Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
1. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” (Ef 1, 3). Queste parole di Paolo ben ci introducono nella grande novità della conoscenza del Padre quale emerge dal Nuovo Testamento. Qui Dio appare nel suo volto trinitario. La sua paternità non si limita più ad indicare il rapporto con le creature, ma esprime la relazione fondamentale che caratterizza la sua vita intima; non è più un tratto generico di Dio, ma proprietà della prima Persona in Dio. Nel suo mistero trinitario, infatti, Dio è padre per essenza, padre da sempre, in quanto dall’eterno genera il Verbo a lui consustanziale e a lui unito nello Spirito Santo “che procede dal Padre e dal Figlio”. Con la sua incarnazione redentrice, il Verbo si fa solidale con noi proprio per introdurci a questa vita filiale che egli possiede dall’eternità. “A quanti l’hanno accolto - dice l’evangelista Giovanni - ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1, 12).
2. Alla base di questa specifica rivelazione del Padre c’è l’esperienza di Gesù. Dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti traspare che Egli sperimenta il rapporto col Padre in una maniera del tutto singolare. Nei Vangeli possiamo constatare come Gesù abbia differenziato “la sua filiazione da quella dei suoi discepoli non dicendo mai ‘Padre nostro’ tranne che per comandar loro: ‘Voi dunque pregate così: Padre nostro’ (Mt 6, 9); e ha sottolineato tale distinzione: ‘Padre mio e Padre vostro’ (Gv 20, 17)” (CCC, 443).
Fin da piccolo, a Maria e a Giuseppe che lo stavano cercando con angoscia, risponde: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2, 48s.). Ai Giudei che continuavano a perseguitarlo perché aveva operato di sabato una guarigione miracolosa, egli risponde: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (Gv 5, 17). Sulla croce invoca il Padre perché perdoni i suoi carnefici e accolga il suo spirito (23, 34.46). La distinzione tra il modo con cui Gesù percepisce la paternità di Dio nei suoi confronti e quella che riguarda tutti gli altri esseri umani, è radicata nella sua coscienza e viene da lui ribadita con le parole che rivolge a Maria di Magdala dopo la risurrezione: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20, 17).
3. Il rapporto di Gesù con il Padre è unico. Egli sa di essere esaudito sempre, sa che il Padre manifesta attraverso di Lui la sua gloria, anche quando gli uomini possono dubitarne ed hanno bisogno di esserne da Lui stesso convinti. Constatiamo tutto questo nell'episodio della risurrezione di Lazzaro: “Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: ‘Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato'” (Gv 11, 41s.). In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità, com'egli sottolinea nell'inno di giubilo: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27) (cfr CCC, 240). Da parte sua, il Padre manifesta questo rapporto singolare che il Figlio intrattiene con Lui chiamandolo il suo “prediletto”: così al battesimo nel Giordano (cfr Mc 1, 11) e nella Trasfigurazione (cfr Mc 9, 7). Gesù è anche adombrato come figlio in senso speciale nella parabola dei cattivi vignaioli che maltrattano prima i due servi e poi il “figlio prediletto” del padrone, inviati a riscuotere i frutti della vigna (cfr Mc 12, 1-11, spec. v. 6).
4. Il Vangelo di Marco ci ha conservato il termine aramaico “Abbà” (cfr Mc 14, 36), con cui Gesù, nell’ora dolorosa del Getsemani, ha invocato il Padre, pregandolo di allontanare da lui il calice della passione. Il Vangelo di Matteo ce ne ha riportato nello stesso episodio la traduzione “Padre mio” (cfr Mt 26, 39, cfr anche v. 42) mentre Luca ha semplicemente “Padre” (cfr Lc 22, 42). Il termine aramaico, che potremmo tradurre nelle lingue moderne con “papà”, “babbo caro”, esprime la tenerezza affettuosa di un figlio. Gesù lo usa in maniera originale per rivolgersi a Dio e per indicare, nella piena maturità della sua vita che sta per concludersi sulla croce, lo stretto rapporto che anche in quell’ora drammatica lo lega al Padre suo. “Abbà” indica la straordinaria vicinanza tra Gesù e Dio Padre, un’intimità senza precedenti nel contesto religioso biblico o extra-biblico. In forza della morte e risurrezione di Gesù, Figlio unico di questo Padre, anche noi, al dire di san Paolo, siamo elevati alla dignità di figli e possediamo lo Spirito Santo che ci spinge a gridare “Abbà, Padre!” (cfr Rm 8, 15; Gal 4, 6). Questa semplice espressione del linguaggio infantile, in uso quotidiano nell'ambiente di Gesù e presso tutti i popoli, ha assunto così un significato dottrinale di profonda rilevanza, per esprimere la singolare paternità divina nei riguardi di Gesù e dei suoi discepoli.
5. Nonostante si sentisse unito al Padre in modo così intimo, Gesù ha dichiarato di ignorare l'ora dell'avvento finale e decisivo del Regno: “Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24, 36). Questo aspetto ci mostra Gesù nella condizione di abbassamento propria dell'Incarnazione, che nasconde alla sua umanità il termine escatologico del mondo. In tal modo Gesù disillude i calcoli umani per invitarci alla vigilanza e alla fiducia nel provvido intervento del Padre. D’altra parte, nella prospettiva dei vangeli, l'intimità e l’assolutezza del suo essere “figlio” non vengono minimamente pregiudicate da questa non conoscenza. Al contrario, proprio l'essersi fatto tanto solidale con noi, lo rende decisivo per noi davanti al Padre: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 32s.).
Riconoscere Gesù davanti agli uomini è indispensabile per poter essere riconosciuti da lui davanti al Padre. In altri termini, la nostra relazione filiale con il Padre celeste dipende dalla nostra coraggiosa fedeltà verso Gesù, Figlio prediletto.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 3 marzo 1999]
Attraverso la celebrazione eucaristica lo Spirito Santo ci rende partecipi della vita divina che è capace di trasfigurare tutto il nostro essere mortale. E nel suo passaggio dalla morte alla vita, dal tempo all’eternità, il Signore Gesù trascina anche noi con Lui a fare Pasqua. Nella Messa si fa Pasqua. Noi, nella Messa, stiamo con Gesù, morto e risorto e Lui ci trascina avanti, alla vita eterna. Nella Messa ci uniamo a Lui. Anzi, Cristo vive in noi e noi viviamo in Lui. «Sono stato crocifisso con Cristo – dice San Paolo -, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19-20). Così pensava Paolo.
Il suo sangue, infatti, ci libera dalla morte e dalla paura della morte. Ci libera non solo dal dominio della morte fisica, ma dalla morte spirituale che è il male, il peccato, che ci prende ogni volta che cadiamo vittime del peccato nostro o altrui. E allora la nostra vita viene inquinata, perde bellezza, perde significato, sfiorisce.
Cristo invece ci ridà la vita; Cristo è la pienezza della vita, e quando ha affrontato la morte la annientata per sempre: «Risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita» (Preghiera eucaristica IV). La Pasqua di Cristo è la vittoria definitiva sulla morte, perché Lui ha trasformato la sua morte in supremo atto d’amore. Morì per amore! E nell’Eucaristia, Egli vuole comunicarci questo suo amore pasquale, vittorioso. Se lo riceviamo con fede, anche noi possiamo amare veramente Dio e il prossimo, possiamo amare come Lui ha amato noi, dando la vita.
Se l’amore di Cristo è in me, posso donarmi pienamente all’altro, nella certezza interiore che se anche l’altro dovesse ferirmi io non morirei; altrimenti dovrei difendermi. I martiri hanno dato la vita proprio per questa certezza della vittoria di Cristo sulla morte. Solo se sperimentiamo questo potere di Cristo, il potere del suo amore, siamo veramente liberi di donarci senza paura. Questo è la Messa: entrare in questa passione, morte, risurrezione, ascensione di Gesù; quando andiamo a Messa è come se andassimo al calvario, lo stesso. Ma pensate voi: se noi nel momento della Messa andiamo al calvario – pensiamo con immaginazione – e sappiamo che quell’uomo lì è Gesù. Ma, noi ci permetteremo di chiacchierare, di fare fotografie, di fare un po’ lo spettacolo? No! Perché è Gesù! Noi di sicuro staremmo nel silenzio, nel pianto e anche nella gioia di essere salvati. Quando noi entriamo in chiesa per celebrare la Messa pensiamo questo: entro nel calvario, dove Gesù dà la sua vita per me. E così sparisce lo spettacolo, spariscono le chiacchiere, i commenti e queste cose che ci allontano da questa cosa tanto bella che è la Messa, il trionfo di Gesù.
Penso che ora sia più chiaro come la Pasqua si renda presente e operante ogni volta che celebriamo la Messa, cioè il senso del memoriale. La partecipazione all’Eucaristia ci fa entrare nel mistero pasquale di Cristo, donandoci di passare con Lui dalla morte alla vita, cioè lì nel calvario. La Messa è rifare il calvario, non è uno spettacolo.
[Papa Francesco, Udienza Generale 22 novembre 2017]
(Gv 5,1-3.5-16)
Nella ‘devozione’ dei trofei competitivi, solo il più svelto guarisce, non il più bisognoso.
Gesù preferisce trasgredire la legge che allinearsi al mondo spietato che emargina i disgraziati.
Nei luoghi “santi” il culto dei sacrifici esigeva molta acqua [per gli animali da lavare, quindi sgozzare e macellare] in specie nelle grandi feste.
Ampie cisterne raccoglievano l’acqua piovana, e terme pubbliche agglomeravano i malati in attesa di aiuto o guarigione.
Le piscine al di fuori erano utilizzate per tergere gli agnelli prima del sacrificio al Tempio, e questo metodo di utilizzo conferiva all’acqua stessa un alone di santità risanatrice.
Molti malati accorrevano per bagnarsi nel «moto dell’acqua» [v.3: forse per una fonte intermittente].
Si narrava che un angelo agitasse le acque delle terme popolari e che il primo a entrarvi nell’unico momento che si rendevano irrequiete sarebbe guarito.
Simbolo di una religione che porge alle masse escluse speranze fasulle, le quali pure attraggono l’immaginario dei malfermi che non conoscono l’uomo-Dio del loro destino.
«Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse, perché Gesù si era allontanato, essendoci folla in quel luogo» (v.13).
Il Volto del Figlio è inconoscibile nella ressa attorno, che solo distrae e si accontenta delle forme abitudinarie, esageratamente solenni.
Condotte abbondanti purificavano il Tempio e trascuravano le persone.
L’acqua fluiva, ma non mondava nessuno - anzi, peggiorava la situazione.
Icona di una religiosità ricca e misera: vanesia, inutile, dannosa; che abbandona a se stessi coloro che è chiamata a sostenere.
Gli scribi insegnavano la legge agli studenti nel recinto sacro e i rabbini ricevevano i clienti sotto il portico di Salomone: in alto la Torah e i suoi commerci, in basso e fuori - vicino - il tradimento dei poveracci.
L’istituzione religiosa ufficiale teneva la folla a distanza di sicurezza, rivelando solo una ridicola e brutale caricatura del Volto amico, ospitale e compartecipe del Padre.
La turba dei bisognosi cui giungeva acqua magica solo a caso e a sorpresa è parabola dell’umanità indigente, drammaticamente sprovvista di tutto - persino d’un conforto spirituale autentico.
Gesù invece avvicina i bisognosi di sua iniziativa (vv.6.14) e si coinvolge - a rischio della vita - con chi è più solo, impacciato e goffo; impossibilitato persino a ricevere miracoli.
Siamo ‘inviati’ non a meritevoli e autosufficienti, ma proprio a coloro non in grado di usare i propri mezzi per farsi avanti.
Cristo stesso non opera al fine di farsi riconoscere e acclamare: «si era allontanato» (v.13). E neppure ha cura di noi, solo per attivare una conversione religiosa.
Egli guarisce avendo percepito il bisogno, non affinché il malato creda in Dio.
Lasciamo le persone libere di attraversare le loro stagioni, non stereotipi.
Entriamo nel vivo della Quaresima.
[Martedì 4.a sett. Quaresima, 1 aprile 2025]
(Gv 5,1-3.5-16)
«Egli, invece, compie su di lui diversi gesti: prima di tutto lo condusse in disparte lontano dalla folla. In questa occasione, come in altre, Gesù agisce sempre con discrezione. Non vuole fare colpo sulla gente, Lui non è alla ricerca della popolarità o del successo, ma desidera soltanto fare del bene alle persone. Con questo atteggiamento, Egli ci insegna che il bene va compiuto senza clamori, senza ostentazione, senza “far suonare la tromba”. Va compiuto in silenzio.
[…] La guarigione fu per lui un’«apertura» agli altri e al mondo.
Questo racconto del Vangelo sottolinea l’esigenza di una duplice guarigione. Innanzitutto la guarigione dalla malattia e dalla sofferenza fisica, per restituire la salute del corpo; anche se questa finalità non è completamente raggiungibile nell’orizzonte terreno, nonostante tanti sforzi della scienza e della medicina. Ma c’è una seconda guarigione, forse più difficile, ed è la guarigione dalla paura. La guarigione dalla paura che ci spinge ad emarginare l’ammalato, ad emarginare il sofferente, il disabile. E ci sono molti modi di emarginare, anche con una pseudo pietà o con la rimozione del problema; si resta sordi e muti di fronte ai dolori delle persone segnate da malattie, angosce e difficoltà. Troppe volte l’ammalato e il sofferente diventano un problema, mentre dovrebbero essere occasione per manifestare la sollecitudine e la solidarietà di una società nei confronti dei più deboli».
[Papa Francesco, Angelus 9 settembre 2018]
Gesù preferisce trasgredire la legge che allinearsi al mondo spietato e alla società inviolabile dell’esterno, che emargina i disgraziati.
Nella religione dei trofei competitivi, degli abbandoni reali e delle speranze false o banali, qualcuno a lotteria viene sanato, tutti gli altri no. Solo il più svelto guarisce, non il più bisognoso.
In ogni caso, la stragrande maggioranza rimane a guardare, paralizzata dalla solitudine - viceversa chi ne è affetto chiede vita, refrigerio; il canto gorgogliante di una storia autenticamente sacra.
In quel tempo, nei luoghi “santi” il culto dei sacrifici esigeva molta acqua [per gli animali da lavare, quindi sgozzare e macellare] in specie nelle grandi feste.
Ampie cisterne raccoglievano l’acqua piovana, e terme pubbliche (verso nord) agglomeravano i malati in attesa di aiuto o guarigione dallo stesso isolamento cui erano condannati - secondo norme di purità.
Le piscine al di fuori erano utilizzate per tergere gli agnelli prima del sacrificio al Tempio, e questo metodo di utilizzo conferiva all’acqua stessa un alone di santità risanatrice.
Molti malati accorrevano per bagnarsi nel «moto dell’acqua» (v.3).
Si narrava che un angelo agitasse le acque delle terme popolari [forse per una fonte intermittente] e che il primo a entrarvi nell’unico momento che si rendevano irrequiete sarebbe guarito.
Simbolo di una religione che porge ai malfermi speranze fasulle, le quali pure attraggono l’immaginario delle masse escluse, vessate da calamità - che non conoscono l’uomo-Dio del loro destino.
«Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse, perché Gesù si era allontanato, essendoci folla in quel luogo» (v.13).
Il Volto del Figlio è inconoscibile nella ressa attorno, malgrado la pletora di guide e devoti impeccabili - che solo distraggono, e si accontentano delle forme abitudinarie dell’organizzazione, esageratamente solenni.
Condotte abbondanti purificavano il Tempio e trascuravano le persone.
Icona di una religiosità ricca e misera: vanesia, inutile, dannosa; che abbandona a se stessi coloro che è chiamata a sostenere.
Gli scribi insegnavano la legge agli studenti nel recinto sacro e i rabbini ricevevano i clienti sotto il portico di Salomone, sulla spianata del Tempio, verso est.
In alto la Torah e i suoi commerci; in basso e fuori - lì vicino - il tradimento dei poveracci.
L’acqua fluiva nel Tempio, ma non mondava nessuno - anzi, peggiorava la situazione.
Ciò perdurava da tutta un’era - una «generazione» (v.5). Simbologia dei 38 anni (Dt 2,14) che appunto mancava di mentalità accogliente.
L’istituzione religiosa ufficiale teneva la folla a distanza di sicurezza, rivelando solo una ridicola e brutale caricatura del Volto amico, ospitale e compartecipe del Padre.
La turba dei bisognosi cui giungeva acqua magica solo a caso e a sorpresa è appunto parabola dell’umanità indigente, drammaticamente sprovvista di tutto - persino d’un conforto spirituale autentico.
Gesù invece avvicina i bisognosi di sua iniziativa (vv.6.14) e si coinvolge - a rischio della vita - con chi è più solo, impacciato e goffo.
Lui in noi: volti accoglienti e presenza attiva del Padre, d’istinto accostati non alla gente che conta, ma al trascurato, agli infermi - impossibilitati persino a ricevere miracoli.
Siamo inviati non a meritevoli e autosufficienti, ma proprio a coloro non in grado di usare i propri mezzi per farsi avanti.
Quelli che traballano - e su ciò non c’è bisogno d’imprimatur: tale norma è di diritto divino.
Alcuna gioia da parte delle autorità... solo inchieste.
Non importa: nessun timore reverenziale. Dio non è desideroso di farsi obbedire; piuttosto, di realizzarci.
Cristo stesso non opera al fine di farsi riconoscere e acclamare [«si era allontanato»]. E neppure ha cura di noi, solo per attivare una conversione religiosa.
Egli guarisce avendo percepito il bisogno, non affinché il malato creda in Dio.
Dice il Tao Tê Ching [x]: «Fa’ vivere le creature e nutrile, falle vivere e non tenerle come tue». «Parlar molto e scrutar razionalmente val meno che mantenersi vuoto» (v).
Lasciamo le persone libere di attraversare le loro stagioni, non stereotipi.
Solo, aiutiamo ad aprire porte più genuine e commisurate al cammino personale, anche inopinato o scontrollato.
Siamo interpellati e mandati ad accompagnare ciascuno nell’inaudito, tutto originale - guidando non a una sacralità già redatta, bensì alla plasticità di consapevolezze sane.
Entriamo nel vivo della Quaresima.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come mai vivi nella comunità cristiana e questo Vangelo ti sorprende?
Sei rimasto molto tempo senza aiuto? L’Eucaristia ti fa diventare “qualcuno per tutti” e che si spende, o ti ripiega nelle devozioni vanesie?
Specialisti nel chiudere. Psicologia di dottori della legge
La quaresima è tempo propizio per chiedere al Signore, «per ognuno di noi e per tutta la Chiesa», la «conversione alla misericordia di Gesù». Troppe volte, infatti, i cristiani «sono specialisti nel chiudere le porte alle persone» che, fiaccate dalla vita e dai loro errori, sarebbero invece disposte a ricominciare, «persone alle quali lo Spirito Santo muove il cuore per andare avanti».
La legge dell’amore è al centro della riflessione che Papa Francesco ha svolto, nella messa di martedì 17 marzo a Santa Marta, a partire dalla liturgia del giorno. Un parola di Dio che parte da un’immagine: «l’acqua che risana». Nella prima lettura il profeta Ezechiele (47, 1-9.12) parla infatti dell’acqua che scaturisce dal tempio, «un’acqua benedetta, l’acqua di Dio, abbondante come la grazia di Dio: abbondante sempre». Il Signore, infatti, ha spiegato il Papa, è generoso «nel dare il suo amore, nel risanare le nostre piaghe».
L’acqua torna nel vangelo di Giovanni (5, 1-16) dove si narra di una piscina — «in ebraico si chiamava betzaetà» — caratterizzata da «cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi: ciechi, zoppi e paralitici». In quel luogo, infatti, «c’era una tradizione» secondo la quale «di volta in volta, scendeva dal cielo un angelo» a muovere le acque, e gli infermi «che si buttavano lì» in quel momento «venivano risanati».
Perciò, ha spiegato il Pontefice, «c’era tanta gente». E perciò si trovava lì anche «un uomo che da trentotto anni era malato». Era lì che aspettava, e a lui Gesù domandò: «Vuoi guarire?». Il malato rispose: «Ma, Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita, quando viene l’angelo. Mentre, infatti, sto per andarvi, un altro scende prima di me». A Gesù, cioè, si presenta «un uomo sconfitto» che «aveva perso la speranza». Ammalato, ma — ha sottolineato Francesco — «non solo paralitico»: era infatti ammalato di un’«altra malattia tanto cattiva», l’accidia.
«È l’accidia che lo rendeva triste, pigro» ha notato. Un’altra persona avrebbe infatti «cercato la strada per arrivare in tempo, come quel cieco a Gerico che gridava, gridava, e volevano farlo tacere e gridava di più: ha trovato la strada». Ma lui, prostrato dalla malattia da trentotto anni, «non aveva voglia di guarirsi», non aveva «forza». Allo stesso tempo, aveva «amarezza nell’anima: “Ma l’altro arriva prima di me e io sono lasciato da parte”». E aveva «anche un po’ di risentimento». Era «davvero un’anima triste, sconfitta, sconfitta dalla vita».
«Gesù ha misericordia» di quest’uomo e lo invita: «Alzati! Alzati, finiamo questa storia; prendi la tua barella e cammina». Francesco ha quindi descritto la scena seguente: «All’istante quell’uomo guarì e prese la sua barella e incominciò a camminare, ma era tanto ammalato che non riusciva a credere e forse camminava un po’ dubitante con la sua barella sulle spalle». A questo punto entrano in gioco altri personaggi: «Era sabato e cosa trova quell’uomo? I dottori della legge», i quali gli chiedono: «Ma perché porti questo? Non si può, oggi è sabato». È l’uomo a rispondere: «Ma tu sai, sono stato guarito!». E aggiunge: «E quello che mi ha guarito, mi ha detto: “porta la tua barella”».
Accade quindi un fatto strano: «questa gente invece di rallegrarsi, di dire: “Ma che bello! Complimenti!”», si chiede: «Ma chi è quest’uomo?». I dottori, cioè, cominciano «un’indagine» e discutono: «Vediamo cosa è successo qui, ma la legge... Dobbiamo custodire la legge». L’uomo, da parte sua, continua a camminare con la sua barella, «ma un po’ triste». Ha commentato il Papa: «Io sono cattivo, ma alcune volte penso a cosa sarebbe successo se quest’uomo avesse dato un bell’assegno a quei dottori. Avrebbero detto: “Ma, vai avanti, sì, sì, per questa volta vai avanti!”».
Continuando nella lettura del Vangelo, si incontra Gesù che «trova quest’uomo un’altra volta e gli dice: “Ecco, sei guarito, ma non tornare indietro — cioè non peccare più — perché non ti accada qualcosa di peggio. Vai avanti, continua ad andare avanti”». E quell’uomo va dai dottori della legge, per dire: «La persona, l’uomo che mi ha guarito si chiama Gesù. È quello». E si legge: «Per questo i giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato». Di nuovo ha commentato Francesco: «Perché faceva il bene anche il sabato, e non si poteva fare».
Questa storia, ha detto il Papa attualizzando la sua riflessione, «avviene tante volte nella vita: un uomo — una donna — che si sente malato nell’anima, triste, che ha fatto tanti sbagli nella vita, a un certo momento sente che le acque si muovono, c’è lo Spirito Santo che muove qualcosa; o sente una parola». E reagisce: «Io vorrei andare!». Così «prende coraggio e va». Ma quell’uomo «quante volte oggi nelle comunità cristiane trova le porte chiuse». Forse si sente dire: «Tu non puoi, no, tu non puoi; tu hai sbagliato qui e non puoi. Se vuoi venire, vieni alla messa domenica, ma rimani lì, ma non fare di più». Succede così che «quello che fa lo Spirito Santo nel cuore delle persone, i cristiani con psicologia di dottori della legge distruggono».
Il Pontefice si è detto dispiaciuto per questo, perché, ha sottolineato, la Chiesa «è la casa di Gesù e Gesù accoglie, ma non solo accoglie: va a trovare la gente», così come «è andato a trovare» quell’uomo. «E se la gente è ferita — si è chiesto — cosa fa Gesù? La rimprovera, perché è ferita? No, viene e la porta sulle spalle». Questa, ha affermato il Papa, «si chiama misericordia». Proprio di questo parla Dio quando «rimprovera il suo popolo: “Misericordia voglio, non sacrificio!”».
Come di consueto il Pontefice ha concluso la riflessione suggerendo un impegno per la vita quotidiana: «Siamo in quaresima, dobbiamo convertirci». Qualcuno, ha detto, potrebbe ammettere: «Padre, ci sono tanti peccatori sulla strada: quelli che rubano, quelli che sono nei campi rom... — per dire una cosa — e noi disprezziamo questa gente». Ma a costui va detto: «E tu? Chi sei? E tu chi sei, che chiudi la porta del tuo cuore ad un uomo, a una donna, che ha voglia di migliorare, di rientrare nel popolo di Dio, perché lo Spirito Santo ha agitato il suo cuore?». Anche oggi ci sono cristiani che si comportano come i dottori della legge e «fanno lo stesso che facevano con Gesù», obiettando: «Ma questo, questo dice un’eresia, questo non si può fare, questo va contro la disciplina della Chiesa, questo va contro la legge». E così chiudono le porte a tante persone. Perciò, ha concluso il Papa, «chiediamo oggi al Signore» la «conversione alla misericordia di Gesù»: solo così «la legge sarà pienamente compiuta, perché la legge è amare Dio e il prossimo, come noi stessi».
(Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/03/2015)
[Diversa opinione]
In tutti i commenti del Vangelo, che io conosco, questo episodio della piscina di Betsaida (Giovanni 5, 1-16) è il simbolo della PERSEVERANZA di questo poveretto che resta lì, sul bordo dell’acqua per trentotto anni nella speranza di guarire, senza mai allontanarsene.
È simbolo anche della pazienza che dobbiamo avere con noi stessi nella lotta interiore contro i difetti dominanti.
Un autore, riferendosi a questo passo del Vangelo, spiegava che il Signore ci può chiedere anche trentotto anni per crescere in una virtù, avendo Egli pazienza con i nostri difetti.
Se il paralitico fosse stato un pigro indolente lamentoso (e un po’ ipocondriaco, sembra di capire…), il Signore non lo avrebbe aiutato.
L’uomo protagonista del Vangelo di oggi PERSEVERA trentotto anni, non PECCA DI ACCIDIA per trentotto anni.
Non solo, sarebbe rimasto li fino alla fine dei suoi giorni, se non avesse avuto il premio di di incontrare Gesù, proprio per la sua costanza.
Sempre questo episodio spiega l’importanza dell’evangelizzazione (proselitismo per papa Bergoglio).
Infatti questo passo evangelico è sempre stato utilizzato per spiegare che nessuno dovrebbe confessare “Signore non ho nessuno”, poiché il passo evangelico si riferisce – e deve essere interpretato come riferimento – agli infermi nello spirito.
L’espressione del paralitico “HOMINEM NON HABEO” (“non ho l’uomo “) è diventata, o forse è sempre stata nei secoli, in ogni commento evangelico, il significato della INDIFFERENZA SPIRITUALE verso il prossimo bisognoso nell’anima.
Significa che tutti sono stati indifferenti davanti i bisogni della sua anima, tranne il Salvatore, e l’esortazione è infatti l’evangelizzazione.
39. Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? È l'altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così grande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell'umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio – la Verità e l'Amore in persona – ha voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire. L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze – di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare – giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità. Questa capacità di soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell'essere-uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza.
[Spe salvi]
1. Un testo di sant’Agostino ci offre la chiave per interpretare i miracoli di Cristo come segni del suo potere salvifico: “L’essersi fatto uomo per noi ha giovato alla nostra salvezza assai più dei miracoli che egli ha compiuto tra noi; ed è più importante che l’aver sanato le malattie del corpo destinato a morire” (S. Augustini, In Io. Ev. Tr., 17, 1). In ordine a questa salute dell’anima e alla redenzione del mondo intero Gesù ha compiuto anche i miracoli di ordine corporale. E dunque il tema della presente catechesi è il seguente: mediante i “miracoli, prodigi e segni” che ha compiuto, Gesù Cristo ha manifestato il suo potere di salvare l’uomo dal male che minaccia l’anima immortale e la sua vocazione all’unione con Dio.
9. Alla fine della nostra catechesi torniamo ancora una volta al testo di sant’Agostino: “Se consideriamo adesso i fatti operati dal Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo, vediamo che gli occhi dei ciechi, aperti miracolosamente, furono rinchiusi dalla morte, e le membra dei paralitici, sciolte dal miracolo, furono di nuovo immobilizzate dalla morte: tutto ciò che temporalmente fu sanato nel corpo mortale, alla fine fu disfatto; ma l’anima che credette, passò alla vita eterna. Con questo infermo il Signore ha voluto dare un grande segno all’anima che avrebbe creduto, per la cui remissione dei peccati era venuto, e per sanare le cui debolezze egli si era umiliato” (S. Augustini, In Io. Ev. Tr., 17, 1).
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 novembre 1987]
La quaresima è tempo propizio per chiedere al Signore, «per ognuno di noi e per tutta la Chiesa», la «conversione alla misericordia di Gesù». Troppe volte, infatti, i cristiani «sono specialisti nel chiudere le porte alle persone» che, fiaccate dalla vita e dai loro errori, sarebbero invece disposte a ricominciare, «persone alle quali lo Spirito Santo muove il cuore per andare avanti».
La legge dell’amore è al centro della riflessione che Papa Francesco ha svolto, nella messa di martedì 17 marzo a Santa Marta, a partire dalla liturgia del giorno. Un parola di Dio che parte da un’immagine: «l’acqua che risana». Nella prima lettura il profeta Ezechiele (47, 1-9.12) parla infatti dell’acqua che scaturisce dal tempio, «un’acqua benedetta, l’acqua di Dio, abbondante come la grazia di Dio: abbondante sempre». Il Signore, infatti, ha spiegato il Papa, è generoso «nel dare il suo amore, nel risanare le nostre piaghe».
L’acqua torna nel vangelo di Giovanni (5, 1-16) dove si narra di una piscina — «in ebraico si chiamava betzaetà» — caratterizzata da «cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi: ciechi, zoppi e paralitici». In quel luogo, infatti, «c’era una tradizione» secondo la quale «di volta in volta, scendeva dal cielo un angelo» a muovere le acque, e gli infermi «che si buttavano lì» in quel momento «venivano risanati».
Perciò, ha spiegato il Pontefice, «c’era tanta gente». E perciò si trovava lì anche «un uomo che da trentotto anni era malato». Era lì che aspettava, e a lui Gesù domandò: «Vuoi guarire?». Il malato rispose: «Ma, Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita, quando viene l’angelo. Mentre, infatti, sto per andarvi, un altro scende prima di me». A Gesù, cioè, si presenta «un uomo sconfitto» che «aveva perso la speranza».
[…] aveva «amarezza nell’anima: “Ma l’altro arriva prima di me e io sono lasciato da parte”». E aveva «anche un po’ di risentimento». Era «davvero un’anima triste, sconfitta, sconfitta dalla vita».
«Gesù ha misericordia» di quest’uomo e lo invita: «Alzati! Alzati, finiamo questa storia; prendi la tua barella e cammina». Francesco ha quindi descritto la scena seguente: «All’istante quell’uomo guarì e prese la sua barella e incominciò a camminare, ma era tanto ammalato che non riusciva a credere e forse camminava un po’ dubitante con la sua barella sulle spalle». A questo punto entrano in gioco altri personaggi: «Era sabato e cosa trova quell’uomo? I dottori della legge», i quali gli chiedono: «Ma perché porti questo? Non si può, oggi è sabato». È l’uomo a rispondere: «Ma tu sai, sono stato guarito!». E aggiunge: «E quello che mi ha guarito, mi ha detto: “porta la tua barella”».
Accade quindi un fatto strano: «questa gente invece di rallegrarsi, di dire: “Ma che bello! Complimenti!”», si chiede: «Ma chi è quest’uomo?». I dottori, cioè, cominciano «un’indagine» e discutono: «Vediamo cosa è successo qui, ma la legge... Dobbiamo custodire la legge». L’uomo, da parte sua, continua a camminare con la sua barella, «ma un po’ triste». Ha commentato il Papa: «Io sono cattivo, ma alcune volte penso a cosa sarebbe successo se quest’uomo avesse dato un bell’assegno a quei dottori. Avrebbero detto: “Ma, vai avanti, sì, sì, per questa volta vai avanti!”».
Continuando nella lettura del Vangelo, si incontra Gesù che «trova quest’uomo un’altra volta e gli dice: “Ecco, sei guarito, ma non tornare indietro — cioè non peccare più — perché non ti accada qualcosa di peggio. Vai avanti, continua ad andare avanti”». E quell’uomo va dai dottori della legge, per dire: «La persona, l’uomo che mi ha guarito si chiama Gesù. È quello». E si legge: «Per questo i giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato». Di nuovo ha commentato Francesco: «Perché faceva il bene anche il sabato, e non si poteva fare».
Questa storia, ha detto il Papa attualizzando la sua riflessione, «avviene tante volte nella vita: un uomo — una donna — che si sente malato nell’anima, triste, che ha fatto tanti sbagli nella vita, a un certo momento sente che le acque si muovono, c’è lo Spirito Santo che muove qualcosa; o sente una parola». E reagisce: «Io vorrei andare!». Così «prende coraggio e va». Ma quell’uomo «quante volte oggi nelle comunità cristiane trova le porte chiuse». Forse si sente dire: «Tu non puoi, no, tu non puoi; tu hai sbagliato qui e non puoi. Se vuoi venire, vieni alla messa domenica, ma rimani lì, ma non fare di più». Succede così che «quello che fa lo Spirito Santo nel cuore delle persone, i cristiani con psicologia di dottori della legge distruggono».
Il Pontefice si è detto dispiaciuto per questo, perché, ha sottolineato, la Chiesa «è la casa di Gesù e Gesù accoglie, ma non solo accoglie: va a trovare la gente», così come «è andato a trovare» quell’uomo. «E se la gente è ferita — si è chiesto — cosa fa Gesù? La rimprovera, perché è ferita? No, viene e la porta sulle spalle». Questa, ha affermato il Papa, «si chiama misericordia». Proprio di questo parla Dio quando «rimprovera il suo popolo: “Misericordia voglio, non sacrificio!”».
Come di consueto il Pontefice ha concluso la riflessione suggerendo un impegno per la vita quotidiana: «Siamo in quaresima, dobbiamo convertirci». Qualcuno, ha detto, potrebbe ammettere: «Padre, ci sono tanti peccatori sulla strada: quelli che rubano, quelli che sono nei campi rom... — per dire una cosa — e noi disprezziamo questa gente». Ma a costui va detto: «E tu? Chi sei? E tu chi sei, che chiudi la porta del tuo cuore ad un uomo, a una donna, che ha voglia di migliorare, di rientrare nel popolo di Dio, perché lo Spirito Santo ha agitato il suo cuore?». Anche oggi ci sono cristiani che si comportano come i dottori della legge e «fanno lo stesso che facevano con Gesù», obiettando: «Ma questo, questo dice un’eresia, questo non si può fare, questo va contro la disciplina della Chiesa, questo va contro la legge». E così chiudono le porte a tante persone. Perciò, ha concluso il Papa, «chiediamo oggi al Signore» la «conversione alla misericordia di Gesù»: solo così «la legge sarà pienamente compiuta, perché la legge è amare Dio e il prossimo, come noi stessi».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/03/2015]
«Se non vedete segni e prodigi, non credete»
(Gv 4,43-54)
Gesù prende il ritmo del viaggio interiore del catecumeno (v.47) per introdurci nella sua Visione, la quale rigenera la nostra carne e ci rimette nell’Esodo (v.50) che scatena tutto un dinamismo attorno (v.51).
Sulla Via si restituisce ogni creatura a se stessa e alla bontà radicale del progetto originario - riscoperto prima dentro, poi fuori di sé.
Avere Fede è partire, e lasciarsi traumatizzare. «Infatti Gesù stesso aveva attestato che un profeta nella propria patria non ha onore» (v.44).
Dopo aver mostrato nell’episodio della samaritana (vv.1-42) il significato di Cristo come nuovo Tempio sia per ebrei che per “eretici”, Gv ne illustra il senso per i pagani.
Come se la dimensione di Risurrezione [«dopo i due giorni»: v.43] spostasse la Casa di Dio a tutto il mondo.
Agli osservanti del giudaismo era fatto divieto passare per la Samaria e trattenersi coi samaritani (cf. Gv 4,9) considerati meticci [teologicamente poligami: Gv 4,17-18].
Gesù non si limita alla propria stirpe, e neppure alla sua religione.
In Galilea riceve un super-pagano, che implora aiuto perché si accorge che il mondo da cui proviene non è in grado di generare vita (vv.46-47.49.53).
Gli auspici banali del bagaglio culturale bloccano la libertà di pensiero da ciò che ancora non si prevede, fissando stereotipi.
L’impregnato d’idoli non vede più nulla; non incontra neppure se stesso e i suoi intimi.
E non sperimenta forze ignote. Al massimo crede nel dio pagano protettore, che fa miracoli a lotteria.
Chi si regola a occhio nudo... suppone di vedere il Signore che guarisce attraverso gesti straordinari [v.48: «se non vedete segni e prodigi, non credete»].
Gli sfugge il potere vivificante della Parola, che tocca senza essere vista, ma rende presente Gesù nella sua opera e nella sua interezza incisiva, efficace.
Al Cristo interessa far capire come “funziona” la Fede nella sua pura qualità: quali dinamismi attiva - non lo show della religione spettacolo, tutta esterna.
Le espressioni epidermiche chiudono la folla nell’intimismo, o suscitano interesse per bizzarrie che fanno trasalire i sensi, destando sì un attimo di entusiasmo, non il centro di ciascuna persona.
La novità di Cristo non viene trasmessa per contatto, bensì accogliendo a fondo la sua inattesa Parola-evento. Non è soggetta a un principio di località o altra ‘garanzia’.
Lo sguardo esteriore si fa convincere da miracoli, ma non coglie il senso profondo del Segno che ci parla della Persona del Signore - il vero ‘spettacolo’. Tutto ancora da sperimentare.
I curiosi aspettano di vedere e constatare. Così muoiono di speranze relative, senza ‘radice’ in se stessi.
Solo nella Fede si scopre ciò che a occhio nudo ancora non si vede, né sapevamo ci fosse.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come l’adesione alla Parola di Cristo aiuta a vincere il desiderio banale di clamore o evasione?
[Lunedì 4.a sett. Quaresima, 31 marzo 2025]
«Se non vedete segni e prodigi, non credete»
(Gv 4,43-54)
A partire dalla quarta settimana il cammino della liturgia quaresimale prende un deciso avvio verso Gerusalemme, che già si delinea nella luce pasquale.
L’evangelista vuole introdurci in una più intima famigliarità col mistero della persona e della vicenda del Figlio di Dio; una comunione sul piano dell’essere che bagna altre contrade.
Egli prende il ritmo del viaggio interiore del catecumeno (v.47) per introdurci nella sua Visione, la quale rigenera la nostra carne e ci rimette nell’Esodo (v.50) che scatena tutto un dinamismo attorno (v.51).
Sulla Via si restituisce ogni creatura a se stessa e alla bontà radicale del progetto originario - riscoperto prima dentro, poi fuori di sé.
Avere Fede è partire, e lasciarsi traumatizzare. «Infatti Gesù stesso aveva attestato che un profeta nella propria patria non ha onore» (v.44). Perché?
Con il termine «patria» i sinottici sottintendono Nazaret.
Il quarto Vangelo invece allude a una dimensione più teologica: quella propria del Verbo che valica i privilegi locali, prendendo di mira l’ideologia del centro religioso, nonché l’istituzione nazionale.
Dopo aver mostrato nell’episodio della samaritana (vv.1-42) il significato di Cristo come nuovo Tempio sia per ebrei che per “eretici”, Gv ne illustra il senso per i pagani.
Come se la dimensione di Risurrezione («dopo i due giorni»: v.43) spostasse la Casa di Dio a tutto il mondo.
Agli osservanti del giudaismo era fatto divieto passare per la Samaria e trattenersi coi samaritani (cf. Gv 4,9) considerati meticci (teologicamente poligami: Gv 4,17-18).
Gesù non si limita alla propria stirpe, e neppure alla sua religione.
In Galilea riceve un super-pagano, che implora aiuto perché si accorge che il mondo da cui proviene non è in grado di generare vita (vv.46-47.49.53).
Spesso la nostra pietà impedisce l’amicizia fra diverse culture e neutralizza la potenza di autoguarigione intima che ciascuno - di qualsiasi etnia o credo - porta con sé.
Gli auspici banali del bagaglio culturale bloccano la libertà di pensiero da ciò che ancora non si prevede, fissando stereotipi.
L’impregnato d’idoli non vede più nulla; non incontra neppure se stesso e i suoi intimi.
E non sperimenta forze ignote. Al massimo crede nel dio pagano protettore, che fa miracoli a lotteria.
Chi si regola a occhio nudo... suppone di vedere il Signore che guarisce attraverso gesti straordinari (v.48: «se non vedete segni e prodigi, non credete»).
Gli sfugge il potere vivificante della Parola, che tocca senza essere vista, ma rende presente Gesù nella sua opera e nella sua interezza incisiva, efficace.
Al Cristo interessa far capire come “funziona” la Fede nella sua pura qualità: quali dinamismi attiva - non lo show della religione spettacolo, tutta esterna, che fa rima con impressione, evasione, sensazione, devozione.
Queste espressioni epidermiche chiudono la folla nell’intimismo, o suscitano interesse per bizzarrie che fanno trasalire i sensi, destando sì un attimo di entusiasmo, non il centro di ciascuna persona.
La novità di Cristo non viene trasmessa per contatto, bensì accogliendo a fondo la sua inattesa Parola-evento. Non è soggetta a un principio di località o altra garanzia religiosa.
Lo sguardo esteriore si fa convincere da miracoli, ma non coglie il senso profondo del Segno che ci parla della Persona del Signore - il vero spettacolo. Tutto ancora da sperimentare.
A commento del Tao Tê Ching (xii) il maestro Wang Pi afferma: «Chi è per l’occhio, si fa schiavo delle creature. Per questo il santo non è per l’occhio».
Aggiunge il maestro Ho-shang Kung: «L’amante dei colori nuoce all’essenza e perde l’illuminazione (...) Lo sguardo disordinato fa traboccare l’essenza all’esterno».
I curiosi aspettano di vedere e constatare. Così muoiono di speranze relative, senza radice in se stessi.
Solo nella Fede si scopre ciò che a occhio nudo ancora non si vede, né sapevamo ci fosse.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come l’adesione alla Parola di Cristo aiuta a vincere il desiderio banale di clamore o evasione?
Tornando a “casa tua”, hai scoperto ciò che non sapevi ci fosse? Qualcuno ti ha annunciato la Novità?
Fede e Tocco
(Mt 8,5-17)
«L’essenziale è stare nell’ascolto di ciò che sale da dentro.
Le nostre azioni spesso non sono altro che imitazione, dovere ipotetico
o rappresentazione erronea di che cosa deve essere un essere umano.
Ma la sola vera certezza che tocca la nostra vita e le nostre azioni
può venire solo dalle sorgenti che zampillano nel profondo di noi stessi.
Si è a casa sotto il cielo si è a casa dovunque su questa terra se si porta tutto in noi stessi.
Spesso mi sono sentita, e ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso:
le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto».
[Etty Hillesum, Diario]
Dice il Tao Tê Ching (LIII): «La gran Via è assai piana, ma la gente preferisce i sentieri».
Commentando il passo, i maestri Wang Pi e Ho-shang Kung sottolineano: «sentieri tortuosi».
La Fede incipiente di un pagano convertito è l’esempio che Gesù antepone a quella degli israeliti osservanti.
Ciò che guarisce è credere all’efficacia della sua sola Parola (vv.8-9.16), evento che possiede forza generatrice e ricreatrice.
Il Signore dimostra cura, in genere toccando i malati o imponendo le mani, quasi ad assorbire ciò che s’immaginava fosse impurità, alterazione rispetto alla normalità [una “febbre” o paralisi che si riteneva rendesse indegno agli occhi di Dio il bisognoso].
Nelle comunità di Galilea e Siria giudaizzanti, ancora a metà anni 70 ci si chiedeva: la nuova Legge di Dio proclamata su “il Monte” delle Beatitudini crea esclusioni?
O corrisponde alle speranze e alla sensibilità profonda del cuore umano, di ogni luogo e tempo (vv.10-12)?
I lontani possedevano una spiccata intuizione per le novità dello Spirito, e scoprivano il vissuto di Fede da altre posizioni - non installate, meno legate a concatenazioni conformi; forse scomode.
Non di rado erano proprio gli ultimi arrivati che si distinguevano per freschezza d’intuizione sostanziale - e vedevano chiaro.
Bastava comunicare a tu per Tu col Signore, in un senso d’amicizia sicura (v.6).
Non c’è bisogno di chissà quali aggiunte a questo segreto, per rinascere. Dio è Azione immediata (v.7).
La Relazione personale fra uomo comune e il Padre in Cristo è sobria e istantanea.
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della vera Fede [che non pretende ”contatti” o elementi materiali e locali: vv.8-9].
Insomma, il retaggio culturale e il conformismo religioso antico restavano un fardello.
Qua e là mancavano sia l’esperienza del Cristo Salvatore personale, che la completa scoperta della potenza di Vita piena contenuta nella nuova proposta totale e creatrice de «il Monte».
Mt scrive il suo Vangelo per incoraggiare i membri di comunità e stimolare la missione ai pagani, che appunto i giudeo cristiani non erano ancora pronti a fare propria.
Ma dire «Fede» (vv.10.13) significa caldeggiare un’adesione più profonda, e [insieme] una manifestazione meno forte.
Espressione di Fede personale non è ripetere o edulcorare una dottrina appresa, né la convinzione altrui.
Non c’è da temere: Dio ci ha preceduti; il diverso e lontano non è un estraneo, bensì fratello.
Pertanto, ciò che salva non è l’appartenenza a una tradizione o moda di pensiero e di culto.
Non esigere che il Signore arrivi in una certa forma significa non immaginarlo legato a una espressione esterna.
Lo si raggiunge e coglie solo intimamente, per visione certa - sgombra di convinzioni immaginate indispensabili - qualunque cosa accada.
Si rivelerà volta per volta nel modo più adatto ai nostri limiti.
I distanti da noi sono creature totalmente «degne» sebbene talora vacillanti e fallibili.
Non autonome, insufficienti, come tutti - per il fatto che non si rendono conto che Dio è nella loro carne e nel loro focolare.
Grazie a tale nitida consapevolezza nel Figlio, essi possono finalmente comprendere l’Amore supremo del Padre, gratuito, senza riserve; che sbalordisce, fa superare l’impaccio e li lancia.
Il pagano è condizionato dal suo mondo piramidale, ma incontrando Cristo si scopre persona totalmente adeguata e realizzata.
Non perché ha meritato o concesso favori al popolo eletto, o adempiuto uno speciale genere di osservanze (recitando formule da imprimatur).
Nel Signore, egli stesso viene educato a dilatare l’orizzonte della solita religione - fatta di rapporti verticali esterni.
Sebbene si riconosca manchevole [v.8 testo greco] intuisce che la sua relazione con Dio non dipende da uno scambio di favori.
Tale amicizia personale immediata e spontanea non si fa subalterna ad opere di legge, né scaturisce da norme di purità adempiute.
Tantomeno si assoggetta ad una relazione religiosa a testa china.
Il “lontano” comprende l’amore. In tal guisa, egli è già emancipato da una mentalità appariscente, epidermica, comune.
Nel Signore, egli stesso viene educato a dilatare l’orizzonte della solita religione.
Ritiene appunto che la Parola del Signore - per Via, fuori di luoghi e tempi sincronizzati o stabiliti - produca quel che afferma.
E lo realizzi anche a distanza; senza neppure segni clamorosi e perentori, che facciano baccano.
Piuttosto, liberando l’Energia misteriosa [ancora prigioniera] del «Logos» (v.7).
Verbo non convenzionale, che non gira a vuoto.
Ciò, malgrado questa Potenza si possa trovare mescolata a convincimenti talora contraddittori:
Egli è già lontano da una mentalità magica e carnale.
Ma deve ancora fare il passo decisivo, che lo farà crescere oltre - e ci riguarda da vicino.
La stima di sé dev’essere attitudine dei figli anche remoti, a ogni costo.
Non per sensazione recondita vaga o emotiva, bensì per Presenza garantita a prescindere - persino già operante, sebbene talora inconsapevole.
Interiorizzarla sarà opera - e il “di più” - della Fede matura, che vede, coglie, penetra le energie preparatorie in atto.
E le attualizza, anticipando futuro.
«Io non sono degno» è insieme a «Pietà di me» o «Figlio di Davide» - una delle espressioni più infelici della vita spirituale e missionaria.
Formule che Gesù aborrisce, sebbene siano divenute abituali in alcune espressioni della liturgia.
Il figlio prodigo prova con la medesima sconclusionata espressione [«non sono più degno»] a commuovere il Padre, che appunto non gli consente di finire l’assurda sviolinata.
Piuttosto gl’impedisce di considerarsi «uno dei suoi servi» e mettersi in ginocchio davanti a Lui [Lc 15,21ss].
Questo sarebbe davvero l’unico pericolo che pone a repentaglio tutta la vita; non solo un piccolo tratto di esistenza.
Per Fede in Cristo, da incompleti diventiamo non solo degnissimi, ma siamo così qui e ora Perfetti per realizzare la nostra Vocazione.
Certo, qualche ideologo o purista da mulino bianco potrebbe considerarci fuori moda, o ancora paganeggianti.
Il nostro grande e unico rischio è appunto quello di assorbire tali oppressive opinioni dall’ambiente, e lasciarci condizionare.
Ogni contorno funziona non di rado con la logica delle gerarchie ed i rapporti di forza, per cui ad es. l’inferiore non dovrebbe considerarsi allo stesso livello dell’anteposto.
Ma di questo passo non si riesce più a percepire il Cospetto divino.
Il Volto dell’Eterno è dentro noi e in casa nostra; non nella catena di comando con influssi condizionanti, bensì nel nostro ambiente e in chi ci affianca - anche oltre confine.
Famigliari, amici, persone care e non, sono sullo stesso piano. Vale anche con Dio: siamo faccia a faccia.
Neanche conta più lo schema “io e Tu”, col Figlio: perché - Incarnato diffusamente - ha piantato il suo Cielo nonché la sua stessa capacità terapeutica [addirittura di autoguarigione] «in» noi.
Grazie al Maestro non siamo più all’interno di una ideologia di sottomessi - identica a quella che vigeva nell’impero - né in una caserma ben disciplinata, a ruoli distinti e ambiti confinati.
L’assetto di correttezze esterne non attiene ai Vangeli.
Insomma, il Padre non chiede più a nessuno di obbedire a delle “autorità”, bensì di «somigliare» a Lui.
Ciò si realizza semplicemente corrispondendo - ciascuno di noi - a questa sorta di Presenza superiore che ci abita e ama.
È la fine delle vuote trafile: siamo intimi e consanguinei del nostro stesso Sé recondito, Volto sovreminente.
Non c’è assolutamente bisogno di «scongiurare» Dio (v.5) come se fossimo dei «subalterni» (v.9).
La nostra opera è quella di dissodare e acquisire un nuovo “occhio”, non di sottostare a organigrammi.
Lo sguardo rinato è intuitivo di altre virtù - non sottostà a nomenclature incapaci di fecondità immediata.
Basta con i sensi di manchevolezza!
Essi finiscono per introdurci in cappe e dinamiche a guglia (v.9) tipiche d’ogni feudalesimo stagnante.
Palude che annienta la potenza nuova d’amore - cronicizzando gli assetti.
Configurazioni ingessate da troppe noiose concatenazioni e monarchie locali [come ad es. constatiamo in provincia].
Nell’Ascolto naturale di se stessi e degli eventi, stima genuina e divina Gratuità ci guidano onda su onda verso un nuovo modo di vivere e scambiarsi doni.
Strada impervia per l’abitudine; per l’ovvietà che non sposta i pensieri, e non percepisce.
Cifra inaccessibile a coloro che agiscono per dovere - sentiero enigmatico, poco trasparente, subdolo e assai «tortuoso».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come intendi e coltivi la certa e libera Venuta di Gesù nella tua Casa?
Cattolica
La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.
[Papa Benedetto, allocuzione Concistoro 24 novembre 2012]
La Potenza della Parola e la Creatività
del Tocco sanante di Gesù (al femminile)
Nelle comunità di Galilea e Siria giudaizzanti, ancora a metà anni 70 ci si chiedeva: la nuova Legge di Dio proclamata su «il Monte» delle Beatitudini crea esclusioni? O corrisponde alle speranze e alla sensibilità profonda del cuore umano, di ogni luogo e tempo (vv.10-12)?
I pagani possedevano una spiccata intuizione per le novità dello Spirito, e scoprivano il vissuto di Fede da altre posizioni (non installate, meno legate a concatenazioni conformi; forse scomode).
Non di rado erano proprio gli ultimi arrivati che possedevano la freschezza dell’intuizione sostanziale, e vedevano chiaro. Ciò a paragone dei veterani - più legati alle foglie che alla semente - cui proponevano salutari scossoni di Fiducia schietta, sposata alla Novità di Dio.
A differenza dei provenienti dalla religiosità abituale o marcatamente etnica (persino d’Israele) essi avevano già intuito che non era necessario chiedere esplicitamente l’intervento di Cristo - come si faceva con gli dei antichi (e secondo mentalità consueta).
Bastava comunicare a tu per tu col Signore, in un senso d’amicizia sicura (v.6) - non sollecitarlo al miracolo: acquisizione fondamentale, per poter anche oggi attivare un nuovo corso, e finalmente uscir fuori dall’idea di cultura organica ben cesellata (ed eletta).
È il Risorto a fare autenticamente il bene opportuno... e tutto il resto: come in Gesù - forti dell’esperienza intima del Padre nello Spirito - anche a noi basta la Fede, ossia la confidenza nuziale e fertile nella Parola, efficace e inventiva.
Non c’è bisogno di chissà quali aggiunte a questo segreto, per rinascere.
Dio è Azione immediata (v.7): non ama farsi “pregare e ripregare” - come fosse un sovrano qualsiasi, che si compiace di costringere i sudditi alle deferenze (in vista d’un conseguente paternalismo di rapporti).
La Relazione fra uomo comune e il Padre in Cristo è sobria e istantanea, senza mezzucci di mediazione alcuna: il lavoro della Grazia è affatto condizionato da riconoscimenti e formule, o titoli “interni”, rango da veterani; né inchini mirati, “mazzette” previe, o trafile.
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della vera Fede (che non pretende ”contatti” o elementi materiali e locali: vv.8-9).
Non è come nelle magie: l’intima sensibilità della relazione di Fede comunica all’occhio dell’anima una Visione di nuova genesi. Non dottrina, disciplina, morale, appuntamenti di rito e così via.
Si tratta di un quadro di futuro (fortemente esistenziale) che non serve per anticipare (v.13) un risultato egoista, utile solo per il soggetto credente, o da nomenclatura: è per la promozione della vita, ovunque.
Ciò corrisponde all’anelito più radicato del nostro cuore.
Infatti, altra grande novità della proposta del nuovo Rabbi - che si diffondeva - era l’accettazione delle donne quali diremmo oggi “diaconesse” (cf. v.15 verbo greco) della Chiesa qui nella figura della Casa di Pietro (v.14).
Era quanto stava accadendo fin dalla metà del primo secolo (cf. Rm 16,1) e che ha ancora molto da insegnarci. Con Dio non ci si può abituare alle formalità (pluri)secolari svuotate di vita.
Ma le tradizioni religiose resistevano all’arrembaggio dell’esperienza di Fede-Amore: ancora a metà anni 70 le comunità non si sentivano libere di raccogliere i bisognosi di cura se non scoccata la sera (v.16).
Secondo il passo parallelo di Mc 1,21.29-34 (fonte del brano di Mt) era infatti giorno di sabato - e dopo l’uscita dalla sinagoga. Lo stesso impedimento e ritardo descritto nell’episodio della Maddalena al sepolcro, la mattina di Pasqua.
Il retaggio culturale e il sacro conformismo religioso restavano un bel fardello per l’esperienza del Cristo Salvatore personale, e la completa scoperta della potenza di Vita piena contenuta nella nuova proposta totale e creatrice de «il Monte».
Scrive il Tao (xxviii): «Chi sa d’esser maschio, e si mantiene femmina, è la forza del mondo; essendo la forza del mondo, la virtù mai si separa da lui, ed ei ritorna a essere un pargolo. Chi sa d’esser candido, e si mantiene oscuro, è il modello del mondo; essendo il modello del mondo, la virtù mai non si scosta da lui; ed ei ritorna all’infinito. Chi sa d’esser glorioso, e si mantiene nell’ignominia, è la valle del mondo; essendo la valle del mondo, la virtù sempre si ferma in lui; ed ei ritorna ad esser grezzo [genuino, non artefatto]. Quando quel ch’è grezzo vien tagliato, allora se ne fanno strumenti; quando l’uomo santo ne usa, allora ne fa i primi tra i ministri. Per questo il gran governo non danneggia».
E così commenta il maestro Wang Pi: «Quella del maschio è qui la categoria di chi precede, quella della femmina è la categoria di chi segue. Chi sa d’essere il primo del mondo deve porsi per ultimo: per questo il santo pospone la sua persona e la sua persona vien premessa. Una gola fra i monti non cerca le creature, ma queste da sé si volgono ad essa. Il pargolo non s’avvale della sapienza, ma s’adegua alla sapienza della spontaneità».
Nel Vangelo apocrifo di Tommaso leggiamo ai nn.22-23:
«Gesù vide dei piccoli che prendevano il latte
E disse ai suoi discepoli:
“Questi piccoli lattanti somigliano a coloro
Che entrano nel Regno”.
Loro gli chiesero:
“Se saremo come quei bimbi, entreremo nel Regno?”
Gesù rispose loro:
“Quando farete di due cose una unità e farete
L’interno uguale all’esterno e l’esterno uguale all’interno
E il superiore uguale all’inferiore,
Quando ridurrete il maschio e la femmina a un unico essere
Così che il maschio non sia solo maschio
E la femmina non resti solo femmina,
Quando considerate due occhi come unità di occhio
Ma una mano come unità di mano
E un piede come unità di piede,
Una funzione vitale in luogo di una funzione vitale
Allora troverete l’entrata del Regno”».
«Gesù ha detto:
“Io vi sceglierò uno fra mille e due fra diecimila
E questi si troveranno ad essere un individuo solo”».
38. La misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d'altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell'altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l'altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c'è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell'amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell'umanità, perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna. La verità e la giustizia devono stare al di sopra della mia comodità ed incolumità fisica, altrimenti la mia stessa vita diventa menzogna. E infine, anche il « sì » all'amore è fonte di sofferenza, perché l'amore esige sempre espropriazioni del mio io, nelle quali mi lascio potare e ferire. L'amore non può affatto esistere senza questa rinuncia anche dolorosa a me stesso, altrimenti diventa puro egoismo e, con ciò, annulla se stesso come tale.
[Spe salvi]
If, on the one hand, the liturgy of these days makes us offer a hymn of thanksgiving to the Lord, conqueror of death, at the same time it asks us to eliminate from our lives all that prevents us from conforming ourselves to him (John Paul II)
La liturgia di questi giorni, se da un lato ci fa elevare al Signore, vincitore della morte, un inno di ringraziamento, ci chiede, al tempo stesso, di eliminare dalla nostra vita tutto ciò che ci impedisce di conformarci a lui (Giovanni Paolo II)
The school of faith is not a triumphal march but a journey marked daily by suffering and love, trials and faithfulness. Peter, who promised absolute fidelity, knew the bitterness and humiliation of denial: the arrogant man learns the costly lesson of humility (Pope Benedict)
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà (Papa Benedetto)
We are here touching the heart of the problem. In Holy Scripture and according to the evangelical categories, "alms" means in the first place an interior gift. It means the attitude of opening "to the other" (John Paul II)
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro” (Giovanni Paolo II)
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
St Teresa of Avila wrote: «the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ» (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7). Therefore, only by believing in Christ, by remaining united to him, may the disciples, among whom we too are, continue their permanent action in history [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia [Papa Benedetto]
Just as he did during his earthly existence, so today the risen Jesus walks along the streets of our life and sees us immersed in our activities, with all our desires and our needs. In the midst of our everyday circumstances he continues to speak to us (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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