don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

 Puntando verso il basso, dal servizio alla Comunione

Gv 13,16-20 (.21-38)

 

Un «inviato» non è più di colui che lo manda (v.16). La nuova traduzione CEI precisa che Gesù non elegge Dodici Apostoli come si trattasse di capi e fenomeni destinati ad avere posizioni favolose.

I suoi sono persone del tutto comuni, mandate ad annunciare; non direttori forniti di carica, bensì di un umile incarico: essere se stessi e lavare i piedi agli altri. Questa la loro stoffa.

La Chiesa ministeriale non è quella dei personaggi con titolo e ruoli, ma del servizio autentico, non di maniera: dimesso e anticonformista.

Possiamo diventare continuazione del Mistero che avvolge la Persona di Cristo solo se consapevoli che non siamo fotocopie duali, né “più” di altri - figuriamoci del Maestro.

 

Ne I Promessi Sposi Manzoni narra che il marchese successore di don Rodrigo [«brav’uomo, non un originale»] serve a tavola gli invitati alle nozze di Renzo e Lucia.

Poi però si ritira a pranzare in disparte con don Abbondio: «d’umiltà n’aveva quanta bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar in loro pari».

 

Un tempo si faceva così: lo imponeva l’etichetta sociale.

Stile a modo, grazie al quale per voler piacere si accettava di adattarsi a gesti (estemporanei) di elemosina e benevolenza, fra ottime persone assai educate - ovviamente tutelando il protagonismo delle posizioni.

Ma allinearsi ai modelli non fa uscire dalle solite gabbie; anzi, ci nasconde nell’illusione d’un cambiamento che in realtà non è in atto. Ciò perché l’ordine fasullo resta, malgrado l’altruismo delle apparenze - indossate per buonismi di circostanza.

Il portento cui siamo chiamati e mandati non è quello di fare spazio a sentimenti convenienti.

L’autentica ‘cifra’ è passare dalla nostra vetta esterna all’altrui livello e starci gomito a gomito, per donare a tutti l’emozione di sentirsi adeguati.

Dal servizio alla Comunione: unico clima [non sempre “secondo etichetta” ma autenticamente nostro e sognante] d’intima potenza che sviluppa fioriture, innescando recuperi impossibili.

Da qui si rilegge la storia.

Eppure tutti si chiedono con quali energie attuarla, se talora noi stessi ci sentiamo incompleti, incerti nell’operare; non all’altezza.

 

Nel contesto della lavanda dei piedi, Gesù ricorda che il discepolo non deve farsi illusioni: non avrà in dote una splendida carriera, riconoscimenti mondani, o meno persecuzioni del Maestro.

 

Secondo mentalità antica, maltrattare un ambasciatore o un messaggero significava offendere chi rappresentava; accettarlo significava riconoscergli onore.

Si giunge qui alla radice della Missione di svelamento: accogliendo l’inviato si onora Cristo, e in lui Dio stesso (v.20).

Gli apostoli sono ‘mandati’ in tal senso, come il Figlio dal Padre. Dentro tale flusso divengono luce rivelatrice, pienamente, senza chiusure.

Insomma, uno dei modi di lavarsi i piedi gli uni gli altri (v.14) è proprio quello di venire e sentirsi propriamente «inviati» - raffigurando Gesù e Dio stesso, che ci attraversano.

È la via della Beatitudine (v.17) - quella del Signore vivo. Il nucleo della Chiesa in uscita: aggiungere a insegnamenti belli e pratici la dimensione essenziale.

Tale il cammino plausibile e amabile, evangelizzatore delle nostre Radici. Viaggio il quale non chiede “resilienza” nei rapporti, solo agli “inferiori” del mondo.

Salvezza in dimensione divina, che assume valore. Redenzione operata dal di dentro della coscienza, la quale trova stima e volto, e libero fermento che apre la speranza, orientando.

Nell’azione si esprimerà l’essere profondo dell’Amico che ha la libertà di scendere.

Egli si rivela promotore dei malfermi, non sottile prevaricatore.

 

Facendo ogni esodo, il nostro tratto vocazionale porta in sé uno scrigno prezioso, la consapevolezza della Sorgente intima dell’apostolato, e la sua preziosa concatenazione che tramuta il passato in futuro.

Il senso di completezza e significato radicale che ne deriva è efficace. 

Lo è per chi scova, incontra, sente viva, la propria Fonte missionaria - e ne è il testimone.

Esprimendo semplicemente e con naturalezza se stesso, senza forzature o artificiosità - lo è al contempo per i fratelli da riconoscere.

 

Insomma, il servizio della comunità ministeriale non è nella dimensione del servaggio, bensì d’un flusso di energie primigenie, di stoffa; onda su onda genuine.

In tutto ciò, sviluppo dopo sviluppo, riattualizziamo l’epifania del Logos in Cristo. Nell’oggi dell’essere persone [malferme eppure convinte, tenaci] legate da una cifra fraterna di peso.

«Io Sono» di Es 3,14 diviene - senza sforzo - il Popolo comunionale e accogliente dei servitori ricolmi di dignità donata.

L’elemento eterno del Verbo è conservato e sviluppato dai suoi inviati e dalla chiesa ministeriale, ‘apostolica’: sia nel suo carattere originario e fondante, che di legame alla storia di ciascuno.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa significa per te passare dal servire a fare comunione? Lo ritieni un eccesso fastidioso?

Ti basta far stare bene gli altri a tratti, da protagonista e in modo compiaciuto, o t’impegni a farli sentire adeguati?

 

 

Dare la vita e rapidamente tradire

(Gv 13,21-33.36-38)

 

«Darò la mia vita per te» - pur di comandare.

Gli apostoli darebbero tutto per vincere, non per perdere; per trionfare, non per farsi beffeggiare o darsi in alimento, e curare il mondo.

Meglio negoziare. Altro che lavarsi i piedi a vicenda!

Perciò il Signore desidera che ciascuno di noi commensali si ponga il quesito se per caso non siamo implicati in qualche tradimento.

Non per colpevolizzare e piantarsi lì, ma per incontrarci: ciascuno è ammiratore e avversario del Maestro.

Siamo fulgore e tenebra - fianchi compresenti, più o meno integrati, anche competitivi.

È la Risurrezione che si annida nell’effervescenza della vita, a riscattare poi le motivazioni egoistiche, e trasfigurare in energie collimanti altrove i lati oscuri e in attrito.

Aspetti che diventano come cibi da neonato, per ogni nuova genesi - i quali una volta emersi [piantati sulla terra e accostati alle radici] possono diventare punti di forza.

La strada si blocca solo davanti alla persona che continua a farsi condizionare l’anima da opinioni e mali antichi o à la page.

Lì non si rivela nulla; non avverrà il prodigio della trasmutazione del nostro abisso.

 

La liturgia della Parola ci mette a contatto con un Gesù pervaso dal senso di debolezza; la sua solitudine si fa acuta.

In missione, anche noi siamo talvolta in balia dello sconforto: forse Dio ci ha ingannati, trascinandoci in una impresa assurda?

No, non siamo ingaggiati e abbandonati a una logica ignobile, a una generazione perversa: la stessa forza della vita è disseminata di pietre tombali ed ha varie facce. Influssi benefici.

Il cammino favorevole è spoglio di prestigio, di mansioni riconosciute e maestà: esse tendono a placarci, e non scavare.

Spesso sono proprio i disturbi che migliorano la capacità di giudizio.

Lo stillicidio può suscitare la voce della parte più autentica di noi stessi, farsi eco incisivo per ritrovarsi, e completarsi - portando avanti il cuore pioniere, invece di trattenerlo.

La strada della prova e dello squilibrio ci desta dall’invecchiamento nocivo dello spirito.

Essa recupera le energie contrarie, i versanti opposti, e i desideri incompatibili, le passioni (alleate) cui non abbiamo dato spazio.

Anche nell’esperienza torturante del limite, Dio vuole raggiungere la nostra semente variegata, affinché essa non si lasci depredare - neppure dallo sgomento di aver attinto insieme il boccone ed essere stati noi i traditori.

Nulla è invalidante.

 

C’è un solo ambito tossico, cronico, di morte, che annienta tutto e non ha insito nessun germe attivo: quello che offusca e detesta il cambiamento primario.

Lì l’orizzonte si stringe e rimane solo un baratro - o il blando che contagia per farci mollare, e arretrare senza posa, rinnegare e regredire ancora.

Restano infine solo le paure, le mezze scelte, le nevrosi tacitate dal compromesso che tenta di colmare il prezioso senso di vuoto.

 

Siamo davanti a un Signore ridotto a niente, affinché anche noi ci comprendiamo nelle nostre defezioni; negli episodi in cui accampiamo inutili e devianti artifici, tutti misurati, che affaticano invano.

La storia dell’incomprensibile solitudine del Cristo accanto al traditore e al rinnegato ci sta scritta nel cuore.

È tutta realtà, ma per la salvezza, per una rinnovata intimità e convinzione.

La vocazione missionaria si spegne e ristagna solo per zavorre di calcolo e mentalità comune - ove non si scuote (né tintinna) la nuda povertà dell’essere discorde che siamo.

Senza l’abbandono subìto, l’uomo non diventa universale, anzi tende ad attenuare i migliori strumenti della potenza di Dio.

Su quel terreno stepposo Egli ci sta donando l’amicizia di uno spostamento di sguardo.

Senza l’inquietudine del turbamento profondo e umiliante - senza la consegna della propria umanità nell’estrema debolezza - la nostra marionetta insoddisfatta indugia, accontentandosi.

Malgrado l’ammirazione per i valori, diviene anch’essa larva residuale. Una caricatura dell’essere che potevamo: donne e uomini dall’occhio contemplativo.

Compiuti a partire da dentro, come Gesù.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa tramo quando il Signore mi chiede di rischiare?

Cos’hanno significato per te i gesti non amici, e il rigetto, negli esiti paradossali?

 

 

Amare è creare: Gloria che volta pagina

 

Comandamento Liberazione. Causa Fonte

(Gv 13,31-35)

 

L’unione vicendevole è l’ultima volontà del Signore. Gesù affida ai discepoli il suo testamento, con una novità radicale.

L’amore al prossimo figurava già fra le prescrizioni antiche, e Cristo sembra ricalcarne la formulazione stessa (Lv 19,18).

Ma il Figlio di Dio non allude solo a compatrioti e proseliti della medesima religione. Egli abbatte le barriere sinora considerate ovvie. 

Eppure la grande novità è nelle motivazioni fondamentali.

L’amore reciproco è sulla stessa linea dell’incontro con se stessi - dove per grazia e vocazione si annida un possesso di ricchezze, perfezioni crescenti, che vogliono affiorare.

Da tale scrigno, conoscenza, piattaforma solida, sorge l’afflato del poter donare la vita: ma per accrescerla, renderla piena e rallegrarla - a partire non da condizionamenti esterni e mansioni da espletare o sfruttare.

Infatti il comandamento è «nuovo» non solo perché edificante e di stimolo, ma anzitutto perché rivelatore della propria vocazione e della vita intima di Dio, del rapporto fra il Padre e il Figlio, assunto.

È un legame manifestativo, che diviene fondamento, motivo crescente e motore; energia lucida, che ci dà la capacità di spostare lo sguardo e voltare pagina: introduce una nuova età, un nuovo regno.

Il comandamento «nuovo» dell’amore - unica consegna del Cristo - è cifra della vittoria di Pasqua, teofania e testimonianza del suo popolo autentico: «non con misura» (Gv 3,31-36: 34).

Il «senza misura» è quello delle nozze mistiche fra le due “nature”, dell’amicizia intima che penetra la vita del Padre.

Anche nell’attesa, il senza-confini vivifica l’esistenza e la compie, provenendo dall’esperienza della sostanza e della vertigine - già in se stessi.

È la vita del Figlio in noi: percezione di un poter “stare” costitutivo. Quindi senza perdere interesse nel tempo dell’assenza.

E di poter cambiare; intuizione d’una differente «gloria» (irriducibile) dalle caratteristiche speciali.

 

Ora non vale più la morale delle religioni: la nostra è un’etica vocazionale e pasquale, nello Spirito che rinnova la faccia della terra.

Ogni proposito, ciascun ruolo, qualsiasi ministero, viene illuminato dalla vittoria della vita sulla morte.

In tal guisa, il comportamento va configurato al Mistero.

Viviamo in Cristo, uomo nuovo: non siamo più sotto doveri “a posto” e prescrizioni. L’attitudine battesimale non può venire misurata.

L’unzione e l’appello ricevuti rispondono all’intima passione, al senso di reciprocità e Pienezza personale, che trasbordano.

Così smuovono mète eminenti: nella partecipazione alla vita colma, eccesso non assimilabile a conformismi e orizzonti medi.

 

Per un pio israelita avere gloria è dare peso specifico alla propria esistenza, e rivelare il suo completo valore - ma in senso elettivo.

«Fu vera gloria?» - si chiede Manzoni: dalla gloria-vana e vanesia si rotola giù. Tutt’altra la Gloria quale Presenza reale di Dio.

 

Ecco i dissidi fra comunità e umanità (persone in pienezza); liturgia e realtà, preghiera e ascolto, teologia e vita, proclami e dietro le quinte.

Mentre i Sinottici annunciano Amore universale, l’autore del quarto Vangelo è preoccupato che la testimonianza inespressa dei figli non sia una clamorosa smentita della santità predicata agli altri [dagli “eletti”].

Come diceva Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Non solo per un’opportuna e dovuta valutazione di coerenza morale, ma perché rimandano al Mistero, all’Oro divino.

Solo se collocati sulla medesima onda di bellezza e fascino del «Figlio dell’uomo» contribuiamo a non farlo tramontare o escludere: quanto più si è umani senza doppiezze, tanto più si manifesta il Cielo che è in noi.

Certo, sembra impossibile amare «come» Lui (v.34), ma qui l’espressione greca ha un’altra possibilità di lettura. Il termine originario non indica solo un orizzonte ideale o la misura alta - irraggiungibile per sforzo.

«Kathòs» [avverbio e congiunzione] è dotato di valore generativo, oltre che comparativo.

L’espressione chiave del brano si può intendere:  «Amatevi gli uni gli altri per il fatto che Io vi ho amati senza condizioni» ovvero «Perché Io vi ho amati gratuitamente, proprio su tale onda di vita, ora potete amarvi».

Vuol dire: far sentire il prossimo già abilitato - adeguato e libero - è l’unico contrassegno non ridotto della Fede in Cristo.

Insomma, il Padre non è il Dio delle prescrizioni: non assorbe le nostre energie, ma le genera e dilata.

Non pretende di soffocare e sfiancarci.

 

Il distintivo, l’emblema della testimonianza piena dei figli e delle comunità schiette non è produzione propria.

Conserva una qualità indistruttibile di elasticità e Relazione che non sgomenta, né lascia cadere le braccia: dona respiro.

Non è opera di fanatici spartiacque pro e contro, né d’un individualismo devoto che predica la “salvezza della propria anima” - esasperazione della pietà religiosa e della pedestre morale retributiva dei «meriti».

È il dispiegarsi dell’azione del Figlio dell’uomo (v. 31) che rende potente il calpestato e meschino.

Il Maestro non s’accontenta di fare il gregario accodato, come l’eterodiretto Giuda, apostolo zelante in apparenza.

«Figlio dell’uomo» indica Gesù che manifesta il Padre, l’uomo che rende palese la condizione divina.

La Persona che nella sua pienezza umana riflette il disegno sano delle Origini - possibilità per tutti i rinati in Cristo.

 

Il sentimento carnale ha fretta di regolarsi sulla base di traguardi e titoli; delle imprese e del successo, o di perfezioni e prestigio dell’amato. 

Stabilisce confini.

L’Amore divino (e quello dei figli) è sproporzionato, ha un’altra condotta: previene, recupera; non rompe l’intesa, aiuta.

L’Amore non vagabondo conosce il piccolo, l’incerto e il debole. Sa che essi crescono solo attraverso l’esperienza del Dono, altrimenti si bloccano.

Se il Gratis non soppianta il merito, nessuno si rafforza; anzi, tutti - anche gli energici - rattrappiscono. Condannati a una cappa esterna di norme e dottrine, o di astrazioni e sofisticazioni disincarnate.

Per questo il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo genuino e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato da pubblici peccatori, bensì da coloro che suppongono di sé e avrebbero il ministero di farlo conoscere!

 

La Gloria divina non ha a che fare con divise, paltò, coccarde o distintivi epidermici; si palesa nella Comunione senza previe interdizioni, nel servizio che si porge agli insufficienti e non ammanicati - da cui sperare... zero.

Nulla che possa essere integrato poi, aggiungendo qualcosina - un semplice “completamento” - alle norme della Prima Alleanza [che non insisteva sulla somiglianza con Dio ma sull’obbedienza di massa].

Le inclinazioni di natura fondamentalista, o le maniere di circostanza e à la page, la brama di prestigio mondano - in realtà - dividono.

La convivialità delle differenze comprende, dilata, accentua l’amalgama e unisce, arricchendo. Apre all’inconsueto e inimmaginabile.

 

I fondatori di religioni propongono una visione del mondo e sono modelli statici di comportamento.

Non prospettano un’offerta crescente (Gv 14,12: «opere più grandi»). Invito diffusamente personale - profondo e nitido, più del loro.

Gesù non è un “modello” prevedibile da imitare.

È anzitutto - ribadiamo - un Motivo e un Motore: amiamo come e perché Cristo. Vivendo di Lui, ciascuno.

Rischiamo tutto perché siamo all’interno d’un Evento che abbiamo visto, d’una Relazione che non solo persuade, ma ci porta e genera oltre; non in calando.

Non siamo più sotto una Legge che nomina Dio per obbligo, ma nella sfida d’un gesto che ri-crea e via via realizza, rendendo forte la nostra debolezza.

Tanto da stupire dei lati in ombra divenuti risorse e sbalordimento. Tutto senza spersonalizzare; anzi, sottolineando l’unicità.

 

Questo il comandamento «nuovo».

«Kainòs» è un termine greco che marca differenza, eclissa il resto - nel senso che riassume, supera e sostituisce. Soppianta tutti i comandamenti: ovvi e sotto condizione.

E non ce ne sarà uno migliore, perché la nostra speranza non è il Cielo (già pronto), ma il Cielo sulla terra.

Più del troppo in là del vecchio Paradiso finale a tariffa invariabile e compimento prevedibile. Modico, conformista, a settori; perfino lì articolato secondo ruoli.

E piramidale.

Mercoledì, 07 Maggio 2025 06:42

Frutto perché Presente

Non abbiate paura di andare controcorrente per incontrare Gesù, di puntare verso l’alto per incrociare il suo sguardo. Nel “logo” di questa mia Visita pastorale è rappresentata la scena di Marco che consegna il Vangelo a Pietro, tratta da un mosaico di questa Basilica. Oggi, simbolicamente, vengo a riconsegnare il Vangelo a voi, figli spirituali di san Marco, per confermarvi nella fede e incoraggiarvi dinanzi alle sfide del momento presente. Avanzate fiduciosi nel sentiero della nuova evangelizzazione, nel servizio amorevole dei poveri e nella testimonianza coraggiosa all’interno delle varie realtà sociali. Siate consapevoli d’essere portatori di un messaggio che è per ogni uomo e per tutto l’uomo; un messaggio di fede, di speranza e di carità […]

Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri. Per questo la nostra vita spirituale dipende essenzialmente dall’Eucaristia. Senza di essa la fede e la speranza si spengono, la carità si raffredda.

[Papa Benedetto, Assemblea per la chiusura della Visita pastorale Venezia 8 maggio 2011]

Mercoledì, 07 Maggio 2025 06:28

Il disegno di Dio e la comunione

5. Assieme a tutti i discepoli di Cristo, la Chiesa cattolica fonda sul disegno di Dio il suo impegno ecumenico di radunare tutti nell'unità. Infatti "la Chiesa non è una realtà ripiegata su se stessa bensì permanentemente aperta alla dinamica missionaria ed ecumenica, perché inviata al mondo ad annunciare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce: raccogliere tutti e tutto in Cristo; ad essere per tutti "sacramento inseparabile di unità"".

Già nell'Antico Testamento, riferendosi a quella che era allora la situazione del popolo di Dio, il profeta Ezechiele, ricorrendo al semplice simbolo di due legni prima distinti, poi accostati l'uno all'altro, esprimeva la volontà divina di "radunare da ogni parte" i membri del suo popolo lacerato: "Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Le genti sapranno che io sono il Signore che santifico Israele" (cfr. 37,16-28). Il Vangelo giovanneo, da parte sua, e di fronte alla situazione del popolo di Dio a quel tempo, vede nella morte di Gesù la ragione dell'unità dei figli di Dio: "Doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (11,51-52). Infatti, spiegherà la Lettera agli Efesini, "abbattendo il muro di separazione, [...] per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia", di ciò che era diviso egli ha fatto una unità (cfr. 2,14-16). 

6. L'unità di tutta l'umanità lacerata è volontà di Dio. Per questo motivo Egli ha inviato il suo Figlio perché, morendo e risorgendo per noi, ci donasse il suo Spirito d'amore. Alla vigilia del sacrificio della Croce, Gesù stesso chiede al Padre per i suoi discepoli, e per tutti i credenti in lui, che siano una cosa sola, una comunione vivente. Da ciò deriva non soltanto il dovere, ma anche la responsabilità che incombe davanti a Dio, di fronte al suo disegno, su quelli e quelle che per mezzo del Battesimo diventano il Corpo di Cristo, Corpo nel quale debbono realizzarsi in pienezza la riconciliazione e la comunione. Come è mai possibile restare divisi, se con il Battesimo noi siamo stati "immersi" nella morte del Signore, vale a dire nell'atto stesso in cui, per mezzo del Figlio, Dio ha abbattuto i muri della divisione? La "divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ed è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura". 

[Ut Unum sint]

Mercoledì, 07 Maggio 2025 06:12

“Memoriosi” e: cosa faccio di più?

Il cristiano non cammina da solo: è inserito in un popolo, in una storia secolare ed è chiamato a mettersi al servizio degli altri. «Memoria» e «servizio» sono le parole chiave della riflessione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 30 aprile. La storia — e quindi la memoria che si ha di essa — e il servizio sono, ha detto il Pontefice, i «due tratti dell’identità del cristiano» sui quali ci fa riflettere «la liturgia di oggi».

Il richiamo è dato dal brano degli Atti degli apostoli (13, 13-25) in cui si legge che Paolo, arrivando ad Antiochia, «come abitualmente lui faceva, andò il sabato in sinagoga» e lì «fu invitato a parlare». Era questa, infatti, «un’abitudine degli ebrei di quel tempo» quando giungeva un ospite. Presa la parola, Paolo «cominciò a predicare Gesù Cristo». Ma, ha sottolineato il Papa, «lui non disse: “Io predico Gesù Cristo, il Salvatore; è venuto dal Cielo; Dio lo ha inviato; ci ha salvato tutti e ci ha dato questa rivelazione”. No, no, no». Per spiegare chi è Gesù, l’apostolo «incomincia a raccontare tutta la storia del popolo». Si legge allora nella Scrittura: «Si alzò Paolo e fatto cenno con la mano disse: “Ascoltate, il Dio di questo popolo di Israele scelse i nostri padri...”». E, partendo da Abramo, Paolo «racconta tutta la storia».

Non è una scelta casuale. Nella sua riflessione Francesco ha fatto notare come la stessa cosa fece «Pietro nei suoi discorsi, dopo la Pentecoste», e anche «Stefano, davanti al Sinedrio». Loro, cioè, «non annunziavano un Gesù senza storia», ma «Gesù nella storia del popolo, un popolo che Dio ha fatto camminare da secoli per arrivare a questa maturità, alla pienezza dei tempi, come dice Paolo». Da questo racconto si comprende che «quando questo popolo arriva alla pienezza dei tempi, viene il Salvatore, e il popolo continua a camminare perché questo Salvatore tornerà».

Ecco, allora, ha ribadito il Papa, uno dei tratti della identità cristiana: «è essere uomo e donna di storia, capire che la storia non comincia con me e finisce con me». Tutto è cominciato, infatti, quando il Signore è entrato nella storia.

A conforto di quanto detto, il Pontefice ha ricordato il salmo «tanto bello» recitato all’inizio della messa: «Quando avanzavi Signore col tuo popolo e quando gli aprivi la strada e abitavi con loro — ricordo che Dio camminava col suo popolo — tremò la terra, strillarono i Cieli. Ammirabile». Quindi «il cristiano è uomo e donna di storia, perché non appartiene a se stesso, è inserito in un popolo, un popolo che cammina». Da qui l’impossibilità di pensare a «un egoismo cristiano». Non c’è, cioè, il cristiano perfetto, «un uomo, una donna spirituale di laboratorio», ma sempre un uomo o una donna spirituali inseriti «in un popolo, che ha una storia lunga e continua a camminare fino a che il Signore torni».

Proprio guardando a questa vicenda concreta che si è dipanata nei secoli e che continua ancora oggi, il Pontefice ha aggiunto che se assumiamo «di essere uomini e donne di storia», ci rendiamo anche conto che questa è «storia di grazia di Dio, perché Dio avanzava col suo popolo, apriva la strada, abitava con loro». Ma è anche «storia di peccato». E ha ricordato il Papa: «Quanti peccatori, quanti crimini...». Anche nel brano degli Atti degli apostoli, ad esempio, «Paolo menziona il re Davide, santo», ma che «prima di diventare santo è stato un grande peccatore». E questo, ha sottolineato, vale «anche oggi» quando la «storia personale di ognuno» deve assumere «il proprio peccato e la grazia del Signore che è con noi». Dio infatti ci accompagna nel peccato «per perdonare», ci accompagna «nella grazia».

È quindi una realtà molto concreta che attraversa i secoli, quella richiamata da Francesco nell’omelia: «Noi — ha detto — non siamo senza radici», abbiamo «radici profonde» che non dobbiamo mai dimenticare e che vanno dal «nostro padre Abramo fino ad oggi».

Comprendere però che non siamo soli, che siamo strettamente legati a un popolo che cammina da secoli significa anche comprendere un altro tratto caratteristico del cristiano e che è «quello che Gesù ci insegna nel Vangelo: il servizio». Nel brano di Giovanni proposto dalla liturgia del giovedì della quarta settimana di Pasqua, «Gesù lava i piedi ai discepoli. E dopo che ebbe lavato i piedi, disse loro: “In verità, in verità io vi dico, un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica. Io ho fatto questo con voi, voi fate lo stesso con gli altri. Io sono venuto da voi come servo, voi dovete farvi servi l’uno dell’altro, servire”».

Appare chiaro, ha evidenziato il Pontefice, che «l’identità cristiana è il servizio, non l’egoismo». Qualcuno, ha detto, potrebbe ribattere: «Ma padre, tutti siamo egoisti», ma questo «è un peccato, è un’abitudine dalla quale dobbiamo staccarci»; dobbiamo allora «chiedere perdono, che il Signore ci converta». Essere cristiano, infatti, «non è un’apparenza o anche una condotta sociale, non è un po’ truccarsi l’anima, perché sia un po’ più bella». Essere cristiano, ha detto con decisione il Papa, «è fare quello che ha fatto Gesù: servire. Lui è venuto non per essere servito, ma per servire».

Da qui alcuni suggerimenti del Pontefice per la vita quotidiana di ciascuno di noi. Innanzitutto, «pensate a queste due cose: io ho senso della storia? Mi sento parte di un popolo che cammina da lontano?». Utile potrebbe essere «prendere la Bibbia, il Libro del Deuteronomio, capitolo 26, e leggerlo». Qui, ha detto, s’incontra «la memoria, la memoria dei giusti» e «come il Signore vuole che noi siamo “memoriosi”», che ricordiamo, cioè, «il cammino percorso dal nostro popolo». E poi ci farà anche bene pensare: «nel mio cuore cosa faccio di più? Mi faccio servire dagli altri, mi servo degli altri, della comunità, della parrocchia, della mia famiglia, dei miei amici o servo, sono al servizio»?

«Memoria e servizio», quindi, sono i due atteggiamenti del cristiano, quelli con i quali anche si partecipa alla celebrazione eucaristica «che è proprio memoria del servizio che ha fatto Gesù; memoria reale, con Lui, del servizio che ci ha reso: dare la sua vita per noi».

[Papa Francesco, omelia s. Marta in L’Osservatore Romano 01/05/2015]

Martedì, 06 Maggio 2025 04:21

Mistica dell’Amicizia

(Gv 15,9-17)

 

Gesù si è appena servito dell’immagine della ‘vigna’ per configurare il carattere del nuovo popolo e la ‘circolazione di vita’ con chi crede in Lui. 

L’allegoria della vite e dei tralci è ora tradotta in termini esistenziali.

La propagazione del dinamismo divino in noi dà il via a una corrente e comunicazione di amore. Movimento d’amore autentico: che Viene.

È un Flusso ininterrotto di rassomiglianze della condizione divina.

Sintonia trasparente dal valore generativo, portata dal Figlio: «come» e «per il fatto che» [ho amato voi] (v.12 testo greco).

Il Signore non chiede di “essere amato” [a partire da noi stessi, non saremmo affidabili], ma di ‘accogliere’ la modalità di Dio - il Dono che discende dal Padre e da Lui.

La Gioia che ne sgorga non sarà d’euforia o esaltazione: è frutto d’una consapevolezza che coniuga la divina proposta di ‘somiglianza non possessiva’ con la nostra capacità di fare spazio dentro.

E in tale intercapedine, incontrare i nostri lati profondi - non il distaccarci dal Nucleo, per diventare esterni.

 

Permanendo nella circolazione d’amore Padre-Figlio siamo avvolti da una Felicità personale.

Essa intuisce il senso e l'unicità del nostro ‘seme’ e senza sforzo cambia il modo di vedere la vita, le sofferenze, le relazioni, e la Gioia.

«Nessuno ha amore più grande di questo: che uno deponga la propria vita per i suoi amici» (v.13).

Differenza tra religiosità e Fede? L’Amicizia, ch’è più forte sia di alchimie cerebrali che del volontarismo.

L’Amico condivide intenti, coltiva comunione di vita.

Il «servo» (v.15) resta inaffidabile e rancoroso, perché semplice esecutore di ordini altrui - i quali non riguardano le irriducibili ‘radici’ nascoste, la Sorgente cui il cuore attinge e che gli appartiene (v.16).

Così l’Amico fidato è lieto non solo quando si realizza in prima persona, ma anche quando può dilatare e rallegrare la vita del suo diletto. Egli ben volentieri si spodesta dal primo seggio in favore dell’amato.

 

Gv non parla di amore ai nemici come fa Mt 5 nel Discorso della Montagna, ma insiste sull’amore vicendevole [interno alla comunità dei credenti] come relazione con la stessa vita divina.

Qui si nota un cruccio particolare verso le singole persone e il clima fra amici di Fede, i quali devono prima essi stessi rovesciare le posizioni di privilegio - e incarnare lo spirito di disinteresse e verità che predicano agli altri.

In tal guisa, il Signore non ci chiede “frutti” [ovvero molteplici opere esteriori, spesso venate da esibizionismo] bensì ‘una’ sola opera: l’Amore senza doppiezze, remore, forzature, dissociazioni.

 

Nella singolare e inedita personalizzazione del «Frutto» (v.16), Cristo non rimane un Modello da imitare, bensì una Vita reale che continua in noi.

Unico tigre nel motore; invitando e ospitando dentro il mistero dell’Eros fondante, che dilata l’Io nel Tu:

Nell’Amicizia, nei sentimenti opposti che affiorano, nella crescente unità di pensiero e di aspirazioni; nelle persone che si avvicinano, nella comunione del desiderio e delle circostanze… le volontà si accomunano.

In tale Empatia divino-umana [più persuasiva del volontarismo] i codici di comportamento, o il progetto estrinseco, condizionato, estraneo, cui (prima) piegarsi, ora tessono un dialogo; infine si uniscono - per Nome.

Ecco l’accendersi e il riversarsi della Comunione, su un alto terreno d’intesa; senza conflitti celati. Con mente larga, che valica l’ossessione dei disagi e dei confronti.

Con mente amniotica, in grado di partorire novità senza servaggio.

 

Insomma, nell’Ideale come nel Sogno preferiamo l’Amicizia.

E percorriamo la Via della Fede nel Crocifisso - quella del «Frutto» autentico e felice: dello ‘smacco e squilibrio d’amore’.

 

 

[S. Mattia, 14 maggio]

Martedì, 06 Maggio 2025 04:17

Amici per Nome

Non iam dicam servos, sed amicos” – “Non vi chiamo più servi ma amici” (cfr Gv 15,15). A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati. “Non più servi ma amici”: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola “cerimoniale”, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo “Io” una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: “Non più servi ma amici”. Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà.

“Non più servi ma amici”: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. Che cosa è veramente l’amicizia? Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui? L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso. L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15). Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico!

La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli, agli amici, è quello di mettersi in cammino - costituiti perché andiate -, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: “Andate ed insegnate a tutti i popoli…” (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo.

[Papa Benedetto, omelia 29 giugno 2011]

“Come io ho osservato i comandamenti del Padre mio, e rimango nel suo amore” (Gv 15, 10).

Gli Atti degli apostoli ci ricordano oggi la scelta dell’apostolo Mattia designato per occupare il posto rimasto vacante in seguito al tradimento e alla morte di Giuda. La Chiesa festeggia San Mattia, inserito nel gruppo dei Dodici con questa elezione, poco dopo la partenza di Cristo Gesù. Questo è un avvenimento molto significativo. Seguendo la tradizione dell’antica alleanza, in cui Dio si è legato alle dodici tribù di Israele, il Cristo ha chiamato dodici apostoli. Dopo l’ascensione, la Chiesa apostolica primitiva ha considerato suo dovere ristabilire questo numero che, nell’economia divina, aveva avuto tanto rilievo ed era stato santificato.

E l’elezione designò un uomo che, come gli altri apostoli, era stato “testimone della risurrezione del Cristo”. È questa la condizione essenziale. Mattia è stato testimone del modo in cui Gesù “ha osservato i comandamenti del Padre ed è rimasto nel suo amore” (cf. Gv 15, 10). Ormai egli testimonierà che, in risposta, il Padre ha glorificato Gesù risuscitandolo.

 

2 In ogni epoca, i successori degli apostoli e i missionari sono andati a portare questa testimonianza del Cristo in nuovi luoghi, presso altri popoli. Qui da voi è dal IV secolo che San Servazio è venuto a fondare la Chiesa a Maastricht e in tutta la vostra regione. E come non ricordare qui San Willibrordo, pastore ardente che ha annunciato la buona novella, che ha battezzato migliaia di uomini e donne che scoprivano così il dono della fede ed entravano nella comunità cristiana! E ancora voi venerate numerosi vescovi per la loro santità; ed è tutto un popolo con gli uomini e le donne consacrati, che ha costituito in questa diocesi una ricca tradizione religiosa, attestata dalla costruzione di molti luoghi di preghiera e impressa in tutta la vostra cultura.

Oggi, cari fratelli e sorelle, è con gioia che incontro in voi la Chiesa stabilita qui da sedici secoli per professare il Cristo, lui che “ha osservato fedelmente i comandamenti del Padre ed è rimasto nel suo amore”. Sono felice di salutare il mio fratello nell’episcopato, monsignor Johannes Baptist Gijsen, pastore di questa diocesi di Roermond. I miei saluti cordiali vanno ugualmente al suo ausiliare, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose, ai membri degli istituti secolari, ai seminaristi di Rolduc, ai laici adulti e giovani; so che tutti si sforzano di partecipare attivamente alla vita della diocesi. Saluto anche coloro che sono venuti da altre diocesi e anche da altri Paesi: Germania e Belgio.

3  Abbiamo ascoltato le parole di Gesù nella veglia della sua passione: “Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore” (Gv 15, 10). Quali sono questi comandamenti?

Prima di tutto il comandamento dell’amore fraterno: il Cristo desidera che, osservando il suo comandamento, amandosi gli uni gli altri come egli stesso li ama, i suoi discepoli siano strettamente uniti tra loro e allo stesso tempo uniti a suo Padre. È l’augurio profondo che rivolgo a tutte le comunità della Chiesa nei Paesi Bassi: nel quadro delle vostre parrocchie, delle numerose istituzioni dove siete impegnati, sappiate trovare nella parola di Cristo l’ispirazione della vostra azione e il senso della vostra vita comune. Non esiste altro modello o altro appoggio per la Chiesa all’infuori di colui che “ci ha amati come il Padre l’ha amato”.

Voi tutti che portate la preoccupazione di annunciare il Vangelo e costruire la Chiesa, voi che vi riunite nella preghiera, voi che assolvete tutti i compiti legati all’educazione dei giovani, voi che servite i malati e i più poveri dei nostri fratelli, voi che vi impegnate per la solidarietà necessaria con gli uomini al di là di tutte le frontiere, datevi la mano: insieme voi continuate la comunità fondata dal Cristo, costituita attorno al ministero apostolico, unita dall’amore del Padre, chiamata a vivere la stessa vita di Dio nella quale il Redentore ci introduce: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15, 9). “Io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15, 16).

4 Il Cristo ha chiamato, innanzitutto, i Dodici a condividere l’amore che egli vive pienamente nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito. Essi dovevano costituire il centro della nuova comunità, la comunità della vita divina in mezzo agli uomini. Ed è stato partendo sempre da questo modello che si è costruita la Chiesa attraverso i secoli.

Oggi il Cristo ci chiama, a sua imitazione, ad aprire la nostra vita agli altri con il dono di noi stessi e a conoscere così la felicità di una generosità feconda. Non solo ci svela il meraviglioso mistero della Trinità e dello scambio ininterrotto d’amore tra le persone divine, ma ci invita a vivere a nostra volta lo stesso scambio in cui il dimenticarsi di se stessi porta a donare tutto all’altro, dove non si tiene per proprio esclusivo beneficio la vita ricevuta da Dio, ma la si offre al Signore condividendo i molteplici doni con il proprio prossimo.

Il primo luogo, in cui la vita d’amore di Dio viene condivisa, è la famiglia. La famiglia, nella quale si viene messi al mondo, nella quale si impegna la propria vita uno per l’altro, l’uno con l’altro, è il primo luogo dove l’amore creato a immagine di Dio può rendere viva la sua somiglianza con il Creatore. È vero che nella nostra epoca la situazione della famiglia conosce molte contraddizioni. È screditata da alcuni che rigettano quelle che considerano le sue costruzioni; ma è apprezzata da molti altri che spontaneamente vi vedono il vero luogo della felicità, come i sondaggi dimostrano.

Certamente tutte le famiglie hanno i loro limiti e restano al di qua della loro alta vocazione. Ma noi sappiamo quale ferita segna coloro che sono privati di ciò che l’ambiente familiare apporta naturalmente al loro sviluppo di bambini, di adolescenti, di uomini e donne. Da parte sua la Chiesa ne è così cosciente che non cessa mai di ricordare l’importanza di una solida costruzione della famiglia, il carattere indissolubile dell’impegno che è a fondamento del matrimonio, la nobiltà dell’amore che si esprime nel linguaggio del corpo e dello spirito.

Ognuno sa fino a che punto il Concilio Vaticano II, nella costituzione pastorale Gaudium et spes, e il papa Paolo VI particolarmente nell’enciclica Humanae vitae, abbiano esaltato il posto della famiglia nella società, la grandezza dell’istituzione del matrimonio, della paternità e della maternità responsabili precisando le esigenze di una corretta etica fondata sulla tradizione cristiana. Nel 1980 il Sinodo dei vescovi ha continuato la riflessione su questo punto, che si è conclusa con l’esortazione apostolica Familiaris consortio.

5 Permettetemi di ridire semplicemente alle famiglie dei Paesi Bassi quanto è grande il loro ruolo nello sviluppo di ogni persona. La vocazione della persona umana è di amare ed essere amata. Ed è per mettere in luce questa vocazione che dobbiamo ritornare sempre alla parola del Cristo e degli apostoli che ci rivelano l’inesauribile fonte dell’amore, che è la vita stessa di Dio. È nel seno di una famiglia unita e stabile che se ne fa anzitutto la scoperta. È qui che si viene ricevuti incondizionatamente senza dover giustificare la propria presenza. E inoltre, più si è fragili e vulnerabili e più si è sicuri della tenerezza degli altri. È qui che si impara ad esistere. È qui che si costruisce progressivamente la propria personalità. È qui, ancora, che ci è dato di scoprire che non si è al centro del mondo; si conoscono in profondità delle persone differenti in un arricchimento reciproco. Si impara ad essere amati, ad amare l’altro, ad amare se stessi. Vi si fa anche la scoperta della prova, dei conflitti e delle sofferenze; la famiglia è poi il luogo in cui l’amore può arrivare fino a “dare la propria vita” per coloro che si amano, secondo la parola stessa di Gesù, e quindi a sostenere colui che attraversa la tempesta, a guarire le ferite, a conoscere quale gioia dà una necessaria padronanza di sé per un buon rapporto con l’altro e quale felicità viene da una riconciliazione nella verità.

6 Arricchito dalla sua esperienza familiare, l’uomo può svolgere meglio il suo ruolo nella società. Riprendo a questo proposito le parole dell’esortazione Familiaris consortio: “Le relazioni tra i membri della comunità familiare sono ispirate e guidate dalla legge della “gratuità” che, rispettando e favorendo in tutti e in ciascuno la dignità personale come unico titolo di valore, diventa accoglienza cordiale, incontro e dialogo, disponibilità disinteressata, servizio generoso, solidarietà profonda. Così la promozione di un’autentica e matura comunione di persone nella famiglia diventa prima e insostituibile scuola di socialità” (Giovanni Paolo II,Familiaris consortio, 43). La famiglia è il luogo dove ci si prepara ad affrontare le difficoltà della vita, a non rassegnarsi alle facilità o alle rotture, rinunciando a combattere la miseria umana. È nella famiglia che si acquisisce la libertà personale e il discernimento che permettono di non essere in balia delle pressioni sociali, a volte nefaste. Grazie alla maturità sviluppata nell’ambiente familiare, si può apportare un contributo positivo alla storia umana e cristiana della società.

7 Infine, come non ricordare che il Concilio Vaticano II ha descritto la famiglia come “un santuario domestico della Chiesa” (Apostolicam actuositatem, 11)? Significa che la Chiesa è presente nella vita della famiglia che conosce l’amicizia del Cristo e riceve la sua parola: “Voi siete miei amici se farete ciò che io vi comando… ma vi ho chiamati amici” (Gv 15, 14.15). Significa dire che la piccola comunità familiare partecipa alla vita della grande comunità ecclesiale, particolarmente per la celebrazione dei sacramenti; e tutto ciò si manifesta specialmente con l’Eucaristia domenicale. Significa pure che la missione della famiglia, particolarmente la sua missione educatrice, è come un vero ministero grazie al quale il Vangelo è trasmesso e diffuso, a tal punto che la vita familiare nel suo insieme diventa un cammino per la fede, per l’iniziazione cristiana, per la vita al seguito di Cristo. Nella famiglia cosciente di un tale dono, come ha scritto Paolo VI: “tutti i membri evangelizzano e sono evangelizzati” (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 71). Per queste ragioni mi rallegro con voi per aver creato, in questa diocesi, un Centro di pastorale della famiglia che non mancherà di portare molti frutti. È nella famiglia che possono nascere e morire le diverse vocazioni dei giovani cristiani e particolarmente le vocazioni al servizio sacerdotale o alla vita religiosa; voi lo sapete, in un Paese come il vostro che ha inviato tanti missionari sulle strade del mondo, e dove i sacerdoti sono stati numerosi in un passato ancora recente. Di fronte alle attuali sfide, che Dio permetta alle famiglie dei Paesi Bassi di vedere i loro figli rispondere alle chiamate del Signore e consacrare la loro vita al suo servizio!

8 Cari fratelli e sorelle, so che spesso è gravoso il compito che le vostre famiglie devono affrontare per assicurare lo sviluppo di ciascuno, per svolgere il loro ruolo nella vita sociale, per essere il punto d’appoggio della vita ecclesiale. In ogni Paese i pubblici poteri hanno un ruolo da svolgere per difendere e sostenere l’istituzione familiare. Se a questa viene impedito di svilupparsi normalmente o se vengono fatte troppe concessioni a tutto ciò che la danneggia, la difficoltà diventa eccessiva. Auspico che la politica familiare, nel vostro Paese, come in tutta Europa, rispetti e favorisca maggiormente la realtà fondamentale che, nella società, è la famiglia.

9 Alla fine della nostra meditazione sul compimento della nostra missione nella Chiesa e nella famiglia cristiana, rivolgiamoci insieme alla Madre di Cristo. Ella è anche la Madre della Chiesa. La vostra diocesi di Roermond l’ha scelta come patrona con il titolo di “Immacolata Concezione”. Molti santuari le sono dedicati su questo territorio e vi andate a pregare.

O Maria, tu che hai vissuto nell’intimità del Padre, del Figlio e dello Spirito, tu che hai dato carne al Verbo di Dio, tu che hai avuto l’esperienza della vita familiare a Nazaret, tu che hai partecipato con gli apostoli alla nascita del nuovo popolo di Dio, resta con noi! Resta con noi, per educarci al vero amore in tutte le comunità alle quali apparteniamo! Che esse siano dei luoghi di vita e di verità, di carità e di pace, di coraggio e di speranza!

O Maria, rimani vicino a questo popolo che io oggi visito! Lo affido al tuo cuore materno. O Maria, aiuta i cristiani dei Paesi Bassi ad essere oggi testimoni della risurrezione come gli apostoli di tuo Figlio. Aiutali a conservare e a continuare l’opera di evangelizzazione cominciata da San Servazio. Mantieni il loro cuore pronto in attesa del ritorno del Maestro affinché li trovi fedeli al Vangelo di cui ha fatto loro dono! Aiutali a vivere nell’unità nella quale si riconoscono i discepoli di tuo Figlio! E per questo che essi sappiano, sul tuo esempio, conservare nel loro cuore le parole di Gesù: “Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Gv 15, 9-10).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Maastricht 14 maggio 1985]

Martedì, 06 Maggio 2025 04:02

Chi abita nello specchio

Gesù, dopo aver paragonato Sé stesso alla vite e noi ai tralci, spiega qual è il frutto che portano coloro che rimangono uniti a Lui: questo frutto è l’amore. Riprende ancora il verbo-chiave: rimanere. Ci invita a rimanere nel suo amore perché la sua gioia sia in noi e la nostra gioia sia piena (vv. 9-11). Rimanere nell’amore di Gesù.

Ci chiediamo: qual è questo amore in cui Gesù ci dice di rimanere per avere la sua gioia? Qual è questo amore? È l’amore che ha origine nel Padre, perché «Dio è amore» (1 Gv 4,8). Questo amore di Dio, del Padre, come un fiume scorre nel Figlio Gesù e attraverso di Lui arriva a noi sue creature. Egli dice infatti: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15,9). L’amore che Gesù ci dona è lo stesso con il quale il Padre ama Lui: amore puro, incondizionato, amore gratuito. Non si può comprare, è gratuito. Donandolo a noi, Gesù ci tratta da amici – con questo amore –, facendoci conoscere il Padre, e ci coinvolge nella sua stessa missione per la vita del mondo.

E poi, possiamo farci la domanda, come si fa a rimanere in questo amore? Dice Gesù: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (v. 10). I suoi comandamenti Gesù li ha riassunti in uno solo, questo: «Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (v. 12). Amare come ama Gesù significa mettersi al servizio, al servizio dei fratelli, così come ha fatto Lui nel lavare i piedi ai discepoli. Significa anche uscire da sé, distaccarsi dalle proprie sicurezze umane, dalle comodità mondane, per aprirsi agli altri, specialmente di chi ha più bisogno. Significa mettersi a disposizione, con ciò che siamo e ciò che abbiamo. Questo vuol dire amare non a parole ma con i fatti.

Amare come Cristo significa dire di no ad altri “amori” che il mondo ci propone: amore per il denaro – chi ama il denaro non ama come ama Gesù –, amore per il successo, la vanità, per il potere…. Queste strade ingannevoli di “amore” ci allontanano dall’amore del Signore e ci portano a diventare sempre più egoisti, narcisisti, prepotenti. E la prepotenza conduce a una degenerazione dell’amore, ad abusare degli altri, a far soffrire la persona amata. Penso all’amore malato che si trasforma in violenza – e quante donne sono vittime oggigiorno di violenze. Questo non è amore. Amare come ci ama il Signore vuol dire apprezzare la persona che ci sta accanto, rispettare la sua libertà, amarla così com’è, non come noi vogliamo che sia; come è, gratuitamente. In definitiva, Gesù ci chiede di rimanere nel suo amore, abitare nel suo amore, non nelle nostre idee, non nel culto di noi stessi. Chi abita nel culto di sé stesso, abita nello specchio: sempre a guardarsi. Ci chiede di uscire dalla pretesa di controllare e gestire gli altri. Non controllare, servirli. Aprire il cuore agli altri, questo è amore, e donarci agli altri.

Cari fratelli e sorelle, dove conduce questo rimanere nell’amore del Signore? Dove ci conduce? Ce lo ha detto Gesù: «Perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (v. 11). E la gioia che il Signore possiede, perché è in totale comunione col Padre, vuole che sia anche in noi in quanto uniti a Lui. La gioia di saperci amati da Dio nonostante le nostre infedeltà ci fa affrontare con fede le prove della vita, ci fa attraversare le crisi per uscirne migliori. È nel vivere questa gioia che consiste il nostro essere veri testimoni, perché la gioia è il segno distintivo del vero cristiano. Il vero cristiano non è triste, sempre ha quella gioia dentro, anche nei momenti brutti.

Ci aiuti la Vergine Maria a rimanere nell’amore di Gesù e a crescere nell’amore verso tutti, testimoniando la gioia del Signore risorto.

[Papa Francesco, Regina Coeli 9 maggio 2021]

Completi vs Perfetti

(Gv 10,22-30)

 

Nel cosiddetto Libro dei Segni del quarto Vangelo (Gv cc.1-12) avviene una progressiva rivelazione del Mistero divino che avvolge la Persona di Gesù.

Mentre si precisa tale svelamento, crescono attorno alla sua figura sia l’adesione che l’incomprensione, anche dei vicini - nella misura in cui Egli si discosta dalle aspettative tradizionali circa il Messia condottiero e giustiziere glorioso.

In tal guisa, nella nostra esperienza vocazionale spesso ci siamo accorti che l’esistenza piena e i percorsi di qualità indistruttibile (vv.28-29) non sono sottoposti a esigenze immediatamente appaganti la mentalità comune.

La Vita dell’Eterno (v.28) si rivela come un pungolo: non per mortificare i propositi, ma per farci intraprendere sentieri di crescita.

Il Vangelo non è conferma di gusti, preferenze e convinzioni.

E Gv 10,22-24 applica tale criterio in modo plateale - nell’attrito colpo su colpo coi capi della religiosità conformista: contraddicendo la mentalità degli esperti.

 

La regola religiosa sviluppava l’idea che la Torah potesse ripulire la mente dagli errori, e l’inclinazione delle persone dalle impurità - onde cesellare un popolo gradito a Dio.

Così le autorità non sentivano il bisogno di ricercare il Mistero di Dio.

I primi della classe volevano che Gesù si definisse, per poterlo giudicare secondo i criteri fondamentalisti che impregnavano il loro insegnamento e la mentalità comune.

Il Maestro invece non si collocava in idee stabilite, in un quadro prefissato; non stagnava bloccato su una lunghezza d’onda.

Cristo è per noi presenza fraterna, non “ratificatore”.

Gesù autentica Guida era «amico di pubblicani e peccatori» nel senso che insegnava ad allargare l’armonia dell’essere creaturale.

Il nuovo Rabbi non voleva sterilizzare le emozioni o le situazioni.

Il mondo interiore e le inquietudini non andavano affatto tacitate, bensì incontrate e conosciute.

 

Per introdursi nella vita di Fede e farsi liberatori degli altri bisogna essere emancipati e instancabilmente disponibili, in grado di scuotere le convinzioni - a partire da sé.

Insomma, per coloro che si consideravano arrivati e padroni della situazione, i “nuovi” dovevano sempre presentare autorizzazioni, credenziali, permessi - o non si avrebbe avuto diritto di parlare e agire.

Invece il Signore richiama alla confidenza, al colloquio senza filtri, alla collaborazione: clima propizio, che consente al Padre di rivelarsi.

E oltre le parole, che appunto possono sempre esser fraintese, sono le opere di sola vita ad essere linguaggio eloquente (v.25).

Ma è l’animo che non vuol credere: sentimento di quelli che non gli appartengono (v.26).

Il problema è l’occhio tarato, o l’apertura. Solo la percezione dei malfermi è priva di zavorre interessate.

 

L’essere Uno (v.30) ha motivato Cristo, e ancora oggi guida i famigliari minori a sentirsi adeguati, alla pari; li conduce al faccia a faccia.

Non a un’obbedienza disciplinare, bensì alla somiglianza profetica.

 

 

[Martedì 4.a sett. Pasqua, 13 maggio 2025]

Completi vs Perfetti

(Gv 10,22-30)

 

Nel cosiddetto Libro dei Segni del quarto Vangelo (Gv cc.1-12) avviene una progressiva rivelazione del Mistero divino che avvolge la Persona di Gesù.

Mentre si precisa tale svelamento, crescono attorno alla sua figura sia l’adesione che l’incomprensione, anche dei vicini - nella misura in cui Egli si discosta dalle aspettative tradizionali circa il Messia condottiero e giustiziere glorioso.

Anche nella nostra esperienza vocazionale, spesso ci siamo accorti che l’esistenza piena e i percorsi di qualità indistruttibile (vv.28-29) non sono sottoposti a esigenze immediatamente appaganti la mentalità comune.

La Vita dell’Eterno (v.28) si rivela come un pungolo: non per mortificare i propositi, ma per farci intraprendere sentieri di crescita.

Il Vangelo non è conferma di gusti, preferenze e convinzioni.

E Gv 10,22-24 applica tale criterio in modo plateale - nell’attrito colpo su colpo coi capi della religiosità conformista: contraddicendo la mentalità degli esperti.

 

La regola religiosa sviluppava l’idea che la Torah potesse ripulire la mente dagli errori, e l’inclinazione delle persone dalle impurità - onde cesellare un popolo gradito a Dio.

Tutto ciò che turbava l’equilibrio prescritto andava subito condannato e punito, in quanto deleterio per la stabilità fissata, la coesione di massa, e la sua stessa efficienza.

La completa configurazione della proposta religiosa indiscutibile, e la magnificenza delle strutture di culto ufficiali, garantivano l’eloquenza e l’imperturbabilità dei condizionamenti (sui disadattati).

Dubbi e insicurezze venivano immediatamente bollati come fattori disturbanti il panorama delle rassicurazioni e il profilo delle normalità - da reprimere sin dall’adolescenza.

Il nuovo Rabbi invece non voleva sterilizzare le emozioni o le situazioni.

Il mondo interiore e le inquietudini non andavano affatto tacitate, bensì incontrate e conosciute.

Del resto [come noi oggi] guardandosi attorno si accorgeva che proprio nelle persone osservanti, portabandiera dell’etica o delle maniere, che reprimevano i moti spontanei o viceversa i criteri profondi, aumentavano grettezza e disturbi.

Proprio coloro che affrontavano la via spirituale… aumentando dirigismi, maniere e controllo, diventavano esageratamente snob, conflittuali e segretamente inaffidabili.

 

Gravato di norme soffocanti, il popolo pur ingenuo era ridotto all’infelicità.

Tutti sentivano inquietudine e arsura - proprio perché l’ossessione di peccato riversata sui malfermi, impediva loro l’integrazione dei desideri.

Insomma, ciò che doveva essere ridotto e annientato per ragioni di consonanza sociale, civile, devota, finiva per penetrare nelle anime in maniera più intima, riaffiorando qua e là in modo paradossale, con doppiezza e squilibri relazionali gravissimi.

Gesù autentica Guida era «amico di pubblicani e peccatori» nel senso che insegnava ad allargare l’armonia dell’essere creaturale.

Voleva Egli stesso apprendere l’arte di guardare senza pregiudizio, e fare tesoro di varie esperienze; di tutto quanto poteva emergere anche nell’intimo.

La perfezione che predicava agli altri era nell’imperfezione del disinteresse, nella irrazionalità dell’amore, nell’assurdo del puro dono e tolleranza che raggranellavano perle di esperienza da ogni dove.

Anzi, secondo il Pastore vero era importante proprio essere turbati, invece che impassibili.

Tutto per conoscere nel tempo e dare senso anche ai segni che preoccupano [anche secondo mentalità pia, o à la page, e allineata] - così completarci.

Imparando ad accogliere, non a stabilire.

 

Il Maestro e Amico autentico sa che... solo quanto tocca, coinvolge, e turba in prima persona, riuscirà a farci spostare lo sguardo, per crescere. Per attivare esodo verso pascoli ubertosi, la terra della libertà.

 

 

Si stava celebrando la Festa della Dedicazione [Festa delle Luci], memoria della purificazione del Tempio, consacrazione e dedicazione di un nuovo altare [successivo alla profanazione ellenista di Antioco IV Epifane, che aveva forzato la mano imponendo il culto a Zeus Olimpio, in quel luogo].

Il dibattito coi maestri istituzionali si svolge come solito nel Portico di Salomone - ogni volta cercando di educarli a mollare il loro senso d’inquisizione e dominio, ancora oggi insopportabile.

Le autorità non sentivano il bisogno di ricercare il Mistero di Dio.

In tal guisa i leaders volevano che Gesù si definisse, per poterlo giudicare secondo i criteri del loro mondo astratto; che impregnavano il loro insegnamento e la mentalità comune.

Viceversa il Maestro anche per noi oggi non si colloca nell’armatura d’idee stabilite, in un quadro prefissato, artificioso, tutto esterno.

Egli non ristagna, bloccato su una lunghezza d’onda; come se fosse timoroso dell’ignoto - quindi per noi latore d’una devozione non allarmante.

 

Cristo è presenza fraterna, certo - non “ratificatore”.

Per introdursi nella vita di Fede e farsi liberatori degli altri bisogna essere emancipati e instancabilmente disponibili, in grado di scuotere le convinzioni - a partire da sé.

Insomma, per coloro che si considerano arrivati e padroni della situazione, i nuovi devono presentare l’imprinting di autorizzazioni, credenziali, permessi - o non si ha diritto di parlare e agire.

Invece il Signore richiama alla confidenza, al colloquio, alla collaborazione: clima propizio che consente al Padre di rivelarsi.

Rifiuta solo il fanatismo, il pensiero sofisticato, cerebrale, di maniera, e unilaterale.

Insomma, Gesù non voleva essere scambiato per «il» [quel] Messia politico atteso: somigliante a Davide. Per tale ragione impone il cosiddetto segreto messianico.

E oltre le parole, che appunto possono sempre esser fraintese, sono le opere di sola vita ad essere linguaggio eloquente (v.25).

Ma è l’animo che non voleva credere: sentimento di quelli che non gli appartengono (v.26).

Infatti la Fede sincera si attiva a partire da una prima testimonianza dentro, nell’essere, nella propria impronta caratteriale e creaturale (Gv 6,44).

 

(Vv.25-26) Se non si porta le persone a pensare in modo differente, dare prove non serve. Il problema è l’occhio tarato, o l’apertura. E solo la percezione dei malfermi è priva di zavorre interessate.

Il mutuo intendimento fra Gesù e i minimi del popolo è trasparenza completa, sintonia totale anche sulla base di un’elementare simpatia: la Via naturale che unisce Padre e figli.

Tutto ciò, a partire da una testimonianza sicura in se stessi, non da un razionalismo religioso preconcetto.

L’essere Uno (v.30) ha motivato Cristo, e ancora oggi guida i famigliari senza voce a sentirsi adeguati, alla pari.

Li conduce al faccia a faccia, senza il bisogno di modelli, trafile, legalismi, modi affettati.

Non a un’obbedienza disciplinare, bensì alla somiglianza profetica.

 

C’infastidisce essere paragonati a un gregge, ma nell’antico Israele l’archetipo del pastore che condivide tutto con le sue pecore rimaneva anche ai tempi di Gesù un prototipo dell’esistenza e della vita di comunione con Dio.

La metafora va compresa nel senso del rapporto famigliare, della condivisione totale: sentire insieme il peso e i traguardi; cogliere lo spirito di ciascuno e vedere le qualità, o provvedere; fiducia anche nell’indigenza.

Nella vita di Fede gli specialisti che guidano dovrebbero introdurci in questa speciale relazione col Padre che conosce ogni suo consanguineo, e ne riscatta la solitudine o viceversa l’esteriorità.

Immediatezza e libertà personale nell’amore sono il cardine del nuovo rapporto con l’Altissimo.

Franchezza che Gesù insegna senza guardare in faccia a nessuno che sia ancora rapito da elementi mondani - tantomeno farsi intimidire da predoni (vv.1.5.8.10.12-13) in vesti angeliche.

La sua Parola e vicenda estrema sono ancora le Porte che guidano [in modo radicale] al Cielo e all’umanità.

Tutto ciò malgrado il suo Messaggio sia considerato pazzesco e demoniaco dagli interessati allo status quo (vv.20-21).

Varcando viceversa tutte le soglie previste, nei nostri squilibri penetriamo i solchi della realtà e del mistero; c’introduciamo là dove maturano regali decisioni - trovando fascino eccedente.

Perfetta corrispondenza con il nostro tratto vocazionale e anelito di vita piena.

 

Conoscenza del cuore

 

Gesù parla di sé come del Buon Pastore che dà la vita eterna alle sue pecore (cfr Gv 10,28). Quella del pastore è un’immagine ben radicata nell'Antico Testamento e cara alla tradizione cristiana. Il titolo di "pastore d’Israele" viene attribuito dai Profeti al futuro discendente di Davide, e pertanto possiede un’indubbia rilevanza messianica (cfr Ez 34,23). Gesù è il vero Pastore d’Israele, in quanto è il Figlio dell’uomo che ha voluto condividere la condizione degli esseri umani per donare loro la vita nuova e condurli alla salvezza. Significativamente al termine "pastore" l’evangelista aggiunge l’aggettivo kalós, bello, che egli utilizza unicamente in riferimento Gesù e alla sua missione. Anche nel racconto delle nozze di Cana l’aggettivo kalós viene impiegato due volte per connotare il vino offerto da Gesù ed è facile vedere in esso il simbolo del vino buono dei tempi messianici (cfr Gv 2,10).

"Io do loro cioè (alle mie pecore) la vita eterna e non andranno mai perdute" (Gv 10,28). Così afferma Gesù, che poco prima aveva detto: "Il buon pastore offre la vita per le pecore" (cfr Gv 10,11). Giovanni utilizza il verbo tithénai - offrire, che ripete nei versetti seguenti (15.17.18); lo stesso verbo troviamo nel racconto dell’Ultima Cena, quando Gesù "depose" le sue vesti per poi "riprenderle" (cfr Gv 13, 4.12). E’ chiaro che si vuole in questo modo affermare che il Redentore dispone con assoluta libertà della propria vita, così da poterla offrire e poi riprendere liberamente. Cristo è il vero Buon Pastore che ha dato la vita per le sue pecore, per noi, immolandosi sulla Croce. Egli conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono, come il Padre conosce Lui ed Egli conosce il Padre (cfr Gv 10,14-15). Non si tratta di mera conoscenza intellettuale, ma di una relazione personale profonda; una conoscenza del cuore, propria di chi ama e di chi è amato; di chi è fedele e di chi sa di potersi a sua volta fidare; una conoscenza d’amore in virtù della quale il Pastore invita i suoi a seguirlo, e che si manifesta pienamente nel dono che fa loro della vita eterna (cfr Gv 10,27-28).

[Papa Benedetto, omelia per l’ordinazione presbiterale 29 aprile 2007]

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Jesus who is the teacher of love, who liked to talk about love so much, in this Gospel speaks of hate. Exactly of hate. But he liked to call things by the proper name they have (Pope Francis)
Gesù che è maestro dell’amore, al quale piaceva tanto parlare di amore, in questo Vangelo parla di odio. Proprio di odio. Ma a lui piaceva chiamare le cose con il nome proprio che hanno (Papa Francesco)
St Thomas Aquinas says this very succinctly when he writes: "The New Law is the grace of the Holy Spirit" (Summa Theologiae, I-IIae, q.106 a. 1). The New Law is not another commandment more difficult than the others: the New Law is a gift, the New Law is the presence of the Holy Spirit [Pope Benedict]
San Tommaso d’Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge è la grazia dello Spirito Santo” (Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1). La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo [Papa Benedetto]
Even after seeing his people's repeated unfaithfulness to the covenant, this God is still willing to offer his love, creating in man a new heart (John Paul II)
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo (Giovanni Paolo II)
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]

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