don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 29 Luglio 2025 04:11

Luminosi

La liturgia ci fa contemplare l’evento della Trasfigurazione, nel quale Gesù concede ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni di pregustare la gloria della Risurrezione: uno squarcio di cielo sulla terra. L’evangelista Luca (cfr 9,28-36) ci mostra Gesù trasfigurato sul monte, che è il luogo della luce, simbolo affascinante della singolare esperienza riservata ai tre discepoli. Essi salgono col Maestro sulla montagna, lo vedono immergersi in preghiera, e a un certo punto «il suo volto cambiò d’aspetto» (v. 29). Abituati a vederlo quotidianamente nella semplice sembianza della sua umanità, di fronte a quel nuovo splendore, che avvolge anche tutta la sua persona, rimangono stupiti. E accanto a Gesù appaiono Mosè ed Elia, che parlano con Lui del suo prossimo “esodo”, cioè della sua Pasqua di morte e risurrezione. È un anticipo della Pasqua. Allora Pietro esclama: «Maestro, è bello per noi essere qui» (v. 33). Vorrebbe che quel momento di grazia non finisse più!

La Trasfigurazione si compie in un momento ben preciso della missione di Cristo, cioè dopo che Lui ha confidato ai discepoli di dover «soffrire molto, […] venire ucciso e risuscitare il terzo giorno» (v. 21). Gesù sa che loro non accettano questa realtà – la realtà della croce, la realtà della morte di Gesù –, e allora vuole prepararli a sopportare lo scandalo della passione e della morte di croce, perché sappiano che questa è la via attraverso la quale il Padre celeste farà giungere alla gloria il suo Figlio, risuscitandolo dai morti. E questa sarà anche la via dei discepoli: nessuno arriva alla vita eterna se non seguendo Gesù, portando la propria croce nella vita terrena. Ognuno di noi, ha la propria croce. Il Signore ci fa vedere la fine di questo percorso che è la Risurrezione, la bellezza, portando la propria croce.

Dunque, la Trasfigurazione di Cristo ci mostra la prospettiva cristiana della sofferenza. Non è un sadomasochismo la sofferenza: essa è un passaggio necessario ma transitorio. Il punto di arrivo a cui siamo chiamati è luminoso come il volto di Cristo trasfigurato: in Lui è la salvezza, la beatitudine, la luce, l’amore di Dio senza limiti. Mostrando così la sua gloria, Gesù ci assicura che la croce, le prove, le difficoltà nelle quali ci dibattiamo hanno la loro soluzione e il loro superamento nella Pasqua. Perciò, in questa Quaresima, saliamo anche noi sul monte con Gesù! Ma in che modo? Con la preghiera. Saliamo al monte con la preghiera: la preghiera silenziosa, la preghiera del cuore, la preghiera sempre cercando il Signore. Rimaniamo qualche momento in raccoglimento, ogni giorno un pochettino, fissiamo lo sguardo interiore sul suo volto e lasciamo che la sua luce ci pervada e si irradi nella nostra vita.

Infatti l’Evangelista Luca insiste sul fatto che Gesù si trasfigurò «mentre pregava» (v. 29). Si era immerso in un colloquio intimo con il Padre, in cui risuonavano anche la Legge e i Profeti – Mosè ed Elia – e mentre aderiva con tutto Sé stesso alla volontà di salvezza del Padre, compresa la croce, la gloria di Dio lo invase trasparendo anche all’esterno. È così, fratelli e sorelle: la preghiera in Cristo e nello Spirito Santo trasforma la persona dall’interno e può illuminare gli altri e il mondo circostante. Quante volte abbiamo trovato persone che illuminano, che emanano luce dagli occhi, che hanno quello sguardo luminoso! Pregano, e la preghiera fa questo: ci fa luminosi con la luce dello Spirito Santo.

[Papa Francesco, Angelus 17 marzo 2019]

Lunedì, 28 Luglio 2025 07:33

Il rischio di affogare

La difficile condizione del discepolo nella Chiesa e nel mondo

(Mt 14,22-36)

 

Raggiunta la condizione definitiva (v.23) Gesù non consente agli Apostoli di trattenere per se stessi i tesori di Dio.

Egli costringe i suoi alla missione verso i pagani (v.22). Però i ‘venti contrari’ erano molti.

A distanza di circa mezzo secolo dalla morte del Signore, le comunità di Galilea e Siria si trovavano di fronte a una difficile traversata.

Le sicurezze dell’antica religione e il senso di radicamento nelle consuetudini del popolo “eletto” stavano venendo meno. Anche i piccoli privilegi di posizione si sgretolavano.

Con l’ingresso sempre più accentuato dei pagani nelle comunità, i fedeli di terza generazione erano obbligati a chiedersi come uscire dall’antico isolamento culturale, per spalancarsi a un nuovo modo di vedere le cose.

In aggiunta alle persecuzioni, si accentuavano i conflitti interni: ad esempio, sulla posizione da assumere in rapporto all’Impero stesso.

Non mancavano accesi dibattiti sulla stessa figura e la storia del Maestro - nonché sull’atteggiamento da assumere nei confronti della tradizione dei ‘padri’ [che a qualcuno sembrava un richiamo a tornare indietro].

Sebbene la situazione fosse gravida di attriti, amarezze, ruggini fra giudaizzanti e provenienti dal paganesimo, nonché pericoli impetuosi, la Lieta Novella della Salvezza senza condizioni non poteva essere conservata in una cerchia ristretta.

 

La citazione del Nome divino «Io Sono» (v.27) rimanda qui alla vicenda dell’Esodo (3,14).

È un richiamo ai discepoli. Essi sembravano ancora succubi di timori immediati, sulla reale potenza di Vita e di Liberazione del Cristo - tanto da non riconoscerlo (v.26).

Senza posa il Risorto si rende ancora Presente, affinché riusciamo ad aprirci e procedere; senza il fardello delle contrapposizioni o delle nostalgie. C’è tutta una realtà nuova che attende.

Siamo abitati dal vigore di Dio (vv.28-31).

Le comunità autentiche - «lembo del suo mantello» (v.36) ossia della sua Persona - sperimenteranno ancora la potenza dello Spirito.

Attraverso l’evangelizzazione e il nuovo modo di vivere e aiutare gratuitamente gli altri, ogni tempesta che si dovesse addensare all’orizzonte diraderà.

Essa verrà sostituita da una sempre più profonda e acuta esperienza delle diversità fiorenti di ‘altra riva’; del prossimo, di se stessi, della stessa vita che viene, e di Dio.

Ma la virtù che domina gli elementi non può essere sperimentata come intendeva Pietro, ossia al pari d’una potenza esterna, immediata, determinante, e finale - bensì misteriosa e interiore, animata nel tempo, e di profonda relazione.

La “vittoria” sarà frutto di sola Fede: fiducia nella forza che il Messia silenzioso dona.

Potenza assai più rilevante di quella che già sappiamo di noi - malgrado spesso (come Simone) pretendiamo una più facile scorciatoia, velocissima, subito risolutiva.

 

Le situazioni emotivamente rilevanti hanno il loro senso, recano un appello significativo; introducono una diversa introspezione, il cambiamento decisivo - una nuova ‘genesi’.

La prova infatti attiva le anime nel modo più efficace, perché ci sgancia dall’idea di stabilità, e pone in contatto con energie sottaciute, avviando il nuovo dialogo con gli eventi.

In Lui, eccoci dunque intrisi d’una diversa visione del pericolo.

 

 

[Lunedì 18.a sett. T.O. (anno A)]

 

[Martedì 18.a sett. T.O. (anno B-C), 5 agosto 2025]

Il rischio di affogare

(Mt 14,22-36)

 

Qualche altra provvidenza, che tu ignori

 

«È bene non cadere, oppure cadere e risollevarsi. E se accade di cadere, è bene non disperare e non rendersi estranei all’amore che il Sovrano ha per l’uomo. Se lo vuole può infatti fare misericordia alla nostra debolezza. Soltanto non allontaniamoci da lui, non sentiamoci angustiati se siamo forzati dai comandamenti e non avviliamoci se non arriviamo a niente (…).

Non dobbiamo né aver fretta né ripiegarci, ma sempre ricominciare di nuovo (…).

Aspettalo, ed egli ti farà misericordia, sia con la conversione sia con delle prove, sia con qualche altra provvidenza che tu ignori».

(Pietro Damasceno, libro secondo, ottavo discorso, in La Filocalia, Torino 1982, I,94)

 

 

Raggiunta la condizione definitiva (v.23) Gesù non consente agli Apostoli di trattenere per se stessi i tesori di Dio.

Egli costringe i suoi alla missione verso i pagani (v.22). Però i “venti” contrari erano molti.

A distanza di circa mezzo secolo dalla morte del Signore, le comunità di Galilea e Siria si trovavano di fronte a una difficile traversata.

Le sicurezze dell’antica religione e il senso di radicamento nelle consuetudini del popolo “eletto” stavano venendo meno. Anche i piccoli privilegi di posizione si sgretolavano.

Con l’ingresso sempre più accentuato dei pagani nelle comunità, i fedeli di terza generazione erano obbligati a chiedersi come uscire dall’antico isolamento culturale, per spalancarsi a un nuovo modo di vedere le cose.

In aggiunta alle persecuzioni, si accentuavano i conflitti interni: ad esempio, sulla posizione da assumere in rapporto all’Impero stesso.

Non mancavano accesi dibattiti sulla stessa figura e la storia del Maestro - nonché sull’atteggiamento da assumere nei confronti della tradizione dei padri (che a qualcuno sembrava un richiamo a tornare indietro)

Sebbene la situazione fosse gravida di attriti, amarezze, ruggini fra giudaizzanti e provenienti dal paganesimo, nonché pericoli impetuosi, la Lieta Novella della Salvezza senza condizioni non poteva essere conservata in una cerchia ristretta.

La citazione del Nome divino «Io Sono» rimanda qui alla vicenda dell’Esodo 3,14. È un richiamo ai discepoli, ancora succubi di timori immediati sulla reale potenza di vita e liberazione del Cristo - tanto da non riconoscerlo (v.26).

Senza posa il Risorto si rende ancora Presente, affinché riusciamo ad aprirci e procedere in avanti; senza il fardello delle contrapposizioni o delle nostalgie. C’è tutta una realtà nuova che attende.

Siamo abitati dal vigore di Dio (vv.28-31), e anche oggi per la rinascita dalla crisi globale siamo chiamati a una risposta d’amore personale, culturale, radicale, inedita: anche all’introspezione, ma non da sottoposti intimiditi; temeraria, ma non da frettolosi di superficie.

Le comunità autentiche - «lembo del suo mantello» (v.36) ossia della sua Persona - sperimenteranno ancora la potenza dello Spirito.

Attraverso l’evangelizzazione e il nuovo modo di vivere e aiutare gratuitamente gli altri, ogni tempesta che si dovesse addensare all’orizzonte diraderà.

Essa verrà sostituita da una sempre più profonda e acuta esperienza delle diversità fiorenti d’altra riva; del prossimo, di se stessi, della stessa vita che viene, e di Dio.

Ma la virtù che domina gli elementi non può essere sperimentata come intendeva Pietro, ossia al pari d’una potenza esterna, immediata, determinante, e finale - bensì misteriosa e interiore, animata nel tempo e di profonda relazione.

La “vittoria” sarà frutto di sola Fede: fiducia nella forza che il Messia silenzioso dona.

Potenza assai più rilevante di quella che già sappiamo di noi - malgrado spesso (come Simone) pretendiamo una più facile scorciatoia, velocissima, subito risolutiva.

 

(Mt 8,23-27)

Il senso di marcia imposto da Gesù ai suoi sembra contromano, e infrange sfacciatamente le regole accettate da tutti.

Mentre i discepoli accarezzavano desideri nazionalisti, il Maestro inizia a far capire che Egli non è il Messia volgarmente attesto, restauratore del defunto impero di Davide o dei Cesari.

Il Regno di Dio è aperto a tutta l'umanità, che in quei tempi di sballottamento cerca sicurezze, accoglienza, punti di riferimento. Ciascuno può trovarvi casa e riparo (Mt 13,32c; Mc 4,32b).

Ma gli apostoli e i veterani di chiesa sembrano avversi alle proposte di Cristo; rimangono insensibili a un’idea troppo larga di fraternità - che li spiazza. È un problema vivo e gravissimo.

L’insegnamento e richiamo imposto ai discepoli è quello di passare all’altra riva (Mc 4,35; Lc 8,22) ossia di non trattenere per sé, ma di comunicare le ricchezze del Padre ai pagani, considerati impuri e malfamati.

Eppure i suoi non ne vogliono sapere di sproporzioni rischiose, che facciano effettivamente risaltare l’azione del Figlio di Dio. Sono tarati su consuetudini di religiosità comune e un’ideologia di potere circoscritta.

La resistenza all’incarico divino e il dibattito interno lacerante che ne deriva scatena una grande tempesta nelle assemblee dei credenti.

«Ed ecco venne una grande agitazione nel mare, così che la barca veniva coperta dalle onde» (Mt 8,24).

La bufera riguarda i soli discepoli, unici sgomenti; non Gesù: «ma dormiva» (Mt 8,24c: si tratta del Risorto).

Quel che accade “dentro” non è il semplice riflesso di ciò che capita “fuori”! Questo l’errore da correggere.

Tale identificazione blocca e rende cronica la vita, a partire dalla gestione delle situazioni emotivamente rilevanti - che hanno il loro senso. Esse recano un appello significativo, introducono un diverso occhio e dialogo.

Anche dalla pace della condizione divina che domina il caos, il Signore richiama l’attenzione e rimprovera gli apostoli, accusandoli di non avere fede, ossia un briciolo di rischio d’amore - come un granello di senape (Mt 8,26) - da portare all’umanità per rinnovarla.

Insomma, siamo confusi, nell’imbarazzo, e infuria il caos degli schemi (non escluso l’egoismo)? Andiamo paradossalmente sulla strada giusta, ma non bisogna farsi prendere dal timore.

In Lui, eccoci intrisi d’una diversa visione del pericolo.

Dice il Tao Tê Ching (xxii): «Il santo non da sé vede, perciò è illuminato». Anche nelle strettoie.

Sembra infatti che Gesù voglia espressamente per gli apostoli i momenti scuri del confronto e del dubbio (Mc 4,35; Lc 8,22b). Anche per noi, persino se fossimo responsabili di chiesa... perché altrimenti non si farà pulizia da convinzioni ripetitive.

Le attese da manuale (e l’abitudine ad allestire armonie conformiste) bloccano la fioritura di ciò che siamo e speriamo.

Soprattutto quel che è seccante o addirittura “contro” ha qualcosa di decisivo da dirci. Anche nella barchetta delle chiese (Mc 4,36) il disagio deve esprimersi.

«E avvicinatisi lo svegliarono dicendo: Signore, salva, siamo perduti!» (Mt 8,25).

È per far rinascere l’essenza di ciascuno e della stessa comunità, per introdurre il cambiamento (nascosto o represso) e attivarlo nel modo più efficace... dal contatto con le energie sottaciute, primordiali.

Più degli opposti attriti e degli eventi esterni in conflitto, l’ansia,  l’impressione e l’angoscia vengono infatti dal timore stesso di affrontare le normali o decisive questioni dell’esistenza.

Ciò per sfiducia: sentendosi in pericolo forse solo perché ci cogliamo intimamente poco cresciuti, incapaci di altro colloquio, di scoprire e rielaborare, convertirci, o rimodulare.

La fatica di mettersi in discussione e la sofferenza che l’avventura della Fede riservano, sfumeranno anche tra i fastidi del mare mosso - che appunto non vuole farci tornare “quelli di prima”.

Basta sganciarsi dall’idea di stabilità, anche religiosa, e ascoltare la vita così com’è, abbracciandola; perfino nella sua folla di urti, amarezze, speranze di armonia infrante, dispiaceri - intrattenendosi con questa fiumana di nuove emergenze, e incontrando la propria natura profonda.

Il miglior vaccino contro gli affanni dell’avventura insieme a Cristo sulle onde mutevoli dell’inatteso sarà proprio di non evitare a monte le preoccupazioni - anzi, andare loro incontro e accoglierle; riconoscersi, lasciarle fare.

Anche nel tempo della crisi globale, le apprensioni che sembra vogliano devastarci, vengono a noi come energie preparatorie di altre gioie che desiderano irrompere - nuove sintonie cosmiche; per lo stupore a partire da noi stessi, e guida dell’aldilà.

La nostra barchetta è in una stabilità invertita, capovolta, non pareggiabile; incerta, sconveniente - eppure energica, pungente, capace di reinventarsi. E sarà perfino eccessiva, ma dai dissesti.

Per una proposta di Tenerezza (non corrispondente) che non è zona relax, perché fa rima con ansia terribile e... periferie!

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

In quali occasioni hai trovato facile ciò che prima sembrava impossibile?

 

 

Una splendida testimonianza:

«Una volta, come i primi discepoli, abbiamo incontrato il Signore e sentito la sua parola: "Seguimi!" Forse inizialmente lo abbiamo seguito in modo un po' malsicuro, volgendoci indietro e chiedendoci se la strada fosse veramente la nostra. E in qualche punto del cammino abbiamo forse fatto l'esperienza di Pietro dopo la pesca miracolosa, siamo cioè rimasti spaventati per la sua grandezza, la grandezza del compito e per l'insufficienza della nostra povera persona, così da volerci tirare indietro: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore!" (Lc 5, 8) Ma poi Egli, con grande bontà, ci ha preso per mano, ci ha tratti a sé e ci ha detto: "Non temere! Io sono con te. Non ti lascio, tu non lasciare me!" E più di una volta ad ognuno di noi è forse accaduta la stessa cosa che a Pietro quando, camminando sulle acque incontro al Signore, improvvisamente si è accorto che l'acqua non lo sosteneva e che stava per affondare. E come Pietro abbiamo gridato: "Signore, salvami!" (Mt, 14, 30). Vedendo tutto l'infuriare degli elementi, come potevamo passare le acque rumoreggianti e spumeggianti del secolo scorso e dello scorso millennio? Ma allora abbiamo guardato verso di Lui … ed Egli ci ha afferrati per la mano e ci ha dato un nuovo "peso specifico": la leggerezza che deriva dalla fede e che ci attrae verso l'alto. E poi ci dà la mano che sostiene e porta. Egli ci sostiene. Fissiamo sempre di nuovo il nostro sguardo su di Lui e stendiamo le mani verso di Lui. Lasciamo che la sua mano ci prenda, e allora non affonderemo, ma serviremo la vita che è più forte della morte, e l'amore che è più forte dell'odio. La fede in Gesù, Figlio del Dio vivente, è il mezzo grazie al quale sempre di nuovo afferriamo la mano di Gesù e mediante il quale Egli prende le nostre mani e ci guida. Una mia preghiera preferita è la domanda che la liturgia ci mette sulle labbra prima della Comunione: "…non permettere che sia mai separato da te". Chiediamo di non cadere mai fuori della comunione col suo Corpo, con Cristo stesso, di non cadere mai fuori del mistero eucaristico. Chiediamo che Egli non lasci mai la nostra mano…».

(Papa Benedetto, omelia del Crisma, 13 aprile 2006)

 

 

 

 

Pane e prodigi del Cristo-fantasma. E noi, frangia del suo mantello

 

(Mc 6,53-56 // Mt 14,34-36)

 

 

Può portare il mantello del Maestro colui che è votato alla causa della non-violenza e del non-possesso, che è sospinto dalla ricerca della verità e della retta visione, che è capace di risolvere i propri problemi emotivi e intellettuali e può mostrare agli altri la via per superare i loro problemi emotivi e intellettuali.

(Acharya Mahaprajna)

 

 

Mentre qualcuno fa ressa continua intorno a Lui e impedisce ad altri di avere un rapporto personale con Gesù, bisogna inventarsi qualcosa, almeno prenderlo di struscio (v.56).

«E dovunque entrava in villaggi o in città o in borgate ponevano gli infermi nelle piazze e lo supplicavano di toccare anche solo la frangia del suo mantello. E quanti lo toccarono erano salvati».

In effetti la frangia del mantello è il suo Popolo - e ciascuno di noi, quando per Dono siamo messi in grado di percepire e prolungarne il richiamo, lo spirito, la cura, l’azione.

Un «toccare» che non è semplice gesto: chiama il coinvolgimento totale; Fede personale, scavo dentro.

Le folle attorno al Signore e alla Chiesa, sua presenza primaria, cercano pane e guarigione… ma talora dimenticano l’adesione alla Persona interiore che dona e cura.

Eppure anche in questi casi la Guida infallibile ripropone la sua onda vitale ininterrotta - con terapie che non s’impongono attraversando le anime come farebbe un fulmine, bensì nell’esistenza reale.

Dio libera, salva, crea, a partire dalle tensioni e dai difetti (anche religiosi) perché vuole portarci a consapevolezza.

Il Padre desidera far penetrare il valore dell’atto d’amore che rende forte il debole; ogni gesto ri-creante, incarnato, aperto a qualsiasi senso di vuoto.

 

I fastidi non capitano per sfortuna o castigo: arrivano per lasciarci rifiorire, proprio a partire dai dolori dell’anima.

Se perdurano, nessuna paura: essi diventano messaggi più espliciti, del nostro stesso Seme superiore.

Significa che nella nostra orchestra qualcosa è stonato o trascurato, e deve tramontare oppure venire scoperto e messo in gioco.

Altrimenti non si riuscirà a crescere verso il destino che caratterizza una Chiamata e ogni disagio.

Anche i sintomi dell’inquietudine appartengono alla quintessenza innata - che ha sempre potere di attualità.

La chiave di volta non sarà dunque il look, né la salute, bensì l’accoglienza stessa delle amarezze, degli stenti, i quali vengono per sgombrare l’inessenziale - e liberare pulsioni spirituali intrappolate.

Energie dello squilibrio, che però vogliono essere tramutate in capacità di gettare zavorre… nonché ospitare meglio e integrare la vocazione nella propria storia, onde costruire ancora vita.

 

Forse non pochi preferirebbero attendere uno sbarco miracolistico del Maestro (guaritore tipificato) che rechi subito beneficio, favori immediati.

Salvezza esteriore dal sapore magico - caduca, anche se fisicamente palpabile o persino in sembiante etico.

Un Signore fenomenale, ma semplicistico.

Un’Apparenza che muore subito, poi si ricomincia daccapo - se Egli (in noi, nelle nostre svolte) non coinvolgesse le stesse incertezze che ci segnano. E il lungo tempo dei processi, i quali via via prendono peso più intimo.

La redenzione totale e sacra - davvero messianica - è poco incline al clamore epidermico.

La guarigione non è scenografica. Si realizza unicamente passo dopo passo; così permane profonda e radicale.

Si fa capace di nuovi inizi e atti di nascita d’energia ancora embrionale, proprio a partire dalle singole precarietà.

 

Il suo Popolo - presenza non più ineffabile e misteriosa - si adopera nella prossimità, per cancellare la falsa immagine del Dio filosofico o forense, sempre esterno. 

Sovrano o motore imperativo, lontano e assente - permaloso - che ogni tanto si punta; non supera, e neppure riconferma. Mai che guardi il nostro presente.

Così la Chiesa rifiuta l’idea dell’Eterno che ratifica, ma pure quella del taumaturgo di massa, immediatamente risolutivo (tanto caro ai mercanti di miracolo) - figura che facilmente s’impadronisce delle nostre fantasie.

 

Annunciamo con parole e gesti il suo Volto autentico, proprio per annientare l’idea del Cristo-fantasma del passo precedente (v.49), figura deplorevole e assurda.

Icona solo apologetica, che purtroppo nella storia ha dato largo spazio ai soci in affari con l’Altissimo.

Essere guariti non vuol dire sfuggire la transitorietà.

Per una esistenza da salvati serve una trasformazione dall’interno; un altro inizio. Un diverso appiglio del bene.

 

Gesù percorre i nostri ambienti come un silenzioso viandante, e accetta anche una fede primitiva.

Ma seppure con potenza dimessa, l’impulso divino opera in ogni cercatore di senso e in ciascun bisognoso; vi si stabilisce personalmente, proprio a partire dai sogni interrotti.

Il Signore non può essere imprigionato e contenuto: si accosta, per avviare grandi pulizie, farci spostare lo sguardo, e rinnovare l’universo stantio.

Così ci trasforma, nell’esperienza della sua comunione gratuita,

Convivenza che vuole prendere dimora in noi, per fondersi e dilatare la pulsione alla vita (forse acquattata nell’astensione) affinché ciascuno stupisca di sé, delle passioni sconosciute, dei nuovi rapporti.

 

Credente e comunità manifestano in guise empatiche la forza incisiva di guarigione della Fede nel Risorto, a partire dalla propria vicenda intima.

Lo sperimentiamo vivo nel giorno per giorno monotono, poco gratificante e precario - tuttavia capace di cambiare l’assetto dell’esistenza celata in contrade sommarie (v.56: «borgate») e la sua destinazione inespressa.

Senza turbare con effetti speciali, unilaterali o pressanti.

 

Scrive il Tao Tê Ching (xi): «Trenta razze si uniscono in un sol mozzo, e nel suo non-essere si ha l'utilità del carro».

Altrove dalla civiltà dell’apparenza è il miglioramento della nostra condizione e la sicurezza (dall’insicurezza) - non in un semplice rimetterci in piedi, indiscreto e passeggero.

Fenomenale, ma solo puntuale e inconcludente, o che infine abdica.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come consideri Gesù? Facitore di miracoli o di recuperi?

Come ti comporti con coloro che vengono esclusi o sembrano senza pastore?

 

 

 

Excita, Domine, potentiam tuam, et veni

Excita, Domine, potentiam tuam, et veni” – con queste e con simili parole la liturgia della Chiesa prega ripetutamente […]

Sono invocazioni formulate probabilmente nel periodo del tramonto dell’Impero Romano. Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l’invocazione della potenza propria di Dio: che Egli venisse e proteggesse gli uomini da tutte queste minacce.

Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”. Anche oggi abbiamo motivi molteplici per associarci a questa preghiera […] Il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano essere destinate all’insuccesso.

Excita – la preghiera ricorda il grido rivolto al Signore, che stava dormendo nella barca dei discepoli sbattuta dalla tempesta e vicina ad affondare. Quando la sua parola potente ebbe placato la tempesta, Egli rimproverò i discepoli per la loro poca fede (cfr Mt 8,26 e par.). Voleva dire: in voi stessi la fede ha dormito. La stessa cosa vuole dire anche a noi. Anche in noi tanto spesso la fede dorme. PreghiamoLo dunque di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti – cioè di dare l’ordine giusto alle cose del mondo.

(Papa Benedetto, alla Curia romana 20 dicembre 2010)

 

 

 

Lunedì, 28 Luglio 2025 07:24

Afferrati per mano

Una volta, come i primi discepoli, abbiamo incontrato il Signore e sentito la sua parola: "Seguimi!" Forse inizialmente lo abbiamo seguito in modo un po' malsicuro, volgendoci indietro e chiedendoci se la strada fosse veramente la nostra. E in qualche punto del cammino abbiamo forse fatto l'esperienza di Pietro dopo la pesca miracolosa, siamo cioè rimasti spaventati per la sua grandezza, la grandezza del compito e per l'insufficienza della nostra povera persona, così da volerci tirare indietro: "Signore, allontanati da me che sono un peccatore!" (Lc 5, 8) Ma poi Egli, con grande bontà, ci ha preso per mano, ci ha tratti a sé e ci ha detto: "Non temere! Io sono con te. Non ti lascio, tu non lasciare me!" E più di una volta ad ognuno di noi è forse accaduta la stessa cosa che a Pietro quando, camminando sulle acque incontro al Signore, improvvisamente si è accorto che l'acqua non lo sosteneva e che stava per affondare. E come Pietro abbiamo gridato: "Signore, salvami!" (Mt, 14, 30). Vedendo tutto l'infuriare degli elementi, come potevamo passare le acque rumoreggianti e spumeggianti del secolo scorso e dello scorso millennio? Ma allora abbiamo guardato verso di Lui … ed Egli ci ha afferrati per la mano e ci ha dato un nuovo "peso specifico": la leggerezza che deriva dalla fede e che ci attrae verso l'alto. E poi ci dà la mano che sostiene e porta. Egli ci sostiene. Fissiamo sempre di nuovo il nostro sguardo su di Lui e stendiamo le mani verso di Lui. Lasciamo che la sua mano ci prenda, e allora non affonderemo, ma serviremo la vita che è più forte della morte, e l'amore che è più forte dell'odio. La fede in Gesù, Figlio del Dio vivente, è il mezzo grazie al quale sempre di nuovo afferriamo la mano di Gesù e mediante il quale Egli prende le nostre mani e ci guida. Una mia preghiera preferita è la domanda che la liturgia ci mette sulle labbra prima della Comunione: "…non permettere che sia mai separato da te". Chiediamo di non cadere mai fuori della comunione col suo Corpo, con Cristo stesso, di non cadere mai fuori del mistero eucaristico. Chiediamo che Egli non lasci mai la nostra mano…

[Papa Benedetto, omelia del Crisma, 13 aprile 2006]

Lunedì, 28 Luglio 2025 07:21

Quando si sente sprofondare

4. A sua volta, la tempesta sedata sul lago di Genesaret può essere riletta come “segno” di una costante presenza di Cristo nella “barca” della Chiesa, che molte volte nel corso della storia viene esposta alla furia dei venti nelle ore di tempesta. Gesù, svegliato dai discepoli, comanda ai venti e al mare e si fa una grande bonaccia. Poi dice loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?” (Mc 4, 40). In questo, come in altri episodi, si vede la volontà di Gesù di inculcare negli apostoli e nei discepoli la fede nella sua presenza operatrice e protettrice anche nelle ore più tempestose della storia, nelle quali potrebbe infiltrarsi nello spirito il dubbio sulla sua divina assistenza. Di fatto nella omiletica e nella spiritualità cristiana il miracolo è stato spesso interpretato come “segno” della presenza di Gesù e garanzia della fiducia in lui da parte dei cristiani e della Chiesa.

5. Gesù, che va verso i discepoli camminando sulle acque, offre un altro “segno” della sua presenza, e assicura una costante vigilanza sui discepoli e sulla Chiesa. “Coraggio, sono io, non temete”, dice Gesù agli apostoli, che lo avevano preso per un fantasma (cf. Mc 6, 49-50; cf. Mt 14, 26-27; Gv 6, 16-21). Marco fa notare lo stupore degli apostoli “perché non avevano capito il fatto dei pani e il loro cuore era indurito” (Mc 6, 52). Matteo riporta la domanda di Pietro che vuole scendere sulle acque per andare incontro a Gesù e registra la sua paura e la sua invocazione di aiuto, quando si sente sprofondare: Gesù lo salva, ma lo rimprovera dolcemente: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” (Mt 14, 31). Aggiunge pure che “quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti esclamando: Tu sei veramente il Figlio di Dio” (Mt 14, 33).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 dicembre 1987]

Il brano evangelico di questa domenica (cfr Mt 14,22-33) narra di Gesù che cammina sulle acque del lago in tempesta. Dopo aver sfamato le folle con cinque pani e due pesci – come abbiamo visto domenica scorsa –, Gesù ordina ai discepoli di salire sulla barca e ritornare all’altra riva. Lui congeda la gente e poi sale sulla collina, da solo, a pregare. Si immerge nella comunione con il Padre.

Durante la traversata notturna del lago, la barca dei discepoli rimane bloccata da un’improvvisa tempesta di vento. Questo è abituale, sul lago. A un certo punto, essi vedono qualcuno che cammina sulle acque venendo verso di loro. Sconvolti pensano sia un fantasma e gridano per la paura. Gesù li rassicura: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora – Pietro, che era così deciso – risponde: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Una sfida. E Gesù gli dice: «Vieni!». Pietro scende dalla barca e fa alcuni passi; poi il vento e le onde lo spaventano e comincia ad affondare. «Signore, salvami!», grida, e Gesù lo afferra per la mano e gli dice: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Questo racconto è un invito ad abbandonarci con fiducia a Dio in ogni momento della nostra vita, specialmente nel momento della prova e del turbamento. Quando sentiamo forte il dubbio e la paura ci sembra di affondare, nei momenti difficili della vita, dove tutto diventa buio, non dobbiamo vergognarci di gridare, come Pietro: «Signore, salvami!» (v. 30). Bussare al cuore di Dio, al cuore di Gesù: «Signore, salvami!». È una bella preghiera. Possiamo ripeterla tante volte: «Signore, salvami!». E il gesto di Gesù, che subito tende la sua mano e afferra quella del suo amico, va contemplato a lungo: Gesù è questo, Gesù fa questo, Gesù è la mano del Padre che mai ci abbandona; la mano forte e fedele del Padre, che vuole sempre e solo il nostro bene. Dio non è il grande rumore, Dio non è l’uragano, non è l’incendio, non è il terremoto – come ricorda oggi anche il racconto sul profeta Elia –; Dio è la brezza leggera – letteralmente dice così: è quel “filo di silenzio sonoro” – che non si impone ma chiede di ascoltare (cfr 1 Re 19,11-13). Avere fede vuol dire, in mezzo alla tempesta, tenere il cuore rivolto a Dio, al suo amore, alla sua tenerezza di Padre. Gesù, questo voleva insegnare a Pietro e ai discepoli, e anche a noi oggi. Nei momenti bui, nei momenti di tristezza, Lui sa bene che la nostra fede è povera – tutti noi siamo gente di poca fede, tutti noi, anch’io, tutti – e che il nostro cammino può essere travagliato, bloccato da forze avverse. Ma Lui è il Risorto! Non dimentichiamo questo: Lui è il Signore che ha attraversato la morte per portarci in salvo. Ancora prima che noi cominciamo a cercarlo, Lui è presente accanto a noi. E rialzandoci dalle nostre cadute, ci fa crescere nella fede. Forse noi, nel buio, gridiamo: “Signore! Signore!”, pensando che sia lontano. E Lui dice: “Sono qui!”. Ah, era con me! Così è il Signore.

La barca in balia della tempesta è immagine della Chiesa, che in ogni epoca incontra venti contrari, a volte prove molto dure: pensiamo a certe lunghe e accanite persecuzioni del secolo scorso, e anche oggi, in alcune parti. In quei frangenti, può avere la tentazione di pensare che Dio l’abbia abbandonata. Ma in realtà è proprio in quei momenti che risplende maggiormente la testimonianza della fede, la testimonianza dell’amore, la testimonianza della speranza. È la presenza di Cristo risorto nella sua Chiesa che dona la grazia della testimonianza fino al martirio, da cui germogliano nuovi cristiani e frutti di riconciliazione e di pace per il mondo intero.

L’intercessione di Maria ci aiuti a perseverare nella fede e nell’amore fraterno, quando il buio e le tempeste della vita mettono in crisi la nostra fiducia in Dio.

[Papa Francesco, Angelus 9 agosto 2020]

Domenica, 27 Luglio 2025 04:10

Moltiplicare condividendo, nell’itineranza

(Mt 14,13-21)

 

Gesù vuole che contributi, risorse e capacità facciano sinergia; porgersi in servizio e coalizzarsi per la vita delle moltitudini (vv.13-15.19).

Il gesto eucaristico - spezzare la vita - dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù e ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che devono porgere nutrimento a tutti (v.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

Devono condividere, non comandare. E, onde evitare impoverimenti e danni alla felicità, collocarsi in una logica di superamento.

Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto. Tuttavia la sua soluzione non ci sorvola - semplicemente asciugando lacrime o cancellando le umiliazioni.

Invita a utilizzare ciò che abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna che spostando le energie si creano risultati prodigiosi.

Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo ‘viator’ - essere di passaggio - e condividendo i beni.

La nostra reale nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza.

E il Signore non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi (v.15).

Impone ai suoi che «le folle» (plurali) si sdraino in clima di abbondanza (v.19) come facevano i signori e le persone libere nei banchetti solenni.

Egli vuole e insiste che siano anzitutto i discepoli a servire (v.19), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità selettiva.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione rituale: una cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

Unico compito dei discepoli è quello di distribuire l’Alimento da sminuzzare, vagliare e assimilare personalmente, per edificare un nuovo mondo.

 

Per presentarci a cospetto di Dio, in religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare, che talora ci normalizzano.

Nel cammino di Fede è l’Incontro gratuito col Signore che fa crescere e completa, rendendoci perfetti e puri senza condizioni.

In ciò, estraendo autentiche Perle; proprio dalle nostre eccentricità caratteriali - quelle che si distaccano dagli accordi millimetrici.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli anche non concordi. Nessuno padrone o dominatore - anche se più svelto e capace a gestirsi.

L’Eucaristia resta così un Appello alla Convivialità reale [delle differenze così come sono] e Richiamo sempreverde a non accontentarsi di devozioni individuali o d’una spiritualità gemellabile ma vuota.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo il gesto eucaristico ti parla della Rivoluzione della Tenerezza, e della tua Chiamata per Nome attraverso la Chiesa?

 

 

[Lunedì 18.a sett. T.O.  4 agosto 2025]

Moltiplicare dividendo

(Mt 14,13-21)

 

«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150).

Nel cuore abbiamo un gran desiderio di appagamento e Felicità. Il Padre lo ha introdotto, Lui stesso lo soddisfa - ma ci vuole associati alla sua opera - dentro e fuori di noi.

Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto e - malgrado la pletora di maestri ed esperti - prive di qualsiasi insegnamento autentico (cf. Mt 9,36).

La sua soluzione è diversissima da quella di tutte le guide “spirituali”, perché non ci sorvola con un paternalismo indiretto (cf. Mt 14,16) che asciughi le lacrime, rimargini le ferite, cancelli le umiliazioni.

Invita a utilizzare in prima persona ciò che siamo e abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna in modo assolutamente netto che spostando le energie si realizzano risultati prodigiosi.

Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo viator - essere di passaggio, sua impronta essenziale - e condividendo i beni; non lasciando che ciascuno si arrangi (v.15).

La nostra reale nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza, «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione (FT n.151).

Non solo quel poco che rechiamo basterà a saziarci: avanzerà per altri e con identica pienezza di verità, umana, epocale [v.17: il passo particolare insiste sulla nota simbologia semitica del numero “sette”].

 

In Cristo, ciascuno può inaugurare un Tempo nuovo, e la Salvezza è già a portata di mano, perché la gente si riunisce spontaneamente intorno a Lui, giungendo così com’è, col carico dei tanti bisogni differenti.

Il nuovo popolo di Dio non è una folla di gente scelta e pura. Ognuno reca con sé problemi, che il Signore guarisce - ma curando non con provvedimenti per procura (v.16), come dal di sopra o dal di fuori.

Insomma: un altro mondo è possibile, però attraverso lo spezzare il proprio (anche misero) pane e companatico (vv.17-19).

Soluzione autentica, se la si fa emergere da dentro, e stando in mezzo - non davanti, non a capo, non in alto (v.15c).

Il luogo della Rivelazione di Dio doveva essere quello dei fulmini, su un “monte” fumante come di fornace (Es 19,18)... ma infine persino lo zelo violento di Elia aveva dovuto ricredersi (1Re 19,12).

Anche ai pagani, il Figlio rivela un Padre il quale non semplicemente cancella le infermità (v.14): le fa capire come luogo che sta preparando uno sviluppo personale, e quello della Comunità.

S’immaginava che nei tempi del Messia, zoppi, sordi e ciechi sarebbero scomparsi (Is 35,5ss.). Età dell’oro: tutto al vertice, nessun abisso.

In Gesù - Pane distribuito - si manifesta una pienezza dei tempi inconsueta, apparentemente nebulosa e fragile, ma reale e in grado di riavviare tutti, e le relazioni.

Lo Spirito di Dio agisce non calandosi come un fulmine dall’alto, bensì attivando in noi capacità che appaiono impalpabili, eppure in grado di raggranellare il nostro essere disperso, classificato inconsistente - che coinvolge il sommario di tutti i giorni - e lo rivaluta.

 

L’Incarnazione ci ritessere il cuore, in dignità e promozione; si dispiega realmente, perché non solo trascina via gli ostacoli: poggia su di essi e non li cancella affatto: così li surclassa ma trasmutando - ponendo nuova vita.

Linfa che trae succo e germoglia Fiori dall’unico terreno melmoso e fecondo, e li comunica. Solidarietà cui sono invitati tutti, non solo quelli ritenuti in condizione di “perfezione” e compattezza.

Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, bensì assunte, poste nelle mani del Figlio e dinamizzate (v.18).

Le stesse cadute possono essere un segnale prezioso: in Cristo, non sono più umiliazioni riduttive, bensì indicatori di percorso. Forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse.

Così i crolli possono trasformarsi rapidamente in risalite - differenti, non confezionate - e ricerca di completamento totale nella Comunione.

Quindi, nell’ideale di realizzare la Vocazione e intuire il tipo di contributo da porgere, nulla di meglio d’un ambiente vivo, che non tarpi le ali: una fraternità vivace nello scambio di risorse, e convivenza.

Non tanto per attutirci gli scossoni, ma perché siamo messi in grado di edificare magazzini sapienziali non tarati da nomenclature - cui tutti possono attingere, persino i diversi e lontani da noi.

Se poi anche qui verrà a trovarci una manchevolezza, sarà per insegnare a essere presenti al mondo secondo (magari) altre e ulteriori direzioni, o per far emergere la missione e una maturazione creativa - non per rimanere fissati su parzialità e minuzie.

 

L’allusione ai sette alimenti (moltiplicati perché divisi) conforta le citazioni relative al magma plasmabile delle icone bibliche, come quelle di Mosè ed Elia: figure dei cinque Libri del Pentateuco [i Pani base], più le due sezioni di Profeti e Scritti [che fanno come da “companatico”].

I primi “cinque”, Pienezza essenziale di cibo e saggezza per l’anima, chiamata a procedere oltre le siepi circonvicine, rompendo gli argini della mentalità asservita al contorno.

È il nutrimento-base dello spirito umano-divino, cui però si aggiunge un giovane e fresco alimento companatico, che appunto ci coinvolge (v.17.19).

[Come diceva s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395). Alimento completo: cibo base e “companatico” - storico e ideale, in codice e in atto].

Diventiamo nel Cristo come un corpus attualizzato e propulsivo di testimoni (e Scritture!) sensibile; certo ridotto, non ancora affermato e privo di eroici fenomeni, ma accentuatamente sapienziale e pratico.

Annunciatori e condivisori senza clamorosi proclami di autosufficienza, mai rinchiusi entro steccati arcaici - sempre in fieri - perciò in grado di percepire binari sconosciuti.

E spezzare il Pane... ossia attivarsi, procedere oltre, dividere il poco - per alimentare, straripare (moltiplicando l’ascolto e l’azione di Dio) e far riconquistare stima anche ai disperati.

Siamo figli: come pochi e piccoli pesci (vv.17.19), i quali non sguazzano in competizioni che rendono tossica la vita - anzi: chiamati in prima persona a scrivere una singolare, empatica e sacra, Parola-evento.

Infanti nel Signore, nuotiamo in questa differente Acqua - a volte forse esteriormente velata o melmosa e torbida; infine fatta trasparente anche solo perché arrendevole, compassionevole e benevola.

La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio della Fede (v.13) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Gesù Messia, Figlio di Dio, Salvatore - acrostico del termine greco «Ichtys» (pesce: vv.17.19 diminutivo).

Egli è l’Iniziativa-Risposta del Padre, sostegno nel (poco etereo) viaggio alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi indigenti in attesa.

 

Sembra strano, per noi che ci abbiamo fatto il callo: la Fede operante ha per emblema l’Eucaristia frazionata, rivoluzione della sacralità.

Infatti scopo dell’evangelizzazione è partecipare ed emancipare l’essere completo da tutto ciò che lo minaccia, non solo nel limite estremo: anche nella sua azione di ogni giorno - fino a cercare la comunione dei beni.

Il prodigio è collocato dopo il rifiuto a Nazaret (Mt 13,53-57), il quesito ambiguo e superstizioso di Erode (vv.1-2), e l’esecuzione del Battista (vv.3-12).

Insomma, il Segno Fonte e Culmine della comunità dei figli è un gesto creativo che impone uno spostamento di visione e azione, un occhio e un gesto assolutamente nuovi.

[in tal guisa, di fronte all’indigenza di molti - causata dall’avidità di pochi - l’atteggiamento della Chiesa autentica non si compiace di emblemi e fervorini, né di parziali chiamate a distinguersi].

Lo spezzare del Pane subentra alla Manna calata dall’alto nel deserto (Mt 14,15; 15,33; Mc 8,4) e comporta la sua distribuzione - non solo in situazioni particolari.

Non c’è da accontentarsi, nel moltiplicare vita per tutti.

Questa l’attitudine del Corpo vivente del Cristo taumaturgico [non il facitore di miracoli] che si sente chiamato ad attivarsi in ogni circostanza.

L’adesione grata deve condurci al dono e alla condivisione del «pane».

Se non è elemosina puntuale, pietismo esterno, assistenzialismo di maniera, ecco il Risultato:

Donne e uomini mangeranno, rimarranno sazi, e avanzerà alimento per altri ancora. Infatti, non tutti i convitati da Dio previsti sono ancora presenti...

Notiamo che ai discepoli non era neanche passato per la testa che la soluzione potesse venire dalla gente stessa e dal loro spirito - non dal patentato dei leaders o da qualche singolo benefattore.

Soluzione inattesa: la questione dell’alimento si risolve non dall’alto, ma a partire dall’interno delle persone e con i pochi pani portati con sé.

Non c’è soluzione col verbo “moltiplicare” - ossia “incrementare”… cosa? relazioni che contano, accrescere proprietà, ammucchiare astuzie.

Unica terapia è la convivenza dello «spezzare», «dare», «porgere» (v.19). E tutti sono coinvolti, nessuno privilegiato.

 

A quel tempo la competitività e la mentalità di classe caratterizzava la società piramidale dell’impero - e iniziava a infiltrarsi già nella piccola comunità, appena agli inizi.

Come se il Signore e il Dio del tornaconto potessero convivere uno a fianco all’altro, ancora.

È la comunione dei bisognosi che viceversa sale in cattedra nella Chiesa non artefatta.

La condivisione reale fa da professore degli onnipresenti veterani, smaliziati e pretenziosi, unici a doversi ancora convertire.

Il germe della loro “durata” dovrebbe essere non la posizione in quota e il ruolo, ma l’amore.

Tale l’unico senso dei gesti sacri; non altri progetti venati da prevaricazioni, o dall’apparire.

 

Gli “appartenenti” sbalordiscono.

Per il Signore i lontani (sebbene ancora in bilico nelle scelte) sono pienamente partecipi del banchetto messianico - senza preclusioni, né discipline dell’arcano con attese snervanti.

Viceversa, quella Mensa urge in favore di altri che ancora devono essere chiamati. Per una sorta di ristabilimento dell’Unità originale.

 

Insomma, la Redenzione non appartiene alle élites preoccupate della stabilità del loro dominio - che sono addirittura i deboli a dover sostenere.

 

La vita da salvati viene a noi per incorporazione.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai mai spezzato il tuo pane, trasmesso felicità e compiuto recuperi che rinnovano i rapporti, rimettendo in piedi le persone che neppure hanno stima di sé? O hai privilegiato atteggiamenti di élite monarchica?

 

 

Appendice

 

Gesù vuole che contributi, risorse e capacità facciano sinergia; porgersi in servizio e coalizzarsi per la vita delle moltitudini (vv.13-15.19).

Il gesto eucaristico - spezzare la vita - dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che devono porgere nutrimento a tutti (v.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

Devono condividere, non comandare - tantomeno sulle opinioni o situazioni altrui. E, onde evitare impoverimenti e danni alla felicità, collocarsi in una logica di superamento.

 

Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto. Tuttavia la sua soluzione non ci sorvola - semplicemente asciugando lacrime o cancellando le umiliazioni.

Invita a utilizzare ciò che abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna che spostando le energie si creano risultati prodigiosi.

Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo viator - essere di passaggio, sua impronta essenziale - e condividendo i beni.

La nostra reale nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza, «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione (FT n.151).

 

Il Signore non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi (v.15); neppure gli va a genio l’elemosina, o il vecchio idolo del «comprare» (v.15).

Impone ai suoi che «le folle» (plurali) si sdraino in clima di abbondanza (v.19 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei banchetti solenni.

Egli vuole e insiste che siano anzitutto i discepoli a servire (v.19), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale, ipocritamente sterilizzata e selettiva.

Prima del pasto essa richiedeva l’abluzione: una cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

Unico compito dei discepoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare personalmente, per edificare un nuovo mondo - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

 

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio, che purtroppo ci normalizzano.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere e completa, rendendoci perfetti e incontaminati, senza condizioni... estraendo autentiche Perle, proprio dalle nostre eccentricità caratteriali (quelle che si distaccano dagli accordi millimetrici).

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli (anche non concordi), nessuno padrone o dominatore - destinato a guidare gli umili a vita e di testa sua, stando sempre davanti o sopra - perché più svelto e capace a gestirsi.

L’Eucaristia resta un Appello alla Convivialità reale (delle differenze così come sono) e Richiamo sempreverde a non accontentarsi di devozioni individuali o d’una spiritualità gemellabile ma vuota.

 

La Fede operante ha dunque per emblema l’Eucaristia, rivoluzione della sacralità. Sembra strano, per noi che ci abbiamo fatto il callo.

Scopo dell’evangelizzazione è emancipare da tutto ciò che minaccia la vita, non solo nel limite estremo, ma anche nella sua azione di ogni giorno - fino a cercare la comunione dei beni.

In Mt 14 il prodigio è collocato dopo che Gesù è stato respinto da Nazaret, la preoccupazione di Erode, l’omicidio del Battista.

Il Segno Fonte e Culmine della comunità dei figli è un gesto creativo che impone lo spostamento di visione, un occhio assolutamente nuovo.

Di fronte all’indigenza di molti - causata dall’avidità di pochi - l’atteggiamento della Chiesa autentica non si compiace di emblemi e fervorini, né di parziali chiamate a distinguersi nell’elemosina.

Lo spezzare del Pane subentra alla Manna calata dall’alto nel deserto e comporta la sua distribuzione - non solo in situazioni particolari (v.15).

Non c’è da accontentarsi, nel moltiplicare la vita per tutti.

Questa l’attitudine del Corpo vivente del Cristo taumaturgico [non il facitore di miracoli] che si sente chiamato ad attivarsi in ogni circostanza.

La partecipazione eucaristica deve condurci al dono e alla condivisione del pane.

Risultato: donne e uomini mangeranno, rimarranno sazi, e avanzerà Alimento per altri ancora [non tutti i convitati da Dio previsti sono ancora presenti...].

Notiamo che ai discepoli non era neanche passato per la testa che la soluzione potesse venire dalla gente stessa e dal loro spirito - non solo dal paternalismo dei capi o da qualche singolo benefattore.

Soluzione inattesa: la questione dell’alimento si risolve non dall’alto, ma solo a partire dall’interno delle persone e con i pochi pani portati con sé (vv.15-17).

Non c’è soluzione col verbo “moltiplicare” - ossia “incrementare”…relazioni che contano, accrescere proprietà, ammucchiare astuzie.

Unica terapia è «spezzare», «dare», «porgere», «distribuire» (vv.16-19 testo greco).

E tutti sono coinvolti, nessun privilegiato.

A quel tempo la competitività e la mentalità di classe caratterizzava la società dell’impero - e iniziava a infiltrarsi già nella piccola comunità, appena agli inizi.

Come se il Signore e il Dio del tornaconto potessero convivere uno a fianco all’altro, ancora.

È la comunione dei bisognosi che viceversa sale in cattedra nella Chiesa autentica.

La condivisione reale fa da professore degli onnipresenti veterani, smaliziati e pretenziosi, unici a doversi ancora convertire.

Il germe della loro “durata” dovrebbe essere non la posizione in quota e il ruolo, ma l’amore.

Tale l’unico senso dei gesti sacri, non altri progetti venati da prepotenze, o dall’apparire.

Gli “appartenenti” e reduci sbalordiscono.

Per il Signore i lontani (sebbene ancora in bilico nelle scelte) sono pienamente partecipi del banchetto messianico - senza preclusioni, né discipline dell’arcano o attese snervanti.

Viceversa, quella Mensa urge in favore degli altri che ancora devono essere chiamati, per una sorta di ristabilimento dell’Unità originale.

Insomma, la Redenzione non appartiene alle élites (monarchiche piramidali) preoccupate della stabilità del loro predominio - che sono addirittura i deboli a dover sostenere.

 

[Come diceva s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395). Alimento completo: cibo base e “companatico” - storico e ideale, in codice e in atto].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo il gesto eucaristico ti parla della Rivoluzione della Tenerezza, e della tua Chiamata per Nome attraverso la Chiesa?

Il Vangelo di questa domenica descrive il miracolo della moltiplicazione dei pani, che Gesù compie per una moltitudine di persone che lo hanno seguito per ascoltarlo ed essere guariti da varie malattie (cfr Mt 14,14). Sul far della sera, i discepoli suggeriscono a Gesù di congedare la folla, perché possa andare a rifocillarsi. Ma il Signore ha in mente qualcos’altro: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mt 14,16). Essi, però, non hanno “altro che cinque pani e due pesci”. Gesù allora compie un gesto che fa pensare al sacramento dell’Eucaristia: “Alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla (Mt 14,19). Il miracolo consiste nella condivisione fraterna di pochi pani che, affidati alla potenza di Dio, non solo bastano per tutti, ma addirittura avanzano, fino a riempire dodici ceste. Il Signore sollecita i discepoli affinché siano loro a distribuire il pane per la moltitudine; in questo modo li istruisce e li prepara alla futura missione apostolica: dovranno infatti portare a tutti il nutrimento della Parola di vita e del Sacramento.

In questo segno prodigioso si intrecciano l’incarnazione di Dio e l’opera della redenzione. Gesù, infatti, “scende” dalla barca per incontrare gli uomini (cfr Mt 14,14). San Massimo il Confessore afferma che il Verbo di Dio “si degnò, per amore nostro, di farsi presente nella carne, derivata da noi e conforme a noi tranne che nel peccato, e di esporci l’insegnamento con parole ed esempi a noi convenienti” (Ambiguum 33: PG 91, 1285 C). Il Signore ci offre qui un esempio eloquente della sua compassione verso la gente. Viene da pensare ai tanti fratelli e sorelle che in questi giorni, nel Corno d’Africa, patiscono le drammatiche conseguenze della carestia, aggravate dalla guerra e dalla mancanza di solide istituzioni. Cristo è attento al bisogno materiale, ma vuole dare di più, perché l’uomo è sempre “affamato di qualcosa di più, ha bisogno di qualcosa di più” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 311). Nel pane di Cristo è presente l’amore di Dio; nell’incontro con Lui “ci nutriamo, per così dire, dello stesso Dio vivente, mangiamo davvero il «pane dal cielo»” (ibid.).

Cari amici, “nell’Eucaristia Gesù fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Nasce così intorno al Mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo” (Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 88).

[Papa Benedetto, Angelus 31 luglio 2011]

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«And they were certainly inspired by God those who, in ancient times, called Porziuncola the place that fell to those who absolutely did not want to own anything on this earth» (FF 604)
«E furono di certo ispirati da Dio quelli che, anticamente, chiamarono Porziuncola il luogo che toccò in sorte a coloro che non volevano assolutamente possedere nulla su questa terra» (FF 604)
It is a huge message of hope for each of us, for you whose days are always the same, tiring and often difficult. Mary reminds you today that God calls you too to this glorious destiny (Pope Francis)
È un grande messaggio di speranza per ognuno noi; per te, che vivi giornate uguali, faticose e spesso difficili. Maria ti ricorda oggi che Dio chiama anche te a questo destino di gloria (Papa Francesco)
In the divine attitude justice is pervaded with mercy, whereas the human attitude is limited to justice. Jesus exhorts us to open ourselves with courage to the strength of forgiveness, because in life not everything can be resolved with justice. We know this (Pope Francis)
Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia; lo sappiamo (Papa Francesco)
The Second Vatican Council's Constitution on the Sacred Liturgy refers precisely to this Gospel passage to indicate one of the ways that Christ is present:  "He is present when the Church prays and sings, for he has promised "where two or three are gathered together in my name there am I in the midst of them' (Mt 18: 20)" [Sacrosanctum Concilium, n. 7]
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" [Sacrosanctum Concilium, 7]
This was well known to the primitive Christian community, which considered itself "alien" here below and called its populated nucleuses in the cities "parishes", which means, precisely, colonies of foreigners [in Greek, pároikoi] (cf. I Pt 2: 11). In this way, the first Christians expressed the most important characteristic of the Church, which is precisely the tension of living in this life in light of Heaven (Pope Benedict)
Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi] (cfr 1Pt 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo (Papa Benedetto)
A few days before her deportation, the woman religious had dismissed the question about a possible rescue: “Do not do it! Why should I be spared? Is it not right that I should gain no advantage from my Baptism? If I cannot share the lot of my brothers and sisters, my life, in a certain sense, is destroyed” (Pope John Paul II)
Pochi giorni prima della sua deportazione la religiosa, a chi le offriva di fare qualcosa per salvarle la vita, aveva risposto: "Non lo fate! Perché io dovrei essere esclusa? La giustizia non sta forse nel fatto che io non tragga vantaggio dal mio battesimo? Se non posso condividere la sorte dei miei fratelli e sorelle, la mia vita è in un certo senso distrutta" (Papa Giovanni Paolo II)

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