Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Turnover nella Chiesa, antidoto all’unilateralità
(Mt 5,1-12)
Nel Vangelo di Mt Gesù è il nuovo Mosè che sale su «il Monte». Ma il giovane Legislatore non proclama norme su un codice di pietra, bensì la propria esperienza del Padre… «vedendo le folle» (v.1).
All’incrocio fra condizione divina e pienezza d’umanizzazione, il nuovo Rabbi delinea una sorta di suo Autoritratto: da Figlio; in favore dei suoi fratelli. Radunati in spirito di Famiglia.
Un germoglio di mondo ospitale - che nelle sue piccole chiese Mt vuole incoraggiare. Dove non c’è l’uomo al di sopra e quello sempre sotto; o il personaggio davanti e quello dietro.
Solo rivolgimenti umanizzanti [come appunto l’inversione dei ruoli e delle condizioni] che rinsaldano il tessuto concorde.
Dunque nella Casa di tutti dovrà esserci ricambio e capovolgimento di figure, situazioni e criteri di eminenza, quindi catene di comando - segni del Regno che Viene.
Rovesciamento in grado di acuire le sensibilità alla Comunione [a quel tempo era vivace l’attrito fra esperti giudaizzanti, primi della classe, e ultimi arrivati alle soglie delle fraternità di fede].
Allora la mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che tutte le religioni riconoscevano le gerarchie.
Coloro che si ritenevano in diritto di precedenza [nella comunità!] hanno sempre sollevato una questione di apparente ovvietà:
Non è forse nell’ordine naturale delle cose che nell’umana società ci siano primi e ultimi, dotti e ignoranti, sovrani e sudditi?
In fondo, il principio giuridico che un tempo regolava ad es. tutto il diritto di proprietà privata nel mondo latino è anche il motto in epigrafe di un noto quotidiano cattolico ufficiale: Unicuique Suum.
Anche Leone XIII, papa delle Encicliche sociali, riconosceva che «nella società umana è secondo l'ordine stabilito da Dio che vi siano prìncipi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei; obbligo di carità dei ricchi e dei possidenti è quello di sovvenire ai poveri e agli indigenti».
Era la mentalità d'un peccato di semplice omissione: basta che poi si faccia la carità.
La posizione del Signore è molto molto diversa: il potente non è affatto il benedetto da Dio - come si supponeva fossero anche i ricchi patriarchi del Primo Testamento.
Il loro mondo estraneo, i palazzi, e persino il vestiario ricercato, sono perfetta metafora del vuoto interiore e dell’effimero di cui si beano.
Il loro ingozzarsi è segno d’un abisso intimo da colmare - una sorta di fame nervosa, che percepisce vertigine.
Così via, di alienazione in alienazione.
Su «il Monte» viene viceversa annunciata l’opera discreta dello Spirito, che designa il carattere d’una santità modesta, animata dall’Amore di dono, in sé divinizzante e umanizzante [qualità che si manifesta nei cosiddetti “poveri in Spirito”].
Santità la quale supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.
Sinora infatti la massa permaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadronisse del potere, il gregge minuto restava sottomesso, triste e soffocato; indegno persino di presentarsi al Signore.
Tutti condannati e inadeguati.
Anche il popolo dei discepoli è accorato, perché non accetta le sperequazioni della società piramidale, la quale tende a livellare e annientare i Doni di Dio diffusi nell’umanità intera - di qualsiasi ceto sociale.
Il discepolo autentico giunge infatti sino alle lacrime: esse esprimono la dimensione di energia intima che purifica le idee esterne; ci fa veri da dentro, essenziali fuori.
L’afflizione guida a rientrare in se stessi; ripropone il contatto con la nostra terra e le virtù primordiali, che rigenerano.
Tristezza che nella condizione di finitudine e limite consapevole, rende empatici, splendidamente umani.
Intimamente insoddisfatti: oppositori delle ingiustizie. Perché ogni persona che non viene collocata nella condizione di poter esprimere le proprie capacità è un insulto al Disegno di Salvezza.
Non si tratta di elemosina o filantropia: è una scelta precisa, sociale (v.5).
In ciascun estromesso si cela infatti come un Artista cui non è dato esprimersi, che non viene scoperto né valorizzato in favore di sé e degli altri; piuttosto, considerato estraneo o un deviante.
Annalena Tonelli parlava infatti degli ultimi cui desiderava diminuire il dolore come di «Mozart assassinati»: ella desiderava recuperarli e coinvolgerli, per arricchire insieme. Avendo viscere materne - e il cuore nella miseria dei fratelli abbandonati.
Identica severità vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte e volgare pulsione da orda nazionalista, e il contentino dei gregari.
Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli ambiziosi e privi d’errore non collima col suo.
Lo Spirito di Cristo s’identifica spontaneamente non con la consueta energia aggressiva delle belve, di chi prevale perché più astuto e forte - ma con la persona che mette se stessa a disposizione.
Siamo donne e uomini caratterizzati da cuore di carne - non di bestia (Dan 7).
Le Beatitudini - nuovo Decalogo de «il Monte» - alludono appunto a una sorta di condizione divina incarnata e trasmissibile a chiunque, pacificata e creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire.
Beato è il tratto e l’esito dello sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità.
Nei Vangeli tale carattere non viene ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma paradossalmente dagli habitué dei recinti sacri.
Secondo Gesù la purità di cuore non è legata all’incontaminatezza legale esterna - come si credeva in tutte le devozioni - bensì allo sguardo purificato e alla mancanza di doppiezza.
La crescita e umanizzazione del popolo non è dunque contrastata dai peccatori, ma proprio da coloro che avrebbero il ministero di far conoscere a tutti il Volto di Dio!
Insomma, il carico di precomprensioni con il quale essi affrontano la realtà e le relazioni, non consente alle autorità costituite e fisse di riconoscere i richiami del Signore nei fatti della vita e della stessa Natura.
Così per i pacificatori.
Essi operano per la ricostruzione completa della Vita e della Fraternità, della stessa naturalezza e della Convivenza equa.
Tutto ciò, nello spirito di disinteresse che integra l’egoismo riconoscendo il Noi povero che si dilata nel mondo.
L’Autoritratto di Gesù come trapela dalle Beatitudini di Mt abbraccia l’icona d’un ragazzino - che a quel tempo non contava nulla.
Il Signore si riconosce appunto in un valletto di casa; un inserviente di bottega, che però ha in sé una misteriosa e gradevole scintilla divina.
È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci: quella di colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.
Dimensione di sacralità senza aureole distintive: non cinica, bensì condivisibile. Perché legata alla percezione e reciprocità istintiva, alla spontanea amicizia verso la donna e l’uomo - sperimentata nella somiglianza col Padre.
Ovvio: non si tratta d’una proposta compromessa con la solita trafila inesorabile [dottrina e disciplina] che ricaccia indietro le eccentricità: viceversa assai simpatica e amabile, inclusiva.
Quella del Beato è perciò la condizione che rende Unici - non la santità normata da procedure, che sta sempre ad aborrire, esorcizzare, il pericolo dell’inconsueto.
Proprio per questo - invece - la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa; così come l’idolo feudale e monarchico della stabilità a vita.
Il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere, l’apparire.
Per un cammino di Beatitudine e Divinizzazione, il Maestro non eccita le pulsioni del trattenere, salire, dominare: non danno Felicità.
Conta piuttosto sulla nostra libertà spontanea di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe. Coloro che nella storia hanno fatto il callo a soverchiare gli altri di moralismi e astuzie.
Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto. Non partecipiamo alla vita come fossimo destinati al fallimento, bensì come dei promossi - i quali non sopprimono i propri requisiti.
Ma non per vincere “la gara”. In tal guisa, il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.
Non si tratta d’una conquista esteriore, ma intima e fatta propria. Essa è in grado così di scolpire la nostra inclinazione profonda, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.
Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente.
Sentiero persino interrotto che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.
L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto. Lo integra con energie primordiali, sopite, cui non abbiamo dato spazio - comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.
Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».
Ci sentiamo effimeri e spesso delusi, eppure vogliamo essere felici, non solo qua e là: siamo incerti, eppure cerchiamo gioia piena e duratura. Ovvio che possiamo trovarla solo in una proposta sconcertante.
Nei tempi antichi si pensava di poter incontrare Dio nelle emozioni inebrianti generate da esperienze di successo, tipiche degli uomini riusciti. Ma il Figlio perseguitato e crocifisso ne contesta l’esteriorità.
Altri appuntamenti decisivi erano considerati quelli sulle cime di alture suggestive, o il lasciarsi precipitare devoto e parossistico proprio dentro i recinti sacri che Gesù intendeva smantellare, costringendo il popolo a uscirne [Gv 10,1-16 testo greco].
Lutero interpreta il Figlio di Dio su il Monte quale «Mosissimus Moses». Tuttavia, Mt parla de “il Monte” - non una tribuna - come figura e contesto d’un Appello eterno, non solo destinato ai membri degli istituti di perfezione più attrezzati e in grado di salire.
In concreto, si tratta dei momenti in cui noi stessi incorporati alla completezza umana del Cristo sentiamo pienezza di essere: come il trascorrere dell’anima sposa nel suo centro sacro, e una speciale sintonia d’idee, parole e azioni fra la nostra natura - e la divina.
«Il Monte» è il luogo (teologico) in cui si abbandonano i pensieri, i saperi e i calcoli astuti, conformisti, della pianura mondana. Ove si livellano i presupposti della felicità ilare e passeggera [quella che dura un minuto o un’ora].
Dunque Beati i poveri «allo Spirito» - ovvero «per lo Spirito» - dice Gesù [v.3a testo greco].
Nella comunità cristiana è importante (appunto) arricchire insieme.
Il Signore si compiace di coloro che intraprendono tale orientamento, dove i suoi sentimenti diventano profondamente nostri - e importanti non sono le minuzie, bensì la direzione di marcia.
Dettagli particolari della vita d’amore sono lasciati alla creatività personale e alla varietà delle persone; sensibilità, culture, situazioni.
Conta l’opzione fondamentale al bene e alla comunione, intesa non come uniformità - bensì convivialità delle differenze.
Non per disprezzare istericamente la ricchezza: si tratta di scambiarla, affinché si moltiplichi evitando di trattenere per sé. Altrimenti tutto diventa ostacolo insormontabile per la vita, e appannaggio dei più svelti.
Chi si è liberamente espropriato del superfluo onde condividerlo, lo fa «per lo Spirito» ossia per Amore: per libera scelta, con passione e senza distinzione fra beneficiari di cerchia e non.
Così l’arricchito diventa signore.
A sua volta, il miserabile può non essere povero «allo Spirito» se gonfio di sé, vanaglorioso, superbo, disinteressato agli altri; se privo di apertura di cuore, estraneo al dialogo, intenzionato a migliorare la propria condizione con compromessi e inganno - solo desideroso di sostituirsi ai ricchi per poi ricalcarne i modi menzogneri, soggioganti e opportunisti.
La rinuncia volontaria all’uso egoistico e mediocre delle proprie risorse materiali e sapienziali ci contraddistingue quali figli di Dio.
Consanguinei; già qui e ora in grado di sperimentare la vita beata del Cielo: essere con e per gli altri, essendo se stessi.
Infatti, la promessa che accompagna la prima Beatitudine (v.3a) non assicura l’accesso al Paradiso nell’aldilà, in un futuro lontano.
Lo scambio dei doni garantisce l’esperienza della stessa vita divina, proprio sulla terra.
Nelle religioni pagane la condizione di Vita Beata era caratteristica gelosa ed esclusiva delle divinità, che di malavoglia la partecipavano; e in modo rassicurante, solo dopo la morte. Comunque a metà.
In Cristo e per Via, malgrado i fallimenti parziali, o le nostre eventuali scarse capacità e fragilità naturali - anzi, a motivo di esse - scopriamo un Padre amico della Gioia piena, carica: Felicità immediata, energetica, senza limiti. Che sorge persino da stati malfermi.
Il Padre non è il Dio delle religioni che appannano e affannano la vita: non benedice l’ingordigia di pochi, che rende bisognose le moltitudini.
L’ultimo dei comandamenti imponeva di sentirsi appagati e non desiderare la roba altrui?
La prima delle Beatitudini propone di desiderare che anche gli altri abbiano le nostre medesime cose e possibilità di vita.
La dinamica dell’innamoramento suppone in ogni sua declinazione, una Pienezza fremente che sfocia ovunque - riconoscendo gli opposti in noi e il legittimo desiderio di compiutezza espressiva nei fratelli.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come superi il dubbio, ripiegandoti? Cosa annunci con la tua vita? Essa oltrepassa l’esperienza diretta? Conosci realtà che manifestano il Risorto? Come additi sentieri esuberanti di speranza? Oppure sei selettivo e taci?
Hanno fatto passare la Luce
Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede
Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra “sentire religioso” comune, e “vivere di Fede”.
Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».
Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.
Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale, moralistica o sentimentale.
Nella lingua latina perfìcere significa condurre a termine, andare sino in fondo.
In tale accezione completa e integrale, “perfetto” diventa un valore incarnato autentico: attributo possibile - d’ogni persona consapevole della propria condizione di vulnerabilità, e non la disprezza.
La donna e l’uomo di Fede valorizzano ogni occasione o emozione che mettono a nudo la condizione di nudità [non colpa] per aprire nuove strade e rinnovarsi.
In ottica di vita nello Spirito il santo [in ebraico Qadosh, attributo divino] è sì l’uomo «distacccato», ma non in senso parziale o fisico, bensì ideale.
Non è la persona che a un certo punto della vita prende le distanze dalla famiglia umana per intraprendere un sentiero di purificazione che la innalzerebbe. Illudendosi di migliorare.
Come sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti: «Un essere umano [...] non si realizza, non sviluppa, non può trovare la propria pienezza [... e] non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (n.87).
Il testimone autentico non è animato dal disprezzo del caos esistenziale - né desideroso di appaltare le difficoltà di gestione della propria libertà consegnandola a un’agenzia alienante, dalla mentalità appartata (che risolva il dramma delle scelte personali).
In Cristo l’uomo è un «disgiunto» dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.
E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.
A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.
Tutto per la Comunione globale, e in Verità anche con il proprio intimo seme caratteriale - evitando proselitismi e il farsi notare nelle passerelle.
Il vero credente conosce il suo limite redento, vede le possibilità dell’imperfezione... Così sostituisce i presupposti del trattenere per sé, del salire sugli altri e del dominarli, con un fondamentale trittico umanizzante: elargire, libertà di “scendere”, collaborare.
Questo l’autentico Distacco, che non fugge le proprie e altrui inclinazioni, né disprezza il tratto complesso della condizione umana.
In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di “abbassarsi” per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.
In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.
Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici “forti”, e “migliori” degli altri.
Solo quest’orizzonte di Focolare ci spinge a partire.
Di conseguenza, contrario di Santo non è «peccatore», bensì irrealizzato o incompiuto.
Vediamone ancora il motivo (vocazionale e per strade personali).
Gesù era amico di pubblicani e pubblici peccatori non perché migliori dei buoni, ma perché in religione i «giusti» risultano non di rado poco spontanei; rendendosi impermeabili, chiusi, refrattari all’azione dello Spirito.
Con sorpresa, il Signore stesso ha fatto ripetuta esperienza che proprio le persone devotamente carenti erano volte a interrogarsi, accorgersi, rielaborare, deviare dall’assuefazione - per l’edificazione di nuovi sentieri, anche procedendo a tastoni.
Non potendo godere del mantello perbenista di paraventi sociali, dopo una presa di coscienza della propria situazione (e nel tempo) - rispetto a coloro che si ritenevano “arrivati” e amici di Dio - da “lontani” diventavano persone più degli “impeccabili” disposte ad amare.
Il mettersi in discussione è fondamentale in ottica biblica.
Ad ogni pie’ sospinto la Scrittura ci propone una spiritualità dell’Esodo, ossia una strada di liberazione da pastoie e percorsa come a piedi, passo dopo passo. Quindi che valorizza sentieri di ricerca, esplorazione, scoperta di sé e della Novità di un Dio che non ripete, ma crea.
L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].
Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente “natura”, quindi il loro essere nel mondo è condizionato [ricordo che il mio professore di antropologia teologica Ignazio Sanna diceva addirittura «de-centrato»], persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).
Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.
Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.
Per giungere a essere immagine e somiglianza del Signore, dobbiamo sviluppare capacità di risposta a una Vocazione che ci rende non dei fenomeni, né “perfetti” eccezionali, bensì Testimoni particolari.
Scelti per Nome, così come siamo; che abbracciano il loro essere profondo - anche inespresso - fino a riconoscerlo nel Tu, e dispiegarlo nel Noi.
La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.
Per una Nuova Alleanza.
Nell’Antico Testamento il credente entrava in contatto con la purità divina frequentando luoghi sacri, adempiendo prescrizioni, recitando preghiere, rispettando tempi e spazi, scansando situazioni imbarazzanti; così via.
La nostra esperienza e coscienza attestano infallibilmente che l’osservanza rigorosa è troppo rara, o di maniera: dentro, spesso non ci corrisponde - né umanizza.
Essa diventa presto o tardi un castello di carte, malfermo tanto più punta “in alto”. Basta disporne una sola in modo maldestro, e la costruzione artificiosa crolla.
Ci rendiamo conto della nostra naturale impossibilità a soddisfare sterilizzazioni, mappe (altrui) e standard così elevati.
Con Gesù la Perfezione non riguarda il “pensiero”, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.
In antichi contesti il cammino dei figli è stato ammantato d’una proposta misticheggiante o rinunciataria fatta di astinenze, digiuni, ritiri, vita appartata, adempimenti cultuali ossessivi... che in molte situazioni hanno costituito la trama portante della spiritualità pre-Conciliare.
Ma nella Scrittura i Santi non hanno l’aureola e neppure le ali.
Non sono tali per aver compiuto miracoli di guarigione incomparabili e stupefacenti: bensì donne e uomini inseriti nel mondo comune e negli aspetti più ordinari.
Essi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana; la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.
E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.
Nel Primo Testamento «Qadosh» designava esclusivamente un attributo dell’Eterno [unica Persona non intermittente] - e la sua separatezza dall’intreccio delle spesso confuse ambizioni terrene.
Malgrado i difetti, però, in Cristo diventiamo capaci di ascolto, di percezione; quindi abilitati a cogliere ogni opportunità per rendere testimonianza della Gratuità innata, vitale, dell’iniziativa divina e reale.
Incessantemente la vita provvidente si propone e viene incontro per aprire varchi impensabili, che fanno breccia.
I suoi inediti tragitti di crescita rinnovano l’esistere tutto concatenato e conforme.
Ciò anche facendoci stupire delle risorse intime, prima inconsapevoli o inconfessate e sottaciute, ovvero imprevedibilmente nascoste dietro lati oscuri.
Quel ch’è Insigne non viene più spostato dietro nuvolette e collocato in recinti muniti.
Pertanto, avversario di Dio non sarà la trasgressione: diventa viceversa la mancanza di spirito di Comunione, nelle differenze.
Nemico della storia di Salvezza non è l’incompletezza religiosa, ma il divario dalle Beatitudini - e dallo spirito in fieri del «viandante» per il quale “peregrinare” è sinonimo [non paradossale] anche di “errare”.
Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].
“Peccato” è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non parziali. Ciò armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.
Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.
Infatti Gesù non raccomanda dottrine, né di parcellizzare la propria vicenda con etilismi puntuali. Neppure prospetta alcuna religiosa scalata [in termini di progressività] condita di sforzi.
A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.
Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi.
Il Santo è il piccolo, non l’eroe tutto d’un pezzo, uniforme, pronosticabile, scontato.
Santo è colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto, ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).
12. Desideriamo in qualche modo la vita stessa, quella vera, che non venga poi toccata neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La parola « vita eterna » cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo.
[Papa Benedetto, Spe salvi]
Carissimi Fratelli e Sorelle!
1. Dopo aver celebrato ieri la Solennità di Tutti i Santi, oggi, due novembre, il nostro sguardo orante si volge a coloro che hanno lasciato questo mondo e attendono di raggiungere la Città celeste. Da sempre la Chiesa ha esortato a pregare per i defunti. Essa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna. "Mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno - leggiamo nel prefazio odierno -, viene preparata un’abitazione eterna nel Cielo".
2. E’ importante e doveroso pregare per i defunti, perché anche se morti nella grazia e nell’amicizia di Dio, essi forse abbisognano ancora di un’ultima purificazione per entrare nella gioia del Cielo (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1030). Il suffragio per loro si esprime in vari modi, tra i quali anche la visita ai cimiteri. Sostare in questi luoghi sacri costituisce un’occasione propizia per riflettere sul senso della vita terrena e per alimentare, al tempo stesso, la speranza nell'eternità beata del Paradiso.
Maria, Porta del cielo, ci aiuti a non dimenticare e a non perdere mai di vista la Patria celeste, meta ultima del nostro pellegrinaggio qui sulla Terra.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 2 novembre 2003]
Giobbe sconfitto, anzi, finito nella sua esistenza, per la malattia, con la pelle strappata via, quasi sul punto di morire, quasi senza carne, Giobbe ha una certezza e la dice: «Io so che il mio Redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!» (Gb 19,25). Nel momento in cui Giobbe è più giù, giù, giù, c’è quell’abbraccio di luce e calore che lo assicura: Io vedrò il Redentore. Con questi occhi lo vedrò. «Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (Gb 19,27).
Questa certezza, nel momento proprio quasi finale della vita, è la speranza cristiana. Una speranza che è un dono: noi non possiamo averla. È un dono che dobbiamo chiedere: “Signore, dammi la speranza”. Ci sono tante cose brutte che ci portano a disperare, a credere che tutto sarà una sconfitta finale, che dopo la morte non ci sia nulla… E la voce di Giobbe torna, torna: «Io so che il mio Redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! […] Io lo vedrò, io stesso», con questi occhi.
«La speranza non delude» (Rm 5,5), ci ha detto Paolo. La speranza ci attira e dà un senso alla nostra vita. Io non vedo l’aldilà, ma la speranza è il dono di Dio che ci attira verso la vita, verso la gioia eterna. La speranza è un’ancora che noi abbiamo dall’altra parte, e noi, aggrappati alla corda, ci sosteniamo (cfr Eb 6,18-20). “Io so che il mio Redentore è vivo e io lo vedrò”. E questo, ripeterlo nei momenti di gioia e nei momenti brutti, nei momenti di morte, diciamo così.
Questa certezza è un dono di Dio, perché noi non potremo mai avere la speranza con le nostre forze. Dobbiamo chiederla. La speranza è un dono gratuito che noi non meritiamo mai: è dato, è donato. È grazia.
E poi, il Signore conferma questo, questa speranza che non delude: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me» (Gv 6,37). Questo è il fine della speranza: andare da Gesù. E «colui che viene a me, io non lo caccerò fuori perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,37-38). Il Signore che ci riceve là, dove c’è l’ancora. La vita in speranza è vivere così: aggrappati, con la corda in mano, forte, sapendo che l’ancora è laggiù. E quest’ancora non delude, non delude.
Oggi, nel pensiero di tanti fratelli e sorelle che se ne sono andati, ci farà bene guardare i cimiteri e guardare su. E ripetere, come Giobbe: “Io so che il mio Redentore è vivo, e io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro”. E questa è la forza che ci dà la speranza, questo dono gratuito che è la virtù della speranza. Che il Signore la dia a tutti noi.
[Papa Francesco, omelia 2 novembre 2020]
Tutti i Santi, tra senso religioso e Fede
(Mt 5,1-12)
Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra ‘sentire religioso’ comune, e ‘vivere di Fede’.
Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».
Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.
Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale.
In Cristo l’uomo vero è un «distaccato» [‘santo’] dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.
E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.
A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.
In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di ‘scendere’ per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.
In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.
Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici forti, e ‘migliori’ degli altri.
L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].
Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente ‘natura’, quindi il loro essere nel mondo è condizionato, persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).
Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.
Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.
La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.
Per una Nuova Alleanza.
Con Gesù la Perfezione non riguarda il ‘pensiero’, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.
Nella Scrittura i Santi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana, la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.
E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.
Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].
‘Peccato’ è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non-parziali.
Ciò, armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.
Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.
A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.
Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi: «sperimentando che gli altri sono “nostra stessa carne”» (FT n.84).
[1 Novembre 2024, Ognissanti]
Hanno fatto passare la Luce
Incarnando lo spirito delle Beatitudini, ci chiediamo quale sia la differenza tra “sentire religioso” comune, e “vivere di Fede”.
Nelle devozioni antiche il Santo è l’uomo compos sui, perfetto e distaccato [ma prevedibile]; e il contrario di Santo è «peccatore».
Nella proposta di vita piena nel Signore, il «santo» è persona d’intesa comunicativa e che vive per la convivialità, creandola dove non c’è.
Nel cammino dei figli il Santo è sì l’uomo eccellente, ma nel suo senso compiuto - pieno e dinamico, poliedrico; perfino eccentrico. Non in una accezione unilaterale, moralistica o sentimentale.
Nella lingua latina perfìcere significa condurre a termine, andare sino in fondo.
In tale accezione completa e integrale, “perfetto” diventa un valore incarnato autentico: attributo possibile - d’ogni persona consapevole della propria condizione di vulnerabilità, e non la disprezza.
La donna e l’uomo di Fede valorizzano ogni occasione o emozione che mettono a nudo la condizione di nudità [non colpa] per aprire nuove strade e rinnovarsi.
In ottica di vita nello Spirito il santo [in ebraico Qadosh, attributo divino] è sì l’uomo «distacccato», ma non in senso parziale o fisico, bensì ideale.
Non è la persona che a un certo punto della vita prende le distanze dalla famiglia umana per intraprendere un sentiero di purificazione che la innalzerebbe. Illudendosi di migliorare.
Come sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti: «Un essere umano [...] non si realizza, non sviluppa, non può trovare la propria pienezza [... e] non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri» (n.87).
Il testimone autentico non è animato dal disprezzo del caos esistenziale - né desideroso di appaltare le difficoltà di gestione della propria libertà consegnandola a un’agenzia alienante, dalla mentalità appartata (che risolva il dramma delle scelte personali).
In Cristo l’uomo è un «disgiunto» dalla mentalità comune, in quanto fedele a se stesso, al proprio Fuoco che non si estingue - alle passioni, alla propria irripetibile unicità e Vocazione.
E insieme, «separato» da criteri competitivi esterni: dell’avere, del potere, dell’apparire. Potenze autodistruttive.
A queste ultime, sostituisce concretamente la fraternità del donare, del servire e dello sminuirsi [dal “personaggio”]. Energie feconde.
Tutto per la Comunione globale, e in Verità anche con il proprio intimo seme caratteriale - evitando proselitismi e il farsi notare nelle passerelle.
Il vero credente conosce il suo limite redento, vede le possibilità dell’imperfezione... Così sostituisce i presupposti del trattenere per sé, del salire sugli altri e del dominarli, con un fondamentale trittico umanizzante: elargire, libertà di “scendere”, collaborare.
Questo l’autentico Distacco, che non fugge le proprie e altrui inclinazioni, né disprezza il tratto complesso della condizione umana.
In tal guisa, il «santo» vive la Beatitudine essenziale dei perseguitati (Mt 5,11-12; Lc 6,22-23) perché ha la libertà di “abbassarsi” per essere in sintonia con la propria essenza; coesistendo nella sua originalità.
In termini di Fede, il Santo non è più dunque un fisicamente «separato», bensì «Unito» a Cristo - e messo al bando come Lui, nei fratelli deboli.
Insomma, il Disegno divino è comporre Famiglia di piccoli e malfermi, non ritagliarsi un gruppo di amici “forti”, e “migliori” degli altri.
Solo quest’orizzonte di Focolare ci spinge a partire.
Di conseguenza, contrario di Santo non è «peccatore», bensì irrealizzato o incompiuto.
Vediamone ancora il motivo (vocazionale e per strade personali).
Gesù era amico di pubblicani e pubblici peccatori non perché migliori dei buoni, ma perché in religione i «giusti» risultano non di rado poco spontanei; rendendosi impermeabili, chiusi, refrattari all’azione dello Spirito.
Con sorpresa, il Signore stesso ha fatto ripetuta esperienza che proprio le persone devotamente carenti erano volte a interrogarsi, accorgersi, rielaborare, deviare dall’assuefazione - per l’edificazione di nuovi sentieri, anche procedendo a tastoni.
Non potendo godere del mantello perbenista di paraventi sociali, dopo una presa di coscienza della propria situazione (e nel tempo) - rispetto a coloro che si ritenevano “arrivati” e amici di Dio - da “lontani” diventavano persone più degli “impeccabili” disposte ad amare.
Il mettersi in discussione è fondamentale in ottica biblica.
Ad ogni pie’ sospinto la Scrittura ci propone una spiritualità dell’Esodo, ossia una strada di liberazione da pastoie e percorsa come a piedi, passo dopo passo. Quindi che valorizza sentieri di ricerca, esplorazione, scoperta di sé e della Novità di un Dio che non ripete, ma crea.
L’Appello che la Parola rivolge è a intraprendere un itinerario; questo il punto. E da sempre noi siamo «quelli della Via» e che non passano oltre, non girano lo sguardo dall’altra parte [cf. Lc 10,31-33; FT, 56ss].
Per la mentalità pagana classica, la donna e l’uomo sono essenzialmente “natura”, quindi il loro essere nel mondo è condizionato [ricordo che il mio professore di antropologia teologica Ignazio Sanna diceva addirittura «de-centrato»], persino determinato dalla nascita (fortunata o meno).
Secondo la Bibbia la donna e l’uomo sono creature, splendide e adeguate in sé alla propria missione, ma pellegrine e carenti.
Dio è Colui che li «chiama» a completarsi, recuperando gli aspetti difformi.
Per giungere a essere immagine e somiglianza del Signore, dobbiamo sviluppare capacità di risposta a una Vocazione che ci rende non dei fenomeni, né “perfetti” eccezionali, bensì Testimoni particolari.
Scelti per Nome, così come siamo; che abbracciano il loro essere profondo - anche inespresso - fino a riconoscerlo nel Tu, e dispiegarlo nel Noi.
La santità di una persona si coniuga dunque con moltissimi dei suoi stati d’insoddisfazione, di confine, e persino di fallimento parziale - ma sempre pensando e sentendo la realtà.
Per una Nuova Alleanza.
Nell’Antico Testamento il credente entrava in contatto con la purità divina frequentando luoghi sacri, adempiendo prescrizioni, recitando preghiere, rispettando tempi e spazi, scansando situazioni imbarazzanti; così via.
La nostra esperienza e coscienza attestano infallibilmente che l’osservanza rigorosa è troppo rara, o di maniera: dentro, spesso non ci corrisponde - né umanizza.
Essa diventa presto o tardi un castello di carte, malfermo tanto più punta “in alto”. Basta disporne una sola in modo maldestro, e la costruzione artificiosa crolla.
Ci rendiamo conto della nostra naturale impossibilità a soddisfare sterilizzazioni, mappe (altrui) e standard così elevati.
Con Gesù la Perfezione non riguarda il “pensiero”, né il rispetto di un Codice di osservanze astratto. La Compiutezza è in riferimento a una qualità di Esodo e Relazione.
In antichi contesti il cammino dei figli è stato ammantato d’una proposta misticheggiante o rinunciataria fatta di astinenze, digiuni, ritiri, vita appartata, adempimenti cultuali ossessivi... che in molte situazioni hanno costituito la trama portante della spiritualità pre-Conciliare.
Ma nella Scrittura i Santi non hanno l’aureola e neppure le ali.
Non sono tali per aver compiuto miracoli di guarigione incomparabili e stupefacenti: bensì donne e uomini inseriti nel mondo comune e negli aspetti più ordinari.
Essi conoscono i problemi, le debolezze, le gioie e i dolori della vita quotidiana; la ricerca della propria identità-carattere, o inclinazione profonda.
E l’apostolato; la famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro. La forza di seduzione del male, perfino.
Nel Primo Testamento «Qadosh» designava esclusivamente un attributo dell’Eterno [unica Persona non intermittente] - e la sua separatezza dall’intreccio delle spesso confuse ambizioni terrene.
Malgrado i difetti, però, in Cristo diventiamo capaci di ascolto, di percezione; quindi abilitati a cogliere ogni opportunità per rendere testimonianza della Gratuità innata, vitale, dell’iniziativa divina e reale.
Incessantemente la vita provvidente si propone e viene incontro per aprire varchi impensabili, che fanno breccia.
I suoi inediti tragitti di crescita rinnovano l’esistere tutto concatenato e conforme.
Ciò anche facendoci stupire delle risorse intime, prima inconsapevoli o inconfessate e sottaciute, ovvero imprevedibilmente nascoste dietro lati oscuri.
Quel ch’è Insigne non viene più spostato dietro nuvolette e collocato in recinti muniti.
Pertanto, avversario di Dio non sarà la trasgressione: diventa viceversa la mancanza di spirito di Comunione, nelle differenze.
Nemico della storia di Salvezza non è l’incompletezza religiosa, ma il divario dalle Beatitudini - e dallo spirito in fieri del «viandante» per il quale “peregrinare” è sinonimo [non paradossale] anche di “errare”.
Contrapposto di Dio non sono dunque “i peccati”, bensì «il» Peccato [al singolare, termine teologico, non moralistico].
“Peccato” è l’incapacità di corrispondere a una Chiamata indicativa, che fa da molla per completarci, per rigenerarci non parziali. Ciò armonizzando i lati opposti - nell’essere noi stessi ed essere-Con.
Qui è la Fede che «salva», nel punto in cui ci troviamo - perché annienta «il peccato del mondo» (Gv 1,29) ossia la disistima e senso di colpa; l’umiliazione delle distanze incolmabili.
Infatti Gesù non raccomanda dottrine, né di parcellizzare la propria vicenda con etilismi puntuali. Neppure prospetta alcuna religiosa scalata [in termini di progressività] condita di sforzi.
A nessuno nei Vangeli il Cristo dice «fatti santo», bensì con Lui, come Lui e in Lui - Unito, per incontrare incessantemente i propri stati profondi.
Riconoscendoli meglio, anche grazie al Tu e al Noi.
Il Santo è il piccolo, non l’eroe tutto d’un pezzo, uniforme, pronosticabile, scontato.
Santo è colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto, ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).
Fratelli e sorelle amatissimi, noi oggi contempliamo il mistero della comunione dei santi del cielo e della terra. Noi non siamo soli, ma siamo avvolti da una grande nuvola di testimoni: con loro formiamo il Corpo di Cristo, con loro siamo figli di Dio, con loro siamo fatti santi dello Spirito Santo. Gioia in cielo, esulti la terra! La gloriosa schiera dei santi intercede per noi presso il Signore, ci accompagna nel nostro cammino verso il Regno, ci sprona a tenere fisso lo sguardo su Gesù il Signore, che verrà nella gloria in mezzo ai suoi santi. Disponiamoci a celebrare il grande mistero della fede e dell'amore, confessandoci bisognosi della misericordia di Dio.
Cari fratelli e sorelle,
la nostra celebrazione eucaristica si è aperta con l'esortazione "Rallegriamoci tutti nel Signore". La liturgia ci invita a condividere il gaudio celeste dei santi, ad assaporarne la gioia. I santi non sono una esigua casta di eletti, ma una folla senza numero, verso la quale la liturgia ci esorta oggi a levare lo sguardo. In tale moltitudine non vi sono soltanto i santi ufficialmente riconosciuti, ma i battezzati di ogni epoca e nazione, che hanno cercato di compiere con amore e fedeltà la volontà divina. Della gran parte di essi non conosciamo i volti e nemmeno i nomi, ma con gli occhi della fede li vediamo risplendere, come astri pieni di gloria, nel firmamento di Dio.
Quest'oggi la Chiesa festeggia la sua dignità di "madre dei santi, immagine della città superna" (A. Manzoni), e manifesta la sua bellezza di sposa immacolata di Cristo, sorgente e modello di ogni santità. Non le mancano certo figli riottosi e addirittura ribelli, ma è nei santi che essa riconosce i suoi tratti caratteristici, e proprio in loro assapora la sua gioia più profonda. Nella prima Lettura, l'autore del libro dell'Apocalisse li descrive come "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). Questo popolo comprende i santi dell'Antico Testamento, a partire dal giusto Abele e dal fedele Patriarca Abramo, quelli del Nuovo Testamento, i numerosi martiri dell'inizio del cristianesimo e i beati e i santi dei secoli successivi, sino ai testimoni di Cristo di questa nostra epoca. Li accomuna tutti la volontà di incarnare nella loro esistenza il Vangelo, sotto l'impulso dell'eterno animatore del Popolo di Dio che è lo Spirito Santo.
Ma "a che serve la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità?". Con questa domanda comincia una famosa omelia di san Bernardo per il giorno di Tutti i Santi. È domanda che ci si potrebbe porre anche oggi. E attuale è anche la risposta che il Santo ci offre: "I nostri santi - egli dice - non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. Per parte mia, devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri" (Disc. 2; Opera Omnia Cisterc. 5, 364ss). Ecco dunque il significato dell'odierna solennità: guardando al luminoso esempio dei santi risvegliare in noi il grande desiderio di essere come i santi: felici di vivere vicini a Dio, nella sua luce, nella grande famiglia degli amici di Dio. Essere Santo significa: vivere nella vicinanza con Dio, vivere nella sua famiglia. E questa è la vocazione di noi tutti, con vigore ribadita dal Concilio Vaticano II, ed oggi riproposta in modo solenne alla nostra attenzione.
Ma come possiamo divenire santi, amici di Dio? All'interrogativo si può rispondere anzitutto in negativo: per essere santi non occorre compiere azioni e opere straordinarie, né possedere carismi eccezionali. Viene poi la risposta in positivo: è necessario innanzitutto ascoltare Gesù e poi seguirlo senza perdersi d'animo di fronte alle difficoltà. "Se uno mi vuol servire - Egli ci ammonisce - mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Gv 12, 26). Chi si fida di Lui e lo ama con sincerità, come il chicco di grano sepolto nella terra, accetta di morire a sé stesso. Egli infatti sa che chi cerca di avere la sua vita per se stesso la perde, e chi si dà, si perde, trova proprio così la vita (Cfr Gv 12, 24-25). L'esperienza della Chiesa dimostra che ogni forma di santità, pur seguendo tracciati differenti, passa sempre per la via della croce, la via della rinuncia a se stesso. Le biografie dei santi descrivono uomini e donne che, docili ai disegni divini, hanno affrontato talvolta prove e sofferenze indescrivibili, persecuzioni e martirio. Hanno perseverato nel loro impegno, "sono passati attraverso la grande tribolazione - si legge nell'Apocalisse - e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello" (v. 14). I loro nomi sono scritti nel libro della vita (cfr Ap 20, 12); loro eterna dimora è il Paradiso. L'esempio dei santi è per noi un incoraggiamento a seguire le stesse orme, a sperimentare la gioia di chi si fida di Dio, perché l'unica vera causa di tristezza e di infelicità per l'uomo è vivere lontano da Lui.
La santità esige uno sforzo costante, ma è possibile a tutti perché, più che opera dell'uomo, è anzitutto dono di Dio, tre volte Santo (cfr Is 6, 3). Nella seconda Lettura, l'apostolo Giovanni osserva: "Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!" (1 Gv 3, 1). È Dio, dunque, che per primo ci ha amati e in Gesù ci ha resi suoi figli adottivi. Nella nostra vita tutto è dono del suo amore: come restare indifferenti dinanzi a un così grande mistero? Come non rispondere all'amore del Padre celeste con una vita da figli riconoscenti? In Cristo ci ha fatto dono di tutto se stesso, e ci chiama a una relazione personale e profonda con Lui. Quanto più pertanto imitiamo Gesù e Gli restiamo uniti, tanto più entriamo nel mistero della santità divina. Scopriamo di essere amati da Lui in modo infinito, e questo ci spinge, a nostra volta, ad amare i fratelli. Amare implica sempre un atto di rinuncia a se stessi, il "perdere se stessi", e proprio così ci rende felici.
Così siamo arrivati al Vangelo di questa festa, all'annuncio delle Beatitudini che poco fa abbiamo sentito risuonare in questa Basilica. Dice Gesù: Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia (cfr Mt 5, 3-10). In verità, il Beato per eccellenza è solo Lui, Gesù. È Lui, infatti, il vero povero in spirito, l'afflitto, il mite, l'affamato e l'assetato di giustizia, il misericordioso, il puro di cuore, l'operatore di pace; è Lui il perseguitato a causa della giustizia. Le Beatitudini ci mostrano la fisionomia spirituale di Gesù e così esprimono il suo mistero, il mistero di Morte e Risurrezione, di Passione e di gioia della Risurrezione. Questo mistero, che è mistero della vera beatitudine, ci invita alla sequela di Gesù e così al cammino verso di essa. Nella misura in cui accogliamo la sua proposta e ci poniamo alla sua sequela - ognuno nelle sue circostanze - anche noi possiamo partecipare della sua beatitudine. Con Lui l'impossibile diventa possibile e persino un cammello passa per la cruna dell'ago (cfr Mc 10, 25); con il suo aiuto, solo con il suo aiuto ci è dato di diventare perfetti come è perfetto il Padre celeste (cfr Mt 5, 48).
Cari fratelli e sorelle, entriamo ora nel cuore della Celebrazione eucaristica, stimolo e nutrimento di santità. Tra poco si farà presente nel modo più alto Cristo, vera Vite, a cui, come tralci, sono uniti i fedeli che sono sulla terra ed i santi del cielo. Più stretta pertanto sarà la comunione della Chiesa pellegrinante nel mondo con la Chiesa trionfante nella gloria. Nel Prefazio proclameremo che i santi sono per noi amici e modelli di vita. Invochiamoli perché ci aiutino ad imitarli e impegniamoci a rispondere con generosità, come hanno fatto loro, alla divina chiamata. Invochiamo specialmente Maria, Madre del Signore e specchio di ogni santità. Lei, la Tutta Santa, ci faccia fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo! Amen.
[Papa Benedetto, omelia 1 novembre 2006]
1. Al termine di questa solenne Celebrazione in onore di Tutti i Santi, il nostro sguardo si volge verso l'alto. La festa odierna ci ricorda che noi siamo fatti per il Cielo, dove la Madonna è già giunta e ci attende.
La vita cristiana è camminare quaggiù col cuore rivolto verso l'Alto, verso la Casa del Padre celeste. Così hanno camminato i santi e così, in primo luogo, ha fatto la Vergine Madre del Signore. Il Giubileo ci richiama a questa dimensione essenziale della santità: la condizione di pellegrini, che cercano ogni giorno il Regno di Dio confidando nella divina Provvidenza. Questa è l'autentica speranza cristiana, che non ha nulla a che vedere col fatalismo né con la fuga dalla storia. Al contrario, è stimolo all'impegno concreto, guardando a Cristo, Dio fatto uomo, che ci apre la via del Cielo.
2. In questa prospettiva ci disponiamo a celebrare domani la Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Ci rechiamo spiritualmente presso le tombe dei nostri cari, che ci hanno preceduto con il segno della fede e che attendono il sostegno della nostra preghiera. Assicuro un ricordo per quanti, nel corso di quest'anno, hanno perso la vita; specialmente penso alle vittime dell'umana violenza: possa ciascuno trovare nel seno di Dio la sospirata pace.
3. In questa luce, Maria ci appare ancor più quale Regina dei Santi e Madre della nostra speranza. E' a Lei che ci rivolgiamo, perché ci guidi sulla via della santità e ci assista in ogni momento della vita, adesso e nell'ora della nostra morte.
[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 1 novembre 2000]
La solennità di Tutti i Santi è la “nostra” festa: non perché noi siamo bravi, ma perché la santità di Dio ha toccato la nostra vita. I santi non sono modellini perfetti, ma persone attraversate da Dio. Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria “tonalità”. Ma tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce gentile di Dio. Questo è lo scopo della vita: far passare la luce di Dio, e anche lo scopo della nostra vita.
Infatti, oggi nel Vangelo Gesù si rivolge ai suoi, a tutti noi, dicendoci «Beati» (Mt 5,3). È la parola con cui inizia la sua predicazione, che è “vangelo”, buona notizia perché è la strada della felicità. Chi sta con Gesù è beato, è felice. La felicità non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno, no, la felicità vera è stare col Signore e vivere per amore. Voi credete questo? La felicità vera non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno; la felicità vera è stare con il Signore e vivere per amore. Credete questo? Dobbiamo andare avanti, per credere a questo. Allora, gli ingredienti per la vita felice si chiamano beatitudini: sono beati i semplici, gli umili che fanno posto a Dio, che sanno piangere per gli altri e per i propri sbagli, restano miti, lottano per la giustizia, sono misericordiosi verso tutti, custodiscono la purezza del cuore, operano sempre per la pace e rimangono nella gioia, non odiano e, anche quando soffrono, rispondono al male con il bene.
Ecco le beatitudini. Non richiedono gesti eclatanti, non sono per superuomini, ma per chi vive le prove e le fatiche di ogni giorno, per noi. Così sono i santi: respirano come tutti l’aria inquinata dal male che c’è nel mondo, ma nel cammino non perdono mai di vista il tracciato di Gesù, quello indicato nelle beatitudini, che sono come la mappa della vita cristiana. Oggi è la festa di quelli che hanno raggiunto la meta indicata da questa mappa: non solo i santi del calendario, ma tanti fratelli e sorelle “della porta accanto”, che magari abbiamo incontrato e conosciuto. Oggi è una festa di famiglia, di tante persone semplici e nascoste che in realtà aiutano Dio a mandare avanti il mondo. E ce ne sono tanti, oggi! Ce ne sono tanti. Grazie a questi fratelli e sorelle sconosciuti che aiutano Dio a portare avanti il mondo, che vivono tra di noi; salutiamoli tutti con un bell’applauso!
Anzitutto – dice la prima beatitudine – sono «poveri in spirito» (Mt 5,3). Che cosa significa? Che non vivono per il successo, il potere e il denaro; sanno che chi accumula tesori per sé non arricchisce davanti a Dio (cfr Lc 12,21). Credono invece che il Signore è il tesoro della vita, e l’amore al prossimo l’unica vera fonte di guadagno. A volte siamo scontenti per qualcosa che ci manca o preoccupati se non siamo considerati come vorremmo; ricordiamoci che non sta qui la nostra beatitudine, ma nel Signore e nell’amore: solo con Lui, solo amando si vive da beati.
Vorrei infine citare un’altra beatitudine, che non si trova nel Vangelo, ma alla fine della Bibbia e parla del termine della vita: «Beati i morti che muoiono nel Signore» (Ap 14,13). Domani saremo chiamati ad accompagnare con la preghiera i nostri defunti, perché godano per sempre del Signore. Ricordiamo con gratitudine i nostri cari e preghiamo per loro.
La Madre di Dio, Regina dei Santi e Porta del Cielo, interceda per il nostro cammino di santità e per i nostri cari che ci hanno preceduto e sono già partiti per la Patria celeste.
[Papa Francesco, Angelus 1 novembre 2017]
Fine di un ordine “sacro”
(Lc 13,31-35)
Il contesto in cui Gesù vive è minaccioso: il potere [anche delle corti di periferia dell’Impero] era assoluto e non rendeva conto a nessuno della gestione spicciola.
Ma l’edificazione del Regno di Dio non dipende da alcuna autorizzazione di governanti rapaci, sul territorio delle province.
Chi vuole adempiere la propria missione non può accontentare le «volpi» che usurpano il potere.
Si tratta di piccoli e dannosi parassiti di situazione, ma svelti - pur non essendo grandi fiere roboanti come nella corte romana e senatoriale.
Col suo atteggiamento scaltro, il re Erode (astuto collaborazionista) era riuscito ad assicurarsi il dominio per diversi decenni, e una vita senza scossoni.
Ogni villaggio della Palestina era presidiato da funzionari e delatori del sovrano, nonché praticanti e subordinati della religione popolare ufficiale [anche farisei, che appunto Gesù rimanda al mittente: v.32].
Antipa riusciva sempre a galleggiare sulle situazioni e starsene in pace.
Ma dopo essersi illuso di aver sistemato il Battista e con lui la sua scuola, eccolo di nuovo allarmato per il sorgere d’un pericolo maggiore.
Il giovane Rabbi diffondeva fiducia profonda non nei forti, bensì nei malfermi. In tal guisa, operava in profondità nelle coscienze, e sembrava potesse surclassare persino i Profeti.
Se dal centro del potere sul territorio erano precipitosamente sopraggiunti gli ispettori (v.31), Gesù doveva averla fatta proprio grossa. Così dimostrando totale libertà da condizionamenti.
Pertanto il successo del suo pensiero avrebbe potuto suscitare disordini nell’assetto del sistema.
Ma i messi di Dio non fuggono dal rischio. Non lo fanno per dovere, ma per fedeltà a se stessi, e per il fatto che sono attratti da una Visione che appartiene a tutti: riescono a cogliere e presentire che i dolori del parto genereranno nuove Nascite.
Insomma, Gesù e i suoi intimi svolgono un’esistenza segnata da una sorta di attrazione della croce - per Amore che va sino in fondo e non disdegna i confronti.
Gerusalemme era centro del popolo dei figli di Dio, “eletti” [solo] per dispiegare il volto del Padre.
Vocazione della città santa era non quella di consegnarsi a una volpe (v.32) bensì farsi chioccia [v.34: propriamente, «gallina»] che non chiude ma allarga le ali per i suoi piccoli, radunando tutti gli innocenti.
Certo, il loro sentimento per le sorti di una patria che si lascia andare alle vanità, all’ideologia di potere e al suo “vantaggio”, intraprendendo il binario dell’autodistruzione, fa piangere di dolore.
Tuttavia - pur defenestrato dalla sua Casa nella città santa, nonché dal cuore di chi pretende solo quietismi - in Cristo il Popolo autentico di amici si riproporrà (v.35) anche sulla via dell’insuccesso.
Non colonizzando le fisionomie, bensì in modo semplice, ma non unilaterale: inclusivo. Dilatando l’orizzonte e distaccando dagli orpelli.
Deviandoci dall’astuzia di Erode e di tutte le «volpi» (v.32).
[Giovedì 30.a sett. T.O. 31 ottobre 2024]
Jesus has forever interrupted the succession of ferocious empires. He turned the values upside down. And he proposes the singular work - truly priestly - of the journey of Faith: the invitation to question oneself. At the end of his earthly life, the Lord is Silent, because he waits for everyone to pronounce, and choose
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori. E propone l’opera singolare - davvero sacerdotale - del cammino di Fede: l’invito a interrogarsi. Al termine della sua vicenda terrena il Signore è Silenzioso, perché attende che ciascuno si pronunci, e scelga
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
Deus dilexit mundum! God observes the depths of the human heart, which, even under the surface of sin and disorder, still possesses a wonderful richness of love; Jesus with his gaze draws it out, makes it overflow from the oppressed soul. To Jesus, therefore, nothing escapes of what is in men, of their total reality, in which good and evil are (Pope Paul VI)
don Giuseppe Nespeca
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