don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 24 Novembre 2025 06:15

Gioisce partendo dall’intimo

Anche san Luca presenta l’Inno di giubilo in connessione con un momento di sviluppo dell’annuncio del Vangelo. Gesù ha inviato i «settantadue discepoli» (Lc 10,1) ed essi sono partiti con un senso di paura per il possibile insuccesso della loro missione. Anche Luca sottolinea il rifiuto incontrato nelle città in cui il Signore ha predicato e ha compiuto segni prodigiosi. Ma i settantadue discepoli tornano pieni di gioia, perché la loro missione ha avuto successo; essi hanno constatato che, con la potenza della parola di Gesù, i mali dell’uomo vengono vinti. E Gesù condivide la loro soddisfazione: «in quella stessa ora», in quel momento, Egli esultò di gioia.

Ci sono ancora due elementi che vorrei sottolineare. L’evangelista Luca introduce la preghiera con l’annotazione: «Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Gesù gioisce partendo dall’intimo di se stesso, in ciò che ha di più profondo: la comunione unica di conoscenza e di amore con il Padre, la pienezza dello Spirito Santo. Coinvolgendoci nella sua figliolanza, Gesù invita anche noi ad aprirci alla luce dello Spirito Santo, perché – come afferma l’apostolo Paolo - «(Noi) non sappiamo … come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili … secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27) e ci rivela l’amore del Padre. Nel Vangelo di Matteo, dopo l’Inno di Giubilo, troviamo uno degli appelli più accorati di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Gesù chiede di andare a Lui che è la vera sapienza, a Lui che è «mite e umile di cuore»; propone «il suo giogo», la strada della sapienza del Vangelo che non è una dottrina da imparare o una proposta etica, ma una Persona da seguire: Egli stesso, il Figlio Unigenito in perfetta comunione con il Padre.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo gustato per un momento la ricchezza di questa preghiera di Gesù. Anche noi, con il dono del suo Spirito, possiamo rivolgerci a Dio, nella preghiera, con confidenza di figli, invocandolo con il nome di Padre, «Abbà». Ma dobbiamo avere il cuore dei piccoli, dei «poveri in spirito» (Mt 5,3), per riconoscere che non siamo autosufficienti, che non possiamo costruire la nostra vita da soli, ma abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno di incontrarlo, di ascoltarlo, di parlargli. La preghiera ci apre a ricevere il dono di Dio, la sua sapienza, che è Gesù stesso, per compiere la volontà del Padre sulla nostra vita e trovare così ristoro nelle fatiche del nostro cammino. Grazie.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 7 dicembre 2011]

Lunedì, 24 Novembre 2025 06:12

Piena Rivelazione

1. Nella catechesi precedente abbiamo scorso, seppur velocemente, delle testimonianze dell’Antico Testamento che preparavano ad accogliere la piena rivelazione, annunciata da Gesù Cristo, della verità del mistero della paternità di Dio.

Cristo infatti ha parlato molte volte del Padre suo, presentandone in vari modi la provvidenza e l’amore misericordioso.

Ma il suo insegnamento va oltre. Riascoltiamo le parole particolarmente solenni, riportate dall’evangelista Matteo (e parallelamente da Luca): “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai semplici . . .” e, in seguito: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio, nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 25. 27; cf. Lc 10, 2. 11).

Dunque per Gesù, Dio non è solamente “il Padre d’Israele, il Padre degli uomini”, ma “il Padre mio”! “Mio”: proprio per questo i giudei volevano uccidere Gesù, perché “chiamava Dio suo Padre” (Gv 5, 18). “Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni.

2. Il “Padre mio” è il Padre di Gesù Cristo, colui che è l’origine del suo essere, della sua missione messianica, del suo insegnamento. L’evangelista Giovanni ha riportato con abbondanza l’insegnamento messianico che ci permette di scandagliare in profondità il mistero di Dio Padre e di Gesù Cristo, il Figlio suo unigenito.

Gesù dice: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato” (Gv 12, 44). “Io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare” (Gv 12, 49). “In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre, quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5, 19). “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso” (Gv 5, 26). E infine: “. . . il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre” (Gv 6, 57).

Il Figlio vive per il Padre prima di tutto perché è stato da lui generato. Vi è una strettissima correlazione tra la paternità e la figliolanza proprio in forza della generazione: “Tu sei mio Figlio; oggi ti ho generato” (Eb 1, 5). Quando presso Cesarea di Filippo Simon Pietro confesserà: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, Gesù gli risponderà: “Beato te . . . perché né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio . . .” (Mt 16, 16-17), perché solo “il Padre conosce il Figlio” così come solo il “Figlio conosce il Padre” (Mt 11, 27). Solo il Figlio fa conoscere il Padre: il Figlio visibile fa vedere il Padre invisibile. “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9).

3. Dall’attenta lettura dei Vangeli si ricava che Gesù vive ed opera in costante e fondamentale riferimento al Padre. A lui spesso si rivolge con la parola colma d’amore filiale: “Abbà”; anche durante la preghiera del Getsemani questa stessa parola gli torna alle labbra (cf. Mc 14, 36). Quando i discepoli gli domandano di insegnar loro a pregare, insegna il “Padre nostro” (cf. Mt 6, 9-13). Dopo la risurrezione, al momento di lasciare la terra sembra che ancora una volta faccia riferimento a questa preghiera, quando dice: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20, 17).

Così dunque per mezzo del Figlio (cf. Eb 1, 2), Dio si è rivelato nella pienezza del mistero della sua paternità. Solo il Figlio poteva rivelare questa pienezza del mistero, perché solo “il Figlio conosce il Padre” (Mt 11, 27). “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18).

4. Chi è il Padre? Alla luce della testimonianza definitiva che noi abbiamo ricevuto per mezzo del Figlio, Gesù Cristo, abbiamo la piena consapevolezza della fede che la paternità di Dio appartiene prima di tutto al mistero fondamentale della vita intima di Dio, al mistero trinitario. Il Padre è colui che eternamente genera il Verbo, il Figlio a lui consostanziale. In unione col Figlio, il Padre eternamente “spira” lo Spirito Santo, che è l’amore nel quale il Padre e il Figlio reciprocamente rimangono uniti (cf. Gv 14, 10).

Dunque il Padre è nel mistero trinitario l’“inizio-senza-inizio”. “Il Padre da nessuno è fatto, né creato, né generato” (simbolo Quicumque). È da solo il principio della vita, che Dio ha in se stesso. Questa vita - cioè la stessa divinità - il Padre possiede nell’assoluta comunione col Figlio e con lo Spirito Santo, che sono a lui consostanziali.

Paolo, apostolo del mistero di Cristo, cade in adorazione e preghiera “davanti al Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 3, 15), inizio e modello.

Vi è infatti “un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4, 6).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 ottobre 1985]

Lunedì, 24 Novembre 2025 05:55

Teologia in ginocchio

La grandezza del mistero di Gesù si può conoscere solo umiliandosi e abbassandosi come ha fatto lui, che è arrivato al punto di essere «emarginato» e non si è certo presentato come un «generale o un governatore». Gli stessi teologi, se non fanno «teologia in ginocchio», rischiano di dire «tante cose» ma di non capire «niente». Essere umili e miti, dunque, è il suggerimento proposto da Francesco, martedì mattina, 2 dicembre, nella messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta.

«I testi liturgici che ci offre oggi la Chiesa — ha fatto subito notare il Pontefice — ci avvicinano al mistero di Gesù, al mistero della sua persona». E infatti, ha spiegato, il passo liturgico del Vangelo di Luca (10, 21-24) «dice che Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e lodò il Padre». Del resto, «questa è la vita interiore di Gesù: il suo rapporto col Padre, rapporto di lode, nello Spirito, proprio lo Spirito Santo che unisce quel rapporto». E questo è «il mistero dell’interiorità di Gesù, quello che lui sentiva».

Gesù infatti — ha proseguito Francesco — «dichiara che chi vede lui, vede il Padre». Dice precisamente: «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza». E «nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre. E nessuno sa chi è il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».

Il Padre, ha ribadito il Papa, «soltanto il Figlio lo conosce: Gesù conosce il Padre». E così «quando Filippo è andato da Gesù e ha detto: “mostraci il Padre”», il Signore gli risponde: «Filippo, chi vede me, vede il Padre». Difatti «è tanta l’unione fra loro: lui è l’imago del Padre; è la vicinanza della tenerezza del Padre a noi». E «il Padre si avvicina a noi in Gesù».

Francesco ha quindi ricordato che «in quel discorso di congedo, dopo la Cena», Gesù ripete tante volte: «Padre, che questi siano uno, come te e me». E «promette lo Spirito Santo, perché è proprio lo Spirito Santo che fa questa unità, come la fa tra il Padre e il Figlio». E «Gesù esulta di gioia nello Spirito Santo».

«Questo è un po’ per avvicinarsi a questo mistero di Gesù» ha spiegato il Pontefice. Ma «questo mistero non è rimasto soltanto fra loro, è stato rivelato a noi». Il Padre, dunque, «è stato rivelato da Gesù: lui ci fa conoscere il Padre; ci fa conoscere questa vita interiore che lui ha». E «a chi rivela questo, il Padre, a chi dà questa grazia?» si è chiesto il Papa. La risposta la dà Gesù stesso, come riporta Luca nel suo Vangelo: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».

Perciò «soltanto quelli che hanno il cuore come i piccoli sono capaci di ricevere questa rivelazione». Soltanto «il cuore umile, mite, che sente il bisogno di pregare, di aprirsi a Dio, si sente povero». In una parola, «soltanto quello che va avanti con la prima beatitudine: i poveri di spirito».

Certo, ha riconosciuto il Papa, «tanti possono conoscere la scienza, la teologia pure». Ma «se non fanno questa teologia in ginocchio, cioè umilmente, come i piccoli, non capiranno nulla». Magari «ci diranno tante cose, ma non capiranno nulla». Poiché «soltanto questa povertà è capace di ricevere la rivelazione che il Padre dà tramite Gesù, attraverso Gesù». E «Gesù viene non come un capitano, un generale di esercito, un governante potente», ma «viene come un germoglio», secondo l’immagine della prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia (11, 1-10): «In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse». Dunque, «lui è un germoglio, è umile, è mite, ed è venuto per gli umili, per i miti, a portare la salvezza agli ammalati, ai poveri, agli oppressi, come lui stesso dice nel quarto capitolo di Luca, quando è alla sinagoga di Nazareth». E Gesù è venuto proprio «per gli emarginati: lui si emargina, non ritiene un valore innegoziabile essere uguale a Dio». Infatti, ha ricordato il Pontefice, «umiliò se stesso, si annientò». Egli «si è emarginato, si è umiliato» per «darci il mistero del Padre e il suo proprio».

Il Papa ha rimarcato che «non si può ricevere questa rivelazione fuori, al di fuori, del modo in cui Gesù la porta: in umiltà, abbassando se stesso». Non si può mai dimenticare che «il Verbo si è fatto carne, si è emarginato per portare la salvezza agli emarginati». E «quando il grande Giovanni Battista, in carcere, non capiva tanto come erano le cose lì, con Gesù, perché era un po’ perplesso, invia i suoi discepoli a fare la domanda: “Giovanni ti domanda: sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”».

Alla richiesta di Giovanni, Gesù non risponde: «Sono io il Figlio». Dice invece: «Guardate, vedete tutto questo, e poi dite a Giovanni cosa avete visto»: ossia che «i lebbrosi sono sanati, i poveri sono evangelizzati, gli emarginati sono trovati».

Risulta evidente, secondo Francesco, che «la grandezza del mistero di Dio si conosce soltanto nel mistero di Gesù, e il mistero di Gesù è proprio un mistero di abbassarsi, di annientarsi, di umiliarsi, e porta la salvezza ai poveri, a quelli che sono annientati da tante malattie, peccati e situazioni difficili».

«Fuori da questa cornice — ha ribadito il Papa — non si può capire il mistero di Gesù, non si può capire questa unzione dello Spirito Santo che lo fa gioire, come avevamo sentito nel Vangelo, nella lode del Padre, e che lo porta ad evangelizzare i poveri, gli emarginati».

In questa prospettiva, nel tempo di Avvento, Francesco ha invitato a pregare per chiedere la grazia «al Signore di avvicinarci più, più, più al suo mistero, e di farlo sulla strada che lui vuole che noi facciamo: la strada dell’umiltà, la strada della mitezza, la strada della povertà, la strada di sentirci peccatori» Perché è così, ha concluso, che «lui viene a salvarci, a liberarci».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 03/12/2014]

La scoperta di essere degni

(Mt 8,5-11)

 

Mt scrive il suo Vangelo per incoraggiare i membri di comunità e stimolare la missione ai pagani, che appunto i giudeo cristiani non erano ancora pronti a fare propria.

La Fede incipiente di un pagano convertito è l’esempio che Gesù antepone a quella degli israeliti osservanti.

Ma dire Fede (vv.10.13) significa caldeggiare un’adesione più profonda, e [insieme] una manifestazione meno forte.

Ciò che guarisce è credere all’efficacia della sua sola Parola (vv.8-9.16), evento che possiede forza generatrice e ri-creatrice.

Nelle comunità giudaizzanti di Galilea e Siria, ancora a metà anni 70 ci si chiedeva: la nuova Legge di Dio proclamata su ‘il Monte’ delle Beatitudini crea esclusioni?

O corrisponde alle speranze e alla sensibilità profonda del cuore umano, di ogni luogo e tempo (vv.10-12)?

I lontani possedevano una spiccata intuizione per le novità dello Spirito, e scoprivano il vissuto di Fede da altre posizioni - non installate, meno legate a concatenazioni conformi; forse scomode.

Non di rado erano proprio gli ultimi arrivati che si distinguevano per freschezza d’intuizione sostanziale - e vedevano chiaro.

Bastava comunicare a tu per Tu col Signore, in un senso d’amicizia sicura (v.6).

Non c’è bisogno di chissà quali aggiunte a questo segreto, per rinascere. Dio è Azione immediata (v.7).

La Relazione personale fra uomo comune e il Padre in Cristo è sobria e istantanea.

Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della vera Fede [che non pretende ”contatti” o elementi materiali e locali: vv.8-9].

Insomma, il retaggio culturale e il conformismo religioso antico restavano un fardello.

Qua e là mancavano sia l’esperienza del Cristo Salvatore personale, che la completa scoperta della potenza di Vita piena contenuta nella nuova proposta totale e ‘creatrice’ de «il Monte».

Ma non c’è da temere: Dio ci ha preceduti; il diverso e lontano non è un estraneo, bensì fratello.

Pertanto, ciò che salva non è l’appartenenza a una tradizione o a nuove mode di pensiero e di culto.

Non esigere che il Signore arrivi in una certa forma significa non immaginarlo legato a una espressione esterna.

Lo si raggiunge e coglie solo intimamente, per Visione certa - sgombra di convinzioni immaginate indispensabili - qualunque cosa accada.

Si rivelerà volta per volta nel modo più adatto ai nostri limiti.

Insomma, i distanti da noi sono persone totalmente «degne» sebbene talora vacillanti - come tutti.

Dio è nella loro carne e nel loro focolare.

E nel Cristo veniamo educati a dilatare l’orizzonte dei rapporti verticali esterni, tipici di una religiosità a testa china.

Il Cospetto divino è già dentro le cose del nostro ambiente, e in chi ci affianca - anche oltre confine.

 

 

[Lunedì 1.a sett. Avvento, 1 dicembre 2025]

Domenica, 23 Novembre 2025 01:52

La scoperta di essere degni

Fede e Parola: Dio non è legato a un’espressione esterna

(Mt 8,5-11)

 

«L’essenziale è stare nell’ascolto di ciò che sale da dentro.
Le nostre azioni spesso non sono altro che imitazione, dovere ipotetico
o rappresentazione erronea di che cosa deve essere un essere umano.
Ma la sola vera certezza che tocca la nostra vita e le nostre azioni
può venire solo dalle sorgenti che zampillano nel profondo di noi stessi.
Si è a casa sotto il cielo si è a casa dovunque su questa terra se si porta tutto in noi stessi.
Spesso mi sono sentita, e ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso:
le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto».

[Etty Hillesum, Diario]

 

Dice il Tao Tê Ching (LIII): «La gran Via è assai piana, ma la gente preferisce i sentieri».

Commentando il passo, i maestri Wang Pi e Ho-shang Kung sottolineano: «sentieri tortuosi».

La Fede incipiente di un pagano convertito è l’esempio che Gesù antepone a quella degli israeliti osservanti.

Ciò che guarisce è credere all’efficacia della sua sola Parola (vv.8-9.16), evento che possiede forza generatrice e ricreatrice.

Il Signore dimostra cura, in genere toccando i malati o imponendo le mani, quasi ad assorbire ciò che s’immaginava fosse impurità, alterazione rispetto alla normalità [una “febbre” o paralisi che si riteneva rendesse indegno agli occhi di Dio il bisognoso].

Nelle comunità di Galilea e Siria giudaizzanti, ancora a metà anni 70 ci si chiedeva: la nuova Legge di Dio proclamata su “il Monte” delle Beatitudini crea esclusioni?

O corrisponde alle speranze e alla sensibilità profonda del cuore umano, di ogni luogo e tempo (vv.10-12)?

I lontani possedevano una spiccata intuizione per le novità dello Spirito, e scoprivano il vissuto di Fede da altre posizioni - non installate, meno legate a concatenazioni conformi; forse scomode.

Non di rado erano proprio gli ultimi arrivati che si distinguevano per freschezza d’intuizione sostanziale - e vedevano chiaro.

Bastava comunicare a tu per Tu col Signore, in un senso d’amicizia sicura (v.6).

Non c’è bisogno di chissà quali aggiunte a questo segreto, per rinascere. Dio è Azione immediata (v.7).

La Relazione personale fra uomo comune e il Padre in Cristo è sobria e istantanea.

Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della vera Fede [che non pretende ”contatti” o elementi materiali e locali: vv.8-9].

Insomma, il retaggio culturale e il conformismo religioso antico restavano un fardello.

Qua e là mancavano sia l’esperienza del Cristo Salvatore personale, che la completa scoperta della potenza di Vita piena contenuta nella nuova proposta totale e creatrice de «il Monte».

 

Mt scrive il suo Vangelo per incoraggiare i membri di comunità e stimolare la missione ai pagani, che appunto i giudeo cristiani non erano ancora pronti a fare propria.

Ma dire «Fede» (vv.10.13) significa caldeggiare un’adesione più profonda, e [insieme] una manifestazione meno forte.

Espressione di Fede personale non è ripetere o edulcorare una dottrina appresa, né la convinzione altrui.

Non c’è da temere: Dio ci ha preceduti; il diverso e lontano non è un estraneo, bensì fratello.

Pertanto, ciò che salva non è l’appartenenza a una tradizione o moda di pensiero e di culto.

Non esigere che il Signore arrivi in una certa forma significa non immaginarlo legato a una espressione esterna.

Lo si raggiunge e coglie solo intimamente, per visione certa - sgombra di convinzioni immaginate indispensabili - qualunque cosa accada.

Si rivelerà volta per volta nel modo più adatto ai nostri limiti.

 

I distanti da noi sono creature totalmente «degne» sebbene talora vacillanti e fallibili.

Non autonome, insufficienti, come tutti - per il fatto che non si rendono conto che Dio è nella loro carne e nel loro focolare.

Grazie a tale nitida consapevolezza nel Figlio, essi possono finalmente comprendere l’Amore supremo del Padre, gratuito, senza riserve; che sbalordisce, fa superare l’impaccio e li lancia.

Il pagano è condizionato dal suo mondo piramidale, ma incontrando Cristo si scopre persona totalmente adeguata e realizzata.

Non perché ha meritato o concesso favori al popolo eletto, o adempiuto uno speciale genere di osservanze (recitando formule da imprimatur).

Nel Signore, egli stesso viene educato a dilatare l’orizzonte della solita religione - fatta di rapporti verticali esterni.

Sebbene si riconosca manchevole [v.8 testo greco] intuisce che la sua relazione con Dio non dipende da uno scambio di favori.

Tale amicizia personale immediata e spontanea non si fa subalterna ad opere di legge, né scaturisce da norme di purità adempiute.

Tantomeno si assoggetta ad una relazione religiosa a testa china.

 

Il “lontano” comprende l’amore. In tal guisa, egli è già emancipato da una mentalità appariscente, epidermica, comune.

Nel Signore, egli stesso viene educato a dilatare l’orizzonte della solita religione.

Ritiene appunto che la Parola del Signore - per Via, fuori di luoghi e tempi sincronizzati o stabiliti - produca quel che afferma.

E lo realizzi anche a distanza; senza neppure segni clamorosi e perentori, che facciano baccano.

Piuttosto, liberando l’Energia misteriosa [ancora prigioniera] del «Logos» (v.7).

Verbo non convenzionale, che non gira a vuoto.

Ciò, malgrado questa Potenza si possa trovare mescolata a convincimenti talora contraddittori:

Egli è già lontano da una mentalità magica e carnale.

Ma deve ancora fare il passo decisivo, che lo farà crescere oltre - e ci riguarda da vicino.

 

La stima di sé dev’essere attitudine dei figli anche remoti, a ogni costo.

Non per sensazione recondita vaga o emotiva, bensì per Presenza garantita a prescindere - persino già operante, sebbene talora inconsapevole.

Interiorizzarla sarà opera - e il “di più” - della Fede matura, che vede, coglie, penetra le energie preparatorie in atto.

E le attualizza, anticipando futuro.

 

«Io non sono degno» è insieme a «Pietà di me» o «Figlio di Davide» - una delle espressioni più infelici della vita spirituale e missionaria.

Formule che Gesù aborrisce, sebbene siano divenute abituali in alcune espressioni della liturgia.

Il figlio prodigo prova con la medesima sconclusionata espressione [«non sono più degno»] a commuovere il Padre, che appunto non gli consente di finire l’assurda sviolinata.

Piuttosto gl’impedisce di considerarsi «uno dei suoi servi» e mettersi in ginocchio davanti a Lui [Lc 15,21ss].

Questo sarebbe davvero l’unico pericolo che pone a repentaglio tutta la vita; non solo un piccolo tratto di esistenza.

Per Fede in Cristo, da incompleti diventiamo non solo degnissimi, ma siamo così qui e ora Perfetti per realizzare la nostra Vocazione.

Certo, qualche ideologo o purista da mulino bianco potrebbe considerarci fuori moda, o ancora paganeggianti.

 

Il nostro grande e unico rischio è appunto quello di assorbire tali oppressive opinioni dall’ambiente, e lasciarci condizionare.

Ogni contorno funziona non di rado con la logica delle gerarchie ed i rapporti di forza, per cui ad es. l’inferiore non dovrebbe considerarsi allo stesso livello dell’anteposto.

Ma di questo passo non si riesce più a percepire il Cospetto divino.

Il Volto dell’Eterno è dentro noi e in casa nostra; non nella catena di comando con influssi condizionanti, bensì nel nostro ambiente e in chi ci affianca - anche oltre confine.

Famigliari, amici, persone care e non, sono sullo stesso piano. Vale anche con Dio: siamo faccia a faccia.

Neanche conta più lo schema “io e Tu”, col Figlio: perché - Incarnato diffusamente - ha piantato il suo Cielo nonché la sua stessa capacità terapeutica [addirittura di autoguarigione] «in» noi.

 

Grazie al Maestro non siamo più all’interno di una ideologia di sottomessi - identica a quella che vigeva nell’impero - né in una caserma ben disciplinata, a ruoli distinti e ambiti confinati.

L’assetto di correttezze esterne non attiene ai Vangeli.

Insomma, il Padre non chiede più a nessuno di obbedire a delle “autorità”, bensì di «somigliare» a Lui.

Ciò si realizza semplicemente corrispondendo - ciascuno di noi - a questa sorta di Presenza superiore che ci abita e ama.

È la fine delle vuote trafile: siamo intimi e consanguinei del nostro stesso Sé recondito, Volto sovreminente.

Non c’è assolutamente bisogno di «scongiurare» Dio (v.5) come se fossimo dei «subalterni» (v.9).

La nostra opera è quella di dissodare e acquisire un nuovo “occhio”, non di sottostare a organigrammi.

Lo sguardo rinato è intuitivo di altre virtù - non sottostà a nomenclature incapaci di fecondità immediata.

Basta con i sensi di manchevolezza!

Essi finiscono per introdurci in cappe e dinamiche a guglia (v.9) tipiche d’ogni feudalesimo stagnante.

Palude che annienta la potenza nuova d’amore - cronicizzando gli assetti.

Configurazioni ingessate da troppe noiose concatenazioni e monarchie locali [come ad es. constatiamo in provincia].

 

Nell’Ascolto naturale di se stessi e degli eventi, stima genuina e divina Gratuità ci guidano onda su onda verso un nuovo modo di vivere e scambiarsi doni.

Strada impervia per l’abitudine; per l’ovvietà che non sposta i pensieri, e non percepisce.

Cifra inaccessibile a coloro che agiscono per dovere - sentiero enigmatico, poco trasparente, subdolo e assai «tortuoso».

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come intendi e coltivi la certa e libera Venuta di Gesù nella tua Casa?

 

 

Cattolica

 

La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, allocuzione Concistoro 24 novembre 2012]

Domenica, 23 Novembre 2025 01:48

Da Figlio di Davide a Figlio dell’uomo

La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, allocuzione Concistoro 24 novembre 2012]

Domenica, 23 Novembre 2025 01:45

Fede

3. In che cosa consiste la fede? La Costituzione Dei Verbum spiega che con essa "l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli 'il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà' e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui" (n. 5). La fede non è, dunque, solo adesione dell'intelligenza alla verità rivelata, ma anche ossequio della volontà e dono di sé a Dio che si rivela. E' un atteggiamento che impegna l'intera esistenza.

Il Concilio ricorda ancora che per la fede sono necessari "la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità" (ibid.). Si vede così come la fede, da una parte, fa accogliere la verità contenuta nella Rivelazione e proposta dal magistero di coloro che, come Pastori del Popolo di Dio, hanno ricevuto un "carisma certo di verità" (Dei Verbum, 8). D'altra parte, la fede spinge anche ad una vera e profonda coerenza, che deve esprimersi in tutti gli aspetti di una vita modellata su quella di Cristo.

4. Frutto com'è della grazia, la fede esercita un influsso sugli avvenimenti. Lo si vede mirabilmente nel caso esemplare della Vergine Santa. Nell'Annunciazione la sua adesione di fede al messaggio dell'angelo è decisiva per la stessa venuta di Gesù nel mondo. Maria è Madre di Cristo perché prima ha creduto in Lui.

Alle nozze di Cana Maria per la sua fede ottiene il miracolo. Dinanzi a una risposta di Gesù che sembrava poco favorevole, Ella mantiene un atteggiamento fiducioso, diventando così modello della fede audace e costante che supera gli ostacoli.

Audace e insistente fu anche la fede della cananea. A questa donna, venuta a chiedere la guarigione della figlia, Gesù aveva opposto il piano del Padre, che limitava la sua missione alle pecore perdute della casa d'Israele. La cananea rispose con tutta la forza della sua fede e ottenne il miracolo: "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28).

5. In molti altri casi il Vangelo testimonia la potenza della fede. Gesù esprime la sua ammirazione per la fede del centurione: "In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande" (Mt 8,10). E a Bartimeo dice: "Va', la tua fede ti ha salvato" (Mc 10,52). La stessa cosa ripete all'emorroissa (cfr Mc 5,34).

Le parole rivolte al padre dell'epilettico, che desiderava la guarigione del figlio, non sono meno impressionanti: "Tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,23).

Il ruolo della fede è di cooperare con questa onnipotenza. Gesù chiede tale cooperazione al punto che, tornando a Nazaret, non opera quasi nessun miracolo per il motivo che gli abitanti del suo villaggio non credevano in lui (cfr Mc 6,5-6). Ai fini della salvezza, la fede ha per Gesù un'importanza decisiva.

San Paolo svilupperà l'insegnamento di Cristo quando, in contrasto con quanti volevano fondare la speranza di salvezza sull'osservanza della legge giudaica, affermerà con forza che la fede in Cristo è la sola fonte di salvezza: "Noi riteniamo, infatti, che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge" (Rm 3,28). Non bisogna, tuttavia, dimenticare che san Paolo pensava a quella fede autentica e piena "che opera per mezzo della carità" (Gal 5,6). La vera fede è animata dall'amore verso Dio, che è inseparabile dall'amore verso i fratelli.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 18 marzo 1998]

Domenica, 23 Novembre 2025 01:34

A guardia bassa

Lasciamoci incontrare da Gesù «con la guardia bassa, aperti», affinché egli possa rinnovarci dal profondo della nostra anima. È questo l’invito di Papa Francesco all’inizio del tempo di Avvento. Il Pontefice lo ha rivolto ai fedeli durante la messa celebrata questa mattina, lunedì 2 dicembre, nella cappella di Santa Marta.

Il cammino che cominciamo in questi giorni, ha esordito, è «un nuovo cammino di Chiesa, un cammino del popolo di Dio, verso il Natale. E camminiamo all’incontro del Signore». Il Natale è infatti un incontro: non solo «una ricorrenza temporale oppure — ha specificato il Pontefice — un ricordo di qualcosa bella. Il Natale è di più. Noi andiamo per questa strada per incontrare il Signore». Dunque nel periodo dell’Avvento «camminiamo per incontrarlo. Incontrarlo con il cuore, con la vita; incontrarlo vivente, come lui è; incontrarlo con fede».

In verità, non è «facile vivere con la fede», ha notato il vescovo di Roma. E ha ricordato l’episodio del centurione che, secondo il racconto del vangelo di Matteo (8, 5-11), si prostra dinnanzi a Gesù per chiedergli di guarire il proprio servo. «Il Signore, nella parola che abbiamo ascoltato — ha spiegato il Papa — si meravigliò di questo centurione. Si meravigliò della fede che lui aveva. Aveva fatto un cammino per incontrare il Signore. Ma l’aveva fatto con fede. Per questo non solo lui ha incontrato il Signore, ma ha sentito la gioia di essere incontrato dal Signore. E questo è proprio l’incontro che noi vogliamo, l’incontro della fede. Incontrare il Signore, ma lasciarci incontrare da lui. È molto importante!».

Quando ci limitiamo solo a incontrare il Signore, ha puntualizzato, «siamo noi — ma questo diciamolo tra virgolette — i “padroni” di questo incontro». Quando invece «ci lasciamo incontrare da lui, è lui che entra dentro di noi» e ci rinnova completamente.

«Questo — ha ribadito il Santo Padre — è quello che significa quando viene Cristo: rifare tutto di nuovo, rifare il cuore, l’anima, la vita, la speranza, il cammino».

In questo periodo dell’anno liturgico, dunque, siamo in cammino per incontrare il Signore, ma anche e soprattutto «per lasciarci incontrare da lui». E dobbiamo farlo con cuore aperto, «perché lui mi incontri, mi dica quello che vuole dirmi, che non sempre è quello che voglio che lui mi dica!». Non dimentichiamo allora che «lui è il Signore e lui mi dirà quello che ha per me», per ciascuno di noi, perché «il Signore — ha precisato il Pontefice — non ci guarda tutti insieme, come una massa: no, no! Lui ci guarda uno a uno, in faccia, negli occhi, perché l’amore non è un amore astratto ma è un amore concreto. Persona per persona. Il Signore, persona, guarda a me, persona». Ecco perché lasciarci incontrare dal Signore significa in definitiva «lasciarci amare dal Signore».

«Nella preghiera all’inizio della messa — ha ricordato il Pontefice — abbiamo chiesto la grazia di fare questo cammino con alcuni atteggiamenti che ci aiutano. La perseveranza nella preghiera: pregare di più. La operosità nella carità fraterna: avvicinarci un po’ di più a quelli che hanno bisogno. E la gioia nella lode del Signore». Dunque «cominciamo questo cammino con la preghiera, la carità e la lode, a cuore aperto, perché il Signore ci incontri». Ma, ha chiesto il Papa in conclusione, «per favore, che ci incontri con la guardia bassa, aperti!».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 02-03/12/2013]

Mt 24,37-44 (24-51)

 

Chiave di lettura del brano potrebbe essere la celebre espressione di s. Agostino: «Timeo Dominum transeuntem».

Incarnazione è filo diretto con la realtà e la condizione divina insieme.

 

Il tempo della persona di Fede è come stagione d’attesa, ma non di provvisorietà: piuttosto, capitalizzazione e rivolgimento continui.

Né il momento della Chiesa si configura come periodo istituzionale, un lasso di pausa - a orario, con scadenza.

Certo, non è neppure un’età d’allestimento a partire dalle nostre idee, bensì di accoglienza del Regno, che giunge nel suo Appello - oggi con proposte chiarissime (perfino nelle sue sottrazioni).

Siamo chiamati a essere pronti in ogni istante, e veloci come un ‘ladro di notte’…

Forse vuol portarci via qualcosa che crediamo assolutamente nostro, cui però siamo troppo legati.

 

Fin dalle prime generazioni di credenti sorgevano gruppi di visionari - purtroppo sprovveduti - collegati a un’idea di catastrofe imminente.

L’attesa del ‘ritorno’ subitaneo d’un Messia che doveva porre fine all’ingiustizia e realizzare il Giudizio finale, era aspettativa comune di quanti desideravano s’inaugurasse una nuova fase della storia.

Tuttavia, in nessun punto dei Vangeli è scritto: Gesù “torna”, come se si fosse allontanato.

Egli sopraggiunge, certo: «Viene» - non “ritorna”.

Nel Nuovo Testamento il Risorto è Veniente [‘o Erchòmenos] ossia Colui che irrompe, che incessantemente si rende Presente.

 

Il punto della Vita è accorgersi, percepire la Presenza di Qualcuno dentro qualcosa; nelle cose sommarie e nelle vicende di liberazione.

Anche nel dramma della rinascita dalla crisi globale.

Nessuna forma di alienazione proviene dai Vangeli: Cristo è «con-noi» in ogni momento; nel nostro impegno in favore della natura, delle culture, della vita di tutti.

L’esperienza piena, totale, di completezza, non è data nel tempo particolare.

Ma ad es. lo spirito di disinteresse che si diffonde e già rende nuove le relazioni e le cose rimane una garanzia del Regno.

Seme e preludio del nuovo mondo che la Chiesa è chiamata ad annunciare e costruire - includendolo a braccia aperte.

 

Con a centro il «Figlio dell’uomo» che «viene», passo dopo passo, non perdiamo l‘intesa.

Ogni momento è buono per acuire la perspicacia nello Spirito.

La flessibilità del cuore prevarrà sui pronostici, sugli imperativi della mente.

Ecco l’accorgersi e percepire le opportunità; aprire gli occhi, decifrare gli accadimenti, spostare lo sguardo - onde cogliere la Venuta del Signore, fiutarne il Senso, intuirla come Fonte di Speranza.

 

Nell’Eucaristia proclamiamo appunto la Venuta del Signore, perché la vita in Cristo è in ogni evento anticipazione e preparazione all’Incontro sponsale.

In ottica di Fede, qualsiasi istante critico coopera al bene.

È Chiamata e opportunità di risposta, non timore permanente.

 

 

[1.a Domenica Avvento (anno A), 30 novembre 2025]

La reinterpretazione del colore liturgico viola

Mt 24,37-44 (24-51)

 

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro Viene» (v.42).

Chiave di lettura del brano è la celebre espressione di s. Agostino: «Timeo Dominum transeuntem». Incarnazione è filo diretto con la realtà e la condizione divina insieme.

Il tempo della persona di Fede è come stagione d’attesa, ma non di provvisorietà: piuttosto, capitalizzazione e rivolgimento continui.

Né il momento della Chiesa si configura come periodo istituzionale, un lasso di pausa - ad orario, con scadenza.

Certo, non è neppure un’età d’allestimento a partire dalle nostre idee, bensì di accoglienza del Regno, che giunge nel suo Appello - oggi con proposte chiarissime (perfino nelle sue sottrazioni).

Siamo chiamati a essere pronti in ogni istante, come un ladro di notte... il quale vuole portarci via qualcosa che crediamo assolutamente nostro, cui però ci siamo legati troppo.

 

Fin dalle prime generazioni di credenti sorgevano gruppi di visionari - purtroppo sprovveduti - collegati a un’idea di catastrofe imminente.

Ma l’attesa del ritorno subitaneo d’un Messia che doveva porre fine all’ingiustizia e realizzare il Giudizio finale, era aspettativa comune di quanti desideravano s’inaugurasse una nuova fase della storia.

Tuttavia, in nessun punto dei Vangeli è scritto che Gesù deve “tornare”, come se si fosse allontanato. Egli sopraggiunge, Viene; non “ritorna”.

Nel Nuovo Testamento il Risorto è Veniente [‘o Erchòmenos] ossia Colui che irrompe, che incessantemente si rende Presente.

La fine del mondo e il ritorno del Signore su una nuvola bianca è una suggestione che ancora oggi viene usata per intimidire la gente semplice e condizionarla a gruppi di fanatici. I social networks ne sono colmi.

 

Il punto decisivo della vita è accorgersi, percepire la Presenza di Qualcuno dentro qualcosa: nelle cose sommarie della vita, nelle vicende di liberazione; anche nel dramma della rinascita dalla crisi globale.

In tal guisa, nessuna forma di alienazione proviene dai Vangeli. Cristo è «con-noi» in ogni momento, nel nostro impegno in favore della natura, delle culture, della vita di tutti.

L’esperienza piena di completezza non è data nel tempo particolare, ma ad es. lo spirito di disinteresse che si diffonde e già rende nuove le relazioni e le cose, rimane una garanzia del Regno - ossia del nuovo mondo che la Chiesa è chiamata ad annunciare ed edificare - includendolo a braccia aperte, passo passo.

Ogni momento è buono per acuire la visuale: accorgersi, percepire le opportunità; aprire gli occhi, o spostare lo sguardo, onde cogliere la Venuta del Signore e intuirla come fonte di Speranza.

 

Nell’Eucaristia proclamiamo la Presenza sempre nuova del Signore, perché la Vita in Cristo è anticipazione e preparazione all’Incontro [che già arreca il pane di cui l’anima nostra e il mondo hanno bisogno].

Ogni istante perfino oscuro è Chiamata penetrante e opportunità di risposta, di contatto, di alimento profondi; non una fonte di tormento e terrore permanenti.

 

 

La Sicurezza è nella Insicurezza

 

Che tipo di Avvento-Venuta è? Perché è associata all’idea di cataclismi? Non sembra istanza d’una buona notizia parlare di “diluvio”.

Nella tradizione osservante di tutti i popoli, l’insicurezza è percepita come uno svantaggio, e i maestri constatano il progresso della vita spirituale quando un’anima dall’esistenza mescolata e disordinata supera i suoi parapiglia per un ideale di “calma coerente”, in favore dell’ordine e della tranquillità.

Condizionati da un indottrinamento pio, omologato al saper “stare in società” e all’idea di Vittoria che precede la Pace, attendiamo d’incontrare nostro Signore nei momenti bui, ma affinché ci ridoni fortuna.

Lo aspettiamo nel tempo dei problemi economici, perché ci renda vantaggio con una vincita; nelle vicende umilianti, per farci risalire la china.

Nei pericoli desideriamo che almeno Lui trasmetta forza per ribaltare la situazione; nella malattia, immaginiamo ci ridoni vigore giovanile; nella babele, che comunichi relax (meglio, trionfo).

Nei Vangeli Gesù cerca di far capire ai suoi dove e quando incontrare autenticamente Dio. Ma nell’attesa delle sue “promesse” facciamo difficoltà a procedere oltre l’esteriore.

Proiettiamo le nostre idee anche in religione - però la Fede se ne distacca. Valuta con mentalità opposta.

Capita di non riuscire a incontrare un amico perché sbagliamo tempi e luoghi dell’appuntamento. Succede anche con Dio.

L’insicurezza proclamata dai Vangeli somiglia proprio a uno tsunami; ma si tratta di Lieta Novella!

Sebbene tendiamo spesso a dare un senso di permanenza a tutto ciò che abbiamo vissuto e credevamo di “essere”, ripetutamente sperimentiamo che le nostre certezze mutano - proprio come i flutti.

Gesù insegna che la dubbiosità la quale davvero annienta la sua Chiamata sorge da un nostro identificativo [ruoli, personaggi, mansioni] che tenta di pareggiare le onde della vita.

Invece l’essenza di ciascuno sgorga da una Sorgente vivace, che tutti i giorni fa quel che deve.

Abitudini, opinioni esterne, modi di essere rassicuranti di stare con le persone e affrontare le situazioni, tagliano fuori la ricchezza delle nostre sfumature preziose, buona parte dei nostri stessi volti.

E nascite e ringiovanimenti che ci appartengono.

L’impatto interiore delle molte sollecitazioni della Scaturigine dell’essere insinua uno squilibrio inevitabile e fecondo - che rischiamo però d’interpretare in modo negativo, appunto come fastidio.

Nella mente dell’uomo che schiva le oscillazioni, quel genere di onda che viene per farci ragionare sulle cose antiche (date per scontate) è subito identificata come pericolo identitario.

La stessa Provvidenza - l’onda che vede avanti - è forse bollata d’inquietudine, talora anche da chi ci “consiglia”.

Nell’uomo ideale come cesellato dai moralismi più normalizzanti, l’acqua paludosa delle pulsioni è quella che sporca e trascina a terra; e il Cielo sarebbe sempre limpido e netto sopra la terra.

Invece spesso è un’identificazione culturale a monte che produce insicurezza!

Tutto ciò, ben più della realtà oggettiva che scende in campo per rinfrescare la nostra anima e renderla lieve come la spuma del mare (crudamente incarnata).

Bisogna tuffarsi nei flutti, bisogna conoscere le onde dei maremoti, perché il nostro punto fermo non è nelle cose esterne.

La scorza delle apparenze condanna alla peggiore fluttuazione, alla meno vantaggiosa delle insicurezze: credere che mantenendo i livelli economici o il prestigio, raggiungendo quel traguardo, scalando il tabellone dei titoli, eviteremo frustrazioni, scanseremo angosce, saremo finalmente senza contrasti e persino felici.

Ma così la nostra anima perde respiro, non si rafforza, né vola verso territori ancora sconosciuti; si posa nel recinto dell’aia più omologante.

Invece siamo vivi, e la giovinezza che conquista il Regno viene dal caos.

I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel “diluvio” dove nessuna onda somiglia alle altre.

Insomma, sulla base della Parola di Dio anche il colore liturgico viola dovrebbe forse assumere una reinterpretazione (viva e graffiante) - assai più profonda di quella data per scontata.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Avvento: per quale motivo vuoi che il Signore venga e si renda presente nella tua vita?

 

 

Figlio dell’uomo

 

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo.

Essi superano i fermi e propri confini naturali, facendo spazio al Dono; accogliendo da Dio pienezza di essere, nei suoi nuovi, irripetibili binari.

Sentendosi totalmente e immeritatamente amati, scoprono altre sfaccettature, cambiano il modo di stare con se stessi, e possono crescere: si realizzano, fioriscono e irradiano la completezza ricevuta.

 

Uscendo dall’idea scarsa o statica che abbiamo di noi - problema grave in molte anime sensibili e dedite - anche la personalità relazionale può iniziare a immaginare.

E sognare, scoprire di poter non dare più peso a coloro che vogliono plagiare il cammino di persona (in pienezza di essere e vocazione).

Chi attiva l’idea di potercela fare, trasmette poi la forza dello Spirito che ha ricevuto e accolto, e il mondo fiorisce.

Emanando una differente atmosfera, la persona integrata nei suoi lati anche opposti, sente nascere consapevolezze, crea progetti, emette e attrae altre energie; le fa attivare.

Dio vuole estendere l’ambito in cui “regna” - rapportandosi in modo interpersonale - a tutta l’umanità… Chiesa senza confini visibili, che inizierà con il «Figlio dell’uomo» (figura non esclusiva di Gesù).

 

Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33). Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012]

 

Con l’immagine del Figlio d’uomo, già il profeta Daniele voleva indicare un ribaltamento dei criteri di autenticità (umana e divina): un uomo o un popolo, leader, finalmente dal cuore di carne invece che di belva.

Nell’icona del “Figlio dell’uomo” gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano, la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di vita piena.

Il Popolo che riluce in modo divino non si trova più impigliato da paure o isterismi, anzi porta al massimo tutta la sua variegata potenzialità d’amore, di effusione di vita.

«Figlio dell’uomo» - realtà possibile - è chiunque raggiunga pienezza, fioritura della capacità di essere, nell’estensione dei rapporti… entrando in sintonia con la sfera di Dio Creatore, Amante della vita.

Lo fa nelle sue variegate sfaccettature, e si fonde con Lui - diventando Uno. Creando abbondanza.

«Figlio dell’uomo» è l’uomo che si comporta sulla terra come farebbe Dio stesso, che rende presente il divino e la sua forza nella storia.

Quindi può permettersi di sostituire la cupa seriosità dell’essere pio e sottoposto, con la sapiente spensieratezza che rende tutto lieve.

«Figlio dell’uomo» raffigura il massimo dell’umano, la Persona per eccellenza - che diventa liberante invece che opprimente.

Le conseguenze sono inimmaginabili, perché ciascuno di noi in Cristo (e per i fratelli) non ha più percorsi morti da rifare.

 

«"Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà" (Mt 24,42). Gesù, che nel Natale è venuto tra noi e tornerà glorioso alla fine dei tempi, non si stanca di visitarci continuamente, negli eventi di ogni giorno. Ci chiede e ci avverte di attenderlo vegliando, poiché la sua venuta non può essere programmata o pronosticata, ma sarà improvvisa e imprevedibile. Solo chi è desto non è colto alla sprovvista. Che non vi succeda, Egli avverte, quel che avvenne al tempo di Noè, quando gli uomini mangiavano e bevevano spensieratamente, e furono colti impreparati dal diluvio (cfr Mt 24,37-38). Che cosa il Signore vuole farci comprendere con questo ammonimento, se non che non dobbiamo lasciarci assorbire dalle realtà e preoccupazioni materiali sino al punto da restarne irretiti?

"Vegliate dunque…". Ascoltiamo l’invito di Gesù nel Vangelo e prepariamoci a rivivere con fede il mistero della nascita del Redentore, che ha riempito l’universo di gioia; prepariamoci ad accogliere il Signore nel suo incessante venirci incontro negli eventi della vita, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia; prepariamoci ad incontrarlo nell’ultima sua definitiva venuta. Il suo passaggio è sempre fonte di pace e, se la sofferenza, retaggio dell’umana natura, diventa talora quasi insopportabile, con l’avvento del Salvatore "la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode" (Enc. Spe salvi, 37)».

[Papa Benedetto, omelia all’ospedale romano s. Giovanni Battista, 2 dicembre 2007]

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Gospels make their way, advance and free, making us understand the enormous difference between any creed and the proposal of Jesus. Even within us, the life of Faith embraces all our sides and admits many things. Thus we become more complete and emancipate ourselves, reversing positions.
I Vangeli si fanno largo, avanzano e liberano, facendo comprendere l’enorme differenza tra credo qualsiasi e proposta di Gesù. Anche dentro di noi, la vita di Fede abbraccia tutti i nostri lati e ammette tante cose. Così diventiamo più completi e ci emancipiamo, ribaltando posizioni
We cannot draw energy from a severe setting, contrary to the flowering of our precious uniqueness. New eyes are transmitted only by the one who is Friend. And Christ does it not when we are well placed or when we equip ourselves strongly - remaining in a managerial attitude - but in total listening
Non possiamo trarre energia da un’impostazione severa, contraria alla fioritura della nostra preziosa unicità. Gli occhi nuovi sono trasmessi solo da colui che è Amico. E Cristo lo fa non quando ci collochiamo bene o attrezziamo forte - permanendo in atteggiamento dirigista - bensì nell’ascolto totale
The Evangelists Matthew and Luke (cf. Mt 11:25-30 and Lk 10:21-22) have handed down to us a “jewel” of Jesus’ prayer that is often called the Cry of Exultation or the Cry of Messianic Exultation. It is a prayer of thanksgiving and praise [Pope Benedict]
Gli evangelisti Matteo e Luca (cfr Mt 11,25-30 e Lc 10,21-22) ci hanno tramandato un «gioiello» della preghiera di Gesù, che spesso viene chiamato Inno di giubilo o Inno di giubilo messianico. Si tratta di una preghiera di riconoscenza e di lode [Papa Benedetto]
The human race – every one of us – is the sheep lost in the desert which no longer knows the way. The Son of God will not let this happen; he cannot abandon humanity in so wretched a condition. He leaps to his feet and abandons the glory of heaven, in order to go in search of the sheep and pursue it, all the way to the Cross. He takes it upon his shoulders and carries our humanity (Pope Benedict)
L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità (Papa Benedetto)
"Too bad! What a pity!" “Sin! What a shame!” - it is said of a missed opportunity: it is the bending of the unicum that we are inside, which every day surrenders its exceptionality to the normalizing and prim outline of common opinion. Divine Appeal of every moment directed Mary's dreams and her innate knowledge - antechamber of her trust, elsewhere
“Peccato!” - si dice di una occasione persa: è la flessione dell’unicum che siamo dentro, che tutti i giorni cede la sua eccezionalità al contorno normalizzante e affettato dell’opinione comune. L’appello divino d’ogni istante orientava altrove i sogni di Maria e il suo sapere innato - anticamera della fiducia
It is a question of leaving behind the comfortable but misleading ways of the idols of this world: success at all costs; power to the detriment of the weak; the desire for wealth; pleasure at any price. And instead, preparing the way of the Lord: this does not take away our freedom (Pope Francis)
Si tratta di lasciare le strade, comode ma fuorvianti, degli idoli di questo mondo [...] E di aprire invece la strada al Signore che viene: Egli non toglie la nostra libertà (Papa Francesco)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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