don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Domenica, 17 Agosto 2025 17:59

Primi ultimi. Il recupero degli opposti

Porta stretta: non perché oppressiva

(Lc 13,22-30)

 

Il senso della prima domanda è: «La Salvezza è esclusiva?» (v.23). Certo che no - e neppure dispotica. Ma non basta dichiararsi “Amici”.

A mezzo secolo dalla crocifissione di Gesù, nelle comunità iniziano a manifestarsi i primi segni di rilassamento.

I privilegiati sono già fuori Casa [vv.25ss].

La loro vicenda mette in guardia dall’illusione di sentirsi “eletti”. E interroga i credenti. Come fare per collocarsi sulla strada giusta?

Occasione per capire se siamo sui passi che davvero ci appartengono è la revisione costante del rapporto con la Persona “inadeguata” del Cristo [la «Porta stretta»: v.24].

Secondo il Maestro non si diventa “migliori” ricalcando cliché abitudinari ostentati, scarsamente convinti e adempiuti per tran tran.

Insomma, chi opera molte cose per Dio (v.26) e non per i fratelli - o neppure si accorge che esistono - in realtà non rende onore al Padre.

Coloro che non si “sgonfiano”, non solo mancano di umiltà per farsi servitori, ma neppure attraversano gli interstizi dei muri in cui s’incunea lo Spirito.

Ci chiediamo però ancora sorpresi come può il Padre trascurare proprio i suoi che hanno tanto creduto in Lui, e prediligere addirittura i lontani, provenienti non si sa bene da dove.

Forse hanno amato come Lui. Non hanno avuto una “corretta” relazione con Dio, ma una giusta relazione con gli altri, sì.

È nel loro intimo che hanno conosciuto il Signore. Personalmente. E trasmigrando, hanno compiuto il loro Esodo.

Andando direttamente all’obiettivo, si sono interessati del frutto: ascolto, compassione, condivisione generosa dei beni - invece delle molte foglie.

Con gli occhi dell’anima, in queste persone del tutto prive di supponenza spirituale, la percezione degli orientamenti interiori ha vinto i pensieri e gl’idoli del costume a portata di mano.

Essi sono coloro che non si sono mai considerati troppo grandi.

Vale per noi: non sentirsi eccellenti e non avere pretese è dal Cristo valutato assai più delle carte in regola.

Egli definisce costoro «facitori di cose vane, facitori di cose morte» [Lc 13,27; il testo greco ha un sottofondo semita del genere: Sal 6,9 testo ebraico].

Si riferisce ai ‘tiepidi’ che vanno avanti per inerzia e ancora oggi partecipano alle manifestazioni esteriori con estrema superficialità.

Fanno corpo, ma personalmente non mettono in moto nulla. Non sono passati per la «Porta stretta» che è Gesù stesso.

Costringendolo a dire: «Non so ‘da’ dove voi siete» (vv.25-27).

I veri discepoli partecipano del Banchetto senza finzioni: non hanno fuggito il mondo, hanno lottato (v. 24) per farsi capaci di amare. Si sono compromessi.

In tal modo hanno saputo incontrare gli stati profondi di se stessi e accompagnare le eccentricità altrui, recuperandone gli opposti (v.30).

 

«Porta stretta»: non perché oppressiva.

 

 

[21.a Domenica T.O. (anno C), 24 agosto 2025]

Domenica, 17 Agosto 2025 17:56

Spiritualità di cose morte: i primi, ultimi

Lc 13,22-30 (18-30)

 

Inizi modesti, Prodigio che non stordisce

 

Dal di dentro e nel domestico

(Lc 13,18-21)

 

Le due parabole sono state esposte in un momento di dubbio circa la proposta del Maestro e la missione dei suoi. Un piccolo gruppetto di fedeli privi di aggancio sociale, poteva dire qualcosa al mondo?

Malgrado l’impegno, donne e uomini si arrovellano in tutti i loro antichi problemi, sentono il peso di sofferenze e angosce: a prima vista tutto sembra come prima, sconnesso, caotico, frammentario.

Che senso ha per il concerto culturale e civico - oggi globale - la piccola speranza di pochi credenti privi d’un patrimonio appariscente?

Sembra che nella realtà del cosmo nulla cambi… ma il Granello è stato gettato nel solco della terra. Pare che la pasta umana sia quella di sempre, ma un Lievito la sta rinnovando tutta, dal di dentro.

Gesù è stato come un semino piantato nell’oscurità, nulla di clamoroso. E gettato come nell’orto di casa (v.19 testo greco), dove non si coltivano parate strepitose, ma semplici patate, insalata, melanzane, cetrioli, pomodori - cose normali, niente di che.

Il chicco di senape ha però una incredibile e intrinseca forza evolutiva.

Certo, il momento della crescita si conclude con un semplicissimo alberetto - un arbusto come tanti, sottoposto alle intemperie... eppure in grado di dare riposo e riparo a chiunque passi (v.19).

Questo reca il miracolo finale: «una forma di vita dal sapore di Vangelo […] che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui [s. Francesco] dichiara beato colui che ama l’altro quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui».

Sebbene ripresa da espressioni del Primo Testamento, nei tratti descritti da Lc la figura evangelica degli uccelli del cielo illustra «l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita» (cf. enciclica Fratelli Tutti, n.1). 

L’esperienza del Santo di Assisi dal «cuore senza confini, capace di andare al di là delle distanze» introduce in una logica di dialogo che evita «ogni forma di aggressione o contesa e anche di vivere un’umile e fraterna sottomissione» - senza mai imporre una «guerra dialettica» o le «dottrine» (FT, 3-4).

 

Quindi è sufficiente mettere un pizzico di lievito nella massa per farla completamente fermentare.

Il lievito non risalta, è nascosto: sparisce dentro. E a quel tempo tutto si conservava in una semplice madia casalinga.

Approfondendo la vita nello Spirito, ripetutamente ci rendiamo conto che abbiamo visto solo in parte: c’è ancora molto (più) da scoprire, sebbene intuiamo sia a portata di mano - in relazione allo sviluppo della vita ordinaria.

Malgrado i megalomani, le dimensioni del Regno di Dio, dell’universo dell’anima e della Missione non sono cosa verificabile immediatamente e completamente.

Bisogna introdursi in un processo, personale e tutto celato - per questo autenticamente sorgivo, convinto e spalancato.

Infatti, persino «ad opera compiuta, ritrarsi è la Via del Cielo» (Tao Tê Ching, ix).

All’orizzonte di ogni cammino c’è sempre una nuova pianta, un’altra genesi, una differente fioritura nel tempo delle stagioni; un’inedita effervescenza, da introdurre nell’antico assetto già capitalizzato.

Questo splendore (e vitalità nascoste dell’anima intuitiva e missionaria) non appartiene ai rituali culturali collettivi, a doveri di contorno.

I lasciapassare artificiosi ci rendono prigionieri di condizionamenti che attenuano la percezione e smorzano la missione per cui siamo nati.

Anzi, uscire dal branco che partorisce i soliti pallidi (solo drogati) modelli interpretativi sarà un'opportunità per scoprire qualcosa di nuovo.

Sbalordiremo anche delle nostre stesse intime capacità propulsive - accompagnati solo dall’Amico che vede nel segreto.

Seme e fermento lavorano ignoti. Mancanza di riflettori, situazione povera, piccolezza... non sono ostacoli alla crescita, bensì la condizione.

Ciò che sembra niente diventa quel che la Creazione attende: si vede appena o affatto - ma dando tempo senza forzare e affrettare, ottiene l’evoluzione (cordiale e domestica) che non stona con Dio e i minimi.

 

La Chiesa che verrà non sarà invadente: non pretenderà l’adesione (pena esclusioni).

Per questo motivo il dinamismo di crescita avrà un esito fuori scala, ma solo dal punto di vista umano e delle capacità ospitali (v.19), non per grandiosità concitate.

Priva di magnificenze clamorose, eclatanti e ricercate, la nuova Sposa divina si coglierà nell’attitudine alla pienezza, perché corrisponderà al progetto di vita completa che ci abita il cuore, e misteriosamente intuiamo nostro. Capiremo: farà star bene tutti.

L’insicuro diventerà deciso, il perdente si tramuterà per Grazia in sapiente. Capiremo che accogliere la Parola e corrispondere alla propria Vocazione personale non sarà terrificante, ma rigenerante.

Chi non s’incarta ma sposterà i suoi pensieri, punterà tutto, farà venir fuori la propria essenza.

Capiremo che il nostro essere è già calibrato su trame innate, sommesse, personalmente-socialmente corrispondenti.

Nello Spirito e nella vita reale scopriremo il Magnifico qualitativo e speciale che i più conformisti e precipitosi, meno dialogici o capaci di ascolto, nemmeno lontanamente immaginano possa eccellere.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale astuzia sensazionale ha tentato di distruggere la tua terra?

Quale conformismo (anche di gruppo) ti ha fatto impallidire?

Quale Parola sommessa e calibrata su di te non ha prodotto trambusti ma ha rigenerato la tua passione e ti ha dilatato la vita?

 

 

Primi ultimi. Il recupero degli opposti

 

Porta stretta: non perché oppressiva

(Lc 13,22-30)

 

Il senso della prima domanda è: «La Salvezza è esclusiva?» (v.23). Certo che no - e neppure oppressiva.

Ma non basta dichiararsi “Amici” [qua e là proclamazione di maniera, divenuta patente d’immunità per condurre una doppia vita].

A mezzo secolo dalla crocifissione di Gesù nelle comunità iniziano a manifestarsi i primi segni di rilassamento, vezzo e confusione.

Infatti, proprio i lontani, nuovi e respinti dai veterani, manifestano di essere credenti che riconoscono il Signore più degli abitudinari di comunità (v.25).

Taluni di essi, praticanti ormai inautentici della sua Mensa e della Parola (v.26).

Come mai il Figlio indulgente di Lc finisce per sbattere la porta in faccia ai suoi vecchi devoti?

Perché sono diventati manieristi fasulli, teatranti come quelli della religione antica, manipolatori dell’immagine di Dio dell’Esodo.

Ormai incapaci [v.24 testo greco] di orientarsi secondo il disegno del Padre, e dispotici, solo perché rivestiti di lunghe pratiche di rito. Stilemi esterni, adempiuti per usanza e a scapito della vita piena - ossia, messa a disposizione dei fratelli.

I privilegiati sono già fuori Casa [vv.25ss].

La loro vicenda mette in guardia dall’illusione di sentirsi “eletti”, ed essere a posto, sulla strada giusta.

Insomma, bisogna evitare di atteggiarsi a fenomeni (cristologici) per routine - a buon mercato - invece che a servizio dell’umanizzazione.

 

Un’occasione per capire se siamo sui passi che davvero ci appartengono è la revisione costante del rapporto con la Persona  “inadeguata” - del Cristo (la «Porta stretta»: v.24).

Secondo il Maestro non si diventa “migliori” ricalcando cliché abitudinari ostentati, scarsamente convinti e adempiuti per tran tran.

 

C’è dunque un punto critico nella sua clemenza? Di che genere è la sua inflessibilità? Perché il discrimine è nella sua cerchia?

Chi opera molte cose per Dio (v.26) e non per i fratelli - o neppure si accorge che esistono - in realtà non rende onore al Padre.

Coloro che non si “sgonfiano”, non solo mancano di umiltà per farsi servitori, ma neppure attraversano gli interstizi dei muri di pietra (o di gomma, più diplomatici) in cui s’incunea lo Spirito.

 

Ci chiediamo però ancora sorpresi come può il Padre trascurare proprio i suoi che hanno tanto creduto in Lui, e prediligere addirittura i lontani, provenienti non si sa bene da dove.

Forse hanno amato come Lui.

Hanno spontaneamente operato quel cambiamento di rotta e di sorte che la Chiesa istituzione [riflesso del Regno] è chiamata da sempre a incarnare.

E come sono riusciti a trovare il modo per passare?

Non hanno avuto una “corretta” relazione con Dio - probabilmente - ma una giusta relazione con gli altri, sì.

È nel loro intimo che hanno conosciuto il Signore. Personalmente - anche quelli che neppure ne hanno sentito parlare direttamente. 

E trasmigrando, hanno compiuto il loro Esodo.

Andando direttamente all’obiettivo, si sono interessati del frutto: ascolto, compassione, condivisione generosa dei beni - invece delle molte foglie (di stendardo, rito e formula).

Con gli occhi dell’anima, in queste persone del tutto prive di supponenza spirituale, la percezione degli orientamenti interiori ha vinto i pensieri e gl’idoli del costume a portata di mano.

Essi sono coloro che non si sono mai considerati troppo grandi.

Il non sentirsi eccellenti e il non avere pretese è e sarà valutato assai più della giusta osservanza e dell’esatto stendardo.

Caratteristiche fatue, addirittura (!) - che il nuovo Rabbi attribuisce proprio agli habitué che sembrano avere le carte in regola.

Li definisce «facitori di cose vane, facitori di cose morte» [Lc 13,27; il testo greco ha un sottofondo semita del genere: Sal 6,9 testo ebraico].

Si riferisce ai tiepidi che vanno avanti per inerzia e ancora oggi partecipano alle manifestazioni esteriori con estrema superficialità.

Fanno corpo, ma personalmente non mettono in moto nulla.

 

Il Signore non vuole umiliare, ma invitarci a ripensare i motivi e le modalità della nostra sequela.

Ricevere il suo Pane significa accettare di diventare alimento in favore della vita del mondo.

Accogliere la sua Parola è gesto che denota il desiderio ardente di viverla, non un’abitudine, né modo per lasciarsi apprezzare e fare slalom.

Eppure Cristo si vede costretto a dire: «Non so “da” dove voi siete» (vv.25-27).

Mentre alcuni che neppure hanno conosciuto il Signore, sono misteriosamente passati per la «Porta stretta» che è appunto Gesù stesso - senz’accorgersi.

Privi dell’ipocrisia di reputarsi grandi Apostoli, ovvero coloro che sanno stare al mondo.

Il loro segreto è quello di un’esperienza convinta e di una pratica fraterna che ha diradato l’inganno spirituale delle parentesi (teatrali) in società.

Non hanno partecipato a passerelle (sacre) per poi trascorrere la vita additando, mortificando, rendendo inferma l’esistenza di tutti ed in specie dei malfermi.

Gente che si è dedicata al bene - quindi non è affogata nell’angoscia stantia delle culture devote e moraliste locali. Magari bloccati per timore di contaminarsi.

Anime le quali non sono vissute sotto una cappa di morbose ossessioni, tipiche di chi si fissa sui comportamenti altrui [e in modo inespresso li coltiva dentro].

I veri discepoli partecipano del Banchetto perché non hanno fuggito il mondo, hanno lottato (v. 24) per farsi capaci di amare.

Si sono compromessi coi vili limiti delle periferie esistenziali, proprie e dei fratelli.

Hanno dedicato l’esistenza all’inclusione sociale e all’accoglienza dei sentimenti, a riconoscere il legittimo desiderio di vita di ciascuno.

Si sono sradicati dall’idea che l’appartenenza religiosa porgesse una patente d’immunità (o addirittura di sacralizzazione) alla tiepidezza.

Con tutte le loro imperfezioni, hanno desiderato Felicità, non la banale allegria che copre il niente delle scelte.

Sono già persone complete, che hanno colmato anche la nostra esistenza, e per questo “entrate” sotto la luce di Dio.

Hanno avuto rispetto del loro Nucleo infallibile e della natura delle cose del mondo, che chiamano a Comunione.

Se sono state donne e uomini di preghiera, hanno ascoltato la voce della propria essenza.

Hanno saputo accogliere come ospite di riguardo qualsiasi stato d’animo (e intuizione) di partenza. Si sono accorti.

Hanno percepito ed espresso, non solo pensato e soffocato.

E scavando, si sono chiesti: cosa significa questa gioia o questa tristezza per me? Perché le mie calme e le mie angosce?

In tal modo hanno imparato a incontrare se stessi in tutto, e ad accompagnare le eccentricità altrui, recuperandone gli opposti (v.30).

Angeli rimasti in sintonia col Mistero di Dio che si annida nelle pieghe della storia personale e dell’altrui vicenda, giorno per giorno - nel genio del tempo.

Hanno colto il Segreto di Dio perché non hanno trascurato nulla come fosse un inganno, né tacitato le inquietudini.

L’insegnamento del Signore ha trasformato la loro esistenza: la conoscenza di Dio è diventata compassione ed empatia.

Così non hanno scambiato per pace l’indifferenza, per quiete l’opportunismo, per tranquillità il fallimento dei “meticci”.

Non sono stati tanto presuntuosi da ritenersi in diritto. Non hanno chiamato vittoria la subordinazione degli ultimi e degli esclusi.

 

«Porta stretta»: non perché oppressiva.

Cari fratelli e sorelle!

Anche l'odierna liturgia ci propone una parola di Cristo illuminante e al tempo stesso sconcertante. Durante la sua ultima salita verso Gerusalemme, un tale gli chiede: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?". E Gesù risponde: "Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno" (Lc 13, 23-24). Che significa questa "porta stretta"? Perché molti non riescono ad entrarvi? Si tratta forse di un passaggio riservato solo ad alcuni eletti? In effetti, questo modo di ragionare degli interlocutori di Gesù, a ben vedere è sempre attuale: è sempre in agguato la tentazione di interpretare la pratica religiosa come fonte di privilegi o di sicurezze. In realtà, il messaggio di Cristo va proprio in senso opposto: tutti possono entrare nella vita, ma per tutti la porta è "stretta". Non ci sono privilegiati. Il passaggio alla vita eterna è aperto a tutti, ma è "stretto" perché è esigente, richiede impegno, abnegazione, mortificazione del proprio egoismo.

Ancora una volta, come nelle scorse domeniche, il Vangelo ci invita a considerare il futuro che ci attende e al quale ci dobbiamo preparare durante il nostro pellegrinaggio sulla terra. La salvezza, che Gesù ha operato con la sua morte e risurrezione, è universale. Egli è l'unico Redentore e invita tutti al banchetto della vita immortale. Ma ad un'unica e uguale condizione: quella di sforzarsi di seguirlo ed imitarlo, prendendo su di sé, come Lui ha fatto, la propria croce e dedicando la vita al servizio dei fratelli. Unica e universale, dunque, è questa condizione per entrare nella vita celeste. Nell'ultimo giorno - ricorda ancora Gesù nel Vangelo - non è in base a presunti privilegi che saremo giudicati, ma secondo le nostre opere. Gli "operatori di iniquità" si troveranno esclusi, mentre saranno accolti quanti avranno compiuto il bene e cercato la giustizia, a costo di sacrifici. Non basterà pertanto dichiararsi "amici" di Cristo vantando falsi meriti: "Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze" (Lc 13, 26). La vera amicizia con Gesù si esprime nel modo di vivere: si esprime con la bontà del cuore, con l'umiltà, la mitezza e la misericordia, l'amore per la giustizia e la verità, l'impegno sincero ed onesto per la pace e la riconciliazione. Questa, potremmo dire, è la "carta d'identità" che ci qualifica come suoi autentici "amici"; questo è il "passaporto" che ci permetterà di entrare nella vita eterna.

Cari fratelli e sorelle, se vogliamo anche noi passare per la porta stretta, dobbiamo impegnarci ad essere piccoli, cioè umili di cuore come Gesù. Come Maria, sua e nostra Madre. Lei per prima, dietro il Figlio, ha percorso la via della Croce ed è stata assunta nella gloria del Cielo, come abbiamo ricordato qualche giorno fa. Il popolo cristiano la invoca quale Ianua Caeli, Porta del Cielo. Chiediamole di guidarci, nelle nostre scelte quotidiane, sulla strada che conduce alla "porta del Cielo".

[Papa Benedetto, Angelus 26 agosto 2007]

Domenica, 17 Agosto 2025 17:47

Non vi sono persone privilegiate

2. Nel Vangelo Gesù ricorda che tutti siamo chiamati alla salvezza ed a vivere con Dio, perché di fronte alla salvezza non vi sono persone privilegiate. Tutti devono passare per la porta stretta della rinuncia e del dono di sé. La lettura profetica espone con vive immagini il disegno che Dio ha di raccogliere nell’unità tutti gli uomini, per farli partecipi della sua gloria. Quella tratta dal Nuovo Testamento esorta a sopportare le prove come purificazione proveniente dalle mani di Dio, “perché il Signore corregge colui che ama” (Eb 12,6; Pr 3,12). Ma i motivi di tali letture si possono dire concentrati tutti nel brano evangelico.

L’interpellanza circa il problema fondamentale dell’esistenza: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” (Lc 13,23), non ci può lasciare indifferenti. A tale domanda Gesù non risponde direttamente, ma esorta alla serietà dei propositi e delle scelte: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non vi riusciranno” (Lc 13,24). Il grave problema acquista sulle labbra di Gesù un’angolazione personale, morale, ascetica. Egli afferma con vigore che il raggiungimento della salvezza richiede sacrificio e lotta. Per entrare per quella porta stretta, bisogna, afferma letteralmente il testo greco, “agonizzare”, cioè lottare vivacemente con ogni forza, senza sosta, e con fermezza di orientamento. Il testo parallelo di Matteo sembra ancor oggi più categorico: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via, che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta, invece, è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanti pochi sono quelli che la trovano” (Mt 7,13-14).

La porta stretta è anzitutto l’accettazione umile, nella fede pura e nella fiducia serena, della parola di Dio, delle sue prospettive sulle nostre persone, sul mondo e sulla storia; è l’osservanza della legge morale, come manifestazione della volontà di Dio, in vista di un bene superiore che realizza la nostra vera felicità; è l’accettazione della sofferenza come mezzo di espiazione e di redenzione per sé e per gli altri, e quale espressione suprema di amore; la porta stretta è, in una parola, l’accoglienza della mentalità evangelica, che trova nel discorso della montagna la più pura enucleazione.

Bisogna, insomma, percorrere la via tracciata da Gesù e passare per quella porta che è egli stesso: “Io sono la porta; se uno entra attraverso di me sarà salvo” (Gv 10,9). Per salvarsi bisogna prendere come lui la nostra croce, rinnegare noi stessi nelle nostre aspirazioni contrarie all’ideale evangelico e seguirlo nel suo cammino: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23).

Cari figli e fratelli, è l’amore che salva, l’amore che è già sulla terra beatitudine interiore di chi, nei modi più svariati, nella mansuetudine, nella pazienza, nella giustizia, nella sofferenza e nel pianto, si dimentica di sé e si dona. Il cammino può sembrare erto e difficile, la porta può apparire troppo stretta? Come ho già detto all’inizio, una tale prospettiva supera le forze umane, ma la perseverante preghiera, la fiduciosa implorazione, l’intimo desiderio di compiere la volontà di Dio, ci otterranno di amare ciò che egli comanda.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia all’Opera s. Paolo Castelgandolfo 24 agosto 1980]

Domenica, 17 Agosto 2025 17:39

Non c’è il numero chiuso

Il Vangelo di oggi (cfr Lc 13,22-30) ci presenta Gesù che passa insegnando per città e villaggi, diretto a Gerusalemme, dove sa che deve morire in croce per la salvezza di tutti noi. In questo quadro, si inserisce la domanda di un tale, che si rivolge a Lui dicendo: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (v. 23). La questione era dibattuta a quel tempo – quanti si salvano, quanti no… – e c’erano diversi modi di interpretare le Scritture al riguardo, a seconda dei testi che prendevano. Gesù però capovolge la domanda – che punta più sulla quantità, cioè “sono pochi?...” – e invece colloca la risposta sul piano della responsabilità, invitandoci a usare bene il tempo presente. Dice infatti: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (v. 24).

Con queste parole, Gesù fa capire che non è questione di numero, non c’è il “numero chiuso” in Paradiso! Ma si tratta di attraversare fin da ora il passaggio giusto, e questo passaggio giusto è per tutti, ma è stretto. Questo è il problema. Gesù non vuole illuderci, dicendo: “Sì, state tranquilli, la cosa è facile, c’è una bella autostrada e in fondo un grande portone…”. Non ci dice questo: ci parla della porta stretta. Ci dice le cose come stanno: il passaggio è stretto. In che senso? Nel senso che per salvarsi bisogna amare Dio e il prossimo, e questo non è comodo! È una “porta stretta” perché è esigente, l’amore è esigente sempre, richiede impegno, anzi, “sforzo”, cioè una volontà decisa e perseverante di vivere secondo il Vangelo. San Paolo lo chiama «il buon combattimento della fede» (1Tm 6,12). Ci vuole lo sforzo di tutti i giorni, di tutto il giorno per amare Dio e il prossimo.

E, per spiegarsi meglio, Gesù racconta una parabola. C’è un padrone di casa, che rappresenta il Signore. La sua casa simboleggia la vita eterna, cioè la salvezza. E qui ritorna l’immagine della porta. Gesù dice: «Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: “Signore, aprici”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”» (v. 25). Queste persone allora cercheranno di farsi riconoscere, ricordando al padrone di casa: “Io ho mangiato con te, ho bevuto con te… ho ascoltato i tuoi consigli, i tuoi insegnamenti in pubblico…” (cfr v. 26); “Io c’ero quando tu hai dato quella conferenza…”. Ma il Signore ripeterà di non conoscerli, e li chiama «operatori di ingiustizia». Ecco il problema! Il Signore ci riconoscerà non per i nostri titoli – “Ma guarda, Signore, che io appartenevo a quell’associazione, che io ero amico del tal monsignore, del tal cardinale, del tal prete…”. No, i titoli non contano, non contano. Il Signore ci riconoscerà soltanto per una vita umile, una vita buona, una vita di fede che si traduce nelle opere.

E per noi cristiani, questo significa che siamo chiamati a instaurare una vera comunione con Gesù, pregando, andando in chiesa, accostandoci ai Sacramenti e nutrendoci della sua Parola. Questo ci mantiene nella fede, nutre la nostra speranza, ravviva la carità. E così, con la grazia di Dio, possiamo e dobbiamo spendere la nostra vita per il bene dei fratelli, lottare contro ogni forma di male e di ingiustizia.

Ci aiuti in questo la Vergine Maria. Lei è passata attraverso la porta stretta che è Gesù. Lo ha accolto con tutto il cuore e lo ha seguito ogni giorno della sua vita, anche quando non capiva, anche quando una spada trafiggeva la sua anima. Per questo la invochiamo come “Porta del cielo”: Maria, Porta del cielo; una porta che ricalca esattamente la forma di Gesù: la porta del cuore di Dio, cuore esigente, ma aperto a tutti noi.

[Papa Francesco, Angelus 25 agosto 2019]

Essere presenti a se stessi: non sostituire l’Amore coi fiocchi, l’osservanza, le deferenze

(Mt 23,1-12)

 

La Nuova Relazione fra Dio e l’uomo non poteva essere contenuta all’interno delle minuziose norme della Prima Alleanza e delle sue pesanti consuetudini.

Al tempo di Gesù, dominavano tali ossessioni malate di verticismo spocchioso, quindi solo epidermiche; incapaci di dare respiro, libertà, motivazioni propulsive.

 

La concezione piramidale del mondo e l’idea esteriore della trama della vita spirituale non corrispondono alla Rivelazione.

La nostra realtà è intessuta di stati contrapposti, che la innervano e completano; addirittura facendola avanzare. Anche trasformandola in un torrente in piena.

Un rifiuto, un abbandono, un’esperienza di fallimento, di limite, malattia o disistima altrui - persino una crisi - possono riportarci alle energie sopite della vita e far nascere la Persona nuova.

 

Come contattare i nostri nuovi modi di essere? Quali accorgimenti mettere in atto per introdursi in un dinamismo di rigenerazione che aiuti a sviluppare un clima vivo - e dove iniziare?

Gesù propone Fede: una Relazione fondante, ossia un nuovo modo di porsi dinanzi al Padre e al mondo… con attitudine fiduciosa, sponsale e creativa; nell’iniziativa di un Altro punto di vista.

Amore poliedrico, Eros che viene a noi in un dialogo palpabile - non privo di lotte interiori.

Ciò nel tempo d’un percorso (singolare, affatto ricalcato o esterno). Anche su due piedi fastidioso, perché controcorrente.

Le autorità religiose cercavano invece la loro sicurezza nell’osservanza rigorosa e appariscente della Legge scritta e orale.

Senza rischio, né personalizzazioni da capogiro.

 

Dinanzi a tale mentalità accomodante, priva di vertigini, il giovane Maestro insiste sulla pratica dell’Amicizia [assai più forte del volontarismo] la quale relativizza gli adempimenti.

Egli dà così alla Tradizione profonda il suo vero significato, riscoprendo il senso autentico della Torah e delle norme di comportamento.

Del resto, proprio le guide spirituali della religione ufficiale erano i primi a non credere a quel che predicavano agli altri... ovvero se ne sentivano esenti, perché abituati a pensare se stessi come modelli elettivi, riconosciuti, selezionati, prescelti - quasi calati dall’alto.

 

L’esagerato spirito di controllo è atteggiamento fasullo in sé - causa forzature eccessive, sorde al nucleo interiore. Ma deleterio anche per l’edificazione d’una atmosfera di famiglia, o cultura dell’Incontro, cammino sinodale; così via.

Insistendo viceversa sull’attitudine [questa sì infallibile] di servizio reciproco, non rimarrà più tempo per farsi prendere dalla vanità, dalla disputa sulle precedenze, dalle discussioni, dal divario fra dire e fare.

 

Da dove può ripartire invece il teatrino del disamore, che non vitalizza bensì deprime il popolo di Dio?

Dagli imperituri scribi e farisei (v.2). Sedicenti superiori, dal metro di giudizio limitato e riduttivo.

Ebbene, secondo i Vangeli chi assume compiti ecclesiali direttivi non ha diritto ad alcun “fiocco”: è semplicemente «diacono» (v.11) dei fratelli.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Ti piacciono i fiocchi? Cosa dice la tua anima dei pavoni?

 

 

[Sabato 20.a sett. T.O.  23 agosto 2025]

Domenica, 17 Agosto 2025 05:52

Sostituire l’Amore… coi fiocchi?

Rabbì, Padre e precettori? Essere presenti a se stessi, non in balia dell’approvazione

 

(Mt 23,1-12)

 

La Nuova Relazione fra Dio e l’uomo non poteva essere contenuta all’interno delle minuziose norme della Prima Alleanza e delle sue pesanti consuetudini.

Al tempo di Gesù, dominavano tali ossessioni malate di verticismo spocchioso, quindi solo epidermiche; incapaci di dare respiro, libertà, motivazioni propulsive.

La concezione piramidale del mondo e l’idea esteriore della trama della vita spirituale mai corrispondono alla Rivelazione, né ai semplici criteri della sapienza naturale.

Dice infatti il Tao Tê Ching (iv): «Il Tao mitiga il suo splendore, si rende simile alla sua polvere. Quale Profondità! Sembra che da sempre esista».

Commenta il maestro Wang Pi: «[Quel che non ha origine] smussando le sue punte, non ferisce le creature; districando i suoi nodi, non le affatica; mitigando la sua luce, non svilisce il loro corpo; rendendosi simile alla sua polvere, non turba la loro genuinità».

Aggiunge il maestro Ho-shang Kung: «Pur avendo uno splendore straordinario, bisogna sapersi tenere nell’oscurità e nella tenebra [...], rendersi simile alla sporcizia e alla polvere, insieme alle folle: non bisogna differenziarsi da esse».

 

La nostra realtà è intessuta di stati contrapposti, che la innervano e completano; addirittura facendola avanzare. Anche trasformandola in un torrente in piena.

Un rifiuto, un abbandono, un’esperienza di fallimento, di limite, malattia o disistima altrui - persino un rovescio - possono riportarci alle energie sopite della vita e far nascere la Persona nuova.

In tal guisa:

Come contattare i nostri nuovi modi di essere? Quali accorgimenti mettere in atto per introdursi in un dinamismo di rigenerazione che aiuti a sviluppare un clima vivo - e dove iniziare?

 

Gesù propone Fede: una Relazione fondante, ossia un nuovo modo di porsi dinanzi al Padre e al mondo… con attitudine fiduciosa, sponsale e creativa; nell’iniziativa di un Altro punto di vista.

Amore poliedrico, Eros che viene a noi in un dialogo palpabile - non privo di lotte interiori.

Ciò nel tempo d’un percorso (singolare, affatto ricalcato o esterno). Anche su due piedi fastidioso, perché controcorrente.

Le autorità religiose cercavano invece la loro sicurezza nell’osservanza rigorosa e appariscente della Legge scritta e orale.

Senza rischio, né personalizzazioni da capogiro.

 

Dinanzi a tale mentalità accomodante, priva di vertigini, il giovane Maestro insiste sulla pratica dell’Amicizia [assai più forte del volontarismo] la quale relativizza gli adempimenti.

Egli dà così alla Tradizione profonda il suo vero significato, riscoprendo il senso autentico della Torah e delle norme di comportamento.

Del resto, proprio le guide spirituali della religione ufficiale erano i primi a non credere a quel che predicavano agli altri... ovvero se ne sentivano esenti, perché abituati a pensare se stessi come modelli elettivi, riconosciuti, selezionati, prescelti - quasi calati dall’alto.

Un vizio di ritorno che il Risorto sembra scorgere nei dirigenti spirituali del suo stesso popolo nuovo, dove i responsabili - pur annunciando il Cristo stesso - iniziavano a farsi amanti perfino dell’ossequiosità.

Proprio come gli antichi professionisti della religione, i quali spingevano al conformismo, legalismo e moralismo; abituati a fare mostra di sé, dettare sentenza, e condizionare lo stesso corso della Legge.

Poi da abili specialisti essi trovavano sempre qualsiasi scusa per dire e non fare - e passare da ‘fedeli impeccabili’:

«Legano insieme carichi pesanti e difficili a portare, e li impongono sulle spalle degli uomini; ma essi nemmeno con il loro dito vogliono smuoverli» (v.4).

 

Ancora oggi i veri esperti della comunicazione agiscono sempre in pubblico, per essere acclamati.

Ma nella condotta non hanno un principio intimo determinante e radicato, restando preda delle situazioni; leggeri come farfalle.

Guidati dall’ambizione, eccoli tutta appariscenza e vanità - anche per l’amor proprio suscitato dall’influsso sociale che volentieri desiderano ed esercitano.

Uno spirito di verticismo e innalzamento vacuo che Mt nota serpeggiare anche fra i suoi veterani di comunità in Galilea e Siria.

Piccole assemblee allora assediate dall’afflusso di pagani, ai quali gli anziani giudaizzanti chiedevano anzitutto il rispetto gerarchico.

Ipocritamente spodestando Cristo e il Padre, tali reduci della religiosità antica ambivano anche farsi chiamare rabbì, padri, precettori (vv.7-10). 

Sedicenti superiori, dal metro di giudizio limitato e riduttivo.

 

In ordine all’esperienza di Fede, il Signore ordina invece di essere tutti fratelli - ossia alla pari - nella certezza d’un unico Padre.

Vale anche per noi, in specie nel tempo della rinascita dalla crisi globale.

 

Nella Deus Caritas est (n.35):

«Questo giusto modo di servire rende l'operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all'altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Cristo ha preso l'ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: “Siamo servi inutili” (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l'eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d'aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: “L'amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14) ».

 

Quanto servirebbe un bagno di umiltà, nell’anima di ciascuno che desideri farsi presente alle sue azioni!

Possiamo iniziare ad es. evitando di usare devozione e Chiesa quali mezzi di promozione, per apparire importanti e sottolineare un qualche rango “spirituale” più elevato di altri.

Atteggiamento fasullo in sé - causa forzature eccessive, sorde al nucleo interiore. Ma deleterio anche per l’edificazione d’una atmosfera di famiglia, o cultura dell’Incontro, cammino sinodale; così via.

Insistendo viceversa sull’attitudine [questa sì infallibile] di servizio reciproco, non rimarrà più tempo per farsi prendere dalla vanità, dalla disputa sulle precedenze, dalle discussioni, dal divario fra dire e fare.

 

Da dove può ripartire invece il teatrino del disamore, che non vitalizza bensì deprime il popolo di Dio?

Dagli imperituri scribi e farisei (v.2) sempre esagerati nello spirito di controllo.

Ebbene, secondo i Vangeli chi assume compiti ecclesiali direttivi non ha diritto ad alcun “fiocco”: è semplicemente «diacono» (v.11) dei fratelli.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Ti piacciono i fiocchi? Cosa dice la tua anima dei pavoni?

Domenica, 17 Agosto 2025 05:43

Condotta in aperto contrasto

Nella liturgia di questa domenica, l’apostolo Paolo ci invita ad accostare il Vangelo «non come parola di uomini, ma come è veramente, quale Parola di Dio» (1 Ts 2,13). In questo modo possiamo accogliere con fede gli ammonimenti che Gesù rivolge alla nostra coscienza, per assumere un comportamento conforme ad essi. Nel brano odierno, Egli rimprovera gli scribi e i farisei, che avevano nella comunità un ruolo di maestri, perché la loro condotta era apertamente in contrasto con l’insegnamento che proponevano agli altri con rigore. Gesù sottolinea che costoro «dicono e non fanno» (Mt 23,3); anzi, «legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). La buona dottrina va accolta, ma rischia di essere smentita da una condotta incoerente. Per questo Gesù dice: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere» (Mt 23,3). L’atteggiamento di Gesù è esattamente l’opposto: Egli pratica per primo il comandamento dell’amore, che insegna a tutti, e può dire che esso è un peso leggero e soave proprio perché ci aiuta a portarlo insieme con Lui (cfr Mt 11,29-30).

Pensando ai maestri che opprimono la libertà altrui in nome della propria autorità, San Bonaventura indica chi è l’autentico Maestro, affermando: «Nessuno può insegnare e nemmeno operare, né raggiungere le verità conoscibili senza che sia presente il Figlio di Dio» (Sermo I de Tempore, Dom. XXII post Pentecosten, Opera omnia, IX, Quaracchi, 1901, 442). «Gesù siede sulla “cattedra” come il Mosè più grande, che estende l’Alleanza a tutti i popoli» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 89). È Lui il nostro vero e unico Maestro! Siamo, pertanto, chiamati a seguire il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, che esprime la verità del suo insegnamento attraverso la fedeltà alla volontà del Padre, attraverso il dono di se stesso. Scrive il beato Antonio Rosmini: «Il primo maestro forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli, perché [sia gli uni che gli altri] esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero» (Idea della Sapienza, 82, in: Introduzione alla filosofia, vol. II, Roma 1934, 143). Gesù condanna fermamente anche la vanagloria e osserva che operare «per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,5) pone in balia dell’approvazione umana, insidiando i valori che fondano l’autenticità della persona.

Cari amici, il Signore Gesù si è presentato al mondo come servo, spogliando totalmente se stesso e abbassandosi fino a dare sulla croce la più eloquente lezione di umiltà e di amore. Dal suo esempio scaturisce la proposta di vita: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (Mt 23,11). Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima e preghiamo, in particolare, per quanti nella comunità cristiana sono chiamati al ministero dell’insegnamento, affinché possano sempre testimoniare con le opere le verità che trasmettono con la parola.

[Papa Benedetto, Angelus 30 ottobre 2011]

1. Con lo sguardo rivolto alla Sindone, desidero salutare cordialmente tutti voi, fedeli della Chiesa torinese. Saluto i pellegrini che durante il periodo di questa ostensione vengono da ogni parte del mondo per contemplare uno dei segni più sconvolgenti dell'amore sofferente del Redentore.

Entrando nel Duomo, che mostra ancora le ferite prodotte dal terribile incendio di un anno fa, mi sono fermato in adorazione davanti all'Eucaristia, il Sacramento che sta al centro delle attenzioni della Chiesa e che, sotto apparenze umili, custodisce la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo. Alla luce della presenza di Cristo in mezzo a noi, ho sostato poi davanti alla Sindone, il prezioso Lino che può esserci di aiuto per meglio capire il mistero dell'amore del Figlio di Dio per noi.

Davanti alla Sindone, immagine intensa e struggente di uno strazio inenarrabile, desidero rendere grazie al Signore per questo dono singolare, che domanda al credente attenzione amorosa e disponibilità piena alla sequela del Signore.

3. Ciò che soprattutto conta per il credente è che la Sindone è specchio del Vangelo. In effetti, se si riflette sul sacro Lino, non si può prescindere dalla considerazione che l'immagine in esso presente ha un rapporto così profondo con quanto i Vangeli raccontano della passione e morte di Gesù che ogni uomo sensibile si sente interiormente toccato e commosso nel contemplarla. Chi ad essa si avvicina è, altresì, consapevole che la Sindone non arresta in sé il cuore della gente, ma rimanda a Colui al cui servizio la Provvidenza amorosa del Padre l'ha posta. Pertanto, è giusto nutrire la consapevolezza della preziosità di questa immagine, che tutti vedono e nessuno per ora può spiegare. Per ogni persona pensosa essa è motivo di riflessioni profonde, che possono giungere a coinvolgere la vita.

La Sindone costituisce così un segno veramente singolare che rimanda a Gesù, la Parola vera del Padre, ed invita a modellare la propria esistenza su quella di Colui che ha dato se stesso per noi.

7. La Sindone è immagine del silenzio. C'è un silenzio tragico dell'incomunicabilità, che ha nella morte la sua massima espressione, e c'è il silenzio della fecondità, che è proprio di chi rinuncia a farsi sentire all'esterno per raggiungere nel profondo le radici della verità e della vita. La Sindone esprime non solo il silenzio della morte, ma anche il silenzio coraggioso e fecondo del superamento dell'effimero, grazie all'immersione totale nell'eterno presente di Dio. Essa offre così la commovente conferma del fatto che l'onnipotenza misericordiosa del nostro Dio non è arrestata da nessuna forza del male, ma sa anzi far concorrere al bene la stessa forza del male. Il nostro tempo ha bisogno di riscoprire la fecondità del silenzio, per superare la dissipazione dei suoni, delle immagini, delle chiacchiere che troppo spesso impediscono di sentire la voce di Dio.

[Papa Giovanni Paolo II, venerazione della Sindone, Torino 24 maggio 1998]

Domenica, 17 Agosto 2025 05:18

Fanno la doppia vita

Il Vangelo di oggi (cfr Mt 23,1-12) è ambientato negli ultimi giorni della vita di Gesù, a Gerusalemme; giorni carichi di aspettative e anche di tensioni. Da una parte Gesù rivolge critiche severe agli scribi e ai farisei, dall’altra lascia importanti consegne ai cristiani di tutti i tempi, quindi anche a noi.

Egli dice alla folla: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che dicono». Questo sta a significare che essi hanno l’autorità di insegnare ciò che è conforme alla Legge di Dio. Tuttavia, subito dopo, Gesù aggiunge: «ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (v. 2-3). Fratelli e sorelle, un difetto frequente in quanti hanno un’autorità, sia autorità civile sia ecclesiastica, è quello di esigere dagli altri cose, anche giuste, che però loro non mettono in pratica in prima persona. Fanno la doppia vita. Dice Gesù: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4). Questo atteggiamento è un cattivo esercizio dell’autorità, che invece dovrebbe avere la sua prima forza proprio dal buon esempio. L’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso, sostenendoli nelle prove che si incontrano sulla via del bene. L’autorità è un aiuto, ma se viene esercitata male, diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità, e porta anche alla corruzione.

Gesù denuncia apertamente alcuni comportamenti negativi degli scribi e di alcuni farisei: «Si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze» (vv.6-7). Questa è una tentazione che corrisponde alla superbia umana e che non è sempre facile vincere. È l’atteggiamento di vivere solo per l’apparenza.

Poi Gesù dà le consegne ai suoi discepoli: «Non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. […] E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (vv. 8-11).

Noi discepoli di Gesù non dobbiamo cercare titoli di onore, di autorità o di supremazia. Io vi dico che a me personalmente addolora vedere persone che psicologicamente vivono correndo dietro alla vanità delle onorificenze. Noi, discepoli di Gesù non dobbiamo fare questo, poiché tra di noi ci dev’essere un atteggiamento semplice e fraterno. Siamo tutti fratelli e non dobbiamo in nessun modo sopraffare gli altri e guardarli dall’alto in basso. No. Siamo tutti fratelli. Se abbiamo ricevuto delle qualità dal Padre celeste, le dobbiamo mettere al servizio dei fratelli, e non approfittarne per la nostra soddisfazione e interesse personale. Non dobbiamo considerarci superiori agli altri; la modestia è essenziale per una esistenza che vuole essere conforme all’insegnamento di Gesù, il quale è mite e umile di cuore ed è venuto non per essere servito ma per servire.

La Vergine Maria, «umile e alta più che creatura» (Dante, Paradiso, XXXIII, 2), ci aiuti, con la sua materna intercessione, a rifuggire dall’orgoglio e dalla vanità, e ad essere miti e docili all’amore che viene da Dio, per il servizio dei nostri fratelli e per la loro gioia, che sarà anche la nostra.

[Papa Francesco, Angelus 5 novembre 2017]

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Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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