Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Gv 5,17-30)
Il centro della speranza giudaica era il ritorno ai tempi antichi, che però si trasferiva in un futuro indeterminato [“ultimo giorno”].
Secondo il Maestro, la vita da salvati inizia ora, e dall’ascolto della sua specifica Parola-Persona (v.24) che soppianta ogni codice.
Egli si attribuisce una caratura (anche giuridica) totale. Essa sostituisce l’ambito un tempo creduto appannaggio del solo Dio: «Ha dato ogni giudizio al Figlio» (v.22).
Di fronte al risuonare del Logos presente e al Sogno incisivo e vivificante del Padre che si fa attuale, la morte perde qualsiasi efficacia distruttrice.
L’aspetto di realtà umana e operante prevale su ciò che alle religioni sembrava fosse riservato al solo Dio del Cielo, e proiettato in un futuro perfetto.
Il Memoriale è adesso. Per rifare il trionfo - attraverso il Golgotha, qui.
Impossibile confondere la portata della vita incessante con le osservanze.
Difficile chiamare Dio col termine Padre [Abba, papà] se Egli ci trasmettesse voglia di essere e fare, solo con distacco.
La guarigione del paralitico (vv.1-16) ha infatti tratti esistenziali che trascorrono in carattere divino; essa non è paragonabile ai risultati dell’attività di un medico, bensì all’opera dello Spirito in noi.
È finito il tempo della diminuzione dell’uomo davanti all’Altissimo: il suo disegno non è per l’angustia, bensì per la crescita - che autenticamente manifesta il Giudizio dell’Eterno.
Giudizio non di custodia dell’ordine, ma d’amore e rigenerazione: impronta umana nel trasmetterci la condizione divina (v.18) in pienezza di essere e libertà, nell’intima esperienza del suo Cuore.
Gesù esprime l’immanenza col Padre dilatandone l’opera creatrice, che non è affatto terminata: continua a vivificarci.
Dio sostiene l’universo e il nostro essere, quindi è sempre attivo. Qui e ora; non all’altra riva del tempo - quindi non c’inclina al quieto sopore della coscienza.
Il Padre opera sempre, il Figlio - sua impronta prima e incessante - ne imita la qualità d’azione in continuità.
È Patto concreto per il popolo: il suo Consiglio tutto da recepire viene realmente a noi.
A tale scopo non teme di trasgredire un precetto approssimativo e angusto, idolo della sacrale, pur devotissima, tradizione antica.
Del resto, anche nel riposo del sabato il Creatore benedice e consacra (Gn 2,3).
Tutta la storia molteplice è in una sorta di principio d’unità: tempo d’intervento per la salvezza e relazione col Mistero.
Ovunque procediamo, chi riflette Dio non stordisce di pregiudizi sulla realtà umana: è invece già lì e rimane a oltranza.
Figli nel «Figlio dell’uomo» (v.27) - per dialogare, aprire, sorreggere, dare ristoro, rendere intensa e delicata ogni situazione.
Onorare l’Altissimo è onorare l'umanità bisognosa di tutto, in qualsiasi momento.
Solo questo lo ‘manifesta’, anche nelle ‘infrazioni’ - terra ricca di nuove sorgenti che accorciano le distanze.
Questa l’Opera reciproca e singolare di Dio (Gv 6,29): amare, non «opere» (v.28) grevi di legge e da nomenclatura.
[Mercoledì 4.a sett. Quaresima, 2 aprile 2025]
(Gv 5,17-30)
Il centro della speranza giudaica era il ritorno ai tempi antichi, che però si trasferiva in un futuro indeterminato [“ultimo giorno”].
Secondo il Maestro, la vita da salvati inizia ora, e dall’ascolto della sua specifica Parola-Persona (v.24) che soppianta ogni codice.
Egli si attribuisce una caratura (anche giuridica) totale. Essa sostituisce l’ambito un tempo creduto appannaggio del solo Dio: «Ha dato ogni giudizio al Figlio» (v.22).
Di fronte al risuonare del Logos presente e al Sogno efficace e vivificante del Padre che si fa attuale, la morte perde qualsiasi efficacia distruttrice.
L’aspetto di realtà umana e operante prevale su ciò che alle religioni sembrava fosse riservato al solo Dio del Cielo, e proiettato in un futuro perfetto.
Il Memoriale è adesso. Per rifare il trionfo - attraverso il Golgotha, qui.
Dice il Tao Tê Ching (xxi): «Dai tempi antichi sino a oggi, il suo Nome non passa, e così acconsente a tutti gli inizi. Da che conosco il modo di tutti gli inizi? Da questo».
Gesù esprime l’intima immanenza col Padre dilatandone l’opera creatrice, che non è affatto terminata: continua a vivificarci. Egli sostiene l’universo e il nostro essere, quindi è sempre attivo.
Impossibile confondere la portata della vita incessante con le osservanze.
Difficile chiamare Dio col termine Padre [Abba, papà] se Egli ci trasmettesse voglia di essere e fare, solo con distacco.
La guarigione del paralitico (vv.1-16) ha infatti tratti esistenziali che trascorrono in carattere divino; essa non è paragonabile ai risultati dell’attività di un medico, bensì all’opera dello Spirito in noi.
È finito il tempo della diminuzione dell’uomo davanti all’Altissimo: il suo disegno non è per l’angustia, bensì per la crescita - che autenticamente manifesta il Giudizio dell’Eterno.
Giudizio non di custodia dell’ordine, ma d’amore e rigenerazione: impronta umana nel trasmetterci la condizione divina [(v.18); cf. commento a Gv 10,31-42: Ti fai Dio, voi siete Dèi] in pienezza di essere e libertà, nell’intima esperienza del suo Cuore.
Qui e ora; non all’altra riva del tempo - quindi non c’inclina al quieto sopore della coscienza.
Indulgente sì, ma a motivo delle cadute nel rischio - di testimoniare almeno una sua briciola d’immagine dentro, senza minimo denominatore.
Nell’incontro con la Persona di Gesù ci accorgiamo della sua potenza di risuscitazione: priva di parzialità, consistente e oggettiva sia sul terreno della vita che della morte, della remissione, e del giudizio.
Incessantemente assimiliamo i suoi pensieri, impulsi, parole, azioni, vicende cariche: tutto diviene giovane esperienza di Dio che si rivela.
Il Padre opera sempre, il Figlio - sua impronta prima e incessante - ne imita la qualità d’azione in continuità.
È Patto concreto per il popolo: il suo Consiglio tutto da recepire viene realmente a noi.
A tale scopo non teme di trasgredire un precetto approssimativo e angusto, idolo della sacrale, pur devota, tradizione antica.
Del resto, anche nel riposo del sabato il Creatore benedice e consacra (Gn 2,3).
Padre e Figlio non sono custodi della tranquillitas ordinis, né inducono al sopore della coscienza.
Tutta la storia molteplice è in una sorta di principio d’unità: tempo d’intervento per la salvezza, e relazione col Mistero.
Ovunque procediamo, chi riflette Dio non stordisce di pregiudizi sulla realtà umana: è invece già lì e rimane a oltranza.
Figli nel «Figlio dell’uomo» (v.27) - per dialogare, aprire, sorreggere, dare ristoro, rendere intensa e delicata ogni situazione.
Onorare l’Altissimo è onorare l'umanità bisognosa di tutto, in qualsiasi momento.
Solo questo lo manifesta, anche nelle infrazioni - terra ricca di nuove sorgenti che accorciano le distanze.
Questa l’Opera reciproca e singolare di Dio (Gv 6,29): amare, non «opere» (v.28) grevi di legge e da nomenclatura.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come essere volto del Padre, creatore di vita, amico e fratello, che fa risorgere?
Come riconoscerlo Alleanza nuova e corrispondere? Cosa significa per te credere nella vittoria della vita sulla morte?
Ti fai Dio
(Gv 10,31-42)
In Gv il termine Giudei indica non il popolo, bensì le guide spirituali. Un Gesù blasfemo rivendica la mutua immanenza col Padre, e osa dilatare a noi i confini del Mistero che lo avvolge e riempie.
Ma la condizione divina che si manifesta nella sua pienezza umana viene rifiutata dai capi religiosi proprio in nome dell’adesione all’Eterno.
Le autorità rigettano il Figlio in nome dell’Altissimo e della fedeltà all’idea tradizionale, all’immagine irriducibile del Dio vincitore (da cui scaturisce un certo tipo di società competitiva, spietata anche nella vita spirituale).
Secondo Gesù il Padre non è rivelato da ragionamenti e argomentazioni cerebrali, bensì dalla qualità indistruttibile delle opere «belle» (vv.32-33).
Il termine greco sta a indicare il senso di pienezza e meraviglia - verità, bontà, fascino, stupore - che emana dall’unica azione richiesta in qualsiasi opera (di rilievo o minuta): l'amore che risuscita il bisognoso.
E la Scrittura riconosce in ciascuno di noi questa sacra scintilla, che dà a tutti gli accadimenti e alle emozioni il passo della Vertigine che supera le cose circostanti, o come “dovrebbero” essere fatte.
Certo, a nostro sostegno abbiamo bisogno d’un Volto, di una relazione e di una vicenda di stretta parentela per identificare ciò che ci muove, per scrutare dentro quel che appare o viene suscitato.
L’Unità di nature - Lui in noi e noi col Padre - ci corrisponde nel Volto del Cristo, e si rende manifesta nell’ascoltare, accogliere, non precipitarsi a condannare, ma rendere forte il debole.
La simbiosi con Dio nelle nostre attività, col nostro modo di proporre o reagire, durante tutta la nostra vita, dispiega in ciascun Figlio la sua Somiglianza, anche nelle circostanze difficili.
Ogni cosa che accade, anche le persecuzioni e i tentativi di omicidio per incomprensione o invidia spirituale, può essere guardata in un’altra ottica.
Sono eventi, accadimenti esterni che attivano energie complessive: si fanno cosmiche fuori e acutamente divine in noi.
Più che pericoli e fastidi, tracciano un destino di Esodo - come un fiume che trasporta, ma che in Cristo ci scampa dalle mani d’una stasi mortifera (v.39), e risintonizza mirabilmente sulle forze che guidano alle periferie - dove dobbiamo andare.
Da Figlio di Davide a Figlio dell’uomo
La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.
[Papa Benedetto, allocuzione al Concistoro 24 novembre 2012]
44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un'immagine di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità. Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore. Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo « I fratelli Karamazov ». I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. Vorrei a questo punto citare un testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con immagini mitologiche, che però rendono con evidenza inequivocabile la verità, egli dice che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice. Ora non conta più ciò che esse erano una volta nella storia, ma solo ciò che sono in verità. « Ora [il giudice] ha davanti a sé forse l'anima di un [...] re o dominatore e non vede niente di sano in essa. La trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da spergiuro ed ingiustizia [...] e tutto è storto, pieno di menzogna e superbia, e niente è dritto, perché essa è cresciuta senza verità. Ed egli vede come l'anima, a causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell'agire, è caricata di smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirà le punizioni meritate [...] A volte, però, egli vede davanti a sé un'anima diversa, una che ha fatto una vita pia e sincera [...], se ne compiace e la manda senz'altro alle isole dei beati ». Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora.
47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo. Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).
[Spe salvi]
1. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” (Ef 1, 3). Queste parole di Paolo ben ci introducono nella grande novità della conoscenza del Padre quale emerge dal Nuovo Testamento. Qui Dio appare nel suo volto trinitario. La sua paternità non si limita più ad indicare il rapporto con le creature, ma esprime la relazione fondamentale che caratterizza la sua vita intima; non è più un tratto generico di Dio, ma proprietà della prima Persona in Dio. Nel suo mistero trinitario, infatti, Dio è padre per essenza, padre da sempre, in quanto dall’eterno genera il Verbo a lui consustanziale e a lui unito nello Spirito Santo “che procede dal Padre e dal Figlio”. Con la sua incarnazione redentrice, il Verbo si fa solidale con noi proprio per introdurci a questa vita filiale che egli possiede dall’eternità. “A quanti l’hanno accolto - dice l’evangelista Giovanni - ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1, 12).
2. Alla base di questa specifica rivelazione del Padre c’è l’esperienza di Gesù. Dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti traspare che Egli sperimenta il rapporto col Padre in una maniera del tutto singolare. Nei Vangeli possiamo constatare come Gesù abbia differenziato “la sua filiazione da quella dei suoi discepoli non dicendo mai ‘Padre nostro’ tranne che per comandar loro: ‘Voi dunque pregate così: Padre nostro’ (Mt 6, 9); e ha sottolineato tale distinzione: ‘Padre mio e Padre vostro’ (Gv 20, 17)” (CCC, 443).
Fin da piccolo, a Maria e a Giuseppe che lo stavano cercando con angoscia, risponde: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2, 48s.). Ai Giudei che continuavano a perseguitarlo perché aveva operato di sabato una guarigione miracolosa, egli risponde: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (Gv 5, 17). Sulla croce invoca il Padre perché perdoni i suoi carnefici e accolga il suo spirito (23, 34.46). La distinzione tra il modo con cui Gesù percepisce la paternità di Dio nei suoi confronti e quella che riguarda tutti gli altri esseri umani, è radicata nella sua coscienza e viene da lui ribadita con le parole che rivolge a Maria di Magdala dopo la risurrezione: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20, 17).
3. Il rapporto di Gesù con il Padre è unico. Egli sa di essere esaudito sempre, sa che il Padre manifesta attraverso di Lui la sua gloria, anche quando gli uomini possono dubitarne ed hanno bisogno di esserne da Lui stesso convinti. Constatiamo tutto questo nell'episodio della risurrezione di Lazzaro: “Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: ‘Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato'” (Gv 11, 41s.). In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità, com'egli sottolinea nell'inno di giubilo: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27) (cfr CCC, 240). Da parte sua, il Padre manifesta questo rapporto singolare che il Figlio intrattiene con Lui chiamandolo il suo “prediletto”: così al battesimo nel Giordano (cfr Mc 1, 11) e nella Trasfigurazione (cfr Mc 9, 7). Gesù è anche adombrato come figlio in senso speciale nella parabola dei cattivi vignaioli che maltrattano prima i due servi e poi il “figlio prediletto” del padrone, inviati a riscuotere i frutti della vigna (cfr Mc 12, 1-11, spec. v. 6).
4. Il Vangelo di Marco ci ha conservato il termine aramaico “Abbà” (cfr Mc 14, 36), con cui Gesù, nell’ora dolorosa del Getsemani, ha invocato il Padre, pregandolo di allontanare da lui il calice della passione. Il Vangelo di Matteo ce ne ha riportato nello stesso episodio la traduzione “Padre mio” (cfr Mt 26, 39, cfr anche v. 42) mentre Luca ha semplicemente “Padre” (cfr Lc 22, 42). Il termine aramaico, che potremmo tradurre nelle lingue moderne con “papà”, “babbo caro”, esprime la tenerezza affettuosa di un figlio. Gesù lo usa in maniera originale per rivolgersi a Dio e per indicare, nella piena maturità della sua vita che sta per concludersi sulla croce, lo stretto rapporto che anche in quell’ora drammatica lo lega al Padre suo. “Abbà” indica la straordinaria vicinanza tra Gesù e Dio Padre, un’intimità senza precedenti nel contesto religioso biblico o extra-biblico. In forza della morte e risurrezione di Gesù, Figlio unico di questo Padre, anche noi, al dire di san Paolo, siamo elevati alla dignità di figli e possediamo lo Spirito Santo che ci spinge a gridare “Abbà, Padre!” (cfr Rm 8, 15; Gal 4, 6). Questa semplice espressione del linguaggio infantile, in uso quotidiano nell'ambiente di Gesù e presso tutti i popoli, ha assunto così un significato dottrinale di profonda rilevanza, per esprimere la singolare paternità divina nei riguardi di Gesù e dei suoi discepoli.
5. Nonostante si sentisse unito al Padre in modo così intimo, Gesù ha dichiarato di ignorare l'ora dell'avvento finale e decisivo del Regno: “Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24, 36). Questo aspetto ci mostra Gesù nella condizione di abbassamento propria dell'Incarnazione, che nasconde alla sua umanità il termine escatologico del mondo. In tal modo Gesù disillude i calcoli umani per invitarci alla vigilanza e alla fiducia nel provvido intervento del Padre. D’altra parte, nella prospettiva dei vangeli, l'intimità e l’assolutezza del suo essere “figlio” non vengono minimamente pregiudicate da questa non conoscenza. Al contrario, proprio l'essersi fatto tanto solidale con noi, lo rende decisivo per noi davanti al Padre: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 32s.).
Riconoscere Gesù davanti agli uomini è indispensabile per poter essere riconosciuti da lui davanti al Padre. In altri termini, la nostra relazione filiale con il Padre celeste dipende dalla nostra coraggiosa fedeltà verso Gesù, Figlio prediletto.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 3 marzo 1999]
Attraverso la celebrazione eucaristica lo Spirito Santo ci rende partecipi della vita divina che è capace di trasfigurare tutto il nostro essere mortale. E nel suo passaggio dalla morte alla vita, dal tempo all’eternità, il Signore Gesù trascina anche noi con Lui a fare Pasqua. Nella Messa si fa Pasqua. Noi, nella Messa, stiamo con Gesù, morto e risorto e Lui ci trascina avanti, alla vita eterna. Nella Messa ci uniamo a Lui. Anzi, Cristo vive in noi e noi viviamo in Lui. «Sono stato crocifisso con Cristo – dice San Paolo -, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19-20). Così pensava Paolo.
Il suo sangue, infatti, ci libera dalla morte e dalla paura della morte. Ci libera non solo dal dominio della morte fisica, ma dalla morte spirituale che è il male, il peccato, che ci prende ogni volta che cadiamo vittime del peccato nostro o altrui. E allora la nostra vita viene inquinata, perde bellezza, perde significato, sfiorisce.
Cristo invece ci ridà la vita; Cristo è la pienezza della vita, e quando ha affrontato la morte la annientata per sempre: «Risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita» (Preghiera eucaristica IV). La Pasqua di Cristo è la vittoria definitiva sulla morte, perché Lui ha trasformato la sua morte in supremo atto d’amore. Morì per amore! E nell’Eucaristia, Egli vuole comunicarci questo suo amore pasquale, vittorioso. Se lo riceviamo con fede, anche noi possiamo amare veramente Dio e il prossimo, possiamo amare come Lui ha amato noi, dando la vita.
Se l’amore di Cristo è in me, posso donarmi pienamente all’altro, nella certezza interiore che se anche l’altro dovesse ferirmi io non morirei; altrimenti dovrei difendermi. I martiri hanno dato la vita proprio per questa certezza della vittoria di Cristo sulla morte. Solo se sperimentiamo questo potere di Cristo, il potere del suo amore, siamo veramente liberi di donarci senza paura. Questo è la Messa: entrare in questa passione, morte, risurrezione, ascensione di Gesù; quando andiamo a Messa è come se andassimo al calvario, lo stesso. Ma pensate voi: se noi nel momento della Messa andiamo al calvario – pensiamo con immaginazione – e sappiamo che quell’uomo lì è Gesù. Ma, noi ci permetteremo di chiacchierare, di fare fotografie, di fare un po’ lo spettacolo? No! Perché è Gesù! Noi di sicuro staremmo nel silenzio, nel pianto e anche nella gioia di essere salvati. Quando noi entriamo in chiesa per celebrare la Messa pensiamo questo: entro nel calvario, dove Gesù dà la sua vita per me. E così sparisce lo spettacolo, spariscono le chiacchiere, i commenti e queste cose che ci allontano da questa cosa tanto bella che è la Messa, il trionfo di Gesù.
Penso che ora sia più chiaro come la Pasqua si renda presente e operante ogni volta che celebriamo la Messa, cioè il senso del memoriale. La partecipazione all’Eucaristia ci fa entrare nel mistero pasquale di Cristo, donandoci di passare con Lui dalla morte alla vita, cioè lì nel calvario. La Messa è rifare il calvario, non è uno spettacolo.
[Papa Francesco, Udienza Generale 22 novembre 2017]
(Gv 5,1-3.5-16)
Nella ‘devozione’ dei trofei competitivi, solo il più svelto guarisce, non il più bisognoso.
Gesù preferisce trasgredire la legge che allinearsi al mondo spietato che emargina i disgraziati.
Nei luoghi “santi” il culto dei sacrifici esigeva molta acqua [per gli animali da lavare, quindi sgozzare e macellare] in specie nelle grandi feste.
Ampie cisterne raccoglievano l’acqua piovana, e terme pubbliche agglomeravano i malati in attesa di aiuto o guarigione.
Le piscine al di fuori erano utilizzate per tergere gli agnelli prima del sacrificio al Tempio, e questo metodo di utilizzo conferiva all’acqua stessa un alone di santità risanatrice.
Molti malati accorrevano per bagnarsi nel «moto dell’acqua» [v.3: forse per una fonte intermittente].
Si narrava che un angelo agitasse le acque delle terme popolari e che il primo a entrarvi nell’unico momento che si rendevano irrequiete sarebbe guarito.
Simbolo di una religione che porge alle masse escluse speranze fasulle, le quali pure attraggono l’immaginario dei malfermi che non conoscono l’uomo-Dio del loro destino.
«Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse, perché Gesù si era allontanato, essendoci folla in quel luogo» (v.13).
Il Volto del Figlio è inconoscibile nella ressa attorno, che solo distrae e si accontenta delle forme abitudinarie, esageratamente solenni.
Condotte abbondanti purificavano il Tempio e trascuravano le persone.
L’acqua fluiva, ma non mondava nessuno - anzi, peggiorava la situazione.
Icona di una religiosità ricca e misera: vanesia, inutile, dannosa; che abbandona a se stessi coloro che è chiamata a sostenere.
Gli scribi insegnavano la legge agli studenti nel recinto sacro e i rabbini ricevevano i clienti sotto il portico di Salomone: in alto la Torah e i suoi commerci, in basso e fuori - vicino - il tradimento dei poveracci.
L’istituzione religiosa ufficiale teneva la folla a distanza di sicurezza, rivelando solo una ridicola e brutale caricatura del Volto amico, ospitale e compartecipe del Padre.
La turba dei bisognosi cui giungeva acqua magica solo a caso e a sorpresa è parabola dell’umanità indigente, drammaticamente sprovvista di tutto - persino d’un conforto spirituale autentico.
Gesù invece avvicina i bisognosi di sua iniziativa (vv.6.14) e si coinvolge - a rischio della vita - con chi è più solo, impacciato e goffo; impossibilitato persino a ricevere miracoli.
Siamo ‘inviati’ non a meritevoli e autosufficienti, ma proprio a coloro non in grado di usare i propri mezzi per farsi avanti.
Cristo stesso non opera al fine di farsi riconoscere e acclamare: «si era allontanato» (v.13). E neppure ha cura di noi, solo per attivare una conversione religiosa.
Egli guarisce avendo percepito il bisogno, non affinché il malato creda in Dio.
Lasciamo le persone libere di attraversare le loro stagioni, non stereotipi.
Entriamo nel vivo della Quaresima.
[Martedì 4.a sett. Quaresima, 1 aprile 2025]
(Gv 5,1-3.5-16)
«Egli, invece, compie su di lui diversi gesti: prima di tutto lo condusse in disparte lontano dalla folla. In questa occasione, come in altre, Gesù agisce sempre con discrezione. Non vuole fare colpo sulla gente, Lui non è alla ricerca della popolarità o del successo, ma desidera soltanto fare del bene alle persone. Con questo atteggiamento, Egli ci insegna che il bene va compiuto senza clamori, senza ostentazione, senza “far suonare la tromba”. Va compiuto in silenzio.
[…] La guarigione fu per lui un’«apertura» agli altri e al mondo.
Questo racconto del Vangelo sottolinea l’esigenza di una duplice guarigione. Innanzitutto la guarigione dalla malattia e dalla sofferenza fisica, per restituire la salute del corpo; anche se questa finalità non è completamente raggiungibile nell’orizzonte terreno, nonostante tanti sforzi della scienza e della medicina. Ma c’è una seconda guarigione, forse più difficile, ed è la guarigione dalla paura. La guarigione dalla paura che ci spinge ad emarginare l’ammalato, ad emarginare il sofferente, il disabile. E ci sono molti modi di emarginare, anche con una pseudo pietà o con la rimozione del problema; si resta sordi e muti di fronte ai dolori delle persone segnate da malattie, angosce e difficoltà. Troppe volte l’ammalato e il sofferente diventano un problema, mentre dovrebbero essere occasione per manifestare la sollecitudine e la solidarietà di una società nei confronti dei più deboli».
[Papa Francesco, Angelus 9 settembre 2018]
Gesù preferisce trasgredire la legge che allinearsi al mondo spietato e alla società inviolabile dell’esterno, che emargina i disgraziati.
Nella religione dei trofei competitivi, degli abbandoni reali e delle speranze false o banali, qualcuno a lotteria viene sanato, tutti gli altri no. Solo il più svelto guarisce, non il più bisognoso.
In ogni caso, la stragrande maggioranza rimane a guardare, paralizzata dalla solitudine - viceversa chi ne è affetto chiede vita, refrigerio; il canto gorgogliante di una storia autenticamente sacra.
In quel tempo, nei luoghi “santi” il culto dei sacrifici esigeva molta acqua [per gli animali da lavare, quindi sgozzare e macellare] in specie nelle grandi feste.
Ampie cisterne raccoglievano l’acqua piovana, e terme pubbliche (verso nord) agglomeravano i malati in attesa di aiuto o guarigione dallo stesso isolamento cui erano condannati - secondo norme di purità.
Le piscine al di fuori erano utilizzate per tergere gli agnelli prima del sacrificio al Tempio, e questo metodo di utilizzo conferiva all’acqua stessa un alone di santità risanatrice.
Molti malati accorrevano per bagnarsi nel «moto dell’acqua» (v.3).
Si narrava che un angelo agitasse le acque delle terme popolari [forse per una fonte intermittente] e che il primo a entrarvi nell’unico momento che si rendevano irrequiete sarebbe guarito.
Simbolo di una religione che porge ai malfermi speranze fasulle, le quali pure attraggono l’immaginario delle masse escluse, vessate da calamità - che non conoscono l’uomo-Dio del loro destino.
«Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse, perché Gesù si era allontanato, essendoci folla in quel luogo» (v.13).
Il Volto del Figlio è inconoscibile nella ressa attorno, malgrado la pletora di guide e devoti impeccabili - che solo distraggono, e si accontentano delle forme abitudinarie dell’organizzazione, esageratamente solenni.
Condotte abbondanti purificavano il Tempio e trascuravano le persone.
Icona di una religiosità ricca e misera: vanesia, inutile, dannosa; che abbandona a se stessi coloro che è chiamata a sostenere.
Gli scribi insegnavano la legge agli studenti nel recinto sacro e i rabbini ricevevano i clienti sotto il portico di Salomone, sulla spianata del Tempio, verso est.
In alto la Torah e i suoi commerci; in basso e fuori - lì vicino - il tradimento dei poveracci.
L’acqua fluiva nel Tempio, ma non mondava nessuno - anzi, peggiorava la situazione.
Ciò perdurava da tutta un’era - una «generazione» (v.5). Simbologia dei 38 anni (Dt 2,14) che appunto mancava di mentalità accogliente.
L’istituzione religiosa ufficiale teneva la folla a distanza di sicurezza, rivelando solo una ridicola e brutale caricatura del Volto amico, ospitale e compartecipe del Padre.
La turba dei bisognosi cui giungeva acqua magica solo a caso e a sorpresa è appunto parabola dell’umanità indigente, drammaticamente sprovvista di tutto - persino d’un conforto spirituale autentico.
Gesù invece avvicina i bisognosi di sua iniziativa (vv.6.14) e si coinvolge - a rischio della vita - con chi è più solo, impacciato e goffo.
Lui in noi: volti accoglienti e presenza attiva del Padre, d’istinto accostati non alla gente che conta, ma al trascurato, agli infermi - impossibilitati persino a ricevere miracoli.
Siamo inviati non a meritevoli e autosufficienti, ma proprio a coloro non in grado di usare i propri mezzi per farsi avanti.
Quelli che traballano - e su ciò non c’è bisogno d’imprimatur: tale norma è di diritto divino.
Alcuna gioia da parte delle autorità... solo inchieste.
Non importa: nessun timore reverenziale. Dio non è desideroso di farsi obbedire; piuttosto, di realizzarci.
Cristo stesso non opera al fine di farsi riconoscere e acclamare [«si era allontanato»]. E neppure ha cura di noi, solo per attivare una conversione religiosa.
Egli guarisce avendo percepito il bisogno, non affinché il malato creda in Dio.
Dice il Tao Tê Ching [x]: «Fa’ vivere le creature e nutrile, falle vivere e non tenerle come tue». «Parlar molto e scrutar razionalmente val meno che mantenersi vuoto» (v).
Lasciamo le persone libere di attraversare le loro stagioni, non stereotipi.
Solo, aiutiamo ad aprire porte più genuine e commisurate al cammino personale, anche inopinato o scontrollato.
Siamo interpellati e mandati ad accompagnare ciascuno nell’inaudito, tutto originale - guidando non a una sacralità già redatta, bensì alla plasticità di consapevolezze sane.
Entriamo nel vivo della Quaresima.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come mai vivi nella comunità cristiana e questo Vangelo ti sorprende?
Sei rimasto molto tempo senza aiuto? L’Eucaristia ti fa diventare “qualcuno per tutti” e che si spende, o ti ripiega nelle devozioni vanesie?
Specialisti nel chiudere. Psicologia di dottori della legge
La quaresima è tempo propizio per chiedere al Signore, «per ognuno di noi e per tutta la Chiesa», la «conversione alla misericordia di Gesù». Troppe volte, infatti, i cristiani «sono specialisti nel chiudere le porte alle persone» che, fiaccate dalla vita e dai loro errori, sarebbero invece disposte a ricominciare, «persone alle quali lo Spirito Santo muove il cuore per andare avanti».
La legge dell’amore è al centro della riflessione che Papa Francesco ha svolto, nella messa di martedì 17 marzo a Santa Marta, a partire dalla liturgia del giorno. Un parola di Dio che parte da un’immagine: «l’acqua che risana». Nella prima lettura il profeta Ezechiele (47, 1-9.12) parla infatti dell’acqua che scaturisce dal tempio, «un’acqua benedetta, l’acqua di Dio, abbondante come la grazia di Dio: abbondante sempre». Il Signore, infatti, ha spiegato il Papa, è generoso «nel dare il suo amore, nel risanare le nostre piaghe».
L’acqua torna nel vangelo di Giovanni (5, 1-16) dove si narra di una piscina — «in ebraico si chiamava betzaetà» — caratterizzata da «cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi: ciechi, zoppi e paralitici». In quel luogo, infatti, «c’era una tradizione» secondo la quale «di volta in volta, scendeva dal cielo un angelo» a muovere le acque, e gli infermi «che si buttavano lì» in quel momento «venivano risanati».
Perciò, ha spiegato il Pontefice, «c’era tanta gente». E perciò si trovava lì anche «un uomo che da trentotto anni era malato». Era lì che aspettava, e a lui Gesù domandò: «Vuoi guarire?». Il malato rispose: «Ma, Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita, quando viene l’angelo. Mentre, infatti, sto per andarvi, un altro scende prima di me». A Gesù, cioè, si presenta «un uomo sconfitto» che «aveva perso la speranza». Ammalato, ma — ha sottolineato Francesco — «non solo paralitico»: era infatti ammalato di un’«altra malattia tanto cattiva», l’accidia.
«È l’accidia che lo rendeva triste, pigro» ha notato. Un’altra persona avrebbe infatti «cercato la strada per arrivare in tempo, come quel cieco a Gerico che gridava, gridava, e volevano farlo tacere e gridava di più: ha trovato la strada». Ma lui, prostrato dalla malattia da trentotto anni, «non aveva voglia di guarirsi», non aveva «forza». Allo stesso tempo, aveva «amarezza nell’anima: “Ma l’altro arriva prima di me e io sono lasciato da parte”». E aveva «anche un po’ di risentimento». Era «davvero un’anima triste, sconfitta, sconfitta dalla vita».
«Gesù ha misericordia» di quest’uomo e lo invita: «Alzati! Alzati, finiamo questa storia; prendi la tua barella e cammina». Francesco ha quindi descritto la scena seguente: «All’istante quell’uomo guarì e prese la sua barella e incominciò a camminare, ma era tanto ammalato che non riusciva a credere e forse camminava un po’ dubitante con la sua barella sulle spalle». A questo punto entrano in gioco altri personaggi: «Era sabato e cosa trova quell’uomo? I dottori della legge», i quali gli chiedono: «Ma perché porti questo? Non si può, oggi è sabato». È l’uomo a rispondere: «Ma tu sai, sono stato guarito!». E aggiunge: «E quello che mi ha guarito, mi ha detto: “porta la tua barella”».
Accade quindi un fatto strano: «questa gente invece di rallegrarsi, di dire: “Ma che bello! Complimenti!”», si chiede: «Ma chi è quest’uomo?». I dottori, cioè, cominciano «un’indagine» e discutono: «Vediamo cosa è successo qui, ma la legge... Dobbiamo custodire la legge». L’uomo, da parte sua, continua a camminare con la sua barella, «ma un po’ triste». Ha commentato il Papa: «Io sono cattivo, ma alcune volte penso a cosa sarebbe successo se quest’uomo avesse dato un bell’assegno a quei dottori. Avrebbero detto: “Ma, vai avanti, sì, sì, per questa volta vai avanti!”».
Continuando nella lettura del Vangelo, si incontra Gesù che «trova quest’uomo un’altra volta e gli dice: “Ecco, sei guarito, ma non tornare indietro — cioè non peccare più — perché non ti accada qualcosa di peggio. Vai avanti, continua ad andare avanti”». E quell’uomo va dai dottori della legge, per dire: «La persona, l’uomo che mi ha guarito si chiama Gesù. È quello». E si legge: «Per questo i giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato». Di nuovo ha commentato Francesco: «Perché faceva il bene anche il sabato, e non si poteva fare».
Questa storia, ha detto il Papa attualizzando la sua riflessione, «avviene tante volte nella vita: un uomo — una donna — che si sente malato nell’anima, triste, che ha fatto tanti sbagli nella vita, a un certo momento sente che le acque si muovono, c’è lo Spirito Santo che muove qualcosa; o sente una parola». E reagisce: «Io vorrei andare!». Così «prende coraggio e va». Ma quell’uomo «quante volte oggi nelle comunità cristiane trova le porte chiuse». Forse si sente dire: «Tu non puoi, no, tu non puoi; tu hai sbagliato qui e non puoi. Se vuoi venire, vieni alla messa domenica, ma rimani lì, ma non fare di più». Succede così che «quello che fa lo Spirito Santo nel cuore delle persone, i cristiani con psicologia di dottori della legge distruggono».
Il Pontefice si è detto dispiaciuto per questo, perché, ha sottolineato, la Chiesa «è la casa di Gesù e Gesù accoglie, ma non solo accoglie: va a trovare la gente», così come «è andato a trovare» quell’uomo. «E se la gente è ferita — si è chiesto — cosa fa Gesù? La rimprovera, perché è ferita? No, viene e la porta sulle spalle». Questa, ha affermato il Papa, «si chiama misericordia». Proprio di questo parla Dio quando «rimprovera il suo popolo: “Misericordia voglio, non sacrificio!”».
Come di consueto il Pontefice ha concluso la riflessione suggerendo un impegno per la vita quotidiana: «Siamo in quaresima, dobbiamo convertirci». Qualcuno, ha detto, potrebbe ammettere: «Padre, ci sono tanti peccatori sulla strada: quelli che rubano, quelli che sono nei campi rom... — per dire una cosa — e noi disprezziamo questa gente». Ma a costui va detto: «E tu? Chi sei? E tu chi sei, che chiudi la porta del tuo cuore ad un uomo, a una donna, che ha voglia di migliorare, di rientrare nel popolo di Dio, perché lo Spirito Santo ha agitato il suo cuore?». Anche oggi ci sono cristiani che si comportano come i dottori della legge e «fanno lo stesso che facevano con Gesù», obiettando: «Ma questo, questo dice un’eresia, questo non si può fare, questo va contro la disciplina della Chiesa, questo va contro la legge». E così chiudono le porte a tante persone. Perciò, ha concluso il Papa, «chiediamo oggi al Signore» la «conversione alla misericordia di Gesù»: solo così «la legge sarà pienamente compiuta, perché la legge è amare Dio e il prossimo, come noi stessi».
(Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/03/2015)
[Diversa opinione]
In tutti i commenti del Vangelo, che io conosco, questo episodio della piscina di Betsaida (Giovanni 5, 1-16) è il simbolo della PERSEVERANZA di questo poveretto che resta lì, sul bordo dell’acqua per trentotto anni nella speranza di guarire, senza mai allontanarsene.
È simbolo anche della pazienza che dobbiamo avere con noi stessi nella lotta interiore contro i difetti dominanti.
Un autore, riferendosi a questo passo del Vangelo, spiegava che il Signore ci può chiedere anche trentotto anni per crescere in una virtù, avendo Egli pazienza con i nostri difetti.
Se il paralitico fosse stato un pigro indolente lamentoso (e un po’ ipocondriaco, sembra di capire…), il Signore non lo avrebbe aiutato.
L’uomo protagonista del Vangelo di oggi PERSEVERA trentotto anni, non PECCA DI ACCIDIA per trentotto anni.
Non solo, sarebbe rimasto li fino alla fine dei suoi giorni, se non avesse avuto il premio di di incontrare Gesù, proprio per la sua costanza.
Sempre questo episodio spiega l’importanza dell’evangelizzazione (proselitismo per papa Bergoglio).
Infatti questo passo evangelico è sempre stato utilizzato per spiegare che nessuno dovrebbe confessare “Signore non ho nessuno”, poiché il passo evangelico si riferisce – e deve essere interpretato come riferimento – agli infermi nello spirito.
L’espressione del paralitico “HOMINEM NON HABEO” (“non ho l’uomo “) è diventata, o forse è sempre stata nei secoli, in ogni commento evangelico, il significato della INDIFFERENZA SPIRITUALE verso il prossimo bisognoso nell’anima.
Significa che tutti sono stati indifferenti davanti i bisogni della sua anima, tranne il Salvatore, e l’esortazione è infatti l’evangelizzazione.
39. Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? È l'altro sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così grande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede cristiana, nella storia dell'umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato nell'uomo in maniera nuova e a una profondità nuova la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità. Ci ha mostrato, infatti, che Dio – la Verità e l'Amore in persona – ha voluto soffrire per noi e con noi. Bernardo di Chiaravalle ha coniato la meravigliosa espressione: Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis – Dio non può patire, ma può compatire. L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Certo, nelle nostre molteplici sofferenze e prove abbiamo sempre bisogno anche delle nostre piccole o grandi speranze – di una visita benevola, della guarigione da ferite interne ed esterne, della risoluzione positiva di una crisi, e così via. Nelle prove minori questi tipi di speranza possono anche essere sufficienti. Ma nelle prove veramente gravi, nelle quali devo far mia la decisione definitiva di anteporre la verità al benessere, alla carriera, al possesso, la certezza della vera, grande speranza, di cui abbiamo parlato, diventa necessaria. Anche per questo abbiamo bisogno di testimoni, di martiri, che si sono donati totalmente, per farcelo da loro dimostrare – giorno dopo giorno. Ne abbiamo bisogno per preferire, anche nelle piccole alternative della quotidianità, il bene alla comodità – sapendo che proprio così viviamo veramente la vita. Diciamolo ancora una volta: la capacità di soffrire per amore della verità è misura di umanità. Questa capacità di soffrire, tuttavia, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo. I santi poterono percorrere il grande cammino dell'essere-uomo nel modo in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza.
[Spe salvi]
1. Un testo di sant’Agostino ci offre la chiave per interpretare i miracoli di Cristo come segni del suo potere salvifico: “L’essersi fatto uomo per noi ha giovato alla nostra salvezza assai più dei miracoli che egli ha compiuto tra noi; ed è più importante che l’aver sanato le malattie del corpo destinato a morire” (S. Augustini, In Io. Ev. Tr., 17, 1). In ordine a questa salute dell’anima e alla redenzione del mondo intero Gesù ha compiuto anche i miracoli di ordine corporale. E dunque il tema della presente catechesi è il seguente: mediante i “miracoli, prodigi e segni” che ha compiuto, Gesù Cristo ha manifestato il suo potere di salvare l’uomo dal male che minaccia l’anima immortale e la sua vocazione all’unione con Dio.
9. Alla fine della nostra catechesi torniamo ancora una volta al testo di sant’Agostino: “Se consideriamo adesso i fatti operati dal Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo, vediamo che gli occhi dei ciechi, aperti miracolosamente, furono rinchiusi dalla morte, e le membra dei paralitici, sciolte dal miracolo, furono di nuovo immobilizzate dalla morte: tutto ciò che temporalmente fu sanato nel corpo mortale, alla fine fu disfatto; ma l’anima che credette, passò alla vita eterna. Con questo infermo il Signore ha voluto dare un grande segno all’anima che avrebbe creduto, per la cui remissione dei peccati era venuto, e per sanare le cui debolezze egli si era umiliato” (S. Augustini, In Io. Ev. Tr., 17, 1).
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 novembre 1987]
La quaresima è tempo propizio per chiedere al Signore, «per ognuno di noi e per tutta la Chiesa», la «conversione alla misericordia di Gesù». Troppe volte, infatti, i cristiani «sono specialisti nel chiudere le porte alle persone» che, fiaccate dalla vita e dai loro errori, sarebbero invece disposte a ricominciare, «persone alle quali lo Spirito Santo muove il cuore per andare avanti».
La legge dell’amore è al centro della riflessione che Papa Francesco ha svolto, nella messa di martedì 17 marzo a Santa Marta, a partire dalla liturgia del giorno. Un parola di Dio che parte da un’immagine: «l’acqua che risana». Nella prima lettura il profeta Ezechiele (47, 1-9.12) parla infatti dell’acqua che scaturisce dal tempio, «un’acqua benedetta, l’acqua di Dio, abbondante come la grazia di Dio: abbondante sempre». Il Signore, infatti, ha spiegato il Papa, è generoso «nel dare il suo amore, nel risanare le nostre piaghe».
L’acqua torna nel vangelo di Giovanni (5, 1-16) dove si narra di una piscina — «in ebraico si chiamava betzaetà» — caratterizzata da «cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi: ciechi, zoppi e paralitici». In quel luogo, infatti, «c’era una tradizione» secondo la quale «di volta in volta, scendeva dal cielo un angelo» a muovere le acque, e gli infermi «che si buttavano lì» in quel momento «venivano risanati».
Perciò, ha spiegato il Pontefice, «c’era tanta gente». E perciò si trovava lì anche «un uomo che da trentotto anni era malato». Era lì che aspettava, e a lui Gesù domandò: «Vuoi guarire?». Il malato rispose: «Ma, Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita, quando viene l’angelo. Mentre, infatti, sto per andarvi, un altro scende prima di me». A Gesù, cioè, si presenta «un uomo sconfitto» che «aveva perso la speranza».
[…] aveva «amarezza nell’anima: “Ma l’altro arriva prima di me e io sono lasciato da parte”». E aveva «anche un po’ di risentimento». Era «davvero un’anima triste, sconfitta, sconfitta dalla vita».
«Gesù ha misericordia» di quest’uomo e lo invita: «Alzati! Alzati, finiamo questa storia; prendi la tua barella e cammina». Francesco ha quindi descritto la scena seguente: «All’istante quell’uomo guarì e prese la sua barella e incominciò a camminare, ma era tanto ammalato che non riusciva a credere e forse camminava un po’ dubitante con la sua barella sulle spalle». A questo punto entrano in gioco altri personaggi: «Era sabato e cosa trova quell’uomo? I dottori della legge», i quali gli chiedono: «Ma perché porti questo? Non si può, oggi è sabato». È l’uomo a rispondere: «Ma tu sai, sono stato guarito!». E aggiunge: «E quello che mi ha guarito, mi ha detto: “porta la tua barella”».
Accade quindi un fatto strano: «questa gente invece di rallegrarsi, di dire: “Ma che bello! Complimenti!”», si chiede: «Ma chi è quest’uomo?». I dottori, cioè, cominciano «un’indagine» e discutono: «Vediamo cosa è successo qui, ma la legge... Dobbiamo custodire la legge». L’uomo, da parte sua, continua a camminare con la sua barella, «ma un po’ triste». Ha commentato il Papa: «Io sono cattivo, ma alcune volte penso a cosa sarebbe successo se quest’uomo avesse dato un bell’assegno a quei dottori. Avrebbero detto: “Ma, vai avanti, sì, sì, per questa volta vai avanti!”».
Continuando nella lettura del Vangelo, si incontra Gesù che «trova quest’uomo un’altra volta e gli dice: “Ecco, sei guarito, ma non tornare indietro — cioè non peccare più — perché non ti accada qualcosa di peggio. Vai avanti, continua ad andare avanti”». E quell’uomo va dai dottori della legge, per dire: «La persona, l’uomo che mi ha guarito si chiama Gesù. È quello». E si legge: «Per questo i giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato». Di nuovo ha commentato Francesco: «Perché faceva il bene anche il sabato, e non si poteva fare».
Questa storia, ha detto il Papa attualizzando la sua riflessione, «avviene tante volte nella vita: un uomo — una donna — che si sente malato nell’anima, triste, che ha fatto tanti sbagli nella vita, a un certo momento sente che le acque si muovono, c’è lo Spirito Santo che muove qualcosa; o sente una parola». E reagisce: «Io vorrei andare!». Così «prende coraggio e va». Ma quell’uomo «quante volte oggi nelle comunità cristiane trova le porte chiuse». Forse si sente dire: «Tu non puoi, no, tu non puoi; tu hai sbagliato qui e non puoi. Se vuoi venire, vieni alla messa domenica, ma rimani lì, ma non fare di più». Succede così che «quello che fa lo Spirito Santo nel cuore delle persone, i cristiani con psicologia di dottori della legge distruggono».
Il Pontefice si è detto dispiaciuto per questo, perché, ha sottolineato, la Chiesa «è la casa di Gesù e Gesù accoglie, ma non solo accoglie: va a trovare la gente», così come «è andato a trovare» quell’uomo. «E se la gente è ferita — si è chiesto — cosa fa Gesù? La rimprovera, perché è ferita? No, viene e la porta sulle spalle». Questa, ha affermato il Papa, «si chiama misericordia». Proprio di questo parla Dio quando «rimprovera il suo popolo: “Misericordia voglio, non sacrificio!”».
Come di consueto il Pontefice ha concluso la riflessione suggerendo un impegno per la vita quotidiana: «Siamo in quaresima, dobbiamo convertirci». Qualcuno, ha detto, potrebbe ammettere: «Padre, ci sono tanti peccatori sulla strada: quelli che rubano, quelli che sono nei campi rom... — per dire una cosa — e noi disprezziamo questa gente». Ma a costui va detto: «E tu? Chi sei? E tu chi sei, che chiudi la porta del tuo cuore ad un uomo, a una donna, che ha voglia di migliorare, di rientrare nel popolo di Dio, perché lo Spirito Santo ha agitato il suo cuore?». Anche oggi ci sono cristiani che si comportano come i dottori della legge e «fanno lo stesso che facevano con Gesù», obiettando: «Ma questo, questo dice un’eresia, questo non si può fare, questo va contro la disciplina della Chiesa, questo va contro la legge». E così chiudono le porte a tante persone. Perciò, ha concluso il Papa, «chiediamo oggi al Signore» la «conversione alla misericordia di Gesù»: solo così «la legge sarà pienamente compiuta, perché la legge è amare Dio e il prossimo, come noi stessi».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 18/03/2015]
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
St Teresa of Avila wrote: «the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ» (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7). Therefore, only by believing in Christ, by remaining united to him, may the disciples, among whom we too are, continue their permanent action in history [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia [Papa Benedetto]
Just as he did during his earthly existence, so today the risen Jesus walks along the streets of our life and sees us immersed in our activities, with all our desires and our needs. In the midst of our everyday circumstances he continues to speak to us; he calls us to live our life with him, for only he is capable of satisfying our thirst for hope (Pope Benedict)
Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza (Papa Benedetto)
Truth involves our whole life. In the Bible, it carries with it the sense of support, solidity, and trust, as implied by the root 'aman, the source of our liturgical expression Amen. Truth is something you can lean on, so as not to fall. In this relational sense, the only truly reliable and trustworthy One – the One on whom we can count – is the living God. Hence, Jesus can say: "I am the truth" (Jn 14:6). We discover and rediscover the truth when we experience it within ourselves in the loyalty and trustworthiness of the One who loves us. This alone can liberate us: "The truth will set you free" (Jn 8:32) [Pope Francis]
La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé [Papa Francesco]
don Giuseppe Nespeca
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