Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Gv 15,18-21)
Nella sezione che precede, Gesù denota il carattere dell’amore tra Lui e i discepoli, e l’amore vicendevole fra credenti. Ora introduce il contrasto col mondo: il contrario dell’amore.
In Gv il termine «mondo» designa la struttura di peccato frutto del connubio religione potere interesse.
Regno che si organizza a partire da individui ambiziosi e cordate.
Sin dai primi tempi, il contromano diventava viceversa costitutivo dei «figli». In tal guisa, la configurazione del Regno era cosa alternativa; capovolgimento.
I modelli affermati ed elogiati, ben inseriti, non distraevano i fratelli e sorelle di Fede. Le nuove assemblee educavano a conquistare sicurezza nella personale Vocazione.
La loro esperienza anche mistica aveva un altro discrimine rispetto agli osanna e al quietismo a guinzaglio.
Nel quarto Vangelo la ‘Chiesa’ [Gv non usa mai il termine specifico, Εκκλησία] è in filigrana il contrario del «mondo».
Lo spirito mondano della religiosità ufficiale già odiava gli amici che Cristo aveva tratto «da» quelle acque inquinate:
«Se foste dal mondo […] Poiché invece non siete dal mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo vi odia il mondo» (v.19).
La prima esperienza delle comunità giovannee dell’Asia Minore fu la persecuzione.
Vicenda dopo vicenda, la sopraffazione subita diventava normale per il credente, perché quel mondo lì amava solo i “suoi”: «il mondo vorrebbe bene a proprio» (v.19), ossia, ciò e coloro in cui si riconosce.
Per la loro Fede viva gli amici del Cristo restavano invece ‘intimi’; estranei ad ogni apparato.
Nelle scelte e nella condotta riflettevano uno stile di vita conviviale unico - umanizzante ben più di ogni credenza normale e codina.
Con la loro azione che derivava dalla sola forza interiore, prefiguravano un germe di società anticonformista. Ciò a paragone dell’ideologia di potere - e del suo avere-apparire.
Così gli amici del Signore davano testimonianza contro «il peccato del mondo» (cf. Gv 1,29) proprio come aveva fatto l’Agnello di Dio.
Sebbene destinati alla sconfitta, gli autentici fedeli operavano in modo eccentrico; mai servile.
Il distacco era con le strutture devote ufficiali, sempre deferenti, codarde; ben disposte alla sacralizzazione dei ruoli assodati.
Insomma, i discepoli di tutti i tempi «conoscono» il Figlio e il Padre; il mondo li disconosce (v.21).
Quindi «Non c’è servo più grande del suo Signore» (v.20).
Il credente beve al medesimo calice, proclama le medesime verità: non può avere una sorte migliore.
L’intensificarsi del male-contro è inevitabile.
«Tutte queste cose faranno contro di voi a causa del mio Nome» (v.21).
Gesù è vissuto fra denunce, contrasti, animosità, persecuzioni, ed è morto da ribelle punito e svergognato.
Questa la realtà del «Nome».
Cosa attendersi di diverso dagli eredi della sua Parola, dai portatori del medesimo Appello che aveva condotto il Maestro a essere distrutto dalle autorità ufficiali?
Tuttavia i semplici della terra non lo hanno mai rigettato.
E ora più che mai si fa necessario che il germe vitale di quella testimonianza pacata e drammatica continui.
[Sabato 5.a sett. di Pasqua, 24 maggio 2025]
(Gv 15,18-21)
Lui che è maestro dell’amore, al quale piaceva tanto parlare di amore, parla di odio. Ma a lui piaceva chiamare le cose con il nome proprio che hanno [Papa Francesco].
Oggi la cultura riflette una «tensione», che alle volte prende forme di «conflitto», fra il presente e la tradizione. La dinamica della società assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato e senza l’intenzione di delineare un futuro […] Infatti un popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia, privo di valori chiaramente definiti e senza grandi scopi chiaramente enunciati [Papa Benedetto].
Nella sezione che precede Gesù denota il carattere dell’amore tra Lui e i discepoli e l’amore vicendevole fra credenti. Ora introduce il contrasto col mondo: il contrario dell’amore.
In Gv il termine «mondo» designa la struttura di peccato frutto del connubio religione potere interesse.
Regno che si organizza a partire da individui ambiziosi e cordate; reti di ammanicati, sintonie di circostanza, cricche.
Sin dai primi tempi, il contromano diventava viceversa costitutivo dei figli! In tal guisa, la configurazione del Regno era cosa alternativa, capovolgimento.
I modelli affermati ed elogiati, ben inseriti, non distraevano i fratelli di Fede. Le nuove assemblee educavano a conquistare sicurezza nella personale Vocazione.
La loro esperienza anche mistica aveva un altro discrimine rispetto agli osanna e al quietismo a guinzaglio dell’impero e delle religioni.
Nel quarto Vangelo la ‘Chiesa’ [in Gv il termine specifico Εκκλησία non è mai usato] è in filigrana il contrario del «mondo».
Lo spirito mondano della religiosità ufficiale già odiava gli amici che Cristo aveva tratto «da» quelle acque inquinate:
«Se foste dal mondo […] Poiché invece non siete dal mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo vi odia il mondo» (v.19).
La prima esperienza delle comunità giovannee dell’Asia Minore fu la persecuzione.
Vicenda dopo vicenda, la sopraffazione subita diventava normale per il credente, perché quel mondo lì amava solo i “suoi”: «il mondo vorrebbe bene a proprio» (v.19 testo greco), ossia, ciò e coloro in cui si riconosce.
Per la loro Fede viva gli amici del Cristo restavano invece ‘intimi’; estranei ad ogni apparato.
Nelle scelte e nella condotta riflettevano uno stile di vita conviviale unico - umanizzante ben più di ogni credenza normale e codina.
Con la loro azione che derivava dalla sola forza interiore, prefiguravano un germe di società anticonformista. Ciò a paragone dell’ideologia di potere - e del suo avere-apparire.
Così gli amici del Signore davano testimonianza contro «il peccato del mondo» (cf. Gv 1,29) proprio come aveva fatto l’Agnello di Dio.
Sebbene destinati alla sconfitta, gli autentici fedeli operavano in modo eccentrico; mai servile.
Il distacco era con le strutture devote ufficiali, sempre deferenti, codarde; ben disposte alla sacralizzazione dei ruoli assodati.
Insomma, i discepoli di tutti i tempi «conoscono» il Figlio e il Padre; il mondo li disconosce (v.21).
Quindi «Non c’è servo più grande del suo Signore» (v.20).
Il credente beve al medesimo calice, proclama le medesime verità: non può avere una sorte migliore.
L’intensificarsi del male-contro è inevitabile.
«Tutte queste cose faranno contro di voi a causa del mio Nome» (v.21).
Gesù è vissuto fra denunce, contrasti, animosità, persecuzioni, ed è morto da ribelle punito e svergognato. Questa la realtà del «Nome».
Cosa attendersi di diverso dagli eredi della sua Parola, dai portatori del medesimo Appello che aveva condotto il Maestro a essere distrutto dalle autorità ufficiali?
Tuttavia i semplici della terra non lo hanno mai rigettato.
E ora più che mai si fa necessario che il germe vitale di quella testimonianza pacata e drammatica continui.
Gv aiuta le comunità dell’Asia Minore a comprendere la propria identità e destino di beffa, senza tuttavia fermarsi al tema della persecuzione.
La nostra Via corre parallela a quella del Maestro non solo perché disinteressata ai risultati visibili e punteggiata di ferite.
Nel panorama dei vari credo secondo corrente mondana, è da mettere in conto che la proposta di Gesù crei divisioni, antipatia; perché sembra un’assurdità rispetto al cammino qualunque.
La testimonianza del Crocifisso non solo non è riducibile a banalità di signorsì, tornaconto e teatro sociale.
Gli evangelizzatori fanno differenza a partire dall’abbecedario dell’ovvietà “spirituale” da paradigma.
Appunto, il mondo non conosce il Padre (v.21): ama e capisce solo ciò che è suo (v.19).
Impossibile afferri l’idea che solo chi rischia comprende Dio; che unicamente la profondità, la reciprocità e pari dignità lo rende Presente.
Per quanto concerne lo specifico della proposta umanizzante, nello Spirito:
Assurdo sembra che si possa essere “a cospetto” del Mistero non a partire dalla perfezione, ma dalla Grazia. Non a partire dalla condizione ottimale, ma dalla situazione di limite. Non dall’obbligo che si attiene (e uguale per tutti) ma dalla Chiamata per Nome eccentrica.
Nella vita di Comunione col Cielo e il prossimo non scattiamo da giudizi a monte, procedure, o piattaforme già solide, bensì dalla nostra indigenza accolta.
Proposta che non abolisce né ignora ciò ch’è divinizzante e umano.
È una bomba, certo. Per servitori unici - e senza ricompensa.
Altro che «mondo» [detestabile] col quietismo a guinzaglio: esso ama autodefinire cosa sia ad es. “perbene”, “giustizia”, “spirito”, “relax”… e perfino “bellezza”!
Vuoto - sorta di situazionalismo “woke” - che non rigenera la natura profonda delle anime, né il mondo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti chiudi in teatrini dove la maschera eclissa te stesso?
Opti per la strada larga e già conosciuta?
Preferisci sentieri di facile moralismo o la Via della Fede nel Crocifisso, quella dello smacco e squilibrio d’amore?
Oggi la cultura riflette una «tensione», che alle volte prende forme di «conflitto», fra il presente e la tradizione. La dinamica della società assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato e senza l’intenzione di delineare un futuro. Tale valorizzazione però del «presente» quale fonte ispiratrice del senso della vita, sia individuale che sociale, si scontra con la forte tradizione culturale del Popolo portoghese, profondamente segnata dal millenario influsso del cristianesimo e con un senso di responsabilità globale; essa si è affermata nell’avventura delle scoperte e nello zelo missionario, condividendo il dono della fede con altri popoli. L’ideale cristiano dell’universalità e della fraternità aveva ispirato quest’avventura comune, anche se gli influssi dell’illuminismo e del laicismo si erano fatti sentire. Detta tradizione ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una «sapienza», cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un «ideale» da adempiere da parte del Portogallo, il quale ha sempre cercato di stabilire rapporti con il resto del mondo.
La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione, il cui ricco contributo colloca al servizio della società; questa continua a rispettarne e apprezzarne il servizio per il bene comune, ma si allontana dalla citata «sapienza» che fa parte del suo patrimonio. Questo «conflitto» fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita, sia come individuo che come popolo. Infatti un popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia, privo di valori chiaramente definiti e senza grandi scopi chiaramente enunciati. Cari amici, c’è tutto uno sforzo di apprendimento da fare circa la forma in cui la Chiesa si situa nel mondo, aiutando la società a capire che l’annuncio della verità è un servizio che Essa offre alla società, aprendo nuovi orizzonti di futuro, di grandezza e dignità. In effetti, la Chiesa ha «una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione. […] La fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di un sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca, l’annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile» (Enc. Caritas in veritate, 9). Per una società formata in maggioranza da cattolici e la cui cultura è stata profondamente segnata dal cristianesimo, si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo. Per noi, cristiani, la Verità è divina; è il «Logos» eterno, che ha acquisito espressione umana in Gesù Cristo, il qual ha potuto affermare con oggettività: «Io sono la verità» (Gv 14,6). La convivenza della Chiesa, nella sua ferma adesione al carattere perenne della verità, con il rispetto per altre «verità», o con la verità degli altri, è un apprendistato che la Chiesa stessa sta facendo. In questo rispetto dialogante si possono aprire nuove porte alla trasmissione della verità.
«La Chiesa – scriveva il Papa Paolo VI – deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa dialogo» (Enc. Ecclesiam suam, 67). Infatti, il dialogo senza ambiguità e rispettoso delle parti in esso coinvolte è oggi una priorità nel mondo, alla quale la Chiesa non intende sottrarsi. Ne dà testimonianza proprio la presenza della Santa Sede in diversi organismi internazionali, come, per esempio, nel Centro Nordsud del Consiglio dell’Europa, istituito 20 anni fa qui a Lisbona, che ha come pietra angolare il dialogo interculturale allo scopo di promuovere la cooperazione fra l’Europa, il sud del Mediterraneo e l’Africa e di costruire una cittadinanza mondiale fondata sui diritti umani e le responsabilità dei cittadini, indipendentemente dalla loro origine etnica e appartenenza politica, e rispettosa delle credenze religiose. Costatata la diversità culturale, bisogna far sì che le persone non solo accettino l’esistenza della cultura dell’altro, ma aspirino anche a venire arricchite da essa e ad offrirle ciò che si possiede di bene, di vero e di bello.
Questa è un’ora che richiede il meglio delle nostre forze, audacia profetica, rinnovata capacità per «additare nuovi mondi al mondo», come direbbe il vostro Poeta nazionale (Luigi di Camões, Os Lusíades, II, 45). Voi, operatori della cultura in ogni sua forma, creatori di pensiero e di opinione, «avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. […] E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita» (Discorso agli artisti, 21 novembre 2009).
Proprio con lo scopo di «mettere il mondo moderno in contatto con le energie vivificanti e perenni del Vangelo» (Giovanni XXIII, Cost. ap. Humanae salutis, 3), si è realizzato il Concilio Vaticano II, nel quale la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita. L’evento conciliare ha messo i presupposti per un autentico rinnovamento cattolico e per una nuova civiltà – la «civiltà dell’amore» - come servizio evangelico all’uomo e alla società.
Cari amici, la Chiesa ritiene come sua missione prioritaria, nella cultura attuale, tenere sveglia la ricerca della verità e, conseguentemente, di Dio; portare le persone a guardare oltre le cose penultime e mettersi alla ricerca delle ultime. Vi invito ad approfondire la conoscenza di Dio così come Egli si è rivelato in Gesù Cristo per la nostra piena realizzazione. Fate cose belle, ma soprattutto fate diventare le vostre vite luoghi di bellezza. Interceda per voi Santa Maria di Betlemme, da secoli venerata dai navigatori dell’oceano e oggi dai navigatori del Bene, della Verità e della Bellezza.
[Papa Benedetto, incontro con il mondo della cultura, Lisbona 12 maggio 2010]
37. La Chiesa del primo millennio nacque dal sangue dei martiri: «Sanguis martyrum - semen christianorum ». Gli eventi storici legati alla figura di Costantino il Grande non avrebbero mai potuto garantire uno sviluppo della Chiesa quale si verificò nel primo millennio, se non fosse stato per quella seminagione di martiri e per quel patrimonio di santità che caratterizzarono le prime generazioni cristiane. Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa di martiri. Le persecuzioni nei riguardi dei credenti - sacerdoti, religiosi e laici - hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo. La testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti, come rilevava già Paolo VI nella omelia per la canonizzazione dei martiri ugandesi.
È una testimonianza da non dimenticare. La Chiesa dei primi secoli, pur incontrando notevoli difficoltà organizzative, si è adoperata per fissare in appositi martirologi la testimonianza dei martiri. Tali martirologi sono stati aggiornati costantemente attraverso i secoli, e nell'albo dei santi e dei beati della Chiesa sono entrati non soltanto coloro che hanno versato il sangue per Cristo, ma anche maestri della fede, missionari, confessori, vescovi, presbiteri, vergini, coniugi, vedove, figli.
Nel nostro secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi « militi ignoti » della grande causa di Dio.
[Tertio Millennio Adveniente]
I cristiani sono perseguitati oggi più che agli inizi della storia del cristianesimo. La causa originaria di ogni persecuzione è l’odio del principe del mondo verso quanti sono stati salvati e redenti da Gesù con la sua morte e con la sua resurrezione. Le uniche armi per difendersi sono la parola di Dio, l’umiltà e la mitezza.
Anche questa mattina, sabato 4 maggio, Papa Francesco ha indicato una strada da seguire per imparare a districarsi tra le insidie del mondo. Insidie che, ha spiegato nell’omelia della messa celebrata nella cappella della Domus Sanctae Marthae, sono opera del «diavolo», «principe del mondo», «spirito del mondo».
Il Papa, commentando le letture del giorno tratte dagli Atti degli apostoli (16, 1-10) e dal vangelo di Giovanni (15, 18-21), ha incentrato la sua riflessione sull’odio «una parola forte — ha sottolineato — usata da Gesù. Proprio odio. Lui che è maestro dell’amore, al quale piaceva tanto parlare di amore, parla di odio». Ma «a lui — ha spiegato — piaceva chiamare le cose con il nome proprio che hanno. E ci dice “Non spaventatevi! Il mondo vi odierà. Sappiate che prima di voi ha odiato me”. E ci ricorda anche quello che lui forse aveva detto in un’altra occasione ai discepoli: “ricordatevi della parola che io vi ho detto: un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”. La strada dei cristiani è la strada di Gesù». Per seguirlo non ce ne è un’altra. Una di quelle segnate da Gesù, ha precisato il Santo Padre, «è una conseguenza dell’odio del mondo e anche del principe di questo odio nel mondo».
Gesù — ha spiegato il Pontefice — ci ha scelti e «ci ha riscattati. Ci ha scelti per pura grazia. Con la sua morte e resurrezione ci ha riscattati dal potere del mondo, dal potere del diavolo, dal potere del principe di questo mondo. L’origine dell’odio è questa: siamo salvati e quel principe del mondo, che non vuole che siamo salvati, ci odia e fa nascere la persecuzione che dai primi tempi di Gesù continua fino a oggi. Tante comunità cristiane sono perseguitate nel mondo. In questo tempo più che nei primi tempi; eh! Oggi, adesso, in questo giorno, in questa ora. Perché? Ma perché lo spirito del mondo odia».
Solitamente alla persecuzione si giunge dopo aver percorso una strada, lunga. «Pensiamo — ha suggerito Papa Francesco — a come il principe del mondo ha voluto ingannare Gesù quando era nel deserto: “Ma fai il bravo! Hai fame? Mangia. Tu puoi farlo”. Lo ha anche invitato un po’ alla vanità: “Fai il bravo! Tu sei venuto per salvare la gente. Risparmia tempo, vai al tempio, buttati giù e tutta la gente vedrà questo miracolo e tutto è finito: tu avrai autorità”. Ma pensiamo a questo: Gesù mai ha risposto a questo principe con le sue parole! Mai. Era Dio. Mai. È andato, per la risposta, a trovare le parole di Dio e ha risposto con la parola di Dio». Un messaggio per l’uomo d’oggi: «Con il principe di questo mondo non si può dialogare. E questo sia chiaro». Il dialogo è un’altra cosa: «è necessario fra noi — ha spiegato il vescovo di Roma — è necessario per la pace. Il dialogo è un’abitudine, è proprio un atteggiamento che noi dobbiamo avere tra noi per sentirci, per capirci. E deve mantenersi sempre. Il dialogo nasce dalla carità, dall’amore. Con quel principe non si può dialogare; si può soltanto rispondere con la parola di Dio che ci difende». Il principe del mondo, ha ribadito, «ci odia. E come ha fatto con Gesù farà con noi: “Ma guarda, fa’ questo... è una piccola truffa... non c’è niente... è piccola” e così comincia a portarci su una strada un pochino ingiusta». Comincia da piccole cose, poi inizia con le lusinghe e con esse «ci ammorbidisce» fino a che «cadiamo nella trappola. Gesù ci ha detto: “Io invio voi come pecorelle in mezzo ai lupi. Siate prudenti, ma semplici”. Se però ci lasciamo prendere dallo spirito di vanità e pensiamo di contrastare i lupi facendoci noi stessi lupi “questi vi mangeranno vivi”. Perché se smetti di essere pecorella, non hai un pastore che ti difende e cadi nelle mani di questi lupi. Voi potreste chiedere: “Padre, ma qual è l’arma per difendersi da queste seduzioni, da questi fuochi d’artificio che fa il principe di questo mondo, dalle sue lusinghe?”. L’arma è la stessa di Gesù: la parola di Dio, e poi l’umiltà e la mitezza. Pensiamo a Gesù quando gli danno lo schiaffo: che umiltà, che mitezza. Poteva insultare e invece ha fatto solo una domanda umile e mite. Pensiamo a Gesù nella sua passione. Il profeta di lui dice “come una pecora che va al mattatoio, non grida niente”. L’umiltà. Umiltà e mitezza: queste sono le armi che il principe del mondo, lo spirito del mondo non tollera, perché le sue proposte sono di potere mondano, proposte di vanità, proposte di ricchezze. L’umiltà e la mitezza non le tollera». Gesù è mite e umile di cuore e «oggi — ha detto avviandosi a conclusione — ci fa pensare a quest’odio del principe del mondo contro di noi, contro i seguaci di Gesù». E pensiamo alle armi che abbiamo per difenderci: «restiamo sempre pecorelle, perché così avremo un pastore che ci difende».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 05/05/2013]
VI Domenica di Pasqua (anno C) [25 Maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Camminiamo a passi rapidi verso l’Ascensione del Signore e la Pentecoste. Le parole di Gesù ci preparano ad accogliere lo Spirito Santo, il Paraclito, Parakletos, termine greco intraducibile in una sola parola. 5 volte appare nel N.T. sempre solo in Giovanni e i significati possibili sono: Difensore/Avvocato; Consolatore; Intercessore /Mediatore, Maestro interiore/Spirito di verità.
*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (15, 1-2.22-29)
Le prime comunità cristiane hanno dovuto affrontare fin dall’inizio una grave crisi che per molto tempo ha avvelenato la loro esistenza. Mi spiego: ad Antiochia di Siria, c’erano cristiani di origine ebraica e cristiani di origine pagana e la loro convivenza era diventata sempre più difficile perché troppo diversi erano i loro stili di vita. I cristiani di origine ebraica erano circoncisi e consideravano pagani coloro che non lo sono e nella stessa vita quotidiana tutto li contrapponeva a causa di tutte le pratiche ebraiche alle quali i cristiani di origine pagana non avevano alcuna voglia di sottostare: numerose regole di purificazione, di abluzioni e soprattutto regole molto rigide riguardo all’alimentazione. Alcuni cristiani di origine ebraica vennero apposta da Gerusalemme per inasprire la disputa, spiegando che al battesimo cristiano erano ammessi solo i giudei e quindi invitavano i pagani prima a diventare giudei (circoncisione compresa) e poi cristiani. Tre le questioni fondamentali: 1.Per vivere l’unità è necessario avere le stesse idee, gli stessi riti, le stesse pratiche? 2. La seconda questione era che i cristiani di ogni origine desideravano essere fedeli a Gesù Cristo, ma concretamente, in cosa consiste questa fedeltà? Se Gesù era ebreo e circonciso questo significa che per diventare cristiani bisogna prima diventare tutti ebrei come lui? Inoltre, è a Israele che Dio ha affidato la missione di essere suo testimone in mezzo all’umanità e quindi bisogna far parte di Israele per entrare nella comunità cristiana? La conclusione era che si doveva essere ebrei prima di diventare cristiani e concretamente si accettava di battezzare i pagani a condizione che prima si ffacessero circoncidere. 3. Terza questione, ancora più grave: la salvezza è data da Dio senza condizioni oppure no? Se non accettando la circoncisione secondo la tradizione di Mosè non si può essere salvati, è come affermare che Dio stesso non può salvare i non-ebrei e siamo noi a decidere al suo posto chi può o non può essere salvato. Venne convocato il primo concilio di Gerusalemme dove tre erano le posizioni in merito: Paolo voleva l’apertura totale, Pietro era piuttosto esitante e fu Giacomo, vescovo di Gerusalemme, a trovare l’intesa con una doppia decisione: 1. i cristiani di origine ebraica non devono imporre la circoncisione e le pratiche ebraiche ai cristiani di origine pagana; 2. d’altro lato, i cristiani di origine pagana, per rispetto verso i loro fratelli di origine ebraica, si asterranno da ciò che potrebbe disturbare la vita comune, in particolare durante i pasti. L’argomento che prevale su tutto fu il superamento dela logica dell’elezione d’Israele essendo entrati in una nuova tappa della storia: il profeta Gioele aveva ben detto: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato” (Gl 3,5) e Gesù stesso: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato” (Mc 16,16). Chiunque significa tutti, non solo gli ebrei e, ancor più in concreto, essere fedeli a Gesù Cristo non vuol dire necessariamente riprodurre un modello fisso poiché la fedeltà non è semplice ripetizione. La storia mostra che, attraverso le vicissitudini dell’umanità, la Chiesa conserva sempre la capacità di adattamento per restare fedele a Cristo. Infine, è interessante notare che si impongono alla comunità cristiana solo le regole che permettono di mantenere la comunione fraterna e questo viene indicato fin da subito come il modo migliore per essere veramente fedeli a Cristo che disse: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
*Salmo responsoriale (66 (67) 2-3,5,7-8)
Il salmo ci conduce dentro il Tempio di Gerusalemme mentre è in atto una grande celebrazione e al termine i sacerdoti benedicono l’assemblea in modo solenne e i fedeli rispondono: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!” Il salmo si presenta come un’alternanza tra le frasi dei sacerdoti, rivolte a volte all’assemblea e a volte a Dio, e le risposte dell’assemblea, che assomigliano a dei ritornelli. La prima frase: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto” riprende esattamente il famoso testo del libro dei Numeri che è la prima lettura del 1º gennaio di ogni anno,: “Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e riferisci loro: Così benedirete gli Israeliti: Direte loro: ‘Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace’. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò» (Nm 6,24-26). Un testo ideale per desideri e auguri perché la benedizione è augurio di felicità. In effetti, le benedizioni sono sempre formulate al congiuntivo: “che Dio vi benedica, che Dio vi custodisca” eppure Dio non sa fare altro che benedirci, amarci, colmarci in ogni istante. Quando dunque il sacerdote dice “che Dio vi benedica”, non è perché Dio potrebbe non benedirci, ma per suscitare il nostro desiderio di entrare nella benedizione che, da parte sua, Dio continuamente ci offre. La stessa cosa quando il sacerdote dice “Il Signore sia con voi”: Dio è sempre con noi e il congiuntivo “sia” esprime la nostra libertà perché non sempre siamo con lui; oppure “Che Dio vi perdoni”: Dio ci perdona sempre ma sta noi accogliere il perdono ed entrare nella riconciliazione che ci propone. Permanenti sono da parte di Dio i desideri di felicità nei nostri confronti come afferma Geremia: «Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Dio è Amore e tutti i suoi pensieri su di noi non sono altro che desideri di felicità. In questo salmo la risposta dei fedeli è il ritornello: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino tutti i popoli!! Splendida lezione di universalismo: il popolo eletto riflette la benedizione che accoglie per sé stesso sull’intera umanità, mentre l’ultimo versetto è una sintesi di questi due aspetti: “Ci benedica Dio (noi, suo popolo eletto) E lo temano tutti i confini della terra”. Israele non dimentica la sua vocazione/missione al servizio dell’intera umanità e sa che dalla sua fedeltà alla benedizione ricevuta gratuitamente dipende la scoperta dell’amore e della benedizione di Dio da parte di tutta l’umanità.
*Seconda Lettura dall’Apocalisse di san Giovanni (21, 10-14.22-23)
Nel brano di domenica scorsa, Giovanni diceva di aver visto la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da presso Dio, pronta per le nozze, come una sposa adorna per il suo sposo. Questa volta la descrive a lungo affascinato dalla sua luce così forte da oscurare il chiarore della luna e perfino quello del sole: somiglia a un gioiello prezioso, una pietra preziosa che scintilla nella luce. E spiega subito la ragione di tale luminosità straordinaria, ripetendo per due volte: “risplendente della gloria di Dio”, “la gloria di Dio la illumina”. Queste due affermazioni, l’una all’inizio e l’altra alla fine del testo, con il procedimento letterario chiamato «inclusione» che serve a mettere in evidenza le frasi comprese tra l’inizio e la fine, indicano ciò che colpisce Giovanni, cioè la gloria di Dio che illumina la città santa che scende da presso di Lui. Un angelo lo ha trasportato su un grande e alto monte e lo tiene per mano mentre gli mostra la città da lontano. Nella mano sinistra l’angelo tiene una canna d’oro che userà per misurare le dimensioni della città. La città è quadrata: il numero quattro e il quadrato sono un simbolo di ciò che è umano e qui indicano che la città è costruita da mano d’uomo, illuminata dalla gloria e dal fulgore della presenza di Dio. Poiché il numero tre evoca Dio, non stupisce che la descrizione della città usi abbondantemente un multiplo di tre e quattro: dodici, che è un modo per dire che l’azione di Dio si manifesta in quest’opera umana. All’epoca di san Giovanni non si concepiva una città senza mura: e questa ne ha, anzi una muraglia grande e alta come la montagna e sappiamo che nella Bibbia, la montagna è il luogo dell’incontro con Dio. Nelle mura sono aperte dodici porte che, secondo il seguito del testo, non si chiudono mai perché tutti possano entrare e nessuno deve trovare una porta chiusa. Le dodici porte, distribuite sui quattro lati del quadrato, tre a Est, tre a Nord, tre a Sud, tre a Ovest, sono sorvegliate da dodici angeli e su ciascuna è scritto il nome di una delle dodici tribù d’Israele. Il popolo d’Israele è stato infatti scelto da Dio per essere la porta attraverso cui tutta l’umanità entrerà nella Gerusalemme definitiva.La muraglia poggia su fondamenta sulle quali sono scritti i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello: come in architettura, c’è continuità tra le fondamenta e i muri, così qui c’è continuità tra le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli e questo è un modo per dire che la Chiesa fondata da Cristo realizza pienamente il disegno di Dio che si sviluppa lungo tutta la storia. Entrato, Giovanni rimane sorpreso perché cerca il Tempio, essendo il segno vivente che Dio non abbandonava il suo popolo, ma nella città “non vidi alcun tempio” eppure non resta deluso, perché ormai “il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello. sono il suo tempio”. E continua: “La città non ha bisogno della luce del sole né della luna perché la gloria di Dio la illumina, e la sua lampada è l’Agnello”. Tenendo presente che nel libro della Genesi fin dal primo giorno alla creazione, appare la luce: Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu”, l’affermazione dell’Apocalisse assume tutto il suo peso: la creazione antica è passata: niente più sole, niente più luna perché ormai siamo nella nuova creazione e la presenza di Dio irradia il mondo attraverso Cristo. Gerusalemme conserva il suo nome e indica che è una città costruita da mano d’uomo, un modo per dire che i nostri sforzi per collaborare al progetto di Dio fanno parte della nuova creazione e l’opera umana non sarà distrutta, bensì da Dio trasformata. I cristiani allora destinatari dell’Apocalisse, erano oggetto di disprezzo e spesso perseguitati, avevano bisogno di queste parole di vittoria per sostenere la loro fedeltà e anche a noi fa bene sentire che la Gerusalemme celeste comincia con i nostri umili sforzi di ogni giorno.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 23-29)
Riviviamo gli ultimi momenti di Gesù immediatamente prima della Passione: l’ora è grave e si intuisce l’angoscia degli apostoli dalle parole di rassicurazione che più volte Gesù loro rivolge. All’inizio di questo capitolo aveva detto «Non sia turbato il vostro cuore» (v. 1). Il suo lungo discorso fu interrotto da varie domande degli apostoli che rivelavano la loro angoscia e incomprensione. Gesù però resta sereno: lungo tutta la Passione Giovanni lo descrive sovranamente libero; anzi è lui a rassicurare i discepoli mentre annuncia in anticipo ciò che sarebbe accaduto perché quando avverrà, avrebbero creduto. Non solo sa cosa accadrà, ma lo accetta e non cerca di sottrarsi. Annuncia la sua partenzae presentandola come condizione e inizio di una nuova presenza: Me ne vado, ma torno da voi. Questa sua partenza sarà interpretata solo dopo la risurrezione come la Pasqua di Gesù. Giovanni dice al capitolo 13: “Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”: l’evangelista usa volutamente il verbo passare, perché Pasqua significa passaggio e con questo, vuole mettere in parallelo la Passione di Gesù con la liberazione dall’Egitto, rivissuta ad ogni festa ebraica di Pasqua. Se si tratta di liberazione, questa partenza non deve gettare gli apostoli nella tristezza: “Se voi mi amaste, vi rallegrereste, perché vado al Padre” (v.28). Frase sorprendente per i discepoli che vedono il Maestro ormai inseguito dalle autorità religiose, cioè da chi, in nome di Dio, era ritenuto depositario della verità su ciò che riguarda Dio e sono proprio loro i maggiori oppositori di Gesù. I profeti hanno lottato contro ogni ostacolo per mantenere la fede nell’unico Dio che è insieme Dio vicino all’uomo e Dio totalmente Altro, il Santo. Gesù predica un Dio vicino all’uomo, specialmente ai più piccoli, ma dichiara Dio se stesso il che agli occhi degli ebrei, è blasfemia, un’offesa al Dio uno, al Santo. Nel testo di questa domenica, Gesù insiste sul legame che lo unisce al Padre che nomina cinque volte arrivando a parlare al plurale: “Se qualcuno mi ama… noi verremo da lui, e prenderemo dimora presso di lui”. Non è la prima volta che lo afferma: poco prima, a Filippo che gli chiedeva «Mostraci il Padre», ha risposto con tranquillità: «Chi mi ha visto ha visto il Padre» (Gv 14,9), mentre qui ribadisce: “La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato”. Gesù è l’Inviato del Padre, la parola del Padre e d’ora in poi lo Spirito Santo ci farà comprendere questa parola e la custodirà nella memoria dei discepoli. La chiave di questo testo è probabilmente proprio la parola “parola”: ricorre più volte e, a da ciò che precede, si capisce che questa “parola” da custodire è il “comandamento dell’amore”: amatevi gli uni gli altri, ossia mettetevi al servizio gli uni degli altri e, per essere chiaro, Gesù stesso ha dato un esempio concreto lavando i piedi ai discepoli. Essere fedeli alla sua parola significa dunque semplicemente mettersi al servizio degli altri. E il testo di oggi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”, può tradursi così: Se qualcuno mi ama, si porrà al servizio del prossimo e chi non mi ama rifiuta di mettersi al servizio degli altri, per cui se qualcuno non si mette al servizio degli altri, non è fedele alla parola di Cristo. In questa luce si comprende meglio il ruolo dello Spirito Santo: è lui che ci insegna ad amare, ricordandoci il comandamento dell’amore. Gesù lo chiama Paraclito, Difensore perché ci protegge e difende da noi stessi dato che il peggiore dei mali è dimenticare che l’essenziale del vangelo consiste nell’amarsi e mettersi al servizio gli uni degli altri. Nell’odierna prima lettura abbiamo visto il Difensore all’opera nella prima comunità in occasione del primo concilio di Gerusalemme dove gravi erano le difficoltà di convivenza tra cristiani di origine ebraica e quelli di origine pagana e lo Spirito d’amore ispirò i discepoli alla volontà di mantenere a ogni costo l’unità.
+Giovanni D’Ercole
(Gv 15,12-17)
Gesù si è appena servito dell’immagine della vigna per configurare il carattere del nuovo popolo e la circolazione di vita con chi crede in Lui.
L’allegoria della vite e dei tralci è ora tradotta in termini esistenziali.
La propagazione del dinamismo divino in noi dà il via a una corrente e comunicazione di amore. Il movimento d’amore autentico Viene.
È un Flusso ininterrotto di rassomiglianze della condizione divina. Sintonia trasparente dal valore generativo, portata dal Figlio: «come» e «per il fatto che» [ho amato voi] (v.12 testo greco).
La Letizia che ne sgorga non sarà d’euforia o esaltazione: è frutto d’una consapevolezza che coniuga la divina proposta di Somiglianza non possessiva con la nostra capacità di accogliere - non di distaccarci.
Permanendo nella circolazione d’amore Padre-Figlio, siamo avvolti da una Felicità che intuisce il senso e l'unicità del nostro seme, e cambia il nostro modo di vedere la vita, le sofferenze, le relazioni e la gioia.
«Nessuno ha amore più grande di questo: che uno deponga la propria vita per i suoi amici» (v.13).
Differenza tra religiosità e Fede? L’Amicizia, ch’è più forte sia di alchimie cerebrali che del volontarismo.
L’Amico condivide intenti, coltiva comunione di vita.
Il «servo» (v.15) resta inaffidabile e rancoroso, perché semplice esecutore di ordini altrui - i quali non riguardano le irriducibili radici nascoste, la Sorgente cui il cuore attinge e che gli appartiene (v.16).
In tal guisa, l’Amico fidato è lieto non solo quando si realizza in prima persona, ma anche quando può dilatare e rallegrare la vita del suo diletto.
E volentieri si spodesta dal primo seggio in favore dell’amato.
Gv non parla di amore ai nemici come fa Mt 5 nel Discorso della Montagna, piuttosto insiste sull’amore vicendevole interno alla comunità dei credenti, come relazione con la stessa vita divina.
Qui si nota un cruccio particolare verso le singole persone e il clima fra amici di Fede, i quali devono prima essi stessi incarnare lo spirito di disinteresse e verità che predicano agli altri.
Il Signore non chiede “frutti” [molteplici opere esteriori, spesso venate di esibizionismo] bensì una sola ‘opera’: l’Amore senza doppiezze, remore, dissociazioni.
Nella singolare e inedita personalizzazione del «Frutto» (v.16), Cristo non rimane un Modello da imitare, ma una Vita reale che continua in noi.
Unico tigre nel motore, invitando il mistero dell’Eros fondante che dilata l’Io nel Tu:
Nell’Amicizia; nei sentimenti opposti che affiorano; nella crescente unità di pensiero e di aspirazioni; nelle persone che si avvicinano; nella comunione del desiderio e delle circostanze… le volontà si accomunano.
In tale Empatia divino-umana [che è più persuasiva del volontarismo] i codici di comportamento, il progetto estrinseco, esterno, estraneo, cui (prima) piegarsi, ora tessono un dialogo.
Infine si uniscono - per ‘Nome’ [termine che nei Vangeli indica in specie la crudezza della vicenda reale del Signore, nonché la nostra personale interpretazione e attualizzazione di essa].
Ecco l’accendersi e il riversarsi della Comunione, su un alto terreno d’intesa; senza conflitti celati. E senza servaggio.
Insomma, nell’Ideale come nel Sogno preferiamo l’Amicizia.
E percorriamo la Via della Fede nel Crocifisso - quella dello smacco e squilibrio d’amore.
[Venerdì 5.a sett. di Pasqua, 23 maggio 2025]
Confidenti, non esecutori: l’amicizia di Gesù e tra fratelli
(Gv 15,12-17)
«Nessuno ha amore più grande di questo: che uno deponga la propria vita per i suoi amici» (v.13).
L’amore vicendevole totale, che non attende nulla, a fondo perduto, non è in genere possibile a partire dalla condizione di creature precarie, le quali volentieri desiderano relazioni cercando un completamento.
Purtroppo tale amore-Eros non di rado si pone in essere sommariamente. E accade confondendo gratuità e necessità, mescolando lo scopo con il mezzo; ingarbugliando il bisogno individuale col dono di sé.
Il movimento d’amore autentico Viene.
È una Corrente di rassomiglianze della condizione divina. Sintonia trasparente dal valore generativo, portata dal Figlio: «come» e «per il fatto che» [ho amato voi] (v.12 testo greco).
Su due piedi potremmo non capire. Ma solo dall’accoglienza della proposta “dall’alto”, genuina, Provvidente, può iniziare uno spostamento di sguardo che attiva il percorso di riequilibrio, scoperte, altruismi, e ritorno del Dono.
Il circolo d’iniziativa empatica e risposta è il nucleo dell’esperienza della Fede amabile [che sostituisce la devozione religiosa].
Una volta sperimentatane l'ebbrezza e il senso di pienezza di essere, da tale nuova Relazione cosmica e personale non si vorrà più uscire.
Gv non parla di amore ai nemici come fa Mt 5 nel Discorso della Montagna, ma insiste sull’amore vicendevole (interno alla comunità dei credenti) come relazione con la stessa vita divina.
Il quarto Vangelo è preoccupatissimo della coerenza e qualità dei rapporti fra membri di chiesa: i primi deputati all’Annuncio di pace, giustizia e amore nelle periferie esistenziali.
Proprio ai lontani essi predicheranno il nuovo volto di Dio, di società, di persona, e non potranno vivere nella doppiezza del discepolato.
Beninteso, quello della vita intima di Dio non è amore sacrificale; non chiede uno spirito di comune nomenclatura, rinunce, mortificazioni e sforzo, bensì fedeltà alla propria vocazione profonda.
Siamo «amici» (vv.14-15) non più servitori di Dio. Il termine allude all’uguaglianza e mutuo vantaggio nella crescita, che avvolge ogni dimensione domestica salda.
Configurazione relazionale che in clima di agape fa scoprire a ciascuno il proprio Nome - nonché quello della Chiesa capace di comunione.
È il suggello della fisionomia di focolare e missionaria, e viceversa.
La stessa Comunione ecclesiale non sarà quella dell’uniformità religiosa, bensì frutto dello scambio dei doni.
Convivialità delle differenze e recupero degli opposti, in vista dell’arricchimento condiviso e di ciascuno, nella convivenza.
L’unilateralità è bandita anche sotto il profilo della stessa partecipazione alla corrente d’amore sovreminente che ben volentieri si cala sui nostri sensi di permanenza, per smuoverci.
Il confronto con la storia quotidiana in uscita dalle sagrestie obbliga alla purificazione e all’essenzialità, ci fa creativi e disponibili al futuro di Dio.
Il sano pluralismo di cromie, approcci e stili diversi nel modo di vivere e attuare il Vangelo, intende la Voce dello Spirito che aiuta il discernimento; ci fa osare.
Poliedro variegato, aperto, che accende ogni voce particolare. Controforza la quale riflette la peculiare relazione che sussiste fra Persone divine.
La stessa Parola di Liberazione può essere così saldamente riformulata in modo inedito e personale-effuso, onde corrispondere con risposte nuove a domande nuove.
Persone e Chiesa si lasciano mettere in crisi e si mantengono aperte, perché traggono origine dal Mistero imprevedibile e sono appunto animate dalla Fede personale.
Vi partecipano donne e uomini, nuove madri e nuovi padri, spalancati al Gratis che accoglie gli opposti - e per l’inatteso.
‘Koinonia’ spossessata, aperta al dono e per il dono. Resa consapevole delle profondità del cuore di Dio, e della sua qualità comunionale-eucaristica.
Tale la Chiesa degli Amici. Fraternità pronta per la missione: «vi ho detto amici» (v.15) «vi ho costituito perché voi andiate» (v.16) nella stessa indifesa Apertura.
Differenza tra religiosità e Fede? L’Amicizia, ch’è più forte sia di alchimie cerebrali che del volontarismo.
L’Amico condivide intenti, coltiva comunione di vita.
Il «servo» (v.15) resta inaffidabile e rancoroso, perché semplice esecutore di ordini altrui.
Le direttive esterne non riguardano il proprio seme, le irriducibili radici nascoste, la Sorgente cui il cuore attinge e che gli appartiene.
È in gioco il nostro Nucleo: esso si manifesta spontaneamente; ed esiste non per iniziativa, bensì per carattere innato, costitutivo e donato (v.16).
L’Amico fidato è lieto non solo quando si realizza in prima persona, ma anche quando può dilatare e rallegrare la vita del suo diletto.
E volentieri si spodesta dal primo seggio in favore dell’amato.
In tal guisa - come detto, e vale la pena ribadire, per la sua terrificante attualità - nel quarto Vangelo le note e i richiami sull’amore non sembrano rivolti ai lontani.
Detti appelli riguardano piuttosto i membri di comunità, affinché non si lascino trascinare da ridicole infatuazioni; inevitabilmente passeggere e che si trasformerebbero in sentimento taccheggiante o di tristezza.
In Gv si nota appunto un cruccio particolare verso le singole persone e il clima tra amici di Fede.
Tutto ciò perché coloro i quali pretendono porgere raccomandazioni su belle maniere, tabelle di marcia, umiltà, trasparenza, perdono, condivisione, dovrebbero prima incarnare in se stessi lo spirito di disinteresse e verità che predicano ad altri.
Insomma, il Signore non chiede “frutti” [molteplici opere pie a norma, esteriori, spesso venate di esibizionismo] né piccoli intimismi gongolanti, bensì una sola opera: l’Amore senza doppiezze.
Nella singolare e inedita personalizzazione del «Frutto» (v.16), Cristo non rimane un Modello da imitare, bensì una Vita reale che continua nei discepoli.
Unico tigre nel motore, invitando il mistero dell’Eros fondante che dilata l’Io nel Tu:
Nell’Amicizia; nei sentimenti opposti che affiorano; nella crescente unità di pensiero e di aspirazioni; nelle persone che si avvicinano; nella comunione del desiderio e delle circostanze… le volontà si accomunano.
In tale Empatia divino-umana [che è più persuasiva del volontarismo] i codici di comportamento, il progetto estrinseco, esterno, estraneo, cui (prima) piegarsi, ora tessono un dialogo.
Infine si uniscono - per ‘Nome’ [termine che nei Vangeli indica in specie la crudezza della vicenda reale del Signore, nonché la nostra personale interpretazione e attualizzazione di essa].
Ecco l’accendersi e il riversarsi della Comunione, su un alto terreno d’intesa; senza conflitti celati. E senza servaggio.
Insomma, nell’Ideale come nel Sogno preferiamo l’Amicizia.
E percorriamo la Via della Fede nel Crocifisso - quella dello smacco e squilibrio d’amore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
«Io non posso vivere senza di te»: Come distingui un ambito sentimentale autodeliziato, da una proposta operante d’unione di vita?
Jesus who is the teacher of love, who liked to talk about love so much, in this Gospel speaks of hate. Exactly of hate. But he liked to call things by the proper name they have (Pope Francis)
Gesù che è maestro dell’amore, al quale piaceva tanto parlare di amore, in questo Vangelo parla di odio. Proprio di odio. Ma a lui piaceva chiamare le cose con il nome proprio che hanno (Papa Francesco)
St Thomas Aquinas says this very succinctly when he writes: "The New Law is the grace of the Holy Spirit" (Summa Theologiae, I-IIae, q.106 a. 1). The New Law is not another commandment more difficult than the others: the New Law is a gift, the New Law is the presence of the Holy Spirit [Pope Benedict]
San Tommaso d’Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge è la grazia dello Spirito Santo” (Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1). La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo [Papa Benedetto]
Even after seeing his people's repeated unfaithfulness to the covenant, this God is still willing to offer his love, creating in man a new heart (John Paul II)
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo (Giovanni Paolo II)
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
don Giuseppe Nespeca
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