don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Giovedì, 01 Maggio 2025 04:26

Mistica della Carne e Sangue

Nessuna marcia trionfale: frammenti, per conciliare

(Gv 6,52-59)

 

Il tema eucaristico veicola un messaggio fondamentale, sulla qualità di Vita dell’Eterno che possiamo sperimentare già qui e ora.

La Vita dell’Eterno non è effetto del “credere” esterno in Gesù. Convinzione che ci fermerebbe, e perderebbe il ‘contatto’.

Invece essa si fa reciproca, evolve, ci recupera, come in una energia naturale.

Ecco il crudo Alimento, e Bevanda: ‘masticarlo’ e ‘frantumarlo’, ‘berlo’ e ‘tracannarlo’ persino [verbi usati nel testo greco].

Assimilazione totale, che si converte in un vissuto - Dono da Persona a persona.

Il Cibo di cui nutrirsi non è un sigillo; piuttosto, un moto perenne e convocatore.

Non una dottrina logica, compassata e consenziente, bensì Parola-evento che coinvolge appieno.

E la sua vicenda - con tutti i risvolti di persecuzione subita, e asprezza, nonché attività di denuncia.

[È un aspetto che va in sintonia con la cosiddetta preghiera ispirata «nel Nome di Gesù» ossia un’orazione intrisa del portato e carico drammatico della sua vicenda storica; che non ci spiritualizza né anestetizza affatto, perché contrappone i testimoni critici alle situazioni installate].

Per questo motivo, ecco la Persona del Cristo - nella sua vera e piena realtà umana, offerta e rotta; nel suo insegnamento autentico e vicenda di agnello pasquale.

Fra lupi che lo hanno triturato.

È il brusco tramite, per il quale è data e conservata la Vita dell’Eterno.

In tal senso l’Eucaristia accolta nella nuda Fede è Presenza reale (non simbolica) del Risorto.

La durezza del vocabolario usato - poco intimista - graffia la vita dei credenti con effetti concreti in prima persona, non automatici né magici.

La Fede mette in rilievo la nuzialità paradigmatica «Vuoi unire la tua vita alla mia?»: è luogo privilegiato - di cui ci nutriamo e abbeveriamo anche nelle sue stesse asprezze, per esplicarlo.

È Corrente di vita dal Padre attraverso il Figlio, assimilato in noi: non la devozione.

«Avere la Vita» è stare uniti a Gesù - ma non in modo dolciastro, sentimentale, o abbacinante.

Siamo fecondati e mandati, fatti Uno col «Figlio dell’uomo» [la misura divina per ciascuno di noi] nell’Alleanza degli accadimenti.

Relazione, motivo, veicolo, movimento unificatore, anticipazione, che dispiegano la Comunione tra Padre e Figlio - senza immobilità e soste.

Il Patto di un nuovo regno è vita in Dio: carica che non si esaurisce, e c’introduce nella gloria paradossale e piagata della comunità dei figli.

L’Eucaristia è punto di riferimento della Chiesa, talora dispersa nelle ipnosi di eventi esteriori.

Assemblea che riconosce se stessa; definisce cos’è chiamata a essere. E non deve trovare altrove i suoi vincoli perenni.

 

Alcuni passi di Gv sono una interessante testimonianza storica della catechesi di fine primo secolo nelle comunità dell’Asia Minore.

Fraternità alla ricerca di motivazioni ancestrali, delle energie più antiche, che si ergessero sui turbini della persecuzione e non alterassero la coscienza in Cristo.

L’istruzione era configurata a brevi domande e risposte, formulate per accogliere pagani, arginare defezioni, approfondire tematiche.

Argomenti e spinte che distinguessero la Fede viva da una religiosità del passato e dai suoi schemi perfezionisti o commemorativi.

Stilemi che era opportuno deporre, per saziare la fame e sete di pienezza - conquistando libertà, letizia, nonché un essere più completo, totale, indistruttibile.

Con crudezza polemica, Gesù insiste a proporsi come Agnello della vera Pasqua.

Agnello che rudemente pestato, trinciato, ridotto in briciole, acciaccato, sminuzzato, e assorbito totalmente, potesse liberare dalle schiavitù, e regalare la gioia dell’estasi.

In tal guisa, introducendo i suoi in traiettorie spigolose, ma vere - infine riannodate, sia per attivare la realizzazione autentica delle singole persone, che per qualità di coesistenza.

La sua proposta passava attraverso una impertinente trasgressione del purismo, del legalismo, e della cultura intimista, devota in genere.

In quell’ambito si proibiva in assoluto di assumere sangue, considerato sede della vita.

Fare propria la vicenda del Cristo totale - così discosto dal pensiero controllato - era marcare contestazione.

Era rifiuto dei simboli, delle norme, di abitudini o mode. Non ci sarebbe stata alternativa, né compromesso non offensivo.

Non solo: bisognava anche cambiare testa a coloro che immaginavano di potersi accodare con tornaconto (individuale o di gruppo) all’idea arcaica di Messia potente, vincitore, e garante.

Magari adeguabile, flessibile; a disposizione per ogni genere di alleanza Gesù-Impero, che già incantava qualcuno.

Insomma, altre “manne” o dipendenze affettive esterne, stemperate, centrate sui condizionamenti, non potevano essere neanche pallide figure dell’Alimento Vivente.

 

La Comunione di vita con la Persona concreta del Signore è solo quella del Figlio con il Padre.

Coltivandola, la sogniamo e la teniamo lì, insieme alle nostre vicende - affinché esse si nutrano di quel medesimo Spirito.

Lasciando evolvere le motivazioni e il mondo d’immagini legato alla Cena del Signore, ci lasciamo condurre dal Segno efficace.

Esso guiderà e addirittura porterà proprio là dove dobbiamo andare.

Arrendendosi a tale memoriale che dona intimo impulso, succederà qualcosa - affinché l'anima scenda in campo.

Aspettando di essere pronti, impareremo a capire la fecondità e sapienza del Dono-e-Risposta spezzata che incessantemente partorisce altre tappe, ancora attivando differenti risorse, forse sconosciute.

Qui è il Giudizio del Crocifisso piagato che sparge ‘vita’ autentica anche inclemente; senza mirabili sintonie dattorno.

Ciò prendendo la nostra carne e sangue [coinvolge persino il corpo e gli umori] che a Lui assimila gli scartati, i fuori dal giro di troni terreni, e cordate opportuniste.

Cosa urtante per la mentalità volgare esterna. Mondo di convinzioni che alza difese e cerca l’approvazione, il riconoscimento, le conquiste; miraggi di successo, cose che tutti vogliono.

Diminuzione che non attira consenso entusiasta, bensì ripugna alle normali attese dei soliti cori di gloria - delle sinfonie di acclamazione per il successo vorticoso e disponibile, ma attenuante.

 

Carne e Sangue: gettati nei solchi della storia.

Coinvolti senza smorzare lo Spirito; in modo personale e intimo. Corpo Unico, assimilato a Lui e alla sua vicenda.

Primizie di nessuna marcia trionfale: anche noi divenuti alimento, briciole e frammenti, per conciliare.

Altrimenti il tempo delle Promesse non può compiersi.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale comprensione dimostri assumendo l’Alimento e la Bevanda della Vita? Tutto tranquillo?

Come ritieni opportuno coniugare e approfondire la Fede nella Presenza reale del Risorto con l’asprezza della vita?

Giovedì, 01 Maggio 2025 04:16

Non scandalizzarsi della sua umanità

È la parte finale e culminante del discorso fatto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo che il giorno precedente aveva dato da mangiare a migliaia di persone con soli cinque pani e due pesci. Gesù svela il senso di quel miracolo, e cioè che il tempo delle promesse è compiuto: Dio Padre, che con la manna aveva sfamato gli Israeliti nel deserto, ora ha mandato Lui, il Figlio, come vero Pane di vita, e questo pane è la sua carne, la sua vita, offerta in sacrificio per noi. Si tratta dunque di accoglierlo con fede, non scandalizzandosi della sua umanità; e si tratta di «mangiare la sua carne e bere il suo sangue» (cfr Gv 6,54), per avere in se stessi la pienezza della vita. E’ evidente che questo discorso non è fatto per attirare consensi. Gesù lo sa e lo pronuncia intenzionalmente; e infatti quello fu un momento critico, una svolta nella sua missione pubblica. La gente, e gli stessi discepoli, erano entusiasti di Lui quando compiva segni prodigiosi; e anche la moltiplicazione dei pani e dei pesci era una chiara rivelazione che Egli era il Messia, tant’è che subito dopo la folla avrebbe voluto portare Gesù in trionfo e proclamarlo re d’Israele. Ma non era questa la volontà di Gesù, che proprio con quel lungo discorso smorza gli entusiasmi e provoca molti dissensi. Egli, infatti, spiegando l’immagine del pane, afferma di essere stato mandato ad offrire la propria vita, e chi vuole seguirlo deve unirsi a Lui in modo personale e profondo, partecipando al suo sacrificio di amore. Per questo Gesù istituirà nell’ultima Cena il Sacramento dell’Eucaristia: perché i suoi discepoli possano avere in se stessi la sua carità - questo è decisivo - e, come un unico corpo unito a Lui, prolungare nel mondo il suo mistero di salvezza.

Ascoltando questo discorso la gente capì che Gesù non era un Messia come lo volevano, che aspirasse ad un trono terreno. Non cercava consensi per conquistare Gerusalemme; anzi, alla Città santa voleva andarci per condividere la sorte dei profeti: dare la vita per Dio e per il popolo. Quei pani, spezzati per migliaia di persone, non volevano provocare una marcia trionfale, ma preannunciare il sacrifico della Croce, in cui Gesù diventa Pane, corpo e sangue offerti in espiazione. Gesù dunque fece quel discorso per disilludere le folle e, soprattutto, per provocare una decisione nei suoi discepoli. Infatti, molti tra questi, da allora, non lo seguirono più.

Cari amici, lasciamoci anche noi nuovamente stupire dalle parole di Cristo: Egli, chicco di grano gettato nei solchi della storia, è la primizia dell’umanità nuova, liberata dalla corruzione del peccato e della morte. E riscopriamo la bellezza del Sacramento dell’Eucaristia, che esprime tutta l’umiltà e la santità di Dio: il suo farsi piccolo, Dio si fa piccolo, frammento dell’universo per riconciliare tutti nel suo amore. La Vergine Maria, che ha dato al mondo il Pane della vita, ci insegni a vivere sempre in profonda unione con Lui.

[Papa Benedetto, Angelus 19 agosto 2012]

Giovedì, 01 Maggio 2025 04:11

Potenza e Ricchezza

1. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6, 54). Istituendo l’Eucaristia alla vigilia della sua morte, Cristo volle dare alla Chiesa un cibo che l’avrebbe nutrita continuamente e l’avrebbe fatta vivere della sua stessa vita di Risorto.

Molto tempo prima dell’istituzione, Gesù aveva annunciato questo pasto, unico nel suo genere. Nel culto giudaico non mancavano pasti sacri, che si consumavano alla presenza di Dio e che manifestavano la gioia del favore divino. Gesù supera tutto questo: ormai è lui, nella sua carne e nel suo sangue, che diventa cibo e bevanda dell’umanità. Nel pasto eucaristico l’uomo si nutre di Dio.

Quando, per la prima volta, Gesù annuncia questo cibo, suscita lo stupore dei suoi ascoltatori, che non giungono a recepire un progetto divino così alto. Gesù perciò sottolinea vigorosamente la verità oggettiva delle sue parole, affermando la necessità del pasto eucaristico: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita” (Gv 6, 53). Non si tratta di un pasto puramente spirituale, in cui le espressioni “mangiare la carne” del Cristo e “bere il suo sangue”, rivestirebbero un senso metaforico. È un vero pasto, come Gesù precisa con forza: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda” (Gv 6, 55).

Tale cibo, per altro, non è meno necessario allo sviluppo della vita divina nei fedeli, di quanto lo siano i cibi materiali per il mantenimento e lo sviluppo della vita corporea. L’Eucaristia non è un lusso offerto a quelli che vorrebbero vivere più intimamente uniti a Cristo: è un’esigenza della vita cristiana. Questa esigenza è stata compresa dai discepoli poiché, secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, nei primi tempi della Chiesa lo “spezzare il pane”, ossia il pasto eucaristico, si praticava ogni giorno nelle case dei fedeli “con gioia e semplicità di cuore” (At 2, 46).

2. Nella promessa dell’Eucaristia, Gesù spiega perché questo cibo è necessario: “Io sono il pane della vita” egli dichiara (Gv 6, 48). “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me, vivrà per me” (Gv 6, 57). Il Padre è la prima sorgente della vita: questa vita egli l’ha donata al Figlio, il quale a sua volta la comunica all’umanità. Colui che si nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere l’aldilà per ricevere la vita eterna: la possiede già sulla terra, e in essa possiede anche la garanzia della Risurrezione corporea alla fine del mondo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6, 54).

Questa garanzia di Risurrezione proviene dal fatto che la carne del Figlio dell’uomo data in cibo è il suo corpo nello stato glorioso di risorto. Gli ascoltatori della promessa dell’Eucaristia non avevano colto questa verità: essi pensavano che Gesù volesse parlare della sua carne nello stato della sua vita terrena, e manifestavano quindi grande ripugnanza di fronte al pasto annunciato. Il Maestro corregge il loro modo di pensare, precisando che si tratta della carne del Figlio dell’uomo “salito là dov’era prima” (Gv 6, 62), ossia nello stato trionfante dell’ascensione al cielo. Questo corpo glorioso è riempito della vita dello Spirito Santo, ed è così che può santificare gli uomini che se ne nutrono, e dare ad essi il pegno della gloria eterna.

Nell’Eucaristia noi riceviamo, dunque, la vita del Cristo risorto. Quando infatti il sacrificio si compie sacramentalmente sull’altare, non si rende in esso attuale soltanto il mistero della Passione e della Morte del Salvatore, ma anche il mistero della Risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo coronamento. La celebrazione eucaristica ci fa partecipare all’offerta redentrice, ma anche alla vita trionfante del Cristo risorto. Ecco il perché del clima di gioia che caratterizza ogni Liturgia eucaristica. Pur commemorando il dramma del Calvario, segnato un tempo da un immenso dolore, il sacerdote e i fedeli si rallegrano unendo la loro offerta a quella del Cristo, perché sanno di vivere nello stesso tempo il mistero della Risurrezione, inseparabile da questa offerta.

3. La vita del Cristo risorto si distingue per la sua potenza e la sua ricchezza. Colui che si comunica riceve la forza spirituale necessaria per affrontare tutti gli ostacoli e tutte le prove rimanendo fedele al suoi impegni di cristiano. Egli inoltre attinge dal Sacramento, come da una abbondantissima sorgente, continui fiotti di energia per lo sviluppo di tutte le sue risorse e qualità, in un ardore gioioso che stimola la generosità.

In particolare, egli attinge l’energia vivificante della carità. Nella tradizione della Chiesa, l’Eucaristia è sempre stata considerata e vissuta come sacramento per eccellenza dell’unità e dell’amore. Già san Paolo lo dichiara: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10, 17).

La celebrazione eucaristica riunisce tutti i cristiani, quali che siano le loro differenze, in una offerta unanime e in un pasto al quale tutti partecipano. Essa li raccoglie tutti nella uguale dignità di fratelli del Cristo e di figli del Padre; essa li invita al rispetto, alla stima reciproca, al mutuo servizio. La comunione dà inoltre a ciascuno la forza morale necessaria per porsi al di sopra dei motivi di divisione e di opposizione, per perdonare i torti ricevuti, per fare un nuovo sforzo nel senso della riconciliazione e dell’intesa fraterna.

Non è, del resto, particolarmente significativo che il precetto dell’amore reciproco sia stato formulato da Cristo nella sua più alta espressione durante l’ultima Cena, in occasione dell’istituzione dell’Eucaristia? Ogni fedele lo ricordi al momento di accostarsi alla mensa eucaristica e si impegni a non smentire con la vita ciò che celebra nel mistero.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 8 giugno 1983]

Giovedì, 01 Maggio 2025 03:52

Carne e sangue: l’umanità concreta

Il brano evangelico […] ci introduce nella seconda parte del discorso che fece Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo aver sfamato una grande folla con cinque pani e due pesci: la moltiplicazione dei pani. Egli si presenta come «il pane vivo disceso dal cielo», il pane che dà la vita eterna, e aggiunge: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51). Questo passaggio è decisivo, e infatti provoca la reazione degli ascoltatori, che si mettono a discutere tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52). Quando il segno del pane condiviso porta al suo significato vero, cioè il dono di sé fino al sacrificio, emerge l’incomprensione, emerge addirittura il rifiuto di Colui che poco prima si voleva portare in trionfo. Ricordiamoci che Gesù ha dovuto nascondersi perché volevano farlo re.

Gesù prosegue: «Se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). Qui insieme alla carne compare anche il sangue. Carne e sangue nel linguaggio biblico esprimono l’umanità concreta. La gente e gli stessi discepoli intuiscono che Gesù li invita ad entrare in comunione con Lui, a “mangiare” Lui, la sua umanità, per condividere con Lui il dono della vita per il mondo. Altro che trionfi e miraggi di successo! E’ proprio il sacrificio di Gesù che dona se stesso per noi.

Questo pane di vita, sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, viene a noi donato gratuitamente nella mensa dell’Eucaristia. Attorno all’altare troviamo ciò che ci sfama e ci disseta spiritualmente oggi e per l’eternità. Ogni volta che partecipiamo alla Santa Messa, in un certo senso, anticipiamo il cielo sulla terra, perché dal cibo eucaristico, il Corpo e il Sangue di Gesù, impariamo cos’è la vita eterna. Essa è vivere per il Signore: «colui che mangia me vivrà per me» (v. 57), dice il Signore. L’Eucaristia ci plasma perché non viviamo solo per noi stessi, ma per il Signore e per i fratelli. La felicità e l’eternità della vita dipendono dalla nostra capacità di rendere fecondo l’amore evangelico che riceviamo nell’Eucaristia.

Gesù, come a quel tempo, anche oggi ripete a ciascuno di noi: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). Fratelli e sorelle, non si tratta di un cibo materiale, ma di un pane vivo e vivificante, che comunica la vita stessa di Dio. Quando facciamo la comunione riceviamo la vita stessa di Dio. Per avere questa vita è necessario nutrirsi del Vangelo e dell’amore dei fratelli. Dinanzi all’invito di Gesù a nutrirci del suo Corpo e del suo Sangue, potremmo avvertire la necessità di discutere e di resistere, come hanno fatto gli ascoltatori di cui ha parlato il Vangelo di oggi. Questo avviene quando facciamo fatica a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù, ad agire secondo i suoi criteri e non secondo i criteri del mondo. Nutrendoci di questo cibo possiamo entrare in piena sintonia con Cristo, con i suoi sentimenti, con i suoi comportamenti. Questo è tanto importate: andare a Messa e comunicarsi, perché ricevere la comunione è ricevere questo Cristo vivo, che ci trasforma dentro e ci prepara per il cielo.

La Vergine Maria sostenga il nostro proposito di fare comunione con Gesù Cristo, nutrendoci della sua Eucaristia, per diventare a nostra volta pane spezzato per i fratelli.

[Papa Francesco, Angelus 19 agosto 2018]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 09:52

3a Domenica di Pasqua (anno C)

Terza Domenica di Pasqua [4 maggio 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questi giorni, essendo intensa la preghiera della Chiesa in attesa della scelta del successore di Pietro, assume grande valore la proclamazione del Vangelo (Gv 21, 1-19) che riguarda proprio Pietro.

*Prima Lettura, dagli Atti degli Apostoli (5, 27b-32. 40b-41)

 Dopo che gli apostoli sono stati flagellati per la loro predicazione, san Luca scrive che usciti dal sinedrio se ne andarono lieti di essere stati ritenuti degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. Del resto il Signore aveva loro predetto che sarebbero stati odiati, messi al bando, insultati e infamati a causa del Figlio dell’uomo e che proprio quello sarebbe stato il momento di rallegrarsi e addirittura esultare perché grande è la ricompensa nei cieli dato che così capitava anche ai profeti (cf Lc 6,22-23). Del resto, se hanno perseguitato il Maestro, faranno lo stesso con voi (cf. Gv 15,20). Pietro e Giovanni, dopo la guarigione dello storpio alla Porta Bella, miracolo che fece molto rumore in città, erano stati processati davanti al Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, il medesimo che qualche settimana prima aveva condannato Gesù. Appena liberati, avevano ripreso a predicare e a fare miracoli. Arrestati nuovamente e messi in prigione, durante la notte furono scarcerati da un angelo e si capisce che quest’intervento miracoloso li rese ancor più forti; ripresero infatti a predicare. Il brano di oggi ci situa proprio in questo momento: arrestati ancora una volta e portati in tribunale, al sommo sacerdote che li interroga Pietro risponde che “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Parla poi della differenza tra la logica di Dio e quella degli uomini: quella degli uomini, cioè quella del tribunale giudaico, ritiene che a un malfattore ucciso non bisogna certo far pubblicità. E argomenta così: Gesù, agli occhi delle autorità religiose, è un impostore crocifisso perché si doveva impedirgli di ingannare il popolino incline a dar credito a ogni presunto messia. Un condannato appeso alla croce, secondo la Torah, diventa maledetto persino da Dio. Esiste però anche la logica di Dio: voi avete crocifisso Gesù eppure, contro ogni previsione, non solo non è maledetto da Dio ma innalzato alla destra di Dio che l’ha fatto Principe e Salvatore per concedere a Israele la conversione e il perdono dei peccati. Parole che suonano scandalose per i giudici esasperati dalla sicurezza degli apostoli per cui molti decidono di eliminarli come fecero con Gesù. Interviene però Gamaliele, che invita il Sinedrio alla prudenza perché se quest’opera è di origine umana si distruggerà da sola, ma se viene da Dio questo non avverrà mai; anzi li mette in guardia perché “non vi accada di combattere contro Dio “(At 5,34-39). L’odierna lettura liturgica salta l’episodio di Gamaliele e narra direttamente la risposta di Pietro al tribunale deciso a flagellare gli apostoli e poi a liberarli. La storia mostra che nella Chiesa da sempre ci sono persecuzioni, scandali e attacchi di ogni tipo, eppure continua a camminare nei secoli. Scrive sant’Agostino: ““La città di Dio avanza nel tempo, pellegrinando tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio.” (De Civitate Dei, XIX, 26).

*Salmo responsoriale  29 (30), 3-4, 5-6ab, 6cd.12, 13

Il Salmo 29 (30) è molto breve, solo tredici versetti (di cui otto soltanto proposti nell’odierna liturgia). Leggendo l’intero salmo si percepisce la situazione di un disperato che ha fatto di tutto per essere salvato, gridando, supplicando, chiedendo aiuto. Ci sono persone che addirittura godono nel vederlo soffrire e lo deridono, ma lui continua a invocare soccorso finché qualcuno finalmente ascolta e lo libera. A intervenire è Dio stesso e, liberato dall’oppressione, il disperato esplode di gioia. L’incipit del salmo dà il tono a tutto il resto: “Ti esalto, Signore perché mi hai risollevato e non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me”. In ogni salmo ci sono due livelli di lettura: e anche qui l’avventura d’un tale che, pur avendo subito un inatteso crollo nella sua vita, continua a essere certo che alla fine sarà liberato, è immagine d’Israele che dopo l’esilio babilonese esplode di gioia, come aveva esultato dopo il passaggio del Mar Rosso. Nei momenti tragici Israele confida in Dio: “Nella mia sicurezza dicevo: mai potrò vacillare”; grida al Signore: “Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore vieni in mio aiuto!” e utilizza ogni argomento possibile arrivando a provocare Dio: “a che ti servirebbe se io morissi, A che ti servirebbe il mio sangue se scendessi nella tomba?”  E quando il salmista dice: “La polvere può forse lodarti, annunciare la tua fedeltà?” ci fa capire che allora si credeva che dopo la morte c’era il nulla per cui inutili davanti alla morte erano preghiere, sacrifici, canti. Dio però ascolta e compie il miracolo: “Ho gridato verso di te, mio Dio, e mi hai guarito; Signore mi hai fatto risalire dall’abisso e rivivere quando stavo per morire”. Questo salmo trova il suo compimento nel grido pasquale dell’Alleluia perché il Signore ci ha liberati dalla schiavitù del male. Tra i commenti rabbinici ho trovato questo: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto al giorno di festa, dalle tenebre alla luce splendente, dalla schiavitù alla Redenzione. Per questo cantiamo davanti a lui l’Alleluia!”

*Seconda Lettura: Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (5, 11-14)

Il libro dell’Apocalisse è un inno alla vittoria narrato con molte visioni. Nell’odierno testo milioni e milioni di angeli gridano a squarciagola in cielo: “lunga vita al Re!” mentre in terra, mare e sotto terra, ogni creatura che respira inneggia al nuovo Re, Gesù Cristo: l’Agnello immolato, acclamato mentre riceve “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Per descrivere la regalità di Cristo, la visione utilizza un linguaggio di immagini e di numeri; un testo quindi ricco perché solo il linguaggio simbolico può introdurci nel mondo di Dio ineffabile e lindicibile. Si tratta, al tempo stesso, di un testo difficile perché si serve di immagini, colori e numeri ricorrenti, non facili da interpretare. Difficile è voler afferrare il senso nascosto di un passaggio come l’espressione “i quattro esseri viventi” che nel capitolo precedente sono quattro esseri alati: il primo con volto d’uomo, gli altri tre di animali – un leone, un’aquila, un toro – e siamo abituati a vederli in molti dipinti, sculture e mosaici, credendo di sapere senza esitazione a chi si riferiscano. Sant’Ireneo, nel II secolo, propose una lettura simbolica: per lui i quattro viventi sono i quattro evangelisti; sant’Agostino riprese la stessa idea, modificandola leggermente e la sua interpretazione è rimasta nella tradizione: secondo lui Matteo è il vivente dal volto d’uomo, Marco il leone, Luca il toro e Giovanni l’aquila. Biblisti moderni non sembrano d’accordo perché per loro l’autore dell’Apocalisse ha ripreso un’immagine di Ezechiele, dove i quattro esseri sostengono il trono di Dio e rappresentano semplicemente il mondo creato. Pure per i numeri è difficile l’interpretazione. Secondo molti il numero 3 simboleggia Dio; il 4 il mondo il creato in ragione dei quattro punti cardinali; il 7 (3+4) evoca sia Dio e il mondo creato nella sua pienezza e perfezione, mentre il 6 (7–1) sta per incompletezza, imperfezione. Singolare interesse riveste quest’acclamazione: ”L’Agnello che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e lode”:  potenza e ricchezza, sapienza e forza rimandano al successo terreno, onore, gloria e lode sono riservati a Dio. Si tratta in totale di sette parole: questo per dire che l’Agnello immolato, cioè Gesù è pienamente Dio e pienamente uomo, il tutto espresso con la forza suggestiva del linguaggio simbolico. Tutte le creature che sono in cielo, sulla terra, sotto la terra e sul mare proclamano così la loro sottomissione a Dio che siede sul Trono e all’Agnello: “A colui che siede sul Trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli”. L’insistenza di Giovanni mira a esaltare la vittoria dell’Agnello immolato: sconfitto agli occhi degli uomini, è il grande vincitore. Contempliamo qui il mistero che sta nel cuore del Nuovo Testamento, che è al tempo stesso il suo paradosso: il Signore del mondo si fa il più piccolo, il Giudice dei vivi e dei morti viene giudicato come un malfattore; colui che è Dio viene accusato di bestemmia e rifiutato proprio in nome di Dio. Tutto questo avviene perché Dio lo ha permesso. Utilizzando questo linguaggio san Giovanni ha un duplice obbiettivo: da una parte offre alla comunità una risposta allo scandalo della croce fornendo argomenti ai cristiani che discutevano aspramente con gli ebrei a proposito della morte di Cristo. Per gli ebrei era chiaro che non era il Messia perché nel Deuteronomio è scritto che “chiunque sia stato condannato a morte in base alla legge, giustiziato e appeso a un legno, è un maledetto di Dio” (Dt 21,22). Per i cristiani, invece, alla luce della risurrezione la sua morte è l’opera di Dio e la croce costituisce  il luogo dell’esaltazione del Figlio, come Gesù stesso aveva annunciato: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, voi conoscerete che “Io Sono”» (Gv 8,28). Cioè riconoscerete la mia divinità: “Io Sono” è esattamente il nome di Dio (Es, 3,14). In un misero condannato brilla la gloria di Dio e nella visione di Giovanni l’Agnello riceve gli stessi onori e le stesse acclamazioni di colui che siede sul Trono. In secondo luogo, con l’Apocalisse Giovanni voleva sostenere i cristiani nell’ora della prova perché sulla croce l’Amore ha vinto l’odio e, in fondo è proprio questo il messaggio dell’Apocalisse a sostegno dei cristiani perseguitati

*Dal Vangelo secondo Giovanni (21, 1-19)

Giovanni precisa in questo testo la presenza di sette apostoli (21,2). Poiché le sette Chiese dell’Apocalisse rappresentano tutta la Chiesa, si può ritenere che i sette apostoli indicano i discepoli di ogni tempo, cioè l’intero mondo cristiano. Questo capitolo, come spesso succede nel IV vangelo, è tutto simbolico. Vediamo solo qualche esempio. 

1. Quando la barca tocca la riva, nonostante che i discepoli trovano un fuoco di brace con del pesce e del pane, Gesù chiede loro di portare il pesce pescato da loro. Probabilmente questo il messaggio: nell’opera di evangelizzazione, da quando ha chiamato Pietro «pescatore d’uomini», Gesù ci precede (ecco il  pesce già posto sul fuoco prima dell’arrivo dei discepoli), ma chiede sempre la nostra collaborazione.

2. Altro punto è il dialogo tra Gesù e Pietro di cui la traduzione italiana ha cercato di rendere in qualche modo la sottigliezza del verbo greco utilizzato per amare. Commentando i versetti 15-17 nella catechesi del 24 maggio 2006, Benedetto XVI osserva l’uso dei due verbi agapaō e phileō.  In greco phileō esprime l’amore d’amicizia, affettuoso ma non totalizzante; agapaō l’amore senza riserve. La prima volta Gesù chiede a Pietro: “Simone… mi «agapā̄s me»?” (21,15), cioè “Mi ami di quell’amore totale e incondizionato?”, Pietro però non risponde con agapaō ma con phileō, dicendo: “Signore, ti amo (phileō) come so amare”. Gesù ripete il verbo agapaō nella seconda domanda, ma Pietro insiste con phileō. Infine, la terza volta, Gesù chiede solo “phileîs me?”e Simone comprende che il suo povero amore basta a Gesù. Si può dire che Gesù si è adattato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù ed è quest’adattarsi di Dio che dà speranza al discepolo, che ha provato la sofferenza dell’infedeltà. Come nella notte tra giovedì e venerdì, Pietro negò tre volte di conoscere quell’uomo, ora Gesù lo interroga tre volte: infinita delicatezza per permettergli di cancellare il suo triplice rinnegamento. Da qui nasce la fiducia che lo renderà capace di seguire il Cristo fino alla fine. 

3. Ogni volta Gesù fonda la sua domanda su quest’adesione di Pietro per affidargli il ministero di pastore della comunità: “Pasci le mie pecore”. La nostra relazione con il Cristo ha senso e verità se realizza una missione al servizio degli altri. Gesù infatti precisa “mie” pecore: Pietro è invitato a condividere il “peso” di Cristo. Non è proprietario del gregge, ma la cura che dedicherà al gregge di Cristo costituirà la verifica del suo amore per lo stesso Cristo. Quando Gesù gli chiede se mi ami più di costoro non è da intendere “poiché mi ami più degli altri, ti affido il gregge”, ma al contrario. Proprio perché ti affido questo compito, dovrai amarmi di più e ricorda che in qualunque ambito ecclesiale accettare un incarico pastorale comporta molto amore gratuito. Sant’Agostino commenta: «Se mi ami, non pensare che tu sia il pastore; ma pasci le mie pecore come mie, non come tue.»

4. Abbiamo anche qui un racconto di apparizione del Risorto, ma il termine apparizione non deve ingannarci perché Gesù non viene da altrove per poi scomparire; anzi è presente in permanenza presso i suoi discepoli, presso di noi come aveva promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per questo è meglio che apparizione usare il termine manifestazione. Cristo è Invisibile, ma non assente e nelle apparizioni di allora e di ogni tempo si rende visibile (in greco: “si dà a, si fa vedere”). Queste manifestazioni della presenza di Cristo sono un sostegno per rafforzare la nostra fede: ricche di dettagli concreti, talvolta sorprendenti, ma con alto valore simbolico. 

5. Quale significato hanno i 153 pesci? Pare che allora si conoscevano esattamente centocinquantatre specie di pesci. Per sant’Eusebio di Cesarea è un modo simbolico per indicare una pesca al massimo rendimento. E in seguito diventa il simbolo teologico della pienezza della salvezza operata da Cristo tramite la Chiesa nei secoli che raccoglie tutti, giudei e pagani, in un’unica fede.

 

NOTA. Il cap.20 del IV vangelo si conclude dicendo che Gesù fece molti altri segni in presenza dei discepoli, che non sono scritti in questo libro perché noi crediamo  che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiamo la vita nel suo nome (20, 30-31). E’ dunque un bel finale e perché il capitolo 21? Per molti è stato aggiunto in un secondo tempo, quasi come un post-scriptum per chiarire la questione della preminenza di Pietro, già avvertita nelle prime comunità cristiane. Detto altrimenti, può sorprendere il ruolo di Pietro in un racconto di apparizione di Cristo sotto la penna di san Giovanni e questo fa pensare a uno dei problemi delle prime comunità cristiane. Per questo sembrò utile ricordare alla comunità legata alla memoria di Giovanni che, per volontà di Cristo, il pastore della Chiesa universale è Pietro e non Giovanni. “Quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (v.18), frase che segue immediatamente la consegna a Pietro: “pasci le mie pecore” e sembra indicare con chiarezza che la missione affidata a Pietro è di servizio e non di dominio. All’epoca, la cintura era indossata dai viaggiatori e dai servitori: ecco un doppio segno per i servitori itineranti del Vangelo. Pietro morirà fedele al servizio del vangelo; ecco perché Giovanni spiega: Gesù “questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”(v.19) e ciò fa supporre che questo capitolo sia posteriore alla morte di Pietro (durante la persecuzione di Nerone, nel 66 o 67). In genere si pensa che il vangelo di Giovanni sia stato scritto molto tardi e alcuni persino ipotizzano (a partire da Gv 21,23-24) che la stesura finale sia posteriore alla sua stessa morte.

+Giovanni D’Ercole

(Gv 6,44-51)

 

Dio non attira con forza perentoria o ricatti, bensì con l’invito (v.44).

E il credere sincero si attiva a partire da una prima testimonianza in se stessi (v.44).

Il Padre non ci lascia cronicizzare. Agisce nell’intimo di ciascuno per rimodulare convinzioni, adesioni, progetti.

Tutto opera in direzione di noi stessi, non in modo innaturale.

Egli agisce presente in ogni persona nel modo più spontaneo e insieme affine a principi individuanti; più rispettoso delle inclinazioni, delle caratteristiche reali, delle energie.

Tale insegnamento (v.45) è interiore: impersonato da Cristo nella Parola che non snatura nulla - implicito nella sua Persona e vicenda.

In tal guisa il dono della vita è legato all’assimilare e farsi Uno con quell’Alimento.

Cibo che non incrina la persona, ma la convince, sostiene, fermenta e orienta - in modo irripetibile, per Nome.

Quel Pane manducato uccide il conformismo e l’estinzione.

Possiede la virtù di riannodare i fili che contraddistinguono il carattere di Persona, la qualità innata, l’essenza vocazionale, la capacità propulsiva [Vita dell’Eterno].

 

Il pane della terra conserva la vita ma non aggiorna, non ci rigenera incessantemente, né apre una strada attraverso la morte.

Il Pane che riattualizza per noi il dono estremo del Figlio, nutre l’esistere d’una qualità indistruttibile che non sfuma, perché Oro divino del nostro essere sorgivo.

I profeti avevano annunciato: negli ultimi tempi non si sarebbe conosciuto Dio per sentito dire ma per esperienza personale.

Dopo il fallimento dei re e della classe sacerdotale gli uomini sarebbero stati ammaestrati direttamente dal Signore.

L’espressione «Pane disceso dal Cielo» designa Gesù stesso in relazione con il Padre e [appunto] nella sua missione di recare agli uomini Sapienza, e Vita esuberante.

Vita divina, priva di limiti, che si riversa immediatamente in ciascuno - senza le incertezze o interpretazioni velate dai difetti di vista dei “mediatori”, i quali viceversa porterebbero al crollo.

Presenza che nel tempo della complessità accende anche in noi il desiderio di essere istruiti da Dio-in-Persona, guidati dall’Amico interiore. Percorsi da intuizioni rigeneranti, nel suo Spirito.

Egli c’inclina a non dare ascolto a una natura che ricerca e «mormora» solo per il corrivo “sapore” del sostentamento: «manna nel deserto» (v.49); ovvero interesse, reputazione, titoli, banalità di soddisfazioni.

 

«Io Sono il Pane il Vivente, quello disceso dal cielo. Se uno mangia da questo Pane vivrà la Vita dell’Eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita piena del mondo» (v.51).

Lo Spirito che interiorizza e attualizza è principale Soggetto della storia anche domestica, sommaria, quotidiana, della salvezza. Facendosi nostro.

Evangelizzandoci e crescendo nell’Amicizia - «istruiti da Dio» (v.45) - l’azione nutriente del Maestro immette la nostra carne fermentata nella Vita nuova.

Il Figlio affianco cambia il nostro ‘gusto’ e familiarizza di Sé la stessa ‘Natura’.

Così anche noi assimilati e identificati al Pane-Persona fattosi intimo, sveliamo totalità in atto, eternità vivente, la Fonte originaria.

 

 

[Giovedì 3.a sett. di Pasqua, 8 maggio 2025]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:48

Mistica della Carne dal Cielo

Anche in stile domestico

Gv 6,44-51 (41-51)

 

Gesù vuol far voltare pagina. Non intende puntellare il farraginoso, non più vitale.

Egli è fedele alla legge di mutamento della Vita piena, che senza posa cerca nuovi assetti - invece di ristagnare nella situazione.

Ciò (in ogni tempo) mentre le autorità religiose e gli habitué desiderano restare aggrappati al passato, a ciò che sanno, al senso di “giustizia” ordinario, alla morale di riferimento attorno...

Insomma, quando è il momento di Cristo, tutti se ne vanno. Ma il dissidio è cosa già scritta.

Dio non attira con forza perentoria o ricatti, bensì con l’invito (v.44).

E il credere sincero si attiva a partire da una prima testimonianza in se stessi (v.44).

Per la sua condizione sociale di piccolo artigiano [un senza terra] la «mormorazione» (vv.41.43) era ovvia, e rimandava alla medesima contrarietà espressa dal popolo di Dio vagante nel deserto.

Non solo la pretesa divina di essere autentica Manna, ma l’origine stessa di Gesù è incomprensibile per una mentalità devotamente quieta, normalizzata - che si lascia trascinar via priva di enigmi.

 

La contestazione è indispettita e radicale; predilige e ricalca ciò che dà immediatamente sicurezza - non l’originale. Ma il Signore non allenta, altrimenti ci lascerebbe cronicizzare.

Il dover sembrare, il dover essere, il dover fare, non danno spazio all’ascolto, alla percezione, al cambiamento che ci attende: paralizzano.

Il Padre agisce nell’intimo di ciascuno per rimodulare convinzioni, adesioni, progetti.

Tutto opera in direzione di noi stessi, non in modo innaturale o di altri - e neppure di Lui.

Egli agisce presente in ogni persona nel modo più spontaneo.

In tal guisa e insieme, affine a principi individuanti; più rispettoso delle inclinazioni, delle caratteristiche reali, delle energie anche del periodo.

Tale insegnamento (v.45) è interiore: impersonato da Cristo nella Parola che non snatura nulla - implicito nella sua Persona e vicenda.

Così il dono della vita è legato all’assimilare e farsi Uno con quell’Alimento. Cibo che non incrina la persona, bensì la convince, sostiene, fermenta, e orienta - in modo irripetibile, per Nome.

Quel Pane manducato coglie il sapore di un vuoto dall’esteriorità in fondo al quale non sussiste l’annientamento: siamo introdotti nella redenzione, immessi nella vita nuova.

Nel conformismo, la vita non uccide l’estinzione. Non possiede la virtù di riannodare i fili che contraddistinguono il carattere di Persona, né la qualità innata, l’essenza vocazionale, la capacità propulsiva [Vita dell’Eterno].

È l’implicito “culturale”, rituale e banale, senza ispirazione, poco genuino, che non diviene vivente - e non garantisce pienezza bensì assuefazione.

Come per noi, se ci abbiamo fatto il callo.

 

Il pane della terra conserva la vita ma non aggiorna, non ci rigenera incessantemente, né apre una strada attraverso la morte.

Il Pane che riattualizza per noi il dono estremo del Figlio, nutre l’esistere d’una qualità indistruttibile che non sfuma, perché Oro divino del nostro essere sorgivo.

I profeti avevano annunciato: negli ultimi tempi non si sarebbe conosciuto Dio per sentito dire ma per esperienza personale.

Dopo il fallimento dei re e della classe sacerdotale gli uomini sarebbero stati ammaestrati direttamente dal Signore.

L’espressione «Pane disceso dal Cielo» designa Gesù stesso in relazione con il Padre e [appunto] nella sua missione di recare agli uomini Sapienza e Vita esuberante.

Vita divina, priva di limiti, che si riversa immediatamente, a ciascuno. Senza incertezze o interpretazioni velate dai difetti di vista dei “mediatori”, i quali viceversa porterebbero al crollo.

Presenza che nel tempo della complessità accende anche in noi il desiderio di essere istruiti da Dio-in-Persona, guidati dall’Amico interiore. Percorsi da intuizioni rigeneranti, nel suo Spirito.

Egli c’inclina a non dare ascolto a una natura che ricerca e «mormora» solo per il corrivo “sapore” del sostentamento: «manna nel deserto» (v.49); ovvero interesse, reputazione, titoli, banalità di soddisfazioni.

 

Piuttosto ritroviamo Vita autentica nel dono d’una buona intuizione e interiore Visione.

Nella grazia che ci fa capaci di accogliere la Chiamata.

Nella virtù che permane in ascolto - per fedeltà attiva alla Vocazione, mediante un’abnegazione e rettitudine d’intenzioni che si appropriano di virtù e meriti di Cristo.

 

«Io Sono il Pane il Vivente, quello disceso dal cielo. Se uno mangia da questo Pane vivrà la Vita dell’Eterno, e il pane che io darò è la mia carne per la vita piena del mondo» (v.51).

Lo Spirito che interiorizza e attualizza è principale Soggetto della storia anche sommaria, quotidiana, della salvezza. Facendosi nostro.

Evangelizzandoci e crescendo nell’Amicizia [«istruiti da Dio» (v.45)] l’azione nutriente del Maestro immette la nostra carne fermentata nella Vita nuova.

The Son beside us changes our 'taste' and familiarises of Himself the same 'Nature'.

In tal guisa, anche noi assimilati e identificati al Pane-Persona fattosi intimo, sveliamo totalità in atto, eternità vivente, la Fonte originaria.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come entri nel dono di redenzione mediante l’Eucaristia?

Quali propositi “contrari” alla morale di riferimento attorno, il Pane della Vita cerca di trasmetterti?

Ti sei mai sentito un ‘reciso dalla terra’ a motivo del tuo diverso Alimento dal Cielo?

Quali sono state le occasioni per fare il salto, che forse hai trascurato?

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:42

Il pane disceso dal cielo

7. La prima realtà della fede eucaristica è il mistero stesso di Dio, amore trinitario. Nel dialogo di Gesù con Nicodemo, troviamo un'espressione illuminante a questo proposito: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui » (Gv 3,16-17). Queste parole mostrano la radice ultima del dono di Dio. Gesù nell'Eucaristia dà non « qualche cosa » ma se stesso; egli offre il suo corpo e versa il suo sangue. In tal modo dona la totalità della propria esistenza, rivelando la fonte originaria di questo amore. Egli è l'eterno Figlio dato per noi dal Padre. Nel Vangelo ascoltiamo ancora Gesù che, dopo aver sfamato la moltitudine con la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ai suoi interlocutori che lo avevano seguito fino alla sinagoga di Cafarnao, dice: « Il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo » (Gv 6,32-33), ed arriva ad identificare se stesso, la propria carne e il proprio sangue, con quel pane: « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo » (Gv 6,51). Gesù si manifesta così come il pane della vita, che l'eterno Padre dona agli uomini.

[Papa Benedetto, Sacramentum Caritatis]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:36

Ma esiste anche la fame dell’anima

1. “Io sono il pane vivo” (Gv 6, 51). Nel deserto gli Apostoli dicono a Gesù: “Congeda la folla” (cf. Lc 9, 12). Questa folla seguiva il Maestro, ascoltando le sue parole sul Regno di Dio; ma si avvicinava ormai la notte e l’ora della cena. La folla rimaneva lì nel silenzio e nell’attesa. Già un tempo nel deserto, quando era venuto a mancare il pane, i figli d’Israele si erano ribellati contro Mosè. Avevano ricevuto allora il cibo, che cadeva ogni mattina sull’accampamento, e lo avevano chiamato “manna”. Così il popolo, proveniente dalla terra di Egitto, aveva potuto continuare il cammino dalla regione della schiavitù verso la terra promessa. Ora Gesù dice agli Apostoli: “Dategli voi stessi da mangiare” (Lc 9, 13), e poiché essi non riescono a trovare alcuna soluzione, Cristo moltiplica i pani: benedice quel poco che hanno, lo spezza e lo dà ai discepoli; e questi, a loro volta, al popolo. “Tutti mangiarono e furono saziati”.

2. La moltiplicazione dei pani nel deserto è un annunzio, così come lo fu la manna Le folle seguono Gesù, quando sperimentano il suo potere sul cibo e sulla fame umana. Sono pronte perfino a proclamarlo re. Il Salmo di Davide non parla forse del dominio del Messia e del giorno del suo trionfo? “A te il principato - esso dice - nel giorno della tua potenza” (cf. Sal 110, 3). Contemporaneamente, il medesimo Salmo chiama Sacerdote il Messia regale: Egli è Sacerdote per sempre al modo di Melchisedek (cf. Sal 110,4). Melchisedek fu re e al tempo stesso Sacerdote del Dio Altissimo. A differenza dei Sacerdoti dell’Antica Alleanza, egli offerse a Dio non il sangue di animali immolati, ma pane e vino.

3. La moltiplicazione dei pani nel deserto è, per questo, un messaggio profetico: Cristo sa che Egli stesso realizzerà un giorno la profezia contenuta nel sacrificio di Melchisedek. Quale Sacerdote della Nuova Alleanza - dell’Eterna Alleanza - Gesù entrerà nel santuario eterno, dopo aver compiuto l’opera della Redenzione del mondo grazie al proprio sangue. Agli Apostoli nel cenacolo darà in sostanza, ancora una volta, lo stesso comando: “Dategli voi stessi da mangiare! - Fate questo in memoria di me!”. Esistono diverse categorie di fame, che tormentano la grande famiglia umana. C’è stata la fame che ha trasformato in cimiteri intere città e paesi. C’è stata la fame dei campi di sterminio, prodotti dai sistemi totalitari. In diverse parti del globo c’è ancor oggi la fame del terzo e del “quarto” mondo: là muoiono di fame gli uomini, le madri e i bambini, gli adulti e gli anziani. È terribile la fame dell’organismo umano, la fame che stermina. Ma esiste anche la fame dell’anima, dello spirito. L’anima umana non muore sui sentieri della storia presente. La morte dell’anima umana ha un altro carattere: essa assume la dimensione dell’eternità. È la “seconda morte” (Ap 20, 14). Moltiplicando i pani per gli affamati, Cristo ha posto il segno profetico dell’esistenza di un altro Pane: “Io sono il pane vivo, disceso dal Cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6, 51).

4. Ecco il grande mistero della fede. Le stesse persone per le quali il Cristo ha moltiplicato i pani, quelle che “mangiarono e si saziarono” (Lc 9, 17), non sono state, però, in grado di credere alle sue parole, quando egli ha parlato del cibo che è la sua Carne, e della bevanda che è il suo Sangue. Per questo, le medesime persone hanno chiesto in seguito la sua morte sulla Croce. Così è avvenuto. E quando tutto si è compiuto, si è svelato proprio allora il mistero dell’ultima Cena: “Questo è il mio corpo, che è per voi . . . Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (1 Cor 11, 24-25). Dal cenacolo è uscito il Sacerdote “al modo di Melchisedek”. Egli cammina ora con il suo popolo attraverso la storia.

5. Tale è il contenuto che la Solennità del Corpus Domini intende esprimere, e che noi vogliamo proclamare con questa processione eucaristica per le vie di Roma, dalla Basilica del Santissimo Salvatore in Laterano alla Basilica Mariana sull’Esquilino. “Ave verum Corpus natum de Maria Virgine”. La via che percorriamo diventi un’immagine concreta delle tante altre vie della Chiesa nel mondo di oggi. Il Vescovo di Roma, servo di tutti i servi dell’Eucaristia, segue con il pensiero e con il cuore tutti coloro che oggi danno testimonianza a questo Mistero, dal nord al sud, dal sorgere del sole al suo tramonto. Dappertutto dove si trova il Popolo di Dio della Nuova Alleanza, si trova anche Lui, “il pane vivo, disceso dal cielo”.

Dappertutto. “Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno”.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Corpus Domini 18 giugno 1992]

Mercoledì, 30 Aprile 2025 05:23

Non relegandolo a contorno, non vivacchiamo

Nel Vangelo della Liturgia odierna, Gesù continua a predicare alla gente che ha visto il prodigio della moltiplicazione dei pani. E invita quelle persone a fare un salto di qualità: dopo aver rievocato la manna, con cui Dio aveva sfamato i padri nel lungo cammino attraverso il deserto, ora applica il simbolo del pane a sé stesso. Dice chiaramente: «Io sono il pane della vita» (Gv 6,48).

Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona. Non un pane tra tanti altri, ma il pane della vita. In altre parole, noi, senza di Lui, più che vivere, vivacchiamo: perché solo Lui ci nutre l’anima, solo Lui ci perdona da quel male che da soli non riusciamo a superare, solo Lui ci fa sentire amati anche se tutti ci deludono, solo Lui ci dà la forza di amare, solo Lui ci dà la forza di perdonare nelle difficoltà, solo Lui dà al cuore quella pace di cui va in cerca, solo Lui dà la vita per sempre quando la vita quaggiù finisce. E’ il pane essenziale della vita.

“Io sono il pane della vita”, dice. Restiamo su questa bella immagine di Gesù. Avrebbe potuto fare un ragionamento, una dimostrazione, ma – lo sappiamo – Gesù parla in parabole, e in questa espressione: “Io sono il pane della vita”, riassume veramente tutto il suo essere e tutta la sua missione. Lo si vedrà pienamente alla fine, nell’Ultima Cena. Gesù sa che il Padre gli chiede non solo di dare da mangiare alla gente, ma di dare sé stesso, di spezzare sé stesso, la propria vita, la propria carne, il proprio cuore perché noi possiamo avere la vita. Queste parole del Signore risvegliano in noi lo stupore per il dono dell’Eucaristia. Nessuno in questo mondo, per quanto ami un’altra persona, può farsi cibo per lei. Dio lo ha fatto, e lo fa, per noi. Rinnoviamo questo stupore. Facciamolo adorando il Pane di vita, perché l’adorazione riempie la vita di stupore.

Nel Vangelo, però, anziché stupirsi, la gente si scandalizza, si strappa le vesti. Pensano: “Questo Gesù noi lo conosciamo, conosciamo la sua famiglia, come può dire: Sono il pane disceso dal cielo?” (cfr vv. 41-42). Anche noi forse ci scandalizziamo: ci farebbe più comodo un Dio che sta in Cielo senza immischiarsi nella nostra vita, mentre noi possiamo gestire le faccende di quaggiù. Invece Dio si è fatto uomo per entrare nella concretezza del mondo, per entrare nella nostra concretezza, Dio si è fatto uomo per me, per te, per tutti noi, per entrare nella nostra vita. E tutto della nostra vita gli interessa. Gli possiamo raccontare gli affetti, il lavoro, la giornata, i dolori, le angosce, tante cose. Gli possiamo dire tutto perché Gesù desidera questa intimità con noi. Che cosa non desidera? Essere relegato a contorno – Lui che è il pane –, essere trascurato e messo da parte, o chiamato in causa solo quando ne abbiamo bisogno.

Io sono il pane della vita. Almeno una volta al giorno ci troviamo a prendere cibo insieme; magari la sera, in famiglia, dopo una giornata di lavoro o di studio. Sarebbe bello, prima di spezzare il pane, invitare Gesù, pane di vita, chiedergli con semplicità di benedire quello che abbiamo fatto e quello che non siamo riusciti a fare. Invitiamolo a casa, preghiamo in stile “domestico”. Gesù sarà a mensa con noi e saremo sfamati da un amore più grande.

La Vergine Maria, nella quale il Verbo si è fatto carne, ci aiuti a crescere giorno dopo giorno nell’amicizia di Gesù, pane di vita.

[Papa Francesco, Angelus 8 agosto 2021]

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Jesus who is the teacher of love, who liked to talk about love so much, in this Gospel speaks of hate. Exactly of hate. But he liked to call things by the proper name they have (Pope Francis)
Gesù che è maestro dell’amore, al quale piaceva tanto parlare di amore, in questo Vangelo parla di odio. Proprio di odio. Ma a lui piaceva chiamare le cose con il nome proprio che hanno (Papa Francesco)
St Thomas Aquinas says this very succinctly when he writes: "The New Law is the grace of the Holy Spirit" (Summa Theologiae, I-IIae, q.106 a. 1). The New Law is not another commandment more difficult than the others: the New Law is a gift, the New Law is the presence of the Holy Spirit [Pope Benedict]
San Tommaso d’Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge è la grazia dello Spirito Santo” (Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 1). La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo [Papa Benedetto]
Even after seeing his people's repeated unfaithfulness to the covenant, this God is still willing to offer his love, creating in man a new heart (John Paul II)
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo (Giovanni Paolo II)
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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