoca, che considerava la sterilità come un castigo divino frutto del proprio peccato o di quello dello sposo. Un segno di vergogna impresso nella propria carne, o perché si considera colpevole di un peccato che non ha commesso o perché si sente poco cosa, non essendo all’altezza di ciò che ci si aspettava da lei. Immaginiamo, per un istante, gli sguardi dei suoi familiari, dei suoi vicini, di se stessa... sterilità che penetra a fondo e finisce col paralizzare tutta la vita. Sterilità che può assumere molti nomi e forme ogni volta che una persona prova nella propria carne la vergogna vedendosi stigmatizzata o sentendosi poca cosa (…)

2. E, insieme a Elisabetta, la donna sterile, contempliamo Elisabetta la donna feconda-stupita. È lei la prima a riconoscere e benedire Maria. È lei che in vecchiaia ha sperimentato nella propria vita, nella propria carne, il compimento della promessa fatta da Dio. Colei che non poteva avere figli ha portato nel suo grembo il precursore della salvezza. In lei capiamo che il sogno di Dio non è né sarà la sterilità, e neppure di stigmatizzare o riempire di vergogna i propri figli, ma di far sgorgare in loro e da loro un canto di benedizione. Allo stesso modo lo vediamo in Juan Diego. È stato proprio lui, e non un altro, a recare impressa sul suo mantello, la tilma, l’immagine della Vergine: la Vergine dalla carnagione scura e il volto meticcio, sostenuta da un angelo con ali di quetzal, pellicano e ara; la madre capace di assumere i tratti dei propri figli per farli sentire parte della sua benedizione.

Sembrerebbe che Dio si ostini continuamente a mostrarci che «la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo» (Sal 117, 22).

[Papa Francesco, omelia 12 dicembre 2017]

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Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
People have a dream: to guess identity and mission. The feast is a sign that the Lord has come to the family
Il popolo ha un Sogno: cogliere la sua identità e missione. La festa è segno che il Signore è giunto in famiglia
“By the Holy Spirit was incarnate of the Virgin Mary”. At this sentence we kneel, for the veil that concealed God is lifted, as it were, and his unfathomable and inaccessible mystery touches us: God becomes the Emmanuel, “God-with-us” (Pope Benedict)
«Per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria». A questa frase ci inginocchiamo perché il velo che nascondeva Dio, viene, per così dire, aperto e il suo mistero insondabile e inaccessibile ci tocca: Dio diventa l’Emmanuele, “Dio con noi” (Papa Benedetto)
The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situationsi
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses

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