don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Sabato, 07 Settembre 2024 03:59

Luce che incontra

Gesù utilizza le metafore del sale e della luce e le sue parole sono dirette ai discepoli di ogni tempo, quindi anche a noi.

Gesù ci invita ad essere un riflesso della sua luce, attraverso la testimonianza delle opere buone. E dice: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Queste parole sottolineano che noi siamo riconoscibili come veri discepoli di Colui che è la Luce del mondo, non nelle parole, ma dalle nostre opere. Infatti, è soprattutto il nostro comportamento che – nel bene e nel male – lascia un segno negli altri. Abbiamo quindi un compito e una responsabilità per il dono ricevuto: la luce della fede, che è in noi per mezzo di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo, non dobbiamo trattenerla come se fosse nostra proprietà. Siamo invece chiamati a farla risplendere nel mondo, a donarla agli altri mediante le opere buone. E quanto ha bisogno il mondo della luce del Vangelo che trasforma, guarisce e garantisce la salvezza a chi lo accoglie! Questa luce noi dobbiamo portarla con le nostre opere buone.

La luce della nostra fede, donandosi, non si spegne ma si rafforza. Invece può venir meno se non la alimentiamo con l’amore e con le opere di carità. Così l’immagine della luce s’incontra con quella del sale.

Ognuno di noi è chiamato ad essere luce e sale nel proprio ambiente di vita quotidiana, perseverando nel compito di rigenerare la realtà umana nello spirito del Vangelo e nella prospettiva del regno di Dio. Ci sia sempre di aiuto la protezione di Maria Santissima, prima discepola di Gesù e modello dei credenti che vivono ogni giorno nella storia la loro vocazione e missione. La nostra Madre ci aiuti a lasciarci sempre purificare e illuminare dal Signore, per diventare a nostra volta “sale della terra” e “luce del mondo”.

[Papa Francesco, Angelus 5 febbraio 2017]

XXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (8 settembre 2024)

1. Nella prima lettura dell’odierna liturgia il profeta Isaia si rivolge agli ebrei deportati in Babilonia che tornano verso Gerusalemme: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”. C’è una parola che potrebbe sorprendere: “la vendetta divina”.  E’ meglio subito precisare che non ha lo stesso significato rispetto al nostro modo di sentire. Contestualizzandola nel momento storico, si capisce che quando il profeta parla della vendetta di Dio si riferisce alla salvezza e lo comprendiamo meglio se si formula il testo così: “Ecco la vendetta di Dio: Egli viene e vi salverà”, e poi: “Ecco la ricompensa di Dio: Egli stesso viene per salvarvi”. Ancor più aiutano a percepire questo messaggio di speranza le promesse che seguono: i malati guariranno, i ciechi riacquisteranno la vista, i sordi l’udito, gli storpi salteranno come cervi e griderà di gioia la lingua del muto. Queste promesse hanno il sapore d’un balsamo lenitivo e incoraggiante alle orecchie di un popolo deportato in Babilonia e segnato dalle atroci ferite inferte dall’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor. E’ a loro che Dio assicura futuri giorni di benessere e di gioia ritrovata. Ma c’è di più: alla luce del quadro storico e religioso di quel tempo la “vendetta” veniva percepita in maniera favorevole dagli ebrei perché sapevano che il Signore mai avrebbe abbandonato il suo popolo e anzi lottava contro il male che l’opprimeva. “Vendetta divina” significava quindi ridare dignità a coloro che formano questo popolo che il Signore si è scelto e che pone in lui ogni attesa. E proprio in questo brilla la gloria di Dio. A meglio comprendere giova aggiungere che all’inizio della sua storia, il popolo della Bibbia immaginava un Dio vendicativo come sono gli uomini e, solo attraverso un percorso di purificazione della fede durato lunghi secoli grazie alla predicazione dei profeti, ha cominciato a scoprire il vero volto del Signore. E allora, pur restando la parola “vendetta” il contenuto è del tutto mutato, come si è verificato per altre parole, ad esempio “sacrificio” e “il timore di Dio”. Ci sono voluti secoli per arrivare a riconoscere il vero volto di Dio, un Dio diverso da come si poteva immaginare, un Dio che è amore e spende il suo amore per tutti gli uomini.  Con la frase: “Ecco la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”, il profeta vuol far intendere che Dio ama più di ogni altro al mondo e in qualsiasi prova, dolore e umiliazione fisica o morale, non tarda a intervenire manifestando la sua misericordia. Quanto è necessario riscoprire nella nostra vita la misericordia divina! Dio viene a salvarci, viene a rialzarci. Un aspetto fondamentale della fede è proprio la certezza che Egli ha già vinto la prepotenza del male con l’onnipotenza del suo amore misericordioso e anche se le forze sataniche operanti a vari livelli apparentemente dominano nel mondo, il cristiano non cede alla tentazione del pessimismo perché sa di essere amato da Colui che in tanti modi vuole manifestarci la sua tenerezza di Padre e mai ci abbandona.

2. Oggi è per noi l’invito che Isaia rivolge agli esuli in Babilonia che fanno ritorno a Gerusalemme. La fede ci assicura che l’umanità è in sicura attesa della definitiva liberazione da ogni forma di schiavitù e di offesa alla dignità dell’uomo, da ogni rischio di accecamento fisico e morale che perturba la pace. Il Messia è il salvatore promesso: i contemporanei di Gesù dovevano averlo compreso perché, presentando sé stesso come Messia nella sinagoga di Nazaret (Cf Lc 4) Gesù cita proprio il profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l'apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l'anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio” (61,1-2).  Da notare però che della profezia omette di proposito le ultime parole: “il giorno di vendetta del nostro Dio”, per chiarire che egli viene per dare speranza e salvezza ai poveri, ai prigionieri, agli oppressi, che con fatica avrebbero compreso la parola “vendetta”. Ormai ogni sua azione avrà il volto della misericordia.  Misericordia, di cui sono segni tangibili i ciechi che riacquistano la vista, gli storpi che riprendono a camminare, i lebbrosi purificati, i sordi capaci di sentire nuovamente, i morti che risuscitano e soprattutto il vangelo annunciato ai poveri, come il Cristo afferma rispondendo ai discepoli di Giovanni Battista venuti per domandargli se è il Messia atteso (Lc 7,22). Questo è il vangelo: Dio ci rialza dalla nostra miseria e ci salva, e questo appare chiaramente nell’odierna pagina del vangelo di Marco (cap.7). Gesù è in terra pagana - il territorio della Decapoli - dove guarisce un uomo che soffre di doppia infermità: è sordo e muto. L’evangelista utilizza il termine greco “magilalos”(che significa colui che parla con difficoltà perché è non udente), raramente usato nel Nuovo Testamento e una sola volta presente nell’Antico Testamento proprio nel testo d’Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: ”griderà di gioia la lingua del muto”. L’evangelista assicura che questa profezia si è compiuta in Gesù e ne è prova la guarigione del sordo muto, simbolo dell’umanità incapace di sentire e quindi con serie difficoltà nel comunicare (balbetta soltanto). Si chiede a Gesù “di imporgli la mano” e lui compie qualcosa che mai aveva fatto prima. Lo allontana dalla folla e ripete gesti rituali dei guaritori: mette le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua. Gesù non cambia questi gesti ma li riveste di un nuovo significato. A differenza dei guaritori, egli guarda verso il cielo, emette un sospiro e gli dice: “Effata, cioè apriti”.  Alzando gli occhi verso l’Alto manifesta che guarisce grazie al potere conferitogli dal Padre. Quanto al sospiro si tratta piuttosto di un gemito: viene usata la stessa parola che san Paolo, nella lettera ai Romani, utilizza per descrivere sia l’impazienza della creazione che attende la liberazione, sia la maniera con cui lo Spirito Santo prega nel cuore dei credenti “con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Nel gemito di Gesù possiamo avvertire da una parte l’umanità che aspetta e invoca la liberazione e dall’altra lo Spirito che intercede per noi perché nessuna umana sofferenza ci lasci indifferenti. Il vangelo si chiude con la gente che piena di stupore proclama: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Percepiamo qui un’anticipazione della professione di fede della comunità cristiana che sarà totale e perfetta sulle labbra del centurione sotto la croce di Cristo verso la fine del vangelo di Marco: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15, 39).

3. Effatà, cioè “Apriti” è una delle poche parole aramaiche citate direttamente nel vangelo e rimaste immutate in ogni lingua. Si trova nel rito del battesimo, quando il celebrante tocca le orecchie e le labbra del battezzato aggiungendo: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede a lode e gloria di Dio Padre. Ogni giorno ascoltiamo nella liturgia il salmista che canta: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca annuncerà la tua lode (Sal 50/51,17), e torna frequente nella predicazione l’affermazione dell’apostolo Paolo: “Nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Co 12,3). Solo Dio può aprire il cuore dell’uomo e rendere le sue labbra degne di onorarlo. Solo Dio ci salva: tocca però alla nostra libertà decidere di scegliere di amarlo e proclamare la sua lode non semplicemente a parole, bensì  con tutta la vita diventata vangelo vivente.

Buona domenica + Giovanni D’Ercole

Venerdì, 06 Settembre 2024 04:12

Vincere la gara

[Transitorietà dell’Istituzione? E la compattezza? E l’espansione?]

(Mc 9,29-36)

 

«Un bambino giocava a fare il prete insieme a un coetaneo, sulle scale della sua casa. Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare. Il bambino lo rimproverò bruscamente: ‘Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!’. Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare. A questo punto il bambino s’imbronciò per un attimo, poi illuminandosi salì sul gradino più alto e rispose: ‘Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio’ [...]».

(B. Ferrero, La Scala, in: C’è Qualcuno Lassù?, p.24)

 

La mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.

Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.

Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.

«Figlio dell’uomo» è la persona secondo un criterio di umanizzazione, non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7).

Ciascun uomo col cuore di carne - non di bestia, né di pietra - s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, il garzone di bottega.

Il termine [diminutivo] designa la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.

Allude appunto alla dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire!

 

Gesù abbraccia un ragazzino di 8-12 anni che a quel tempo non contava nulla - appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega.

È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci.

«Se qualcuno vuole essere primo» (v.35): il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere e l’apparire.

Conta piuttosto sulla nostra libertà di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe (vv.31-35).

Il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.

Non si tratta d’una conquista esteriore, ma intima e fatta propria.

Essa è in grado così di scolpire la nostra identità profonda, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.

 

Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.

Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente, d’un sentiero persino interrotto che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.

L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto, comprendendo il Tu nell’io.

Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.

Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».

Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».

 

Così il ‘personale’ sfocia nel plurale e globale.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nell’equilibrio di natura, hai mai visto una pianta che vive solo alla luce? O una creatura che non avesse il suo rifugio in ombra?

 

 

[25.a Domenica T.O. (B)  22 settembre 2024]

Venerdì, 06 Settembre 2024 03:52

Il primo è l’ultimo

Rivoluzione della Tenerezza sana: egoismo senza riduzioni

(Mc 9,30-37)

 

Nessuna pianta vive solo alla luce: morirebbe. Nessun animale: perirebbe - se non avesse la sua tana in ombra.

 

L’uomo che nega il suo lato oscuro, mente.

 

La spiritualità biblica non è vuota; anzi, molto sobria e legata alla vita concreta e multiforme; talora opposta - per nulla incline a ripiegamenti sentimentalistici consolatori o unilaterali.

In Dt 6,4-5 (testo ebraico) l’amore dovuto al Signore investe «tutto il cuore» ossia tutte le decisioni, «tutta la vita» ossia ogni istante dell’esistenza, e «tutto il tuo molto» [condivisione dei beni; che il Figlio di Dio intende in senso universale].

La proposta di Gesù evolve in modo decisivo verso il superamento degli steccati, la libertà, e la consapevolezza. Essa tende a recuperare l’intero essere creaturale - e non è neppure incline alla liturgia degli adempimenti (né a valorizzare performances).

Il Figlio di Dio definisce le coordinate del vero Amore verso il Padre in termini che ci sorprendono, perché al criterio antico aggiunge il mettersi in discussione nell’intelligenza delle cose dell’uomo, di Dio, e di Chiesa.

Rendersi conto, cercare di capire, dialogare per arricchirsi, aggiornarsi, vagliare tutto... non sono orpelli cerebrali e individuali, ma passi decisivi per la comunione con gli altri e col Padre [Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27].

 

Nelle religioni pagane non aveva senso parlare di amore per gli dèi. Essi vivevano una vita capricciosa e decidevano a lotteria chi favorire tra gli uomini e chi invece dovesse sopportare una vita di stenti, insignificante.

I fortunati e (materialmente) benedetti ringraziavano adempiendo prescrizioni; ad es. obblighi di culto. Gli altri idem - almeno per tenersi buone le schiere celesti e non essere così oggetto di ritorsioni.

L’amore mette alla pari. Il timore crea piramidi gerarchiche.

Ovvio che fosse impossibile avere tanta passione per gli abitatori dell’Olimpo, o semidei, ninfe, eroi - insomma, per chiunque sovrastasse… con la cappa delle molte incombenze da osservare [per strapparne il favore].

Agli invisibili era ovviamente riservato il disprezzo personale e sociale - sacralizzato dall’indiscutibile volontà superna, identificata con la destinazione al ceto dei bassifondi; nel caso, punitiva. Comunque, paludosa.

[Altro che «viscere di Misericordia»: espressione materna, comune sin dal Primo Testamento!].

 

Poi l’idea arcaica di castigo o benedizione addirittura senza fine, per meriti ammucchiati in vita, ha costituito il tessuto della mentalità religiosa di tutti i tempi.

Ciò anche nella civitas christiana, sino a poco tempo fa.

Quindi la «teologia della retribuzione» ha di fatto annientato ogni passione personale, con l’idea ipocrita di scambio e meritocrazia.

Configurazione proiettata addirittura al rango di Paradiso - peggiore degli egoismi. Livellandoci tutti all’apporre “crocette”.

Sono note le complesse procedure della «pesatura del cuore» e del «Giudizio divino» sulle anime dei defunti, fin nei sarcofagi e nel Libro dei morti dell’antico Egitto.

Concatenazioni ingessate, di stampo forense, che hanno umiliato l’idea di Legge divina.

Malgrado ciò, tali convinzioni fin troppo “normali” sono divenute comuni a tutte le credenze del bacino mediterraneo e del medio oriente antico.

 

La Giustizia superiore pone Giustizia dove essa non c’è.

Ormai distaccati dall’invasione antica di catechesi ossessive sul terribile giudizio finale popolato d’accoliti armati con forcone, ci sentiamo finalmente capiti in modo personale, e con criterio esclusivamente vocazionale, non massificato.

Per dato creaturale, siamo anime chiamate e attivate a un percorso che può dare frutto irripetibile - un contributo decisivo e non omologabile all’intera storia della salvezza. Ciascuno di noi.

Nella visione-proposta di Gesù, il nostro essere non è valutato onnipotente nel bene. L’Agnello non reca condanna alcuna, neanche agli incapaci.

Siamo conformati sulla necessità di ricevere amore - come fossimo dei bambini di fronte a Genitori che fanno crescere sani i propri figli con una sovrabbondanza d’iniziative, le quali li portano a superarsi.

Ciò, malgrado i capricci; anzi, a motivo di essi: magma di energie contrapposte eppure plasmabili, che vedono più lontano delle facili identificazioni, e stanno preparando i successivi sviluppi.

 

L’esperienza della Tenerezza evangelica non deriva dal buon carattere e dalla mansuetudine sociale. Ma dall’aver sperimentato in prima persona il valore delle eccentricità.

E aver sviluppato la comprensione dei propri lati oscuri, o rielaborato e fatto scendere in campo deviazioni che a un certo punto della vita sono diventate risorse stupefacenti.

Addirittura, medesima evoluzione e trasmutazione possiamo notare negli aspetti di noi stessi che non piacciono e vorremmo correggere… 

Poi, tali scintille nell’andare dei giorni stupiscono, e scopriamo essere la parte migliore di noi stessi: la vera inclinazione e il motivo per cui siamo nati.

Il carattere deviante e sbilanciato di ciascuno contiene il segreto essenziale della Chiamata per Nome e del proprio destino.

Da ciò si parte per riconoscere il peso specifico delle differenze, e le stesse dissonanze di sorelle e fratelli, ugualmente arricchenti.

Non è buonismo, quello degli Agnelli [oscillante in situazione, e collegato a modi artificiosi, subdoli interessi o partigianerie]: il contrario!

Come ha detto Papa Francesco: «Agnelli, non stupidi; però agnelli».

 

Nella vita personale e di comunione, Tenerezza evangelica è reale comprensione e autentica inclusione del “diverso”. A partire non da una ideologia erratica, momentanea, glamour e di cerchia (volubile) ma dalla propria esperienza di vita intima e relazionale.

Ci porterà a sperimentare un Padre che ben provvede a noi, proprio mentre rallegriamo la vita altrui - arricchendo la nostra! - nella confluenza e riarmonizzazione dei nostri molti volti.

Tenerezza a tutto tondo, convinta sul serio; senza le maschere omologate dei soliti “punti saldi” della banale (recitata) tenerezza, forse obbligata e che si attiva da un’identità conforme indebolita.

 

È questo il contagio sapiente che ci farà rinascere dalla grande crisi globale: l’indulgenza che non si fa indolenza.

E che non rimane settoriale - perché parte non dalle maniere o dai nodi esterni, ma dall’essere se stessi e qui riconoscere il Tu (insieme, semi del Logos).

 

Per una Tenerezza del Dialogo senza nevrosi.

 

In tal guisa, il “santo” diventa colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).

 

 

Vincere la gara

(Mc 9,30-37)

 

«Un bambino giocava a fare il prete insieme a un coetaneo, sulle scale della sua casa. Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare. Il bambino lo rimproverò bruscamente: ‘Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!’. Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare. A questo punto il bambino s’imbronciò per un attimo, poi illuminandosi salì sul gradino più alto e rispose: ‘Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio’ [...]».

(B. Ferrero, La Scala, in: C’è Qualcuno Lassù?, p.24)

 

La mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.

Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.

La massa permaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadroniva del potere, la folla minuta restava sottomessa e soffocata.

Identica norma vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte pulsione da orda e il contentino dei gregari.

Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.

«Figlio dell’uomo» è la persona secondo un criterio di umanizzazione, non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7).

Ciascun uomo col cuore di carne - non di bestia, né di pietra - s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, il garzone di bottega.

Il termine (diminutivo) designa la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.

Allude appunto alla dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire!

 

Nei Vangeli, il Figlio dell’uomo - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma dagli habitué dei recinti sacri.

La crescita e umanizzazione del popolo non è contrastata dai “peccatori”, ma proprio da coloro che avrebbero il ministero di far conoscere a tutti il Volto di Dio!

Gesù abbraccia un ragazzino di 8-12 anni che a quel tempo non contava nulla - appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega.

È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci: quella con colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.

Dimensione di santità senza aureole distintive: condivisibile, perché legata all’empatia, alla spontanea amicizia verso la donna e l’uomo.

Ovvio: non si tratta d’una proposta compromessa con la religione dottrina e disciplina che ricaccia indietro le eccentricità: assai più simpatica e amabile.

Quella del Figlio dell’uomo è la santità che ci rende unici, non che sta sempre ad aborrire ed esorcizzare il pericolo dell’inconsueto.

Proprio per questo - invece - la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa; così come l’idolo feudale e monarchico della stabilità piramidale a vita.

 

«Se qualcuno vuole essere primo» (v.35): il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere e l’apparire.

Per un cammino di Beatitudine, Egli non eccita le pulsioni del trattenere, salire e dominare: non danno Felicità.

Conta piuttosto sulla nostra libertà di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe (vv.31-35) che hanno fatto il callo a soverchiare gli altri di moralismi e sentenze.

Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto. Non partecipiamo alla vita come dei destinati al fallimento, bensì come dei promossi - che non sopprimono i propri requisiti.

Ma non per vincere la gara. Il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.

Non si tratta d’una conquista esteriore ma intima e fatta propria. Essa è in grado così di scolpire il nostro carattere profondo, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.

Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.

Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente, d’un sentiero (persino interrotto) che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.

 

L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto, comprendendo il Tu nell’io.

Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.

Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».

Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».

Così il personale sfocia nel plurale e globale:

«Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come “Figlio di Davide”, ma come “figlio dell’uomo”. Il titolo di “Figlio dell’uomo”, nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione».

[papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012]

 

 

Transitorietà dell’Istituzione? E la compattezza? E l’espansione?

 

La mentalità delle precedenze era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.

Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che non t’aspetti, che supera la finzione antica, quella dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione; una mentalità di competizione e supremazia.

La massa rimaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadroniva del potere, la folla minuta restava sottomessa e soffocata. 

Identica norma vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte pulsione da orda e il contentino dei gregari.

Invece nel Regno di Gesù mancavano i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.

«Figlio dell’uomo» è la persona vera secondo un criterio di umanizzazione; non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7); non una fiera, ma chi educa, convincendo.

Ciascun uomo conforme al Progetto divino e col cuore di carne, non di lupo, s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, un garzone di bottega.

Raffigura la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.

Dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire! Pericolo dunque per la stabilità di qualsiasi “sistema” chiuso.

Come premunirsi? E la sua reputazione? Possibile per i responsabili di comunità rinunciare alle precedenze? Inaccettabile - forse - per chi tiene all’espansione unilaterale!

 

Una Chiesa senza catena di comando riconoscibile non parrebbe probabilmente un gruppo stabile. Sembrerebbe a qualcuno una istituzione transitoria. 

Inoltre [dal punto di vista delle “guide”]: cosa renderà gli individui affini e la massa difforme omogenea? Difficile avere una folla naturalmente compatta!

Una Persona dev’essere convinta, e non è semplice persuaderla!

Non bastano i soliti rimproveri sulla condotta; bisogna capire le vicende.

E se si pretende la sua adesione-coesione a un paradigma culturale in larga misura fissato, ecco la coercizione esterna della moltitudine in cui vive.

[Da ciò, dunque, una gerarchia di cooptati che garantisca fissità di credo, definito perfino nei dettagli].

 

Secondo calcolo naturale, una massa primitiva può evolvere in gruppo articolato e ben organizzato se soggetto a leaders che assicurino durevolezza attraverso una formazione collettiva che faccia presa e s’inculchi nelle categorie primitive dei codici di pensiero.

E tale conio deve risultare facilmente fruibile, onde corrispondere a tutte le variegate situazioni sul territorio.

Ecco in tal guisa una catechesi in grado d’inculturarsi mediante una proposta semplice, immediatamente godibile; compiacente e riconoscibile per le calche.

Notiamo infatti che nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai “peccatori”, bensì proprio da coloro che avrebbero il ministero di farlo conoscere.

Invece il Figlio ha una identità per nulla incline al calcolo di concordismi equilibrati; la sua firma è semplice, ma signorile.

Il suo benvolere si colloca su Altro piano: l’orizzonte del Dio che si rivela.

E lo fa senza artificio; nelle relazioni di qualità e nel Bene configurato e reale; non nelle posizioni di dominio, comando, sopraffazione.

 

Gesù abbraccia il ragazzino di 8-12 anni [«paidìon»] che a quel tempo non contava nulla.

Appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega; colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.

Dimensione di santità senza aureole distintive; condivisibile, perché legata alla simpatia verso chiunque - non a una dottrina e disciplina che ricacciano indietro il pericolo dell’Inconsueto.

Eppure la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa.

Lavorando in archivi, ho notato quali asperità si celavano dietro i dibattiti circa ruoli e prelazioni da esibire in società [persino nelle posizioni di confraternite durante le processioni... non parliamo a tavola; sino al dopoguerra persino nelle foto di gruppo dei chierici].

Certo, il Signore non esclude il diritto a fare della propria vita qualcosa di grande, anzi; ma per la Felicità del suo Popolo non fa leva sulle pulsioni del trattenere, salire e dominare.

Conta piuttosto sulla libertà di donare, scendere e servire - anzitutto dei suoi primi della classe. Tutto per far respirare e nascere autenticamente i semplici; ed è possibile, se la Missione godesse d’un orizzonte di liberalità non opportunistica.

 

In prospettiva della Comunione - coesistenza, convivialità delle differenze - come bene supremo non fugace né viziato da trasformismi, la proposta di Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto.

Non partecipiamo alla vita come dei destinati al fallimento, bensì come dei promossi che non sopprimono i propri requisiti. Ma non per vincere la gara.

Il Signore fa riflettere sull’autentica realizzazione.

Non una conquista esteriore, ma intima e fatta propria; scolpendo la nostra identità profonda nel tempo di un Percorso, non appiattito su ciò che già a monte appare non caratterizzato dal punto di vista educativo.

Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio esterne, artificiali - si ama davvero solo se stessi...

Ammesso e non concesso, la promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno di un Cammino che dilati i confini dell’ego [amante del primato, della visibilità e del tornaconto] comprendendo il Tu nell’io.

Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo in ogni età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini.

Come ha detto Papa Francesco indicando fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».

 

 

Profonda distanza interiore fra Gesù e i discepoli

 

Dopo che Pietro, a nome dei discepoli, ha professato la fede in Lui riconoscendolo come il Messia (cfr Mc 8,29), Gesù comincia a parlare apertamente di ciò che gli accadrà alla fine. L’Evangelista riporta tre successive predizioni della morte e risurrezione, ai capitoli 8, 9 e 10: in esse Gesù annuncia in modo sempre più chiaro il destino che l’attende e la sua intrinseca necessità. Il brano […] contiene il secondo di questi annunci. Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo – espressione con cui designa se stesso – viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc 9,31). I discepoli «però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (v. 32).

In effetti, leggendo questa parte del racconto di Marco, appare evidente che tra Gesù e i discepoli c’era una profonda distanza interiore; si trovano, per così dire, su due diverse lunghezze d’onda, così che i discorsi del Maestro non vengono compresi, o lo sono soltanto superficialmente. L’apostolo Pietro, subito dopo aver manifestato la sua fede in Gesù, si permette di rimproverarlo perché ha predetto che dovrà essere rifiutato e ucciso. Dopo il secondo annuncio della passione, i discepoli si mettono a discutere su chi tra loro sia il più grande (cfr Mc 9,34); e dopo il terzo, Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra, quando sarà nella gloria (cfr Mc 10,35-40). Ma ci sono diversi altri segni di questa distanza: ad esempio, i discepoli non riescono a guarire un ragazzo epilettico, che poi Gesù guarisce con la forza della preghiera (cfr Mc 9,14-29); o quando vengono presentati a Gesù dei bambini, i discepoli li rimproverano, e Gesù invece, indignato, li fa rimanere, e afferma che solo chi è come loro può entrare nel Regno di Dio (cfr Mc 10,13-16).

Che cosa ci dice tutto questo? Ci ricorda che la logica di Dio è sempre «altra» rispetto alla nostra, come rivelò Dio stesso per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, / le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda con-versione - da noi tutti -, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è tutta la pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio, che è realmente grande,  non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. E la Vergine Maria è perfettamente «sintonizzata» con Dio: invochiamola con fiducia, affinché ci insegni a seguire fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.

[Papa Benedetto, Angelus 23 settembre 2012]

Venerdì, 06 Settembre 2024 03:47

Leonella, morta pronunciando la parola Perdono

Cari fratelli e sorelle,

nel Vangelo di questa Domenica, Gesù annuncia per la seconda volta ai discepoli la sua passione, morte e risurrezione (cfr Mc 9,30-31). L’evangelista Marco mette in risalto il forte contrasto tra la sua mentalità e quella dei dodici Apostoli, che non solo non comprendono le parole del Maestro e rifiutano nettamente l’idea che Egli vada incontro alla morte (cfr Mc 8,32), ma discutono su chi tra loro si debba considerare "il più grande" (cfr Mc 9,34). Gesù spiega ad essi con pazienza la sua logica, la logica dell’amore che si fa servizio fino al dono di sé: "Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti" (Mc 9,35).

Questa è la logica del Cristianesimo, che risponde alla verità dell’uomo creato a immagine di Dio, ma al tempo stesso contrasta con il suo egoismo, conseguenza del peccato originale. Ogni persona umana è attratta dall’amore – che ultimamente è Dio stesso – ma spesso sbaglia nei modi concreti di amare, e così da una tendenza all’origine positiva, inquinata però dal peccato, possono derivare intenzioni e azioni cattive. Lo ricorda, nella liturgia odierna, anche la Lettera di san Giacomo: "Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia". E l’Apostolo conclude: "Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace" (3,16-18). Queste parole fanno pensare alla testimonianza di tanti cristiani che, con umiltà e nel silenzio, spendono la vita al servizio degli altri a causa del Signore Gesù, operando concretamente come servi dell’amore e perciò "artigiani" di pace. Ad alcuni è chiesta talora la suprema testimonianza del sangue, come è accaduto pochi giorni fa anche alla religiosa italiana Suor Leonella Sgorbati, caduta vittima della violenza. Questa suora, che da molti anni serviva i poveri e i piccoli in Somalia, è morta pronunciando la parola "perdono": ecco la più autentica testimonianza cristiana, segno pacifico di contraddizione che dimostra la vittoria dell’amore sull’odio e sul male.

Non c’è dubbio che seguire Cristo è difficile, ma, come Egli dice, solo chi perde la propria vita per causa sua e del Vangelo la salverà (cfr Mc 8,35), dando senso pieno alla propria esistenza. Non esiste altra strada per essere suoi discepoli, non c’è altra strada per testimoniare il suo amore e tendere alla perfezione evangelica. Ci aiuti Maria, che quest’oggi invochiamo come Beata Vergine della Mercede, ad aprire sempre più il nostro cuore all’amore di Dio, mistero di gioia e di santità.

[Papa Benedetto, Angelus 24 settembre 2006]

5. - “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35).

Così Gesù disse ai Dodici, sorpresi a discutere tra loro su “chi fosse il più grande” (Mc 9,34). È la tentazione di sempre, che non risparmia nemmeno chi è chiamato a presiedere l’Eucaristia, il sacramento dell’amore supremo del “Servo sofferente”. Chi compie questo servizio, in realtà, è ancor più radicalmente chiamato a esser servo. Egli è chiamato, infatti, ad agire “in persona Christi”, e perciò a rivivere la stessa condizione di Gesù nell’Ultima Cena, assumendone la medesima disponibilità ad amare sino alla fine, sino a dare la vita. Presiedere la Cena del Signore è, pertanto, invito pressante ad offrirsi in dono, perché permanga e cresca nella Chiesa l’atteggiamento del Servo sofferente e Signore.

Cari giovani, coltivate l’attrazione per i valori e per le scelte radicali che fanno dell’esistenza un servizio agli altri sulle orme di Gesù, l’Agnello di Dio. Non lasciatevi sedurre dai richiami del potere e dell’ambizione personale. L’ideale sacerdotale deve essere costantemente purificato da queste e altre pericolose ambiguità.

Risuona anche oggi l’appello del Signore Gesù: “Se uno mi vuol servire mi segua” (Gv 12,26). Non abbiate paura di accoglierlo. Incontrerete sicuramente difficoltà e sacrifici, ma sarete felici di servire, sarete testimoni di quella gioia che il mondo non può dare. Sarete fiamme vive di un amore infinito ed eterno; conoscerete le ricchezze spirituali del sacerdozio, dono e mistero divino.

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XL Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 11 maggio 2003]

Venerdì, 06 Settembre 2024 03:30

Usare la forza

Il Libro della Sapienza, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, ci parla del giusto perseguitato, di colui la cui sola presenza dà fastidio agli empi. L’empio viene descritto come quello che opprime il povero, non ha compassione della vedova né rispetta l’anziano (cfr 2,17-20). L’empio ha la pretesa di pensare che la sua forza è la norma della giustizia. Sottomettere i più fragili, usare la forza in una qualsiasi forma, imporre un modo di pensare, un’ideologia, un discorso dominante, usare la violenza o la repressione per piegare quanti semplicemente, con il loro quotidiano agire onesto, semplice, operoso e solidale, manifestano che un altro mondo, un’altra società è possibile. All’empio non basta fare quello che gli pare, lasciarsi guidare dai suoi capricci; non vuole che gli altri, facendo il bene, mettano in risalto questo suo modo di fare. Nell’empio, il male cerca sempre di annientare il bene.

Settantacinque anni fa, questa Nazione assisteva alla definitiva distruzione del Ghetto di Vilnius; così culminava l’annientamento di migliaia di ebrei che era già iniziato due anni prima. Come si legge nel Libro della Sapienza, il popolo ebreo passò attraverso oltraggi e tormenti. Facciamo memoria di quei tempi, e chiediamo al Signore che ci faccia dono del discernimento per scoprire in tempo qualsiasi nuovo germe di quell’atteggiamento pernicioso, di qualsiasi aria che atrofizza il cuore delle generazioni che non l’hanno sperimentato e che potrebbero correre dietro quei canti di sirena.

Gesù nel Vangelo ci ricorda una tentazione sulla quale dovremo vigilare con attenzione: l’ansia di essere i primi, di primeggiare sugli altri, che può annidarsi in ogni cuore umano. Quante volte è accaduto che un popolo si creda superiore, con più diritti acquisiti, con maggiori privilegi da preservare o conquistare. Qual è il rimedio che propone Gesù quando appare tale pulsione nel nostro cuore e nella mentalità di una società o di un Paese? Farsi l’ultimo di tutti e il servo di tutti; stare là dove nessuno vuole andare, dove non arriva nulla, nella periferia più distante; e servire, creando spazi di incontro con gli ultimi, con gli scartati. Se il potere si decidesse per questo, se permettessimo al Vangelo di Cristo di giungere nel profondo della nostra vita, allora la globalizzazione della solidarietà sarebbe davvero una realtà. «Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2)» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 67).

Qui in Lituania c’è una collina delle croci, dove migliaia di persone, lungo i secoli, hanno piantato il segno della croce. Vi invito, mentre preghiamo l’Angelus, a chiedere a Maria che ci aiuti a piantare la croce del nostro servizio, della nostra dedizione lì dove hanno bisogno di noi, sulla collina dove abitano gli ultimi, dove si richiede la delicata attenzione agli esclusi, alle minoranze, per allontanare dai nostri ambienti e dalle nostre culture la possibilità di annientare l’altro, di emarginare, di continuare a scartare chi ci dà fastidio e disturba le nostre comodità.

Gesù mette al centro un piccolo, lo mette alla medesima distanza da tutti, perché tutti ci sentiamo provocati a dare una risposta. Facendo memoria del “sì” di Maria, chiediamole che renda il nostro “sì” generoso e fecondo come il suo.

[Papa Francesco, Angelus 23 settembre 2018]

Ma può partecipare al rito? Seduto e con l’occhio sui registri, solo poi ricco - anzi, ‘signore’

(Mt 9,9-13)

 

In alcune assemblee di credenti sorgevano attriti, perché alcuni membri di chiesa ritenevano ancora profano avere contatti o accettare stranieri, non ancora adeguatisi alla mentalità delle consuetudini.

Anche i giudeo-cristiani di Galilea e Siria cui Mt si rivolge avevano bisogno d’imparare a infrangere l’isolamento delle norme di purità antiche. Non dovevano tenersi in disparte.

L’attrito delle opinioni si rendeva particolarmente acuto nel dibattito [tipico di terza generazione] sul genere di partecipazione ammissibile alle riunioni e allo Spezzare il Pane.

La proibizione dev’essere sostituita dall’amicizia.

Il Padre è Presenza amica. La sua iniziativa di vita salvata è per tutti, anche per chi non sa far altro che badare ai suoi registri.

I fedeli in Cristo condividono il Pasto sacro con pagani e peccatori, senza prima pretendere una disciplina dell’arcano, né pratiche che celebrino distanze (come le abluzioni che precedevano il pasto). 

Matathiah significa “uomo di Dio”, “dato da Dio”; precisamente «Dono di Dio» [Matath-Yah].

Insomma, secondo l’insegnamento di Gesù, l’unica impurità è quella di non dare spazio a chi lo chiede perché non ne ha.

Le sette osservanti del giudaismo trattavano i pubblicani alla stregua di esseri immondi, da tenere a distanza.

Il germe di società alternativa dei credenti in Cristo li accetta e ne coglie le risorse, il bene per la comunità.

L’ansia di contaminazione nasceva da un’idea falsa, preconcetta ed esclusivista di ciò che non solo in Palestina ma persino in Diaspora era identificato per totale strabismo con «Volontà di Yahweh» - fattore di separazione in mezzo agli altri popoli.

Illusione che non aveva stimolato un atteggiamento di simpatia verso la realtà variegata, né di cordialità verso il prossimo, esterno a cordate di cerchia.

Il Signore vuole condivisione coi trasgressori, non a motivo d’una banalità ideologica: è l’invito a riconoscersi.

Non per sottometterci a una qualche forma di paternalismo umiliante, ma perché sapersi incompleti è una risorsa.

«E avvenne che mentre Egli era steso a mensa nella Casa, ecco molti pubblicani e peccatori venuti erano stesi a mensa con Gesù e i suoi discepoli» [v.10 testo greco].

«Erano stesi»: secondo il modo di celebrare i banchetti solenni, da parte degli uomini liberi - ormai tutti liberi. Che meraviglia, un ostensorio del genere!

Un Corpo vivo del Cristo che profuma di Condivisione: autentico Culto!

È questa tutta empatica e regale la bella consapevolezza che spiana e rende credibile il contenuto dell’Annuncio [vv.12-13].

Cristo chiama, accoglie e redime anche il Matteo in noi, ossia il lato più logoro della nostra personalità. Lo farà addirittura fiorire: diventerà un aspetto irrinunciabile e vincente della futura testimonianza.

Dice il Tao Tê Ching [XLV]: «La grande dirittura è come sinuosità, la grande abilità è come inettitudine, la grande eloquenza è come balbettio».

Fra i discepoli è probabile che ci fossero non pochi membri della resistenza palestinese: guerriglieri che lottavano contro gli occupanti romani.

Per contro, qui Gesù chiama un collaborazionista che si lasciava guidare dal vantaggio.

Come dire: la Comunità nuova dei figli e fratelli non coltiva privilegi, separazioni, oppressioni, odi.

Il Maestro si è sempre tenuto al di sopra degli urti politici, delle distinzioni ideologiche e delle dispute corrive del suo tempo.

Nella sua Chiesa c’è un segno forte di discontinuità.

Egli non invita alla sequela i migliori o i peggiori, ma gli opposti - anche della nostra personalità. Vuole disporci «a conversione» (Lc 5,32): farci cambiare punto di vista, mentalità, princìpi, modo di essere.

In tale avventura non siamo chiamati a forme di dissociazione. Si parte da se stessi.

In tal guisa Gesù inaugura un nuovo tipo di relazioni, anche dentro di noi. Un’Alleanza Nuova, di feconde divergenze.

Non è la ‘perfezione’ o il narcisismo che ci fanno amare l’Esodo.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è il tuo punto di forza spirituale? Come si è generato?

 

 

[s. Matteo Ap. Ev.  21 settembre 2024]

Ma può partecipare al rito? Seduto e con l’occhio sui registri, solo poi ricco - anzi, ‘signore’

(Mt 9,9-13)

 

«Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza» [Papa Benedetto, Udienza Generale 30 agosto 2006].

 

In alcune assemblee di credenti sorgevano attriti, perché alcuni membri di chiesa ritenevano ancora profano avere contatti o accettare stranieri, non ancora adeguatisi alla mentalità identitaria delle consuetudini.

Anche i giudeo-cristiani di Galilea e Siria cui Mt si rivolge avevano bisogno d’imparare a infrangere l’isolamento delle norme di purità antiche. Non dovevano tenersi in disparte.

L’attrito delle opinioni si rendeva particolarmente acuto nel dibattito [tipico di terza generazione] sul genere di partecipazione ammissibile alle riunioni e sullo Spezzare il Pane.

Conflitto che metteva di fronte uno contro l’altro il gruppo dei convertiti provenienti dal paganesimo (sempre più cospicuo) e quello giudaizzante.

Questi ultimi non gradivano i contatti abituali coi lontani dalla loro mentalità, bensì la distinzione.

Sia nelle assemblee che nella qualità di vita fraterna di tutti i giorni sorgevano situazioni sgradevoli e dubbi di coscienza [sull’ospitare o meno pagani pur convertiti a Gesù Messia, tanto più condividere la Mensa coi (ritenuti) contaminati].

Diversi fratelli di chiesa erano abituati a valutare ancora sacralmente profano l’avere una contiguità qualsiasi con chiunque, o addirittura accettare i giudicati infetti.

La concezione devota delle ripartizioni morali portava a credere che bisognasse tenere i nuovi a distanza, per non essersi adeguati alla mentalità non ancora demitizzata delle tradizioni semitiche.

Così l'evangelista vuole descrivere come Gesù stesso abbia affrontato il medesimo conflitto: senz’alcuna attenzione rituale o sacrale, se non all’uomo.

Perché? Secondo gli insegnamenti del Maestro, il rapporto coi lontani e diversi, e i nostri stessi disagi o abissi reconditi hanno qualcosa da dirci.

 

Mt intendeva aiutare i fedeli giudeo-cristiani a comprendere un’apertura discriminante: il balzo dalla religiosità comune - fatta di credenze assurde, separazioni e atteggiamenti schizzinosi - alla Fede in itinere.

Apertura discriminante è la speranza nella vita stessa che viene, e chiama a cedere posizioni artificiose; quindi ecco la possibilità d’inserimento sociale e rituale.

Tale l’insegnamento, la vicenda, la Persona del Cristo.

Egli ci guida all’affidamento esistenziale, alla fiducia globale; a credere propria la vicenda del pubblico peccatore, che è ciascuno.

Per procedere su tale Via si parte appunto dalle energie inespresse dei propri stessi stati primordiali, riconosciuti, assunti, resi fecondi personalmente; dilatati nei fratelli, senza distinzioni.

Il passo di Vangelo sottolinea infatti che a suo tempo gli apostoli (v.10) non erano stati affatto chiamati dal Signore alla medesima e rigorosa prassi di segregazione, tipica delle credenze etnico-puriste, la quale pur vigeva attorno a loro.

Dunque, i credenti degli anni 70-80 non dovevano tenersi in disparte: avevano piuttosto bisogno d’imparare a infrangere l’isolamento delle norme di conformismo sociale e cultuale.

Il Padre è Presenza amica.

 

La Lieta Notizia di Mt è questa: la vita di Comunione non è una gratificazione, né un riconoscimento.

L’Eucaristia non è premio per i meriti, né un discrimine a favore di emarginazioni sacrali - o di casistiche adultoidi.

Dio non ci complica l’esistenza, caricandola di troppi obblighi e doveri che appesantiscono le nostre giornate e tutta la vita; anzi, li spazza via.

Per questo motivo, la figura del nuovo Rabbi toccava il cuore della gente, senza confini.

La proibizione dev’essere sostituita dall’amicizia. L’intransigenza soppiantata dall’indulgenza; la durezza dalla condiscendenza.

In tale avventura non siamo chiamati a forme di dissociazione: si parte da se stessi.

Così si giunge senza isterismi alle microrelazioni e [senza cariche ideologiche] alla mentalità corrente - anche devota.

Mai più mète fasulle, obbiettivi superficiali, ossessioni e ragionamenti inutili, né abitudini meccaniche, antiche o moderne; altrui [mai rielaborate in sé].

 

Con a monte tale esperienza di scavo e immedesimazione interiore, donne e uomini di Fede devono condividere la vita con chiunque - persino noti trasgressori come il figlio di Alfeo; rivedendosi in loro.

E deponendo gli artifici: senza prima pretendere alcuna patente.

I fedeli in Cristo sono chiamati a condividere lo spezzare del pane con pagani e peccatori.

In tal guisa, senza prima pretendere una disciplina dell’arcano, e pratiche che celebrino distanze, come le abluzioni che precedevano il pasto. 

Matathiah significa infatti «uomo di Dio», «dato da Dio»; precisamente «Dono di Dio» (Matath-Yah) [«Dono» malgrado la rabbia delle autorità ufficiali].

 

Le sette osservanti del giudaismo trattavano i pubblicani alla stregua di esseri immondi, da tenere a distanza.

Il germe di società alternativa dei credenti in Cristo li accetta e ne coglie le risorse, il bene per la comunità.

L’ansia di contaminazione nasceva da un’idea falsa, preconcetta ed esclusivista di ciò che non solo in Palestina ma persino in Diaspora era identificato per totale strabismo con «Volontà di Yahweh» - fattore di separazione in mezzo agli altri popoli.

Illusione che non aveva stimolato un atteggiamento di simpatia verso la realtà variegata, né di cordialità verso il prossimo esterno alla ‘cerchia’.

Secondo il monito diretto dello stesso Gesù - persino nei confronti di uno degli apostoli - l’unica impurità che Dio non sopporta è quella di non dare spazio a chi lo chiede perché non ne ha.

A volte siamo infatti come le “comari”; anime prigioniere d’un mondo chiuso entro steccati che transennano lo sguardo [anche su grandiose contabilità e registri di club: minuscole certezze]. E una vita devota di piccolo cabotaggio.

Il Signore vuole comunione integrale coi trasgressori, non a motivo d’una banalità ideologica: è l’invito a riconoscersi, confessare, convenire, convivere.

Facendo così respirare l’anima costretta nelle angustie.

Non per sottomettere i suoi intimi a una qualche forma di paternalismo umiliante: sapersi incompleti e lasciarsi trasformare da poveri - o ricchi - in ìsignori’, è una risorsa.

 

«E avvenne che mentre Egli era steso a mensa nella Casa, ecco molti pubblicani e peccatori venuti erano stesi a mensa con Gesù e i suoi discepoli» (v.10 testo greco).

«Erano stesi»: secondo il modo di celebrare i banchetti solenni, da parte degli uomini liberi - ormai tutti liberi.

Che meraviglia, un ostensorio del genere!

Un Corpo vivo del Cristo che profuma di Condivisione: autentico Culto!

È questa tutta empatica e regale la bella consapevolezza che spiana, rende credibile, il contenuto dell’Annuncio (vv.12-13). Sebbene urti la suscettibilità dei maestri ufficiali.

D’ora in poi, la ripartizione fra credenti o meno sarà assai più umanizzante che fra ‘rinati’ e non, o puri e impuri.

Tutta un’altra caratura - principio di una vita da salvati, che si dispiega e straripa oltre le cordate di club.

 

Fra i discepoli è probabile che ci fossero non pochi membri della resistenza palestinese, che avversavano gli occupanti romani.

Per contro, qui Gesù chiama un collaborazionista, e che si lasciava guidare dal vantaggio.

Come dire: la Comunità nuova dei figli e fratelli non coltiva privilegi, separazioni, oppressioni, odi.

Il Maestro si è sempre tenuto al di sopra degli urti politici, delle distinzioni ideologiche e delle dispute corrive del suo tempo.

Nella sua Chiesa c’è un segno forte di discontinuità con le religioni: la proibizione dev’essere sostituita dall’amicizia.

Gli stessi apostoli non furono chiamati alla medesima e rigorosa prassi di segregazione e divisione tipica delle credenze etnico-puriste, che vigeva attorno a loro [e si credeva rispecchiasse l’ordine stabilito da Dio sulla terra].

Ancora oggi il Signore non invita alla sequela i migliori o i peggiori, ma gli opposti. Principio che vale anche per la vita intima.

Il recupero di lati contrapposti anche della nostra personalità, ci dispone «a conversione» (Lc 5,32): non a riassestare il mondo del Tempio, ma a farci cambiare punto di vista, mentalità, princìpi, modo di essere.

 

Cristo chiama, accoglie e redime anche il pubblicano in noi, ossia il lato più rubricista - o logoro - della nostra personalità.

Anche il nostro carattere insopportabile o giustamente odiato: quello rigido e quello - altrettanto nostro - da gabelliere.

Reintegrando appunto gli opposti, li farà addirittura fiorire: diverranno aspetti inclusivi, irrinunciabili, alleati e intimamente vincenti della futura testimonianza, potenziata d’amore genuino.

Essere considerati forti, capaci di comandare, osservanti, eccellenti, incontaminati, magnifici, performanti, straordinari, gloriosi… danneggia le persone.

Ci mette una maschera, rende unilaterali; toglie la comprensione. Fa galleggiare il personaggio in cui siamo seduti, al di sopra della realtà.

 

Per la crescita e fioritura di ciascuno, più importante di vincere sempre è imparare ad accogliere, cedere fino a capitolare; farsi considerare manchevoli, inadeguati.

Dice il Tao Tê Ching [XLV]: «La grande dirittura è come sinuosità, la grande abilità è come inettitudine, la grande eloquenza è come balbettio».

La norma artificiosa (purtroppo, talora anche la guida poco accorta) ci fa vivere in funzione del successo e della gloria esterna, ottenuta attraverso compartimenti.

Gesù inaugura un nuovo tipo di relazioni, e “patti” di feconde divergenze - anche dentro noi.

E Crea tutto la sola Parola «Segui Me» (v.9) [non altri].

 

La Sapienza del Maestro e l’arte poliedrica della Natura [esemplificata nella saggezza cristallina del Tao] conducono tutti a essere umani.

 

Non è la ‘perfezione’ o il narcisismo che ci fanno amare l’Esodo.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è il tuo punto di forza spirituale e umana? Come si è generato?

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.

Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.

Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l'opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l'importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).

Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano ... non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c'è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.

Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all'istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l'adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.

Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 30 agosto 2006]

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"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]
Who is freer than the One who is the Almighty? He did not, however, live his freedom as an arbitrary power or as domination (Pope Benedict)
Chi è libero più di Lui che è l'Onnipotente? Egli però non ha vissuto la sua libertà come arbitrio o come dominio (Papa Benedetto)
The Church with her permanent contradiction: between the ideal and reality, the more annoying contradiction, the more the ideal is affirmed sublime, evangelical, sacred, divine, and the reality is often petty, narrow, defective, sometimes even selfish (Pope Paul VI)
La Chiesa con la sua permanente contraddizione: tra l’ideale e la realtà, tanto più fastidiosa contraddizione, quanto più l’ideale è affermato sublime, evangelico, sacro, divino, e la realtà si presenta spesso meschina, angusta, difettosa, alcune volte perfino egoista (Papa Paolo VI)
St Augustine wrote in this regard: “as, therefore, there is in the Catholic — meaning the Church — something which is not Catholic, so there may be something which is Catholic outside the Catholic Church” [Pope Benedict]
Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» [Papa Benedetto]

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