Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Innalzato e innalzatisi, di lassù e di quaggiù
(Gv 8,21-30)
Alla fine del primo secolo, i giudei sollevavano non poche questioni riguardanti la lettura orante che i discepoli di Cristo facevano delle vicende e delle Parole del Maestro - considerate espressione della Parola di Dio e vertice della storia della salvezza.
Il tema dell’incomprensione circa l’origine e la missione del Figlio è drammatizzato in una controversia durante la quale ciascuna delle parti si attesta su un terreno differente: appartenere al mondo della Fede, o a quello della religione che chiude il Mistero in ciò che si conosce già.
Per aiutare i fedeli ad approfondire il Richiamo del Signore, nelle comunità giovannee dell’Asia Minore la trasmissione mediante catechesi del portato (e preziosità) del coinvolgimento nella vita di Fede avveniva attraverso dialoghi a domanda e risposta.
La fine ingloriosa di Gesù e la sua destinazione ponevano svariati quesiti. Il testo ribadisce che il punto cruciale era il pregiudizio del Volto di Dio sempre vittorioso.
Tara che impediva di riconoscerlo nel Figlio umiliato dalle autorità, e nei figli che lo avevano seguito, altrettanto sconfitti... ma che si consideravano vincitori.
Rispetto al mondo circostante, i cristiani orientavano i loro gesti e parole senza banali chiusure di criterio, cui pure talora anche noi vorremmo adeguarci.
E perfino oggi - grazie a questa spinta, Motivo e Motore - solo per questo convincimento si riesce ad acquisire una differente visione, e vincere il peccato.
Il termine al singolare qui al v.21 [cf. «il peccato del mondo» in Gv 1,29] non si riferisce a piccole trasgressioni quotidiane, ma all’umiliazione (devota) delle distanze incolmabili [rispetto al coronamento d’essere].
Solo il senso della vicenda di Gesù spazza via il vuoto di energia intima suscitato dalla percezione della condizione creaturale - da cui discende l’incapacità di corrispondere alla propria intima vocazione.
Inefficienza lacerante e bizzarra, perché indotta e sostenuta proprio da strutture ufficiali paradossalmente «mondane» - e dalla mentalità da esse stesse diffusa, nonché assicurata nel tempo.
Il medesimo termine usato al plurale [«peccati», in senso morale] sottolineato e ribadito al v.24 allude allo strazio inoculato nell’anima e nella vita delle persone, proprio dalla “normale” cappa di convinzioni pie.
Esse racchiudono il cammino delle singole eccezionali personalità all’interno di un’inutile ricerca spasmodica d’imperfezioni, per natura inevitabili - col tormento dei paragoni con modelli esterni.
Risultato: donne e uomini la cui vita ristagna nel tentativo stridente di superare le genuine contraddizioni dei propri stessi volti che ci completano, con estremo e vacuo dispendio di virtù.
Nella sfera della tradizione o meglio del costume, per individuare, correggere, e ribadire ogni giorno normative (altrui) le anime vengono sottoposte a un regime di ripiegamenti che vanno a incidere sia sulla condotta sommaria che su linee portanti della personalità.
Dette forme di “governo” poco inclusive chiudono le vocazioni non opportuniste in se stesse, con grave danno anche sociale: tipico esito d’un clima di popolo che ingenuamente si affida alle ideologie esteriori, di maniera, eticiste, o intimiste.
Nella graniticità dei princìpi di dominio delle strutture beghine di peccato sulle vicende individuali, l’attitudine al sospetto delle devianze rende paludosa la vita della gente umile e più sensibile.
Qui si rischia di morire - proprio nelle sabbie immobili dei peccati di ritorno, di aggiunta e gratificazione, che all’inizio s’intendeva esorcizzare.
Quanti abbracciano la conformità dell’eccellenza astratta che vuole riemergere a tutti i costi - senza criteri eminenti, né rielaborazione, e cammino di valorizzazione personale con prospettive di futuro critico - sperimenteranno il totale rovesciamento dei buoni propositi; poi, tonfi pazzeschi e repentini.
La palude delle potenze vitali trattenute allestisce ottimi paraventi ma fa marcire l’esistenza, ribaltando le attese.
È come se Gesù dicesse: «provate che botte a terra potreste fare cadendo da tanto in alto, così capirete!».
La cornice di riferimento dei capi della mentalità vincente o della devozione antica, non è lo sguardo piantato sulla vita autentica e piena della gente, bensì lo scrutare giudicante a partire da una moda già antiquata, senza aperture.
In fondo: quella solita o di potere assicurato, dal cuore di pietra e tutta già pronta. A portata di mano, come cesellata fin nei minimi dettagli - nelle istituzioni a cliché, radicate sul territorio - rappresentativa solo di sé.
In tal senso, i veterani, leaders esperti e conclamati, facevano difficoltà a comprendere il senso dell’innalzamento del Cristo.
Il Messia autentico è stato elevato alla “destra” dell’Eterno e innalzato sulla Croce - massima Rivelazione del «Io Sono» ossia dell’Emmanuele nella sua Personalità, Sapienza, Unicità, Futuro e già Presenza.
Il Crocifisso che in Gv 19,30 e 20,22 consegna lo Spirito senza ritardo temporale, irradia l’immagine della “posizione” divina. E mediante il legame di Fede ci fa vivere nel suo contatto; che è di svilimento e bassura, ma di peso e rilievo - promozione umanizzante (vv.28-29).
Ciò che nel «Figlio dell’uomo» anche noi sperimentiamo dentro tale Relazione fondante col Padre si rende esplicito appunto in una Confluenza, Nucleo, Ponte attivo, e Cardine. Liberazione e Salvezza che consente di fare tesoro d’insidie, paradossi, sconvolgimenti.
Egli opera in un rovesciamento dell’idea di «gloria», arrampicamento, e sovreminenza. Agisce nella contrapposizione di principio (che sembra devotamente incomprensibile) fra due «mondi» - il sedicente “migliore” dei quali cerca in “alto” la sua redenzione.
E crea però sgomento. Non sa ancora prendere vita dalla morte.
Quindi il discorso è ‘interno’: riguarda i criteri mondani di giudizio sul Signore i quali confidano in se stessi, che ci stritolano nelle spire del dubbio; non contro gli ebrei.
È per chiunque rimpiange le piccole sicurezze perdute e - appunto - non sa ancora prendere linfa dalla terra.
Il mondo dozzinale resta quello tristemente segnato dagli astuti, mediocri, salottieri, in continuo atteggiamento di compromesso e connubio col potere - nonché lo stesso forziere del Tempio.
Per loro quello di Gesù e dei suoi che fanno sul serio è un suicidio (v.22), condizione che - nel pensiero del tempo - avrebbe condotto allo stato eterno dell’inferno più buio.
Infatti, il Santuario sembrava un perimetro luminoso, appetibile, spiritualissimo e appartato; invece era separato solo... dall’accesso alla vita, e al pensiero del Cielo - unico Centro di gravità fecondo.
Tremenda vocazione, tanto inaudita e perigliosa sino al rischio mortale - da suscitare sdegno, per ogni ideologia di potere: che appesantisce la vitalità spontanea e misteriosa dell’oggi persino spezzato, amaro, calato in fondo, declassato.
Nella sua realtà ambiziosa e agonistica, che mirava a prevalere [tutta decoro, piroette, opportunismo, reputazione] l’istituzione consolidata non sarebbe riuscita a trasmettere ai cristiani il senso specifico della loro Fede. Essa che nel cuore s’impone, sebbene sembri deplorevole.
Gl’ingranaggi mondani falsavano e rendevano irriconoscibile l’identità della condizione paradisiaca, confusa e barattata con quella di chi vince, sovrasta, riceve onori - senz’alcun balzo qualitativo circa l’autenticità del Soggetto Unico della storia.
I Farisei di qualsivoglia tempo e credo si orientano ancora sulla base di titoli e benemerenze.
L’Uomo-Dio riflette una inclinazione differente dalle aspettative di tante sinagoghe stanziali, mondane, mimetiche, che fanno di tutto per ergersi ed evitare il basso.
«Morire nel peccato» significa chiudersi nei criteri che escludono l’onore vero: quello del Dono totale di sé - per un esito ulteriore e diffuso.
Limpido punto chiave della vita del Figlio, che rivendica la pienezza umano-divina (v.28).
Alla domanda «Tu chi sei?» Cristo risponde dando un appuntamento di Vita completa, sul Calvario.
Per noi che lo sentiamo pulsare dentro, il medesimo Gratis non sarà frutto impossibile d’una scelta volontarista, bensì del discepolato nel rispetto della Vocazione personale - che cerca e fa spazio al nuovo regno.
La sequela sapiente porterà ciascuno dall’esperienza religiosa d’inutile e mortifera sottomissione all’avventura di Fede nel Signore, senza più remore che affossino il viaggio verso di sé e il prossimo.
Col Figlio dell’uomo innalzato passeremo dalla vita spenta e mortificata dei servitori a quella di amici, quindi fratelli (cf. Gv 13,13; 15,15; 20,17).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando sei interpellato sulla tua identità d’essere, t’impegni a sciorinare titoli e traguardi?
Cosa significa per te essere di quaggiù o di lassù?
«Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù». Le parole che abbiamo ascoltato poc’anzi nella seconda lettura (Col 3,1-4) ci invitano ad elevare lo sguardo alle realtà celesti. Infatti, con l’espressione «le cose di lassù» san Paolo intende il Cielo, poiché aggiunge: «dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio». L’Apostolo intende riferirsi alla condizione dei credenti, di coloro che sono «morti» al peccato e la cui vita «è ormai nascosta con Cristo in Dio». Essi sono chiamati a vivere quotidianamente nella signoria di Cristo, principio e compimento di ogni loro azione, testimoniando la vita nuova che è stata loro donata nel Battesimo. Questo rinnovamento in Cristo avviene nell’intimo della persona: mentre continua la lotta contro il peccato, è possibile progredire nella virtù, cercando di dare una risposta piena e pronta alla Grazia di Dio.
Per antitesi, l’Apostolo segnala poi «le cose della terra», evidenziando così che la vita in Cristo comporta una «scelta di campo», una radicale rinuncia a tutto ciò che – come zavorra – tiene l’uomo legato alla terra, corrompendo la sua anima. La ricerca delle «cose di lassù» non vuol dire che il cristiano debba trascurare i propri obblighi e compiti terreni, soltanto non deve smarrirsi in essi, come se avessero un valore definitivo. Il richiamo alle realtà del Cielo è un invito a riconoscere la relatività di ciò che è destinato a passare, a fronte di quei valori che non conoscono l'usura del tempo. Si tratta di lavorare, di impegnarsi, di concedersi il giusto riposo, ma col sereno distacco di chi sa di essere solo un viandante in cammino verso la Patria celeste; un pellegrino; in un certo senso, uno straniero verso l’eternità.
[…] Il Figlio dell’uomo deve essere innalzato sul legno della Croce perché chi crede in Lui abbia la vita. San Giovanni vede proprio nel mistero della Croce il momento in cui si rivela la gloria regale di Gesù, la gloria di un amore che si dona interamente nella passione e morte. Così la Croce, paradossalmente, da segno di condanna, di morte, di fallimento, diventa segno di redenzione, di vita, di vittoria, in cui, con sguardo di fede, si possono scorgere i frutti della salvezza.
[…] Dio si è avvicinato all’uomo nell’amore, fino al dono totale, a varcare la soglia della nostra ultima solitudine, calandosi nell’abisso del nostro estremo abbandono, oltrepassando la porta della morte. L’oggetto e il beneficiario dell’amore divino è il mondo, cioè l’umanità. E’ una parola che cancella completamente l’idea di un Dio lontano ed estraneo al cammino dell’uomo, e svela, piuttosto, il suo vero volto: Egli ci ha donato il suo Figlio per amore, per essere il Dio vicino, per farci sentire la sua presenza, per venirci incontro e portarci nel suo amore, in modo che tutta la vita sia animata da questo amore divino. Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e donare la vita. Dio non spadroneggia, ma ama senza misura. Non manifesta la sua onnipotenza nel castigo, ma nella misericordia e nel perdono. Capire tutto questo significa entrare nel mistero della salvezza: Gesù è venuto per salvare e non per condannare; con il Sacrificio della Croce egli rivela il volto di amore di Dio. E proprio per la fede nell’amore sovrabbondante donatoci in Cristo Gesù, noi sappiamo che anche la più piccola forza di amore è più grande della massima forza distruttrice e può trasformare il mondo, e per questa stessa fede noi possiamo avere una “speranza affidabile”, quella nella vita eterna e nella risurrezione della carne.
[Papa Benedetto, omelia in Cappella Papale 4 novembre 2010]
1. Gloria a te, Verbo di Dio!
Questo saluto si ripete quotidianamente nella liturgia della Quaresima. Esso precede la lettura del Vangelo, e testimonia che il tempo della Quaresima è nella vita della Chiesa un periodo di particolare concentrazione sul Verbo di Dio. Tale concentrazione era collegata – specialmente nei primi secoli – alla preparazione al Battesimo nella notte di Pasqua, al quale si predisponevano i Catecumeni con crescente intensità.
Però, non solo in considerazione del Battesimo e del catecumenato la Quaresima stimola ad una così intensa concentrazione sulla Parola di Dio. Il bisogno scaturisce dalla natura stessa del periodo liturgico, cioè dalla profondità del Mistero, nel quale la Chiesa entra sin dall’inizio della Quaresima.
Il mistero di Dio raggiunge le menti e i cuori innanzitutto mediante la Parola di Dio. Ci troviamo, infatti, nel periodo della “iniziazione” alla Pasqua, che è il mistero centrale di Cristo, oltreché della fede e della vita di coloro che lo confessano.
Sono lieto che in questo periodo, anche quest’anno, mi è dato di portare il mio personale contributo alla pastorale dell’ambiente universitario di Roma. Do il mio cordiale benvenuto a tutti i presenti: Professori, Studenti e ospiti che vengono da fuori Roma.
Desidero ricordare, in questa occasione, che i problemi riguardanti la presenza della Chiesa nel mondo universitario della nostra Città, i problemi della specifica pastorale accademica sono stati quest’anno il tema dell’incontro del clero della diocesi di Roma all’inizio della Quaresima. Insieme con i miei fratelli nell’Episcopato e nel presbiterato, che condividono con me la sollecitudine pastorale per i tre milioni di cittadini della Roma degli anni ottanta, ho potuto ascoltare diverse voci di professori, di studenti, di rappresentanti dei singoli ambienti accademici e movimenti, come pure dei loro assistenti ecclesiastici, i quali hanno illustrato numerosi problemi riguardanti l’importante compito della Chiesa di Roma in questo settore.
Spero che questo compito potrà essere svolto in modo sempre più maturo e fruttuoso.
2. Lode a te, Verbo di Dio!
Questa parola nella Liturgia della penultima Settimana di Quaresima diventa particolarmente intensa e, direi, particolarmente drammatica. Lo mettono in risalto in modo speciale le letture tratte dal Vangelo di san Giovanni.
Cristo, conversando con i Farisei, sempre più chiaramente dice Chi è, Chi l’ha mandato, e le sue parole non trovano accoglienza. E sempre più, mediante la crescente tensione delle domande e delle risposte, si delinea anche il termine di questo processo: la morte del profeta di Nazaret.
“Tu chi sei?” (Gv 8,25), domandano a lui come una volta domandavano a Giovanni Battista.
Questo interrogativo porta con sé quell’eterna inquietudine messianica, alla quale Israele partecipava da generazioni, e che nella generazione di quel tempo pareva ancora accresciuta in potenza.
– Tu chi sei?
– “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete...” (Gv 8,28).
3. Sembra che il concetto-chiave dell’odierna Liturgia della Parola di Dio sia quello di “elevazione”.
Durante la peregrinazione di Israele attraverso il deserto, Mosè “fece un serpente di rame e lo mise sopra l’asta” (Nm 21,9). Lo fece per ordine del Signore, quando il suo popolo veniva morso dai serpenti velenosi “e un gran numero di Israeliti morì” (Nm 21,6). Quando Mosè mise il serpente di rame sopra l’asta, chiunque fosse stato morso dai serpenti, nel guardarlo, “restava in vita” (Nm 21,9).
Quel serpente di rame è divenuto la figura di Cristo “innalzato” sulla croce. Gli esegeti vedono in esso l’annuncio simbolico del fatto che l’uomo, il quale con fede guarda la croce di Cristo, “resta in vita”. Rimane in vita...: e la vita significa la vittoria sul peccato e lo stato di grazia nell’animo umano.
4. Cristo dice: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete...”: conoscerete, troverete la risposta a questo interrogativo che ora ponete a me, non fidandovi delle parole che vi dico.
“L’innalzare” mediante la Croce costituisce in un certo qual senso la chiave per conoscere tutta la verità, che Cristo proclamava. La Croce è la soglia, attraverso la quale sarà concesso all’uomo di avvicinarsi a questa realtà che Cristo rivela. Rivelare vuol dire “rendere noto”, “rendere presente”.
Cristo rivela il Padre. Mediante lui il Padre diventa presente nel mondo umano.
“Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo” (Gv 8,28).
Cristo si richiama al Padre come all’ultima fonte della verità che annunzia: “Colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui” (Gv 8,26).
Ed infine:
“Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29).
In queste parole si svela davanti a noi quella illimitata solitudine, che Cristo deve sperimentare sulla Croce, nella sua “elevazione”. Questa solitudine inizierà durante la preghiera nel Getsemani – la quale deve essere stata una vera agonia spirituale – e si compirà nella crocifissione. Allora Cristo griderà: “Elì, Elì, lemà sabactàni”, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46).
Ora, invece, come se anticipasse quelle ore di tremenda solitudine, Cristo dice: “Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo...”. Come se volesse dire, in primo luogo: anche in questo supremo abbandono non sarò solo! adempirò allora ciò che “Gli è gradito”, ciò che è la Volontà del Padre! e non sarò solo!
– E, inoltre: il Padre non mi lascerà in mano alla morte, poiché nella Croce c’è l’inizio della risurrezione. Proprio per questo, “la crocifissione” diventerà in definitiva la “elevazione”: “Allora saprete che Io sono”. Allora, pure, conoscerete che “io dico al mondo le cose che ho udito da lui”.
5. La crocifissione diventa veramente l’elevazione di Cristo. Nella Croce c’è l’inizio della risurrezione.
Perciò la Croce diventa la misura definitiva di tutte le cose, che stanno tra Dio e l’uomo. Cristo le misura proprio con questo metro.
Nell’odierno Vangelo ascoltiamo che cosa dice:
“Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo” (Gv 18,23).
La dimensione del mondo viene, in un certo senso, contrapposta alla dimensione di Dio. Nel colloquio con Pilato Cristo dirà anche: “Il mio regno non è di quaggiù” (Gv 18,36).
La dimensione del mondo s’incontra con la dimensione di Dio proprio nella Croce: nella Croce e nella risurrezione.
Per questo la croce diventa quell’ultimo metro, col quale Cristo misura. Diventa il punto centrale di riferimento. La dimensione del mondo viene in essa riferita definitivamente alla dimensione del Dio Vivente. E il Dio Vivente si incontra col mondo nella Croce. S’incontra mediante la morte di Cristo.
Questo incontro è totalmente per l’uomo.
Perché – a volte ci chiediamo – quell’incontro del Dio Vivente con l’uomo si è compiuto sulla Croce?... perché doveva compiersi così?
Cristo, nell’odierno colloquio, ne dà la risposta: “Se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 18,24).
Sopra la dimensione del mondo si mette la dimensione del peccato... Proprio per questo l’incontro di Dio col mondo si compie nella croce.
C’è bisogno della Croce e della morte, affinché l’uomo “non muoia nei propri peccati”.
C’è bisogno della Croce e della risurrezione, affinché l’uomo creda a Cristo, perché accetti questo “mondo” che lui rivela per mezzo di sé.
In Cristo è rivelato all’uomo il Dio Vivente. Dio Padre.
Non solo: in Cristo è rivelato all’uomo – è rivelato fino in fondo – il mistero dell’uomo stesso.
6. Bisogna imparare a misurare i problemi del mondo, e soprattutto i problemi dell’uomo, col metro della Croce e della Risurrezione di Cristo.
Essere cristiani vuol dire vivere nella luce del mistero pasquale di Cristo. E trovare in esso un punto fisso di riferimento per ciò che è nell’uomo, per ciò che è tra gli uomini, ciò che compone la storia dell’umanità e del mondo.
L’uomo, guardando in se stesso, scopre anche – come Cristo dice nel dialogo con i Farisei – ciò che è “di quaggiù” e ciò che è “di lassù”. L’uomo scopre dentro di sé (è questa un’esperienza perenne) l’uomo “di lassù” e l’uomo “di quaggiù”: non due uomini, ma quasi due dimensioni dello stesso uomo; dell’uomo, che è ognuno di noi: io, tu, lui, lei...
E ognuno di noi – se guarda dentro di sé attentamente, in modo autocritico, se cerca di vedere se stesso nella verità – saprà dire che cosa in lui appartiene all’uomo “di quaggiù”, e che cosa all’uomo “di lassù”. Saprà chiamarlo per nome. Saprà confessarlo.
Ed infine: in ognuno di noi c’è un certo spontaneo tendere dall’uomo “di quaggiù” verso quello “di lassù”. È questa un’aspirazione naturale. A meno che non la soffochiamo, non la calpestiamo in noi.
È un’aspirazione. Se con essa cooperiamo, questa aspirazione si sviluppa e diventa il motore della nostra vita.
Cristo ci insegna come cooperare con essa. Come sviluppare ed approfondire ciò che nell’uomo è “di lassù”, e come indebolire e vincere ciò che è “di quaggiù”.
Cristo ce lo insegna col suo Vangelo e col suo personale esempio.
La Croce diventa qui una misura viva. Diventa il punto di riferimento, attraverso il quale la vita di milioni di uomini passa da ciò che nell’uomo è “di quaggiù” a ciò che è “di lassù”.
La Croce e la risurrezione: il mistero pasquale di Cristo.
7. Il primo, elementare metodo di questo passaggio è la preghiera.
Quando l’uomo prega, in un certo senso spontaneamente si rivolge verso Colui che gli offre la dimensione “di lassù”. Con ciò stesso prende le distanze da ciò che, in se stesso, è “di quaggiù”. La preghiera è un movimento interiore. È un movimento che decide dello sviluppo di tutta la personalità umana. Dell’indirizzo della vita.
Con quale chiarezza dà espressione a questo tema il Salmo dell’odierna Liturgia!:
“Signore, ascolta la mia preghiera, / a te giunga il mio grido. / Non nascondermi il tuo volto; / nel giorno della mia angoscia / piega verso di me l’orecchio. / Quando ti invoco: presto, rispondimi” (Sal 102 [101],1-3).
L’uomo vive nella ricerca del “volto di Dio”, che è nascosto davanti a lui nelle tenebre “del mondo”. Eppure, nello stesso “mondo” può scoprire le impronte di Dio. Bisogna solo che inizi a pregare. Che preghi. Che passi da ciò che è “di quaggiù” verso ciò che è “di lassù”. Che insieme alla preghiera scopra in se stesso la via che va dall’uomo “di quaggiù” a quello “di lassù”.
Mei diletti! Nel nome del Crocifisso e del Risorto vi chiedo: pregate! amate la preghiera!
8. Gloria a te, Verbo di Dio!
Che l’amore della preghiera diventi in ognuno di noi il frutto dell’ascolto della Parola di Dio.
“Il seme è la Parola di Dio, il seminatore invece, Cristo; ognuno che lo troverà durerà in eterno”, proclama un testo liturgico.
Il seme è il germe di vita. Esso racchiude in sé tutta la pianta. Nasconde la spiga per la mietitura e il futuro pane.
Il Verbo di Dio è tale seme per le anime umane. Il seminatore ne è Cristo.
Preghiamo che dal seme della parola di Cristo nasca in noi di nuovo questa Vita, alla quale l’uomo è chiamato in Cristo. Chiamato “da lassù”.
Questa vita nasce nei sacramenti della fede. Nasce prima nel Battesimo e poi nel sacramento della Riconciliazione.
Cristo è non soltanto Colui che annunzia la Parola di Dio. È Colui che in questa Parola dà la Vita.
Una nuova Vita.
Tale è la potenza delle parole: “Io ti battezzo”.
Tale è pure la potenza delle parole: “Io ti assolvo... vai in pace”. Vai! Nella direzione da ciò che è in te “di quaggiù” verso ciò che è “di lassù”. Ancora una volta, vai!
E infine la potenza delle parole eucaristiche: “Mangiate e bevetene tutti”. Chi mangia... vivrà. Vivrà in eterno.
Guardiamo, cari fratelli e sorelle, “l’elevazione” di Cristo. Guardiamo attraverso il prisma della Croce e della risurrezione la nostra umanità. Accettiamo l’invito che si racchiude nel mistero pasquale di Cristo. Accettiamo la Parola e la Vita. Amen.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia per gli studenti universitari in preparazione alla Pasqua, Roma 30 marzo 1982]
Farsi «il segno della croce» distrattamente e ostentare «il simbolo dei cristiani» come fosse «il distintivo di una squadra» o «un ornamento», magari con «pietre preziose, gioielli e oro», non ha nulla a che vedere con «il mistero» di Cristo. Tanto che Papa Francesco ha suggerito un esame di coscienza proprio sulla croce, per verificare come ciascuno di noi porta nella quotidianità l’unico vero «strumento di salvezza». Ecco le linee di riflessione che il Pontefice ha proposto nella messa celebrata martedì mattina, 4 aprile, a Santa Marta.
«Attira l’attenzione — ha fatto notare subito, riferendosi al passo dell’evangelista Giovanni (8, 21-30) — che in questo breve passo del Vangelo per tre volte Gesù dice ai dottori della legge, agli scribi, ad alcuni farisei: “Morirete nei vostri peccati”». Lo ripete «tre volte». E «lo dice — ha aggiunto — perché non capivano il mistero di Gesù, perché avevano il cuore chiuso e non erano capaci di aprire un po’, di cercare di capire quel mistero che era il Signore». Infatti, ha spiegato il Papa, «morire nel proprio peccato è una cosa brutta: significa che tutto finisce lì, nella sporcizia del peccato».
Ma poi «questo dialogo — nel quale per tre volte Gesù ripete “morirete nei vostri peccati” — continua e, alla fine, Gesù guarda indietro alla storia della salvezza e fa ricordare loro qualcosa: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono e che non faccio nulla da me stesso”». Il Signore dice proprio: «quando avrete innalzato il figlio dell’uomo».
Con queste parole — ha affermato il Pontefice, riferendosi al brano tratto dal libro dei Numeri (21, 4-9) — «Gesù fa ricordare quello che è accaduto nel deserto e abbiamo sentito nella prima lettura». È il momento in cui «il popolo annoiato, il popolo che non può sopportare il cammino, si allontana dal Signore, sparla di Mosè e del Signore, e trova quei serpenti che mordono e fanno morire». Allora «il Signore dice a Mosè di fare un serpente di bronzo e innalzarlo, e la persona che subisce una ferita del serpente, e che guarda quello di bronzo, sarà guarita».
«Il serpente — ha proseguito il Papa — è il simbolo del cattivo, è il simbolo del diavolo: era il più astuto degli animali nel paradiso terrestre». Perché «il serpente è quello che è capace di sedurre con le bugie», è «il padre della menzogna: questo è il mistero». Ma allora «dobbiamo guardare il diavolo per salvarci? Il serpente è il padre del peccato, quello che ha fatto peccare l’umanità». In realtà «Gesù dice: “Quando io sarò innalzato in alto, tutti verranno a me”. Ovviamente questo è il mistero della croce».
«Il serpente di bronzo guariva — ha detto Francesco — ma il serpente di bronzo era segno di due cose: del peccato fatto dal serpente, della seduzione del serpente, dell’astuzia del serpente; e anche era segnale della croce di Cristo, era una profezia». E «per questo il Signore dice loro: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono”». Così possiamo dire, ha affermato il Papa, che «Gesù si è “fatto serpente”, Gesù si “è fatto peccato” e ha preso su di sé le sporcizie tutte dell’umanità, le sporcizie tutte del peccato. E si è “fatto peccato”, si è fatto innalzare perché tutta la gente lo guardasse, la gente ferita dal peccato, noi. Questo è il mistero della croce e lo dice Paolo: “Si è fatto peccato” e ha preso l’apparenza del padre del peccato, del serpente astuto».
«Chi non guardava il serpente di bronzo dopo essere ferito da un serpente nel deserto — ha spiegato il Pontefice — moriva nel peccato, il peccato di mormorazione contro Dio e contro Mosè». Allo stesso modo, «chi non riconosce in quell’uomo innalzato, come il serpente, la forza di Dio che si è fatto peccato per guarirci, morirà nel proprio peccato». Perché «la salvezza viene soltanto dalla croce, ma da questa croce che è Dio fatto carne: non c’è salvezza nelle idee, non c’è salvezza nella buona volontà, nella voglia di essere buoni». In realtà, ha insistito il Papa, «l’unica salvezza è in Cristo crocifisso, perché soltanto lui, come il serpente di bronzo significava, è stato capace di prendere tutto il veleno del peccato e ci ha guarito lì».
«Ma cosa è la croce per noi?» è la questione posta da Francesco. «Sì, è il segno dei cristiani, è il simbolo dei cristiani, e noi facciamo il segno della croce ma non sempre lo facciamo bene, alle volte lo facciamo così... perché non abbiamo questa fede alla croce» ha evidenziato il Papa. La croce, poi, ha affermato, «per alcune persone è un distintivo di appartenenza: “Sì, io porto la croce per far vedere che sono cristiano”». E «sta bene», però «non solo come distintivo, come se fosse una squadra, il distintivo di una squadra»; ma, ha detto Francesco, «come memoria di colui che si è fatto peccato, che si è fatto diavolo, serpente, per noi; si è abbassato fino ad annientarsi totalmente».
Inoltre, è vero, «altri portano la croce come un ornamento, portano croci con pietre preziose, per farsi vedere». Ma, ha fatto presente il Pontefice, «Dio disse a Mosè: “Chi guarda il serpente sarà guarito”; Gesù dice ai suoi nemici: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete”». In sostanza, ha spiegato, «chi non guarda la croce, così, con fede, morirà nei propri peccati, non riceverà quella salvezza».
«Oggi — ha rilanciato il Papa — la Chiesa ci propone un dialogo con questo mistero della croce, con questo Dio che si è fatto peccato, per amore a me». E «ognuno di noi può dire: “per amore a me”». Così, ha proseguito, è opportuno domandarci: «Come porto io la croce: come un ricordo? Quando faccio il segno della croce, sono consapevole di quello che faccio? Come porto io la croce: soltanto come un simbolo di appartenenza a un gruppo religioso? Come porto io la croce: come ornamento, come un gioiello con tante pietre preziose d’oro?». Oppure «ho imparato a portarla sulle spalle, dove fa male?».
«Ognuno di noi oggi — ha suggerito il Pontefice a conclusione della sua meditazione — guardi il crocifisso, guardi questo Dio che si è fatto peccato perché noi non moriamo nei nostri peccati e risponda a queste domande che io vi ho suggerito».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 05/04/2017]
Scintilla di bellezza e umanesimo, o senza futuro
(Gv 8,12-20)
In tutte le religioni il termine Luce viene usato come metafora delle forze del bene.
Sulla bocca di Gesù [presente nei suoi intimi] il medesimo vocabolo sta a indicare un compimento dell'umanità (persino dell’istituzione religiosa) secondo il progetto divino, riconoscibile nella sua stessa Persona.
La distinzione fra Luce e tenebra in Cristo non è in qualche modo paragonabile al binomio dualista più convenzionale - circa il bene e il male. L'attività del Creatore è poliedrica.
Il termine evangelico dunque non designa alcuna staticità di giudizio fisso.
Non di rado le cose più preziose sorgono proprio da ciò che disturba il pensiero omologato.
La stessa mente che crede di stare solo nella luce è una mente unilaterale, parziale, malata; legata a un’idea, quindi scadente.
Dio sa che sono le incompletezze a lanciare l’Esodo, possono essere le insicurezze a non farci sbattere contro i modelli… i quali ci fanno perdere ciò che siamo.
Le energie che investono la realtà creata hanno infatti una radice potenziale del tutto positiva.
I tramonti preparano altri percorsi, le ambivalenze danno il “la” a recuperi e crescite impossibili.
«Luce» era nel giudaismo il termine che designava il cammino retto dell'umanità secondo Legge, senza eccentricità né declino.
Ma con Gesù non è più la Torah che fa da guida, bensì la vita stessa [Gv 1,4: «La Vita era la Luce degli uomini»] che si caratterizza per la sua difforme complessità.
Così, anche il «mondo» - ossia (in Gv) anzitutto il complesso dell’istituzione - deve tornare a una Guida più sapiente, che rischiari l’esistenza reale.
Durante la festa delle Capanne, nei cortili del Tempio di Gerusalemme si accendevano enormi lampioni.
Uno dei riti principali consisteva nell’allestire una mirabile processione notturna con le faci accese - e nel far rifulgere le grandi lampade.
Esse sopravanzavano le mura e illuminavano tutta Gerusalemme.
Era il contesto adeguato per proclamare la Persona stessa del Cristo quale autentica Parola sacra e umanizzante, luogo dell’incontro con Dio e fiaccola della vita. Nulla di esterno e retorico-tutto-apparenza.
Perciò il Maestro si staglia - con evidenza contraria - proprio nel luogo del Tesoro [baricentro reale del Tempio, v.20] come vero e unico Punto estremo che squarcia le tenebre.
Il Signore invita a fare nostro il suo stesso cammino acutamente missionario: dal sacrario di pietra al cuore di carne, gratuito come quello del Padre.
Appello limpido e Domanda intima che mai si spegne: la sentiamo ardere viva senza consumarsi.
Non c’è da temere: l’Inviato non è solo. Non testimonia se stesso, né le proprie manie o squilibri utopici: la sua Chiamata per Nome si fa Presenza divina - Aurora, Sostegno, Amicizia e balzo inequivocabile, invincibile, che squarcia le caligini.
Sprizza ‘dal nucleo’ assumendo le stesse ombre e rinascendo; portando i nostri lati oscuri accanto alle ‘radici’.
[Lunedì 5.a sett. Quaresima (anno C), 7 aprile 2025]
Scintilla di bellezza e umanesimo, o senza futuro
(Gv 8,12-20)
In tutte le religioni il termine Luce viene usato come metafora delle forze del bene.
Sulla bocca di Gesù [presente nei suoi intimi] il medesimo vocabolo sta a indicare un compimento dell'umanità (persino dell’istituzione religiosa) secondo il progetto divino, riconoscibile nella sua stessa Persona.
La distinzione fra Luce e tenebra in Cristo non è in qualche modo paragonabile al binomio dualista più convenzionale - circa il bene e il male. L'attività del Creatore è poliedrica.
Il termine evangelico dunque non designa alcuna staticità di giudizio fisso su quanto viene usualmente valutato come “fiaccola” oppure “ombra”, “corretto” o “sbagliato” e così via.
C’è spazio per nuove percezioni e rielaborazioni. Né siamo chiamati sempre a lottare contro tutto il resto, e le passioni.
Le classiche valutazioni morali, devote o religiose generali vanno superate, perché restano in superficie e non colgono il nocciolo dell’essere e del divenire umanizzante.
Non di rado le cose più preziose sorgono proprio da ciò che disturba il pensiero omologato.
La stessa mente che crede di stare solo nella luce è una mente unilaterale, parziale, malata; legata a un’idea, quindi scadente.
Dio sa che sono le incompletezze a lanciare l’Esodo, possono essere le insicurezze a non farci sbattere contro i modelli… i quali ci fanno perdere ciò che siamo.
Le energie che investono la realtà creata hanno infatti una radice potenziale del tutto positiva.
I tramonti preparano altri percorsi, le ambivalenze danno il “la” a recuperi e crescite impossibili.
«Luce» era nel giudaismo il termine che designava il cammino retto dell'umanità secondo Legge, senza eccentricità né declino.
Ma con Gesù non è più la Torah che fa da guida, bensì la vita stessa [Gv 1,4: «La Vita era la Luce degli uomini»] che si caratterizza per la sua difforme complessità.
Così, anche il «mondo» - ossia (in Gv) anzitutto il complesso dell’istituzione (tanto pia e devota) ormai installata e corrotta: essa deve tornare a una Guida più sapiente, che rischiari l’esistenza reale.
L’appello che la Scrittura ci rivolge è molto pratico e concreto.
Ma nei contesti dotati di una forte struttura di mediazione fra Dio e l’uomo, la spiritualità spesso inclina al legalismo degli adempimenti consueti.
Gesù non è per le grandi parate, né per soluzioni che ammantino la vita della gente di misticismo, fughe, riti o astinenze.
Tutto questo è stato forse anche il tessuto di buona parte della spiritualità medievale - e quella assidua, rituale e beghina dei tempi andati.
Ma nella Bibbia i servitori di Dio non hanno l’aureola. Sono donne e uomini inseriti normalmente nella società, persone che conoscono i problemi del quotidiano: il lavoro, la famiglia, l’educazione dei figli...
I professionisti del sacro invece cercano di mettere un bel vestitino a cose assai poco nobili - talora a menti astute e cuori perversi. Coltivati dietro il magnificente perbenismo dei paraventi e degli incensi.
Per fare ciò, Gesù capisce di dover cacciare fuori sia mercanti che clienti (Gv 2,13-25) e soppiantare i bagliori fatui del grande Santuario.
Durante la festa delle Capanne, nei cortili del Tempio di Gerusalemme si accendevano enormi lampioni.
Uno dei riti principali consisteva nell’allestire una mirabile processione notturna con le faci accese - e nel far rifulgere le grandi lampade (esse sopravanzavano le mura e illuminavano tutta Gerusalemme).
Era il contesto adeguato per proclamare la Persona stessa del Cristo quale autentica Parola sacra e umanizzante, luogo dell’incontro con Dio e fiaccola della vita. Nulla di esterno e retorico-tutto-apparenza.
Ma in quel “mondo santo” segnato dall’intreccio fra epopea, religione, potere e interesse, il Maestro si staglia - con evidenza contraria - proprio nel luogo del Tesoro (baricentro reale del Tempio, v.20) come vero e unico Punto estremo che squarcia le tenebre.
Il Signore invita a fare nostro il suo stesso cammino acutamente missionario: dal sacrario di pietra al cuore di carne, gratuito come quello del Padre.
Appello limpido e Domanda intima che mai si spegne: la sentiamo ardere viva senza consumarsi.
Non c’è da temere: l’Inviato non è solo. Non testimonia se stesso, né le proprie manie o squilibri utopici: la sua Chiamata per Nome si fa Presenza divina - Origine, Cammino, “Ritorno” autentico.
Sembriamo dei pellegrini ed esiliati che non sanno stare al “mondo”? Ma ciascuno di noi è (nella Fede) come Lui-e-il-Padre: Maggioranza schiacciante.
Per Fede, nella Luce autentica: Aurora, Sostegno, Amicizia e balzo inequivocabile, invincibile, che squarcia le caligini.
Sprizza dal nucleo, assumendo le stesse ombre e rinascendo; portando i nostri lati oscuri accanto alle radici.
Luogo intimo e tempo (fuori di ogni età) da cui scatta la Chiesa in uscita: eccola dai monili e dalle sagrestie, alle periferie... Scintilla di bellezzza e umanesimo, o senza futuro
E dalla società sacrale dell’esterno, alla Perla nascosta che genuinamente connette il presente col “senza tempo” del Gratis - anche se qua e là mette in crisi tanta teologia dal significato precettistico, avido e furbetto, non plurale né trasparente.
In fondo, tutto semplice: il benessere pieno e l’integrità dell’uomo sono più importanti del “bene” unilaterale della dottrina e dell’istituzione - che la propugna senza neanche crederci.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In quali situazioni mi considero “Testimone”?
Cosa è fiaccola ai miei passi? Chi è la mia Luce Presente?
In tutte le chiese, nelle cattedrali e nei conventi, dovunque si radunano i fedeli per la celebrazione della Veglia pasquale, la più santa di tutte le notti è inaugurata con l’accensione del cero pasquale, la cui luce viene poi trasmessa a tutti i presenti. Una minuscola fiamma irradia in tanti luci ed illumina la casa di Dio al buio. In tale meraviglioso rito liturgico, che abbiamo imitato in questa veglia di preghiera, si svela a noi, attraverso segni più eloquenti delle parole, il mistero della nostra fede cristiana. Lui, Cristo, che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12), fa brillare la nostra vita, perché sia vero ciò che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Non sono i nostri sforzi umani o il progresso tecnico del nostro tempo a portare luce in questo mondo. Sempre di nuovo facciamo l’esperienza che il nostro impegno per un ordine migliore e più giusto incontra i suoi limiti. La sofferenza degli innocenti e, infine, la morte di ogni uomo costituiscono un buio impenetrabile che può forse essere rischiarato per un momento da nuove esperienze, come da un fulmine nella notte. Alla fine, però, rimane un’oscurità angosciante.
Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo, che è risorto dai morti, brilla in questo mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte – Egli vive – e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Chi crede in Gesù, certamente non vede sempre soltanto il sole nella vita, quasi che gli possano essere risparmiate sofferenze e difficoltà, ma c’è sempre una luce chiara che gli indica una via, la via che conduce alla vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiarore di un nuovo giorno.
La luce non rimane sola. Tutt’intorno si accendono altre luci. Sotto i loro raggi si delineano i contorni dell’ambiente così che ci si può orientare. Non viviamo da soli nel mondo. Proprio nelle cose importanti della vita abbiamo bisogno di altre persone. Così, in modo particolare, nella fede non siamo soli, siamo anelli della grande catena dei credenti. Nessuno arriva a credere se non è sostenuto dalla fede degli altri e, d’altra parte, con la mia fede contribuisco a confermare gli altri nella loro fede. Ci aiutiamo a vicenda ad essere esempi gli uni per gli altri, condividiamo con gli altri ciò che è nostro, i nostri pensieri, le nostre azioni, il nostro affetto. E ci aiutiamo a vicenda ad orientarci, ad individuare il nostro posto nella società.
Cari amici, “Io sono la luce del mondo – Voi siete la luce del mondo”, dice il Signore. È una cosa misteriosa e grandiosa che Gesù dica di se stesso e di tutti noi insieme la medesima cosa, e cioè di “essere luce”. Se crediamo che Egli è il Figlio di Dio che ha guarito i malati e risuscitato i morti, anzi, che Egli stesso è risorto dal sepolcro e vive veramente, allora capiamo che Egli è la luce, la fonte di tutte le luci di questo mondo. Noi invece sperimentiamo sempre di nuovo il fallimento dei nostri sforzi e l’errore personale nonostante le nostre buone intenzioni. Il mondo in cui viviamo, nonostante il progresso tecnico, in ultima analisi, a quanto pare, non diventa più buono. Esistono tuttora guerre, terrore, fame e malattia, povertà estrema e repressione senza pietà. E anche quelli che nella storia si sono ritenuti “portatori di luce”, senza però essere stati illuminati da Cristo, l’unica vera luce, non hanno creato alcun paradiso terrestre, bensì hanno instaurato dittature e sistemi totalitari, in cui anche la più piccola scintilla di umanesimo è stata soffocata.
A questo punto non dobbiamo tacere il fatto che il male esiste. Lo vediamo, in tanti luoghi di questo mondo; ma lo vediamo anche – e questo ci spaventa – nella nostra stessa vita. Sì, nel nostro stesso cuore esistono l’inclinazione al male, l’egoismo, l’invidia, l’aggressività. Con una certa autodisciplina ciò forse è, in qualche misura, controllabile. E’ più difficile, invece, con forme di male piuttosto nascosto, che possono avvolgerci come una nebbia indistinta, e sono la pigrizia, la lentezza nel volere e nel fare il bene. Ripetutamente nella storia, persone attente hanno fatto notare che il danno per la Chiesa non viene dai suoi avversari, ma dai cristiani tiepidi. “Voi siete la luce del mondo“: solo Cristo può dire “Io sono la luce del mondo”. Tutti noi siamo luce solamente se stiamo in questo “voi”, che a partire dal Signore diventa sempre di nuovo luce. E come il Signore afferma circa il sale, in segno di ammonimento, che esso potrebbe diventare insipido, così anche nelle parole sulla luce ha inserito un lieve ammonimento. Anziché mettere la luce sul lampadario, si può coprirla con un moggio. Chiediamoci: quante volte copriamo la luce di Dio con la nostra inerzia, con la nostra ostinazione, così che essa non può risplendere, attraverso di noi, nel mondo?
Cari amici, l’apostolo san Paolo, in molte delle sue lettere, non teme di chiamare “santi” i suoi contemporanei, i membri delle comunità locali. Qui si rende evidente che ogni battezzato – ancor prima di poter compiere opere buone – è santificato da Dio. Nel Battesimo, il Signore accende, per così dire, una luce nella nostra vita, una luce che il catechismo chiama la grazia santificante. Chi conserva tale luce, chi vive nella grazia è santo.
Cari amici, ripetutamente l’immagine dei santi è stata sottoposta a caricatura e presentata in modo distorto, come se essere santi significasse essere fuori dalla realtà, ingenui e senza gioia. Non di rado si pensa che un santo sia soltanto colui che compie azioni ascetiche e morali di altissimo livello e che perciò certamente si può venerare, ma mai imitare nella propria vita. Quanto è errata e scoraggiante questa opinione! Non esiste alcun santo, fuorché la beata Vergine Maria, che non abbia conosciuto anche il peccato e che non sia mai caduto. Cari amici, Cristo non si interessa tanto a quante volte nella vita vacilliamo e cadiamo, bensì a quante volte noi, con il suo aiuto, ci rialziamo. Non esige azioni straordinarie, ma vuole che la sua luce splenda in voi. Non vi chiama perché siete buoni e perfetti, ma perché Egli è buono e vuole rendervi suoi amici. Sì, voi siete la luce del mondo, perché Gesù è la vostra luce. Voi siete cristiani – non perché realizzate cose particolari e straordinarie – bensì perché Egli, Cristo, è la vostra, nostra vita. Voi siete santi, noi siamo santi, se lasciamo operare la sua Grazia in noi.
Cari amici, questa sera, in cui ci raduniamo in preghiera attorno all’unico Signore, intuiamo la verità della parola di Cristo secondo la quale non può restare nascosta una città collocata sopra un monte. Questa assemblea brilla nei vari significati della parola – nel chiarore di innumerevoli lumi, nello splendore di tanti giovani che credono in Cristo. Una candela può dar luce soltanto se si lascia consumare dalla fiamma. Essa resterebbe inutile se la sua cera non nutrisse il fuoco. Permettete che Cristo arda in voi, anche se questo può a volte significare sacrificio e rinuncia. Non temete di poter perdere qualcosa e restare, per così dire, alla fine a mani vuote. Abbiate il coraggio di impegnare i vostri talenti e le vostre doti per il Regno di Dio e di donare voi stessi – come la cera della candela – affinché per vostro mezzo il Signore illumini il buio. Sappiate osare di essere santi ardenti, nei cui occhi e cuori brilla l’amore di Cristo e che, in questo modo, portano luce al mondo. Io confido che voi e tanti altri giovani qui in Germania siate fiaccole di speranza, che non restano nascoste. “Voi siete la luce del mondo”. “Dove c’è Dio, là c’è futuro!” Amen.
[Papa Benedetto, Veglia a Friburgo 24 settembre 2011]
L'attesa, che l'umanità va coltivando tra tante ingiustizie e sofferenze, è quella di una nuova civiltà all'insegna della libertà e della pace. Ma per una simile impresa si richiede una nuova generazione di costruttori che, mossi non dalla paura o dalla violenza ma dall'urgenza di un autentico amore, sappiano porre pietra su pietra per edificare, nella città dell'uomo, la città di Dio.
Lasciate, cari giovani, che vi confidi la mia speranza: questi "costruttori" dovete essere voi! Voi siete gli uomini e le donne di domani; nei vostri cuori e nelle vostre mani è racchiuso il futuro. A voi Dio affida il compito, difficile ma esaltante, di collaborare con Lui nell'edificazione della civiltà dell'amore.
Abbiamo ascoltato dalla lettera di Giovanni - l'apostolo più giovane e forse per questo più amato dal Signore - che "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre" (1 Gv 1, 5). Dio, però, nessuno l'ha mai visto, osserva san Giovanni. E' Gesù, il Figlio unigenito del Padre, che ce l'ha rivelato (cfr Gv 1, 18). Ma se Gesù ha rivelato Dio, ha rivelato la luce. Con Cristo, infatti, è venuta nel mondo "la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (Gv 1, 9).
Cari giovani, lasciatevi conquistare dalla luce di Cristo e fatevene propagatori nell'ambiente in cui vivete. "La luce dello sguardo di Gesù - è scritto nel Catechismo della Chiesa Cattolica - illumina gli occhi del nostro cuore; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini" (n. 2715).
Nella misura in cui la vostra amicizia con Cristo, la vostra conoscenza del suo mistero, la vostra donazione a Lui saranno autentiche e profonde, voi sarete "figli della luce", e diventerete a vostra volta "luce del mondo". Perciò io vi ripeto la parola del Vangelo: "Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli" (Mt 5,16).
[Papa Giovanni Paolo II, Veglia a Downsview GMG Toronto 27 luglio 2002]
Questo passo del Vangelo di Giovanni (cfr 12,44-50) ci fa vedere l’intimità che c’era tra Gesù e il Padre. Gesù faceva quello che il Padre gli diceva di fare. E per questo dice: «Chi crede in me non crede in me, ma in Colui che mi ha mandato» (v. 44). Poi precisa la sua missione: «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (v. 46). Si presenta come luce. La missione di Gesù è illuminare: la luce. Lui stesso ha detto: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12). Il profeta Isaia aveva profetizzato questa luce: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (9, 1). La promessa della luce che illuminerà il popolo. E anche la missione degli apostoli è portare la luce. Paolo lo disse al re Agrippa: “Sono stato eletto per illuminare, per portare questa luce – che non è mia, è di un altro – ma per portare la luce” (cfr At 26,18). È la missione di Gesù: portare la luce. E la missione degli apostoli è portare la luce di Gesù. Illuminare. Perché il mondo era nelle tenebre.
Ma il dramma della luce di Gesù è che è stata respinta. Già all’inizio del Vangelo, Giovanni lo dice chiaramente: “È venuto dai suoi e i suoi non lo accolsero. Amavano più le tenebre che la luce” (cfr Gv 1,9-11). Abituarsi alle tenebre, vivere nelle tenebre: non sanno accettare la luce, non possono; sono schiavi delle tenebre. E questa sarà la lotta di Gesù, continua: illuminare, portare la luce che fa vedere le cose come stanno, come sono; fa vedere la libertà, fa vedere la verità, fa vedere il cammino su cui andare, con la luce di Gesù.
Paolo ha avuto questa esperienza del passaggio dalle tenebre alla luce, quando il Signore lo incontrò sulla strada di Damasco. È rimasto accecato. Cieco. La luce del Signore lo accecò. E poi, passati alcuni giorni, con il battesimo, riebbe la luce (cfr At 9,1-19). Lui ha avuto questa esperienza del passaggio dalle tenebre, nelle quali era, alla luce. È anche il nostro passaggio, che sacramentalmente abbiamo ricevuto nel Battesimo: per questo il Battesimo si chiamava, nei primi secoli, la Illuminazione (cfr San Giustino, Apologia I, 61, 12), perché ti dava la luce, ti “faceva entrare”. Per questo nella cerimonia del Battesimo diamo un cero acceso, una candela accesa al papà e alla mamma, perché il bambino, la bambina è illuminato, è illuminata.
Gesù porta la luce. Ma il popolo, la gente, il suo popolo l’ha respinto. È tanto abituato alle tenebre che la luce lo abbaglia, non sa andare… (cfr Gv 1,10-11). E questo è il dramma del nostro peccato: il peccato ci acceca e non possiamo tollerare la luce. Abbiamo gli occhi ammalati. E Gesù lo dice chiaramente, nel Vangelo di Matteo: “Se il tuo occhio è ammalato, tutto il tuo corpo sarà ammalato. Se il tuo occhio vede soltanto le tenebre, quante tenebre ci saranno dentro di te?” (cfr Mt 6,22-23). Le tenebre… E la conversione è passare dalle tenebre alla luce.
Ma quali sono le cose che ammalano gli occhi, gli occhi della fede? I nostri occhi sono malati: quali sono le cose che “li tirano giù”, che li accecano? I vizi, lo spirito mondano, la superbia. I vizi che “ti tirano giù” e anche, queste tre cose – i vizi, la superbia, lo spirito mondano – ti portano a fare società con gli altri per rimanere sicuri nelle tenebre. Noi parliamo spesso delle mafie: è questo. Ma ci sono delle “mafie spirituali”, ci sono delle “mafie domestiche”, sempre, cercare qualcun altro per coprirsi e rimanere nelle tenebre. Non è facile vivere nella luce. La luce ci fa vedere tante cose brutte dentro di noi che noi non vogliamo vedere: i vizi, i peccati… Pensiamo ai nostri vizi, pensiamo alla nostra superbia, pensiamo al nostro spirito mondano: queste cose ci accecano, ci allontanano dalla luce di Gesù.
Ma se noi iniziamo a pensare queste cose, non troveremo un muro, no, troveremo un’uscita, perché Gesù stesso dice che Lui è la luce, e anche: “Sono venuto al mondo non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (cfr Gv 12,46-47). Gesù stesso, la luce, dice: “Abbi coraggio: lasciati illuminare, lasciati vedere per quello che hai dentro, perché sono io a portarti avanti, a salvarti. Io non ti condanno. Io ti salvo” (cfr v. 47). Il Signore ci salva dalle tenebre che noi abbiamo dentro, dalle tenebre della vita quotidiana, della vita sociale, della vita politica, della vita nazionale, internazionale… Tante tenebre ci sono, dentro. E il Signore ci salva. Ma ci chiede di vederle, prima; avere il coraggio di vedere le nostre tenebre perché la luce del Signore entri e ci salvi.
Non abbiamo paura del Signore: è molto buono, è mite, è vicino a noi. È venuto per salvarci. Non abbiamo paura della luce di Gesù.
[Papa Francesco, omelia s. Marta 6 maggio 2020]
(Gv 8,1-11)
Ogni giorno al levar del sole le persone dal Monte degli Ulivi contemplando il tempio recitavano lo Shemà, e così faceva Gesù.
Come molti, trascorreva le notti in una grotta, all'aperto (Lc 21,37-38; Gv 8,1-2), quindi si recava nel portico di Salomone a insegnare.
Inizia un nuovo Giorno. Il confronto con la peccatrice che ci rappresenta, attiva una nuova Aurora.
L’adultero e l’adultera dovevano essere messi a morte (Dt 22,22-24): come mai il maschio la scampa?
In molti passi biblici, la “donna” è parabola collettiva - qui evocata per una catechesi nei confronti dei pubblici ministeri tradizionalisti che si facevano avanti anche nelle prime comunità.
[Non ci dormono la notte, pur di spiare gli altri e accusarli dei propri peccati]. Ma c’è un nuovo ‘albore’ (v.2) sul volto di Dio.
In tutta la scena il vero imputato è Gesù e la sua idea di Giustizia, anormale. Egli non consente alla Buoncostume d’isolare le persone.
Chi sbaglia o è malfermo non è segnato a vita.
Tutti siamo piegati da pesi e ci reggiamo a stento. Pertanto l’azione divina smaschera i parrucconi fanatici, per nulla innocenti.
L’atteggiamento conciliante e riflessivo ritorce le accuse proprio sui veterani della postilla, i quali lasciano che le pietre cadano di mano solo se smascherati.
Però è un brano di teologia, non di cronaca rosa.
Nei vecchi dirigenti che amano allestire processi anche interni, talora non c’è probità: meglio che nella Casa di Dio evitino di fare i giudici e gli accusatori, e se ne tornino a casa loro.
Incredibile poi che Gesù non si accerti che la persona sia pentita, prima di perdonarla! In questo il Figlio di Dio viola la Legge, la Tradizione, il modo comune di pensare e fare catechismo!
La sua frase più incriminata è una bomba, che ha creato imbarazzo per secoli: «Smetti di farti del male, ma Io non ti condanno!» [senso del v.11].
Il Dio ‘vivo’ e vero procede senza inchieste e tare penitenziali, solo rimette in piedi.
Quindi non vuol avere nulla in comune con gli ineccepibili che astutamente si fanno scudo di leggi antichissime per dare fastidio (e proiettare sugli altri i propri stessi difetti, onde esorcizzarli).
Ecco perché il Dito poggiato sulle ‘lastre di pietra’ della spianata del Tempio di Gerusalemme!
Un’accusa palese ai censori ancora avvezzi al Decalogo dei No […], rimasti all’età del Sinai: supponenti e mortiferi, privi del ‘cuore’ di carne e dello Spirito - cadaveri tarati a temperatura ambiente.
In tutta la scena, Gesù - figura della nuova Giustizia del Padre - resta accovacciato a terra [cf. testo greco], insidiato da chi gli sta sopra per prenderlo in castagna o in ostaggio.
Egli rimane sottoposto persino all’adultera ridotta al silenzio, perché la domanda di misericordia è autentica anche quando resta solo implicita.
E in ogni caso Cristo si rapporta con ciascuno di noi senza incombere. Guardandoci tutti dal basso!
Ecco la differenza tra approccio di Fede e valutazioni della religiosità banale. Il balzo qualitativo fra Dito sulle lastre e Sguardo sulle persone.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In quali situazioni hai considerato: “Giustizia è fatta”?
In quali occasioni hai fatto esperienza del Giudizio divino come comprensione e grazia?
[5.a Domenica di Quaresima (anno C), 6 aprile 2025]
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
St Teresa of Avila wrote: «the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ» (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7). Therefore, only by believing in Christ, by remaining united to him, may the disciples, among whom we too are, continue their permanent action in history [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia [Papa Benedetto]
Just as he did during his earthly existence, so today the risen Jesus walks along the streets of our life and sees us immersed in our activities, with all our desires and our needs. In the midst of our everyday circumstances he continues to speak to us; he calls us to live our life with him, for only he is capable of satisfying our thirst for hope (Pope Benedict)
Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza (Papa Benedetto)
Truth involves our whole life. In the Bible, it carries with it the sense of support, solidity, and trust, as implied by the root 'aman, the source of our liturgical expression Amen. Truth is something you can lean on, so as not to fall. In this relational sense, the only truly reliable and trustworthy One – the One on whom we can count – is the living God. Hence, Jesus can say: "I am the truth" (Jn 14:6). We discover and rediscover the truth when we experience it within ourselves in the loyalty and trustworthiness of the One who loves us. This alone can liberate us: "The truth will set you free" (Jn 8:32) [Pope Francis]
La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé [Papa Francesco]
don Giuseppe Nespeca
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