Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Lc 8,16-18)
C’è luce e Luce. C’è pompa che brilla artificiosamente, e sontuosità sostanziale della Vita.
Una delle differenze tra settarismo e proposta di Fede è che l’insegnamento del Risorto non è un mistero accessibile a soli iniziati, o manieristi e forti.
Nulla a che vedere con lunghe discipline dell’arcano, le quali di norma indirizzano il pensiero e soppesano il volontarismo del candidato.
Intesa e assimilazione della Parola di Dio che chiama in prima persona immettono un’energia fondamentale, estrema e rigenerante. In grado di creare vita nuova e imprimere un senso non blando alla nostra vicenda.
Nella Relazione di Fede, Ascolto e interiorizzazione fanno incessante, intimo appello [in sintonia con la nostra identità-essenza profondi e vocazione].
Percezione e sequela dell’anima ci liberano dall’influsso di corti pensieri esterni, condizionanti. Trasmettono una sorta di possesso immediato e vitale delle cose, una cognizione energetica che guida alla realizzazione; anticipando e attirando futuro.
Quando il Vangelo rimane confinato all’interno di cerchie, non fa brillare tutta la comunità, non comunica con la vita reale; mentre vorrebbe donarla e allietarla, nell’amicizia col nostro carattere e lato eterno che sviluppa.
Fin da bambini ci è sembrato che Parola e consuetudini fossero un tutt’uno: una sorta di Logos attivo, fuso con le manifestazioni qualsiasi della religiosità - soprattutto in occidente.
Ci è parso spontaneo, sicuro, indiscutibile, crescere in un clima di unità di pensiero… sino al momento in cui abbiamo forse scoperto che alcuni costumi e mode temono la Luce.
Oggi infatti ci accorgiamo che anche il pensiero sedicente alternativo, se troppo grande, schematico e disincarnato, evita di confrontarsi col “basso”.
Anzi, volentieri si confina in club d’élite a se stanti; scollegate dalla cruda realtà - considerata vile, poco raffinata [non sofisticata]. Che non vale la pena vagliare in sé.
Ma i Doni che Dio elargisce non sopportano d’essere delimitati da un «vaso» (v.16), né ‘misurati’ da alcun «moggio» (Mt 5,15; Mc 4,21), o messi in buca, occultati: servono solo a edificare e rischiarare.
I tesori del Cielo vanno elargiti, trasmessi, comunicati, non trattenuti; altrimenti si scatena una mediocrità paludosa [da «sotto un letto»: v.16], che non istruisce, né rende radiosi.
Dunque attenzione ai pregiudizi (v.18): l’Ascolto non è azione neutrale.
Insomma (v.18): chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa e dà un contributo, vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere e fiorire.
Nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia o alla moda, stagnanti, subiscano ulteriori flessioni e infine periscano, senza lasciare rimpianti.
Impariamo piuttosto a osservare noi stessi, le relazioni, le situazioni, senza pregiudizi; lasciando sullo sfondo i ‘filtri’, le ‘misure’.
Riconosceremo in noi le più autentiche risorse, e l’eco spontaneo della divina Parola.
Accenderemo l’inedito, il lato unico e immenso, personale; la nostra bellezza singolare e plurale.
[Lunedì 25.a sett. T.O. 23 settembre 2024]
Cerchie, pregiudizi e moggi, o la Luce del ch’i
(Lc 8,16-18)
C’è luce e Luce. C’è pompa che brilla artificiosamente, e sontuosità sostanziale della Vita.
Una delle differenze tra settarismo e proposta di Fede è che l’insegnamento del Risorto non è un mistero accessibile a soli iniziati, o manieristi e forti.
Nulla a che vedere con lunghe discipline dell’arcano, le quali di norma indirizzano il pensiero e soppesano il volontarismo del candidato.
Nel commento al Tao Tê Ching (ii) il maestro Ho-shang Kung afferma che «Il ch’i originario dà vita a tutte le creature e non se ne appropria»: non torna indietro, non conferisce l’ordine antico, retrivo e fisso, non corre ai ripari; piuttosto dà una carica - non parziale, bensì vitale e illuminante.
Intesa e assimilazione della Parola di Dio che chiama in prima persona immettono un’energia fondamentale, estrema e rigenerante. In grado di creare vita nuova e imprimere un senso non blando e codino alla nostra vicenda.
Nella Relazione di Fede, Ascolto e interiorizzazione fanno incessante, intimo appello; in sintonia con la nostra identità-essenza profondi e vocazione personale.
Percezione e sequela dell’anima ci liberano dall’influsso di corti pensieri esterni, condizionanti.
Trasmettono una sorta di possesso immediato e vitale delle cose, una cognizione energetica che guida alla realizzazione; anticipando e attirando futuro.
Quando il Vangelo rimane confinato all’interno di cerchie, non fa brillare tutta la comunità, non comunica con la vita reale; mentre vorrebbe donarla e allietarla, nell’amicizia col nostro carattere e lato eterno che sviluppa.
Fin da bambini ci è sembrato che Parola e consuetudini fossero un tutt’uno: una sorta di Logos attivo, fuso con le manifestazioni qualsiasi della religiosità - soprattutto in occidente.
Ci è parso spontaneo, sicuro, indiscutibile, crescere in un clima di unità di pensiero… sino al momento in cui abbiamo forse scoperto che alcuni costumi e mode temono la Luce.
Oggi infatti ci accorgiamo che anche il pensiero sedicente alternativo, se troppo grande, schematico e disincarnato, evita di confrontarsi col “basso”.
Anzi, volentieri si confina in club d’élite a se stanti; scollegate dalla cruda realtà - considerata vile, poco raffinata [non sofisticata]. Che non vale la pena vagliare in sé.
Ma i Doni che Dio elargisce non sopportano d’essere delimitati da un «vaso» (v.16), né ‘misurati’ da alcun «moggio» (Mt 5,15; Mc 4,21), o messi in buca, occultati: servono solo a edificare e rischiarare.
I tesori del Cielo vanno elargiti, trasmessi, comunicati, non trattenuti; altrimenti si scatena una mediocrità paludosa [da «sotto un letto»: v.16] che non istruisce, né rende radiosi.
Dunque attenzione ai pregiudizi (v.18): l’Ascolto non è azione neutrale.
Le attese popolari del Messia, vincitore, vendicatore, autosufficiente… impedivano alla gente di comprendere l’Annuncio del Regno e del Padre amante della vita rigogliosa.
L’idea antica di un Re affermato ci ha forse inclinati a considerare il Volto dell’Eterno nel Crocifisso come una parentesi, presto superata dal trionfo e dalla sistemazione [della Chiesa, impiantata e visibilissima].
Viceversa, le piaghe d’amore del Figlio descrivono in pienezza tutt’altra cifra costante; protesa - quindi paradossale - ma profonda.
In tal guisa, ciascuno ha una propria attitudine affettiva e le sue competenze, tutte da esplorare e mettere in gioco senza limiti… affinché vengano condivise, rese sapienziali e propulsive.
Come ha dichiarato Papa Francesco:
«L'incapacità degli esperti di vedere i segni dei tempi è dovuta al fatto che sono chiusi nel loro sistema; sanno cosa si può e non si può fare, e stanno sicuri lì. Interroghiamoci: sono aperto solo alle mie cose e alle mie idee, oppure sono aperto al Dio delle sorprese?».
Mi raccontava un grande parroco romano che una delle cose che lo avevano colpito nei suoi viaggi in USA era stato vedere troppe cittadelle cattoliche sulla cima di alture, ben visibili all’occhio ma altrettanto palesemente munite di tutto - quindi staccate, in grado di provvedere a se stesse, chiuse al confronto con la vita reale urbana di oggi.
Impostazione diametralmente opposta a quella di realtà comunitarie evangelicali, meno appariscenti [senza la pretesa di attirare per bellezza esteriore] in quanto mescolate nel tessuto cittadino; per questo in grado di gettare luce nei risvolti della vita quotidiana della gente in ricerca d’un rapporto personale e reale con Dio Padre.
Insomma (v.18): chiunque si aggiorna, si confronta, s’interessa e dà un contributo, vede la propria ricchezza umana e spirituale crescere e fiorire.
Ciò - nella migliore delle ipotesi - rimanendo fedele a se stesso ed evitando di farsi travolgere dalla routine del pensiero fisso-omologato e dalle fatiche dell’Esodo contromano.
Nessuno si sorprenderà che le situazioni di retroguardia culturale, o stagnanti - pile scariche, estenuanti, fiacche, esaurite, grigie e noiose; ovvero à la page e sfarzose ma confusionarie - subiscano ulteriori flessioni e infine periscano senza lasciare rimpianti.
Malgrado la loro artificiosa [inutile] appariscenza, esse resteranno dipendenti da ciò che è valutato già apprezzabile. E cercheranno sempre più invano l’approvazione esterna.
Impariamo piuttosto a osservare noi stessi, le relazioni, le situazioni, senza pregiudizi; lasciando sullo sfondo i ‘filtri’, le ‘misure’.
Riconosceremo in noi le più autentiche risorse, e l’eco spontaneo della divina Parola.
Accenderemo l’inedito, il lato unico e immenso, personale; la nostra bellezza singolare e plurale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come ti proponi di accendere il tuo lato eterno, e la tua bellezza singolare e plurale?
Lumen Fidei
1. La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: « Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » (Gv 12,46). Anche san Paolo si esprime in questi termini: « E Dio, che disse: "Rifulga la luce dalle tenebre", rifulge nei nostri cuori » (2 Cor 4,6). Nel mondo pagano, affamato di luce, si era sviluppato il culto al dio Sole, Sol invictus, invocato nel suo sorgere. Anche se il sole rinasceva ogni giorno, si capiva bene che era incapace di irradiare la sua luce sull’intera esistenza dell’uomo. Il sole, infatti, non illumina tutto il reale, il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce. « Per la sua fede nel sole — afferma san Giustino Martire — non si è mai visto nessuno pronto a morire ». Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, « i cui raggi donano la vita ». A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: « Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio? » (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta.
Una luce illusoria?
2. Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo « nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo ». E aggiungeva: « A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga ». Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.
3. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.
Una luce da riscoprire
4. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro "io" isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una "favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla". Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce.
[Lumen Fidei]
A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio ha detto nuovamente: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclissi solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”. Gesù risorge dal sepolcro. La vita è più forte della morte. Il bene è più forte del male. L’amore è più forte dell’odio. La verità è più forte della menzogna. Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi.
Ma come può avvenire questo? Come può tutto questo giungere fino a noi così che non rimanga solo parola, ma diventi una realtà in cui siamo coinvolti? Mediante il Sacramento del battesimo e la professione della fede, il Signore ha costruito un ponte verso di noi, attraverso il quale il nuovo giorno viene a noi. Nel Battesimo, il Signore dice a colui che lo riceve: Fiat lux – sia la luce. Il nuovo giorno, il giorno della vita indistruttibile viene anche a noi. Cristo ti prende per mano. D’ora in poi sarai sostenuto da Lui e entrerai così nella luce, nella vita vera. Per questo, la Chiesa antica ha chiamato il Battesimo “photismos” – illuminazione.
Perché? Il buio veramente minaccioso per l’uomo è il fatto che egli, in verità, è capace di vedere ed indagare le cose tangibili, materiali, ma non vede dove vada il mondo e da dove venga. Dove vada la stessa nostra vita. Che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Il buio su Dio e il buio sui valori sono la vera minaccia per la nostra esistenza e per il mondo in generale. Se Dio e i valori, la differenza tra il bene e il male restano nel buio, allora tutte le altre illuminazioni, che ci danno un potere così incredibile, non sono solo progressi, ma al contempo sono anche minacce che mettono in pericolo noi e il mondo. Oggi possiamo illuminare le nostre città in modo così abbagliante che le stelle del cielo non sono più visibili. Non è questa forse un’immagine della problematica del nostro essere illuminati? Nelle cose materiali sappiamo e possiamo incredibilmente tanto, ma ciò che va al di là di questo, Dio e il bene, non lo riusciamo più ad individuare. Per questo è la fede, che ci mostra la luce di Dio, la vera illuminazione, essa è un’irruzione della luce di Dio nel nostro mondo, un’apertura dei nostri occhi per la vera luce.
[Papa Benedetto, Veglia Pasquale 7 aprile 2012]
Gesù Cristo, luce vera che illumina ogni uomo
1. Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano «luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef 5,8) e si santificano con «l'obbedienza alla verità» (1 Pt 1,22).
Questa obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di Satana, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando «la verità di Dio con la menzogna» (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità.
Ma nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità, ma piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e della coscienza morale.
2. Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell'intimo dello spirito umano, come attesta il salmista: «Molti dicono: "Chi ci farà vedere il bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).
La luce del volto di Dio splende in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù Cristo, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), «irradiazione della sua gloria» (Eb 1,3), «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14): Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù Cristo, anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano II: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».
Gesù Cristo, «la luce delle genti», illumina il volto della sua Chiesa, che Egli manda in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc 16,15). Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle nazioni, mentre è attenta alle nuove sfide della storia e agli sforzi che gli uomini compiono nella ricerca del senso della vita, offre a tutti la risposta che viene dalla verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre viva nella Chiesa la coscienza del suo «dovere permanente di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto».
[Papa Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor]
Gesù utilizza le metafore del sale e della luce e le sue parole sono dirette ai discepoli di ogni tempo, quindi anche a noi.
Gesù ci invita ad essere un riflesso della sua luce, attraverso la testimonianza delle opere buone. E dice: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Queste parole sottolineano che noi siamo riconoscibili come veri discepoli di Colui che è la Luce del mondo, non nelle parole, ma dalle nostre opere. Infatti, è soprattutto il nostro comportamento che – nel bene e nel male – lascia un segno negli altri. Abbiamo quindi un compito e una responsabilità per il dono ricevuto: la luce della fede, che è in noi per mezzo di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo, non dobbiamo trattenerla come se fosse nostra proprietà. Siamo invece chiamati a farla risplendere nel mondo, a donarla agli altri mediante le opere buone. E quanto ha bisogno il mondo della luce del Vangelo che trasforma, guarisce e garantisce la salvezza a chi lo accoglie! Questa luce noi dobbiamo portarla con le nostre opere buone.
La luce della nostra fede, donandosi, non si spegne ma si rafforza. Invece può venir meno se non la alimentiamo con l’amore e con le opere di carità. Così l’immagine della luce s’incontra con quella del sale.
Ognuno di noi è chiamato ad essere luce e sale nel proprio ambiente di vita quotidiana, perseverando nel compito di rigenerare la realtà umana nello spirito del Vangelo e nella prospettiva del regno di Dio. Ci sia sempre di aiuto la protezione di Maria Santissima, prima discepola di Gesù e modello dei credenti che vivono ogni giorno nella storia la loro vocazione e missione. La nostra Madre ci aiuti a lasciarci sempre purificare e illuminare dal Signore, per diventare a nostra volta “sale della terra” e “luce del mondo”.
[Papa Francesco, Angelus 5 febbraio 2017]
XXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (8 settembre 2024)
1. Nella prima lettura dell’odierna liturgia il profeta Isaia si rivolge agli ebrei deportati in Babilonia che tornano verso Gerusalemme: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”. C’è una parola che potrebbe sorprendere: “la vendetta divina”. E’ meglio subito precisare che non ha lo stesso significato rispetto al nostro modo di sentire. Contestualizzandola nel momento storico, si capisce che quando il profeta parla della vendetta di Dio si riferisce alla salvezza e lo comprendiamo meglio se si formula il testo così: “Ecco la vendetta di Dio: Egli viene e vi salverà”, e poi: “Ecco la ricompensa di Dio: Egli stesso viene per salvarvi”. Ancor più aiutano a percepire questo messaggio di speranza le promesse che seguono: i malati guariranno, i ciechi riacquisteranno la vista, i sordi l’udito, gli storpi salteranno come cervi e griderà di gioia la lingua del muto. Queste promesse hanno il sapore d’un balsamo lenitivo e incoraggiante alle orecchie di un popolo deportato in Babilonia e segnato dalle atroci ferite inferte dall’assedio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor. E’ a loro che Dio assicura futuri giorni di benessere e di gioia ritrovata. Ma c’è di più: alla luce del quadro storico e religioso di quel tempo la “vendetta” veniva percepita in maniera favorevole dagli ebrei perché sapevano che il Signore mai avrebbe abbandonato il suo popolo e anzi lottava contro il male che l’opprimeva. “Vendetta divina” significava quindi ridare dignità a coloro che formano questo popolo che il Signore si è scelto e che pone in lui ogni attesa. E proprio in questo brilla la gloria di Dio. A meglio comprendere giova aggiungere che all’inizio della sua storia, il popolo della Bibbia immaginava un Dio vendicativo come sono gli uomini e, solo attraverso un percorso di purificazione della fede durato lunghi secoli grazie alla predicazione dei profeti, ha cominciato a scoprire il vero volto del Signore. E allora, pur restando la parola “vendetta” il contenuto è del tutto mutato, come si è verificato per altre parole, ad esempio “sacrificio” e “il timore di Dio”. Ci sono voluti secoli per arrivare a riconoscere il vero volto di Dio, un Dio diverso da come si poteva immaginare, un Dio che è amore e spende il suo amore per tutti gli uomini. Con la frase: “Ecco la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”, il profeta vuol far intendere che Dio ama più di ogni altro al mondo e in qualsiasi prova, dolore e umiliazione fisica o morale, non tarda a intervenire manifestando la sua misericordia. Quanto è necessario riscoprire nella nostra vita la misericordia divina! Dio viene a salvarci, viene a rialzarci. Un aspetto fondamentale della fede è proprio la certezza che Egli ha già vinto la prepotenza del male con l’onnipotenza del suo amore misericordioso e anche se le forze sataniche operanti a vari livelli apparentemente dominano nel mondo, il cristiano non cede alla tentazione del pessimismo perché sa di essere amato da Colui che in tanti modi vuole manifestarci la sua tenerezza di Padre e mai ci abbandona.
2. Oggi è per noi l’invito che Isaia rivolge agli esuli in Babilonia che fanno ritorno a Gerusalemme. La fede ci assicura che l’umanità è in sicura attesa della definitiva liberazione da ogni forma di schiavitù e di offesa alla dignità dell’uomo, da ogni rischio di accecamento fisico e morale che perturba la pace. Il Messia è il salvatore promesso: i contemporanei di Gesù dovevano averlo compreso perché, presentando sé stesso come Messia nella sinagoga di Nazaret (Cf Lc 4) Gesù cita proprio il profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l'apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l'anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio” (61,1-2). Da notare però che della profezia omette di proposito le ultime parole: “il giorno di vendetta del nostro Dio”, per chiarire che egli viene per dare speranza e salvezza ai poveri, ai prigionieri, agli oppressi, che con fatica avrebbero compreso la parola “vendetta”. Ormai ogni sua azione avrà il volto della misericordia. Misericordia, di cui sono segni tangibili i ciechi che riacquistano la vista, gli storpi che riprendono a camminare, i lebbrosi purificati, i sordi capaci di sentire nuovamente, i morti che risuscitano e soprattutto il vangelo annunciato ai poveri, come il Cristo afferma rispondendo ai discepoli di Giovanni Battista venuti per domandargli se è il Messia atteso (Lc 7,22). Questo è il vangelo: Dio ci rialza dalla nostra miseria e ci salva, e questo appare chiaramente nell’odierna pagina del vangelo di Marco (cap.7). Gesù è in terra pagana - il territorio della Decapoli - dove guarisce un uomo che soffre di doppia infermità: è sordo e muto. L’evangelista utilizza il termine greco “magilalos”(che significa colui che parla con difficoltà perché è non udente), raramente usato nel Nuovo Testamento e una sola volta presente nell’Antico Testamento proprio nel testo d’Isaia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: ”griderà di gioia la lingua del muto”. L’evangelista assicura che questa profezia si è compiuta in Gesù e ne è prova la guarigione del sordo muto, simbolo dell’umanità incapace di sentire e quindi con serie difficoltà nel comunicare (balbetta soltanto). Si chiede a Gesù “di imporgli la mano” e lui compie qualcosa che mai aveva fatto prima. Lo allontana dalla folla e ripete gesti rituali dei guaritori: mette le dita negli orecchi e con la saliva tocca la lingua. Gesù non cambia questi gesti ma li riveste di un nuovo significato. A differenza dei guaritori, egli guarda verso il cielo, emette un sospiro e gli dice: “Effata, cioè apriti”. Alzando gli occhi verso l’Alto manifesta che guarisce grazie al potere conferitogli dal Padre. Quanto al sospiro si tratta piuttosto di un gemito: viene usata la stessa parola che san Paolo, nella lettera ai Romani, utilizza per descrivere sia l’impazienza della creazione che attende la liberazione, sia la maniera con cui lo Spirito Santo prega nel cuore dei credenti “con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Nel gemito di Gesù possiamo avvertire da una parte l’umanità che aspetta e invoca la liberazione e dall’altra lo Spirito che intercede per noi perché nessuna umana sofferenza ci lasci indifferenti. Il vangelo si chiude con la gente che piena di stupore proclama: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”. Percepiamo qui un’anticipazione della professione di fede della comunità cristiana che sarà totale e perfetta sulle labbra del centurione sotto la croce di Cristo verso la fine del vangelo di Marco: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15, 39).
3. Effatà, cioè “Apriti” è una delle poche parole aramaiche citate direttamente nel vangelo e rimaste immutate in ogni lingua. Si trova nel rito del battesimo, quando il celebrante tocca le orecchie e le labbra del battezzato aggiungendo: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede a lode e gloria di Dio Padre. Ogni giorno ascoltiamo nella liturgia il salmista che canta: “Signore apri le mie labbra e la mia bocca annuncerà la tua lode (Sal 50/51,17), e torna frequente nella predicazione l’affermazione dell’apostolo Paolo: “Nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Co 12,3). Solo Dio può aprire il cuore dell’uomo e rendere le sue labbra degne di onorarlo. Solo Dio ci salva: tocca però alla nostra libertà decidere di scegliere di amarlo e proclamare la sua lode non semplicemente a parole, bensì con tutta la vita diventata vangelo vivente.
Buona domenica + Giovanni D’Ercole
[Transitorietà dell’Istituzione? E la compattezza? E l’espansione?]
(Mc 9,29-36)
«Un bambino giocava a fare il prete insieme a un coetaneo, sulle scale della sua casa. Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare. Il bambino lo rimproverò bruscamente: ‘Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!’. Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare. A questo punto il bambino s’imbronciò per un attimo, poi illuminandosi salì sul gradino più alto e rispose: ‘Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio’ [...]».
(B. Ferrero, La Scala, in: C’è Qualcuno Lassù?, p.24)
La mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.
Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.
Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.
«Figlio dell’uomo» è la persona secondo un criterio di umanizzazione, non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7).
Ciascun uomo col cuore di carne - non di bestia, né di pietra - s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, il garzone di bottega.
Il termine [diminutivo] designa la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.
Allude appunto alla dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire!
Gesù abbraccia un ragazzino di 8-12 anni che a quel tempo non contava nulla - appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega.
È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci.
«Se qualcuno vuole essere primo» (v.35): il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere e l’apparire.
Conta piuttosto sulla nostra libertà di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe (vv.31-35).
Il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.
Non si tratta d’una conquista esteriore, ma intima e fatta propria.
Essa è in grado così di scolpire la nostra identità profonda, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.
Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente, d’un sentiero persino interrotto che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.
L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto, comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.
Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».
Così il ‘personale’ sfocia nel plurale e globale.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nell’equilibrio di natura, hai mai visto una pianta che vive solo alla luce? O una creatura che non avesse il suo rifugio in ombra?
[25.a Domenica T.O. (B) 22 settembre 2024]
Rivoluzione della Tenerezza sana: egoismo senza riduzioni
(Mc 9,30-37)
Nessuna pianta vive solo alla luce: morirebbe. Nessun animale: perirebbe - se non avesse la sua tana in ombra.
L’uomo che nega il suo lato oscuro, mente.
La spiritualità biblica non è vuota; anzi, molto sobria e legata alla vita concreta e multiforme; talora opposta - per nulla incline a ripiegamenti sentimentalistici consolatori o unilaterali.
In Dt 6,4-5 (testo ebraico) l’amore dovuto al Signore investe «tutto il cuore» ossia tutte le decisioni, «tutta la vita» ossia ogni istante dell’esistenza, e «tutto il tuo molto» [condivisione dei beni; che il Figlio di Dio intende in senso universale].
La proposta di Gesù evolve in modo decisivo verso il superamento degli steccati, la libertà, e la consapevolezza. Essa tende a recuperare l’intero essere creaturale - e non è neppure incline alla liturgia degli adempimenti (né a valorizzare performances).
Il Figlio di Dio definisce le coordinate del vero Amore verso il Padre in termini che ci sorprendono, perché al criterio antico aggiunge il mettersi in discussione nell’intelligenza delle cose dell’uomo, di Dio, e di Chiesa.
Rendersi conto, cercare di capire, dialogare per arricchirsi, aggiornarsi, vagliare tutto... non sono orpelli cerebrali e individuali, ma passi decisivi per la comunione con gli altri e col Padre [Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27].
Nelle religioni pagane non aveva senso parlare di amore per gli dèi. Essi vivevano una vita capricciosa e decidevano a lotteria chi favorire tra gli uomini e chi invece dovesse sopportare una vita di stenti, insignificante.
I fortunati e (materialmente) benedetti ringraziavano adempiendo prescrizioni; ad es. obblighi di culto. Gli altri idem - almeno per tenersi buone le schiere celesti e non essere così oggetto di ritorsioni.
L’amore mette alla pari. Il timore crea piramidi gerarchiche.
Ovvio che fosse impossibile avere tanta passione per gli abitatori dell’Olimpo, o semidei, ninfe, eroi - insomma, per chiunque sovrastasse… con la cappa delle molte incombenze da osservare [per strapparne il favore].
Agli invisibili era ovviamente riservato il disprezzo personale e sociale - sacralizzato dall’indiscutibile volontà superna, identificata con la destinazione al ceto dei bassifondi; nel caso, punitiva. Comunque, paludosa.
[Altro che «viscere di Misericordia»: espressione materna, comune sin dal Primo Testamento!].
Poi l’idea arcaica di castigo o benedizione addirittura senza fine, per meriti ammucchiati in vita, ha costituito il tessuto della mentalità religiosa di tutti i tempi.
Ciò anche nella civitas christiana, sino a poco tempo fa.
Quindi la «teologia della retribuzione» ha di fatto annientato ogni passione personale, con l’idea ipocrita di scambio e meritocrazia.
Configurazione proiettata addirittura al rango di Paradiso - peggiore degli egoismi. Livellandoci tutti all’apporre “crocette”.
Sono note le complesse procedure della «pesatura del cuore» e del «Giudizio divino» sulle anime dei defunti, fin nei sarcofagi e nel Libro dei morti dell’antico Egitto.
Concatenazioni ingessate, di stampo forense, che hanno umiliato l’idea di Legge divina.
Malgrado ciò, tali convinzioni fin troppo “normali” sono divenute comuni a tutte le credenze del bacino mediterraneo e del medio oriente antico.
La Giustizia superiore pone Giustizia dove essa non c’è.
Ormai distaccati dall’invasione antica di catechesi ossessive sul terribile giudizio finale popolato d’accoliti armati con forcone, ci sentiamo finalmente capiti in modo personale, e con criterio esclusivamente vocazionale, non massificato.
Per dato creaturale, siamo anime chiamate e attivate a un percorso che può dare frutto irripetibile - un contributo decisivo e non omologabile all’intera storia della salvezza. Ciascuno di noi.
Nella visione-proposta di Gesù, il nostro essere non è valutato onnipotente nel bene. L’Agnello non reca condanna alcuna, neanche agli incapaci.
Siamo conformati sulla necessità di ricevere amore - come fossimo dei bambini di fronte a Genitori che fanno crescere sani i propri figli con una sovrabbondanza d’iniziative, le quali li portano a superarsi.
Ciò, malgrado i capricci; anzi, a motivo di essi: magma di energie contrapposte eppure plasmabili, che vedono più lontano delle facili identificazioni, e stanno preparando i successivi sviluppi.
L’esperienza della Tenerezza evangelica non deriva dal buon carattere e dalla mansuetudine sociale. Ma dall’aver sperimentato in prima persona il valore delle eccentricità.
E aver sviluppato la comprensione dei propri lati oscuri, o rielaborato e fatto scendere in campo deviazioni che a un certo punto della vita sono diventate risorse stupefacenti.
Addirittura, medesima evoluzione e trasmutazione possiamo notare negli aspetti di noi stessi che non piacciono e vorremmo correggere…
Poi, tali scintille nell’andare dei giorni stupiscono, e scopriamo essere la parte migliore di noi stessi: la vera inclinazione e il motivo per cui siamo nati.
Il carattere deviante e sbilanciato di ciascuno contiene il segreto essenziale della Chiamata per Nome e del proprio destino.
Da ciò si parte per riconoscere il peso specifico delle differenze, e le stesse dissonanze di sorelle e fratelli, ugualmente arricchenti.
Non è buonismo, quello degli Agnelli [oscillante in situazione, e collegato a modi artificiosi, subdoli interessi o partigianerie]: il contrario!
Come ha detto Papa Francesco: «Agnelli, non stupidi; però agnelli».
Nella vita personale e di comunione, Tenerezza evangelica è reale comprensione e autentica inclusione del “diverso”. A partire non da una ideologia erratica, momentanea, glamour e di cerchia (volubile) ma dalla propria esperienza di vita intima e relazionale.
Ci porterà a sperimentare un Padre che ben provvede a noi, proprio mentre rallegriamo la vita altrui - arricchendo la nostra! - nella confluenza e riarmonizzazione dei nostri molti volti.
Tenerezza a tutto tondo, convinta sul serio; senza le maschere omologate dei soliti “punti saldi” della banale (recitata) tenerezza, forse obbligata e che si attiva da un’identità conforme indebolita.
È questo il contagio sapiente che ci farà rinascere dalla grande crisi globale: l’indulgenza che non si fa indolenza.
E che non rimane settoriale - perché parte non dalle maniere o dai nodi esterni, ma dall’essere se stessi e qui riconoscere il Tu (insieme, semi del Logos).
Per una Tenerezza del Dialogo senza nevrosi.
In tal guisa, il “santo” diventa colui che percorrendo la propria via nella scia del Risorto ha imparato a «identificarsi con l'altro, senza badare a dove [né] da dove [...] in definitiva sperimentando che gli altri sono sua stessa carne» (cf. FT 84).
Vincere la gara
(Mc 9,30-37)
«Un bambino giocava a fare il prete insieme a un coetaneo, sulle scale della sua casa. Tutto andò bene finché il suo piccolo amico, stufo di fare solo il chierichetto, salì su un gradino più alto e cominciò a predicare. Il bambino lo rimproverò bruscamente: ‘Posso predicare soltanto io! Tu non puoi predicare! Tocca a me! Rovini il gioco, sei cattivo!’. Richiamata dagli strilli, intervenne la mamma e spiegò al bambino che per dovere di ospitalità doveva permettere all’altro di predicare. A questo punto il bambino s’imbronciò per un attimo, poi illuminandosi salì sul gradino più alto e rispose: ‘Va bene, lui può continuare a predicare, ma io farò Dio’ [...]».
(B. Ferrero, La Scala, in: C’è Qualcuno Lassù?, p.24)
La mentalità delle precedenze e della supremazia era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.
Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che supera la fiction antica dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione.
La massa permaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadroniva del potere, la folla minuta restava sottomessa e soffocata.
Identica norma vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte pulsione da orda e il contentino dei gregari.
Invece nel Regno di Gesù devono mancare i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.
«Figlio dell’uomo» è la persona secondo un criterio di umanizzazione, non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7).
Ciascun uomo col cuore di carne - non di bestia, né di pietra - s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, il garzone di bottega.
Il termine (diminutivo) designa la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.
Allude appunto alla dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire!
Nei Vangeli, il Figlio dell’uomo - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai frequentatori dei luoghi di malaffare, ma dagli habitué dei recinti sacri.
La crescita e umanizzazione del popolo non è contrastata dai “peccatori”, ma proprio da coloro che avrebbero il ministero di far conoscere a tutti il Volto di Dio!
Gesù abbraccia un ragazzino di 8-12 anni che a quel tempo non contava nulla - appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega.
È l’unica identificazione che Gesù ama e desidera consegnarci: quella con colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.
Dimensione di santità senza aureole distintive: condivisibile, perché legata all’empatia, alla spontanea amicizia verso la donna e l’uomo.
Ovvio: non si tratta d’una proposta compromessa con la religione dottrina e disciplina che ricaccia indietro le eccentricità: assai più simpatica e amabile.
Quella del Figlio dell’uomo è la santità che ci rende unici, non che sta sempre ad aborrire ed esorcizzare il pericolo dell’inconsueto.
Proprio per questo - invece - la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa; così come l’idolo feudale e monarchico della stabilità piramidale a vita.
«Se qualcuno vuole essere primo» (v.35): il Maestro non esclude il nostro diritto a fare qualcosa di grande... ma non lo identifica con l’avere, il potere e l’apparire.
Per un cammino di Beatitudine, Egli non eccita le pulsioni del trattenere, salire e dominare: non danno Felicità.
Conta piuttosto sulla nostra libertà di donare, scendere e servire - una franchigia affidata anzitutto ai primi della classe (vv.31-35) che hanno fatto il callo a soverchiare gli altri di moralismi e sentenze.
Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto. Non partecipiamo alla vita come dei destinati al fallimento, bensì come dei promossi - che non sopprimono i propri requisiti.
Ma non per vincere la gara. Il Signore ci fa riflettere sull’autentica realizzazione.
Non si tratta d’una conquista esteriore ma intima e fatta propria. Essa è in grado così di scolpire il nostro carattere profondo, nella sua ricchezza di volti e nel tempo di un Percorso.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio artificiali o proclami apparenti - si ama davvero solo se stessi. È un punto di domanda non da poco.
Ammesso e non concesso, la crescita, promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno d’una Via sapiente, d’un sentiero (persino interrotto) che sa concedersi il giusto ritmo - anche per incontrare nuovi stati dell’essere.
L’amore genuino e maturo dilata i confini dell’ego amante del primato, della visibilità e del tornaconto, comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo a qualsiasi età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini per prevalere.
Come ha detto Papa Francesco circa i fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Scrive il Tao Tê Ching (XL): «La debolezza è quel che adopra il Tao». E il maestro Wang Pi commenta: «L’alto ha per basamento il basso, il nobile ha per fondamento il vile».
Così il personale sfocia nel plurale e globale:
«Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come “Figlio di Davide”, ma come “figlio dell’uomo”. Il titolo di “Figlio dell’uomo”, nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione».
[papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012]
Transitorietà dell’Istituzione? E la compattezza? E l’espansione?
La mentalità delle precedenze era radicata al punto che anche in Paradiso si diceva esistessero le gerarchie.
Ma «Figlio dell’uomo» designa già dall’AT il carattere d’una santità che non t’aspetti, che supera la finzione antica, quella dei dominatori, i quali si accavallavano uno sull’altro recitando lo stesso copione; una mentalità di competizione e supremazia.
La massa rimaneva a bocca asciutta: qualsiasi fosse il sovrano che s’impadroniva del potere, la folla minuta restava sottomessa e soffocata.
Identica norma vigeva nelle religioni, i cui capi elargivano al popolo una forte pulsione da orda e il contentino dei gregari.
Invece nel Regno di Gesù mancavano i ranghi - per questo il piano degli Apostoli più ambiziosi non collima col suo.
«Figlio dell’uomo» è la persona vera secondo un criterio di umanizzazione; non una belva che prevale perché più forte delle altre (Dan 7); non una fiera, ma chi educa, convincendo.
Ciascun uomo conforme al Progetto divino e col cuore di carne, non di lupo, s’identifica spontaneamente con il «paidìon» (vv.36-37): un servetto di casa, un garzone di bottega.
Raffigura la persona sempre attenta ai bisogni dell’altro, che mette se stessa a disposizione.
Dimensione di santità trasmissibile a chiunque, ma creativa come l’amore, quindi tutta da scoprire! Pericolo dunque per la stabilità di qualsiasi “sistema” chiuso.
Come premunirsi? E la sua reputazione? Possibile per i responsabili di comunità rinunciare alle precedenze? Inaccettabile - forse - per chi tiene all’espansione unilaterale!
Una Chiesa senza catena di comando riconoscibile non parrebbe probabilmente un gruppo stabile. Sembrerebbe a qualcuno una istituzione transitoria.
Inoltre [dal punto di vista delle “guide”]: cosa renderà gli individui affini e la massa difforme omogenea? Difficile avere una folla naturalmente compatta!
Una Persona dev’essere convinta, e non è semplice persuaderla!
Non bastano i soliti rimproveri sulla condotta; bisogna capire le vicende.
E se si pretende la sua adesione-coesione a un paradigma culturale in larga misura fissato, ecco la coercizione esterna della moltitudine in cui vive.
[Da ciò, dunque, una gerarchia di cooptati che garantisca fissità di credo, definito perfino nei dettagli].
Secondo calcolo naturale, una massa primitiva può evolvere in gruppo articolato e ben organizzato se soggetto a leaders che assicurino durevolezza attraverso una formazione collettiva che faccia presa e s’inculchi nelle categorie primitive dei codici di pensiero.
E tale conio deve risultare facilmente fruibile, onde corrispondere a tutte le variegate situazioni sul territorio.
Ecco in tal guisa una catechesi in grado d’inculturarsi mediante una proposta semplice, immediatamente godibile; compiacente e riconoscibile per le calche.
Notiamo infatti che nei Vangeli il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato dai “peccatori”, bensì proprio da coloro che avrebbero il ministero di farlo conoscere.
Invece il Figlio ha una identità per nulla incline al calcolo di concordismi equilibrati; la sua firma è semplice, ma signorile.
Il suo benvolere si colloca su Altro piano: l’orizzonte del Dio che si rivela.
E lo fa senza artificio; nelle relazioni di qualità e nel Bene configurato e reale; non nelle posizioni di dominio, comando, sopraffazione.
Gesù abbraccia il ragazzino di 8-12 anni [«paidìon»] che a quel tempo non contava nulla.
Appunto, un valletto di casa, un inserviente di bottega; colui che non può permettersi di non riconoscere le esigenze altrui.
Dimensione di santità senza aureole distintive; condivisibile, perché legata alla simpatia verso chiunque - non a una dottrina e disciplina che ricacciano indietro il pericolo dell’Inconsueto.
Eppure la fissazione sulle antecedenze ha caratterizzato per secoli la vita della Chiesa.
Lavorando in archivi, ho notato quali asperità si celavano dietro i dibattiti circa ruoli e prelazioni da esibire in società [persino nelle posizioni di confraternite durante le processioni... non parliamo a tavola; sino al dopoguerra persino nelle foto di gruppo dei chierici].
Certo, il Signore non esclude il diritto a fare della propria vita qualcosa di grande, anzi; ma per la Felicità del suo Popolo non fa leva sulle pulsioni del trattenere, salire e dominare.
Conta piuttosto sulla libertà di donare, scendere e servire - anzitutto dei suoi primi della classe. Tutto per far respirare e nascere autenticamente i semplici; ed è possibile, se la Missione godesse d’un orizzonte di liberalità non opportunistica.
In prospettiva della Comunione - coesistenza, convivialità delle differenze - come bene supremo non fugace né viziato da trasformismi, la proposta di Dio non rinnega le legittime pulsioni dell’io a essere riconosciuto.
Non partecipiamo alla vita come dei destinati al fallimento, bensì come dei promossi che non sopprimono i propri requisiti. Ma non per vincere la gara.
Il Signore fa riflettere sull’autentica realizzazione.
Non una conquista esteriore, ma intima e fatta propria; scolpendo la nostra identità profonda nel tempo di un Percorso, non appiattito su ciò che già a monte appare non caratterizzato dal punto di vista educativo.
Aristotele affermava che - al di là di petizioni di principio esterne, artificiali - si ama davvero solo se stessi...
Ammesso e non concesso, la promozione e fioritura delle nostre qualità si colloca all’interno di un Cammino che dilati i confini dell’ego [amante del primato, della visibilità e del tornaconto] comprendendo il Tu nell’io.
Itinerario e Vettore che poi espande le capacità e la vita. Altrimenti in ogni circostanza e purtroppo in ogni età rimarremo nel gioco puerile di chi sgomita sui gradini.
Come ha detto Papa Francesco indicando fenomeni mafiosi: «C’è bisogno di uomini e donne di Amore, non di onore!».
Profonda distanza interiore fra Gesù e i discepoli
Dopo che Pietro, a nome dei discepoli, ha professato la fede in Lui riconoscendolo come il Messia (cfr Mc 8,29), Gesù comincia a parlare apertamente di ciò che gli accadrà alla fine. L’Evangelista riporta tre successive predizioni della morte e risurrezione, ai capitoli 8, 9 e 10: in esse Gesù annuncia in modo sempre più chiaro il destino che l’attende e la sua intrinseca necessità. Il brano […] contiene il secondo di questi annunci. Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo – espressione con cui designa se stesso – viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc 9,31). I discepoli «però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (v. 32).
In effetti, leggendo questa parte del racconto di Marco, appare evidente che tra Gesù e i discepoli c’era una profonda distanza interiore; si trovano, per così dire, su due diverse lunghezze d’onda, così che i discorsi del Maestro non vengono compresi, o lo sono soltanto superficialmente. L’apostolo Pietro, subito dopo aver manifestato la sua fede in Gesù, si permette di rimproverarlo perché ha predetto che dovrà essere rifiutato e ucciso. Dopo il secondo annuncio della passione, i discepoli si mettono a discutere su chi tra loro sia il più grande (cfr Mc 9,34); e dopo il terzo, Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra, quando sarà nella gloria (cfr Mc 10,35-40). Ma ci sono diversi altri segni di questa distanza: ad esempio, i discepoli non riescono a guarire un ragazzo epilettico, che poi Gesù guarisce con la forza della preghiera (cfr Mc 9,14-29); o quando vengono presentati a Gesù dei bambini, i discepoli li rimproverano, e Gesù invece, indignato, li fa rimanere, e afferma che solo chi è come loro può entrare nel Regno di Dio (cfr Mc 10,13-16).
Che cosa ci dice tutto questo? Ci ricorda che la logica di Dio è sempre «altra» rispetto alla nostra, come rivelò Dio stesso per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, / le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda con-versione - da noi tutti -, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è tutta la pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio, che è realmente grande, non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. E la Vergine Maria è perfettamente «sintonizzata» con Dio: invochiamola con fiducia, affinché ci insegni a seguire fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.
[Papa Benedetto, Angelus 23 settembre 2012]
Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di questa Domenica, Gesù annuncia per la seconda volta ai discepoli la sua passione, morte e risurrezione (cfr Mc 9,30-31). L’evangelista Marco mette in risalto il forte contrasto tra la sua mentalità e quella dei dodici Apostoli, che non solo non comprendono le parole del Maestro e rifiutano nettamente l’idea che Egli vada incontro alla morte (cfr Mc 8,32), ma discutono su chi tra loro si debba considerare "il più grande" (cfr Mc 9,34). Gesù spiega ad essi con pazienza la sua logica, la logica dell’amore che si fa servizio fino al dono di sé: "Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti" (Mc 9,35).
Questa è la logica del Cristianesimo, che risponde alla verità dell’uomo creato a immagine di Dio, ma al tempo stesso contrasta con il suo egoismo, conseguenza del peccato originale. Ogni persona umana è attratta dall’amore – che ultimamente è Dio stesso – ma spesso sbaglia nei modi concreti di amare, e così da una tendenza all’origine positiva, inquinata però dal peccato, possono derivare intenzioni e azioni cattive. Lo ricorda, nella liturgia odierna, anche la Lettera di san Giacomo: "Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia". E l’Apostolo conclude: "Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace" (3,16-18). Queste parole fanno pensare alla testimonianza di tanti cristiani che, con umiltà e nel silenzio, spendono la vita al servizio degli altri a causa del Signore Gesù, operando concretamente come servi dell’amore e perciò "artigiani" di pace. Ad alcuni è chiesta talora la suprema testimonianza del sangue, come è accaduto pochi giorni fa anche alla religiosa italiana Suor Leonella Sgorbati, caduta vittima della violenza. Questa suora, che da molti anni serviva i poveri e i piccoli in Somalia, è morta pronunciando la parola "perdono": ecco la più autentica testimonianza cristiana, segno pacifico di contraddizione che dimostra la vittoria dell’amore sull’odio e sul male.
Non c’è dubbio che seguire Cristo è difficile, ma, come Egli dice, solo chi perde la propria vita per causa sua e del Vangelo la salverà (cfr Mc 8,35), dando senso pieno alla propria esistenza. Non esiste altra strada per essere suoi discepoli, non c’è altra strada per testimoniare il suo amore e tendere alla perfezione evangelica. Ci aiuti Maria, che quest’oggi invochiamo come Beata Vergine della Mercede, ad aprire sempre più il nostro cuore all’amore di Dio, mistero di gioia e di santità.
[Papa Benedetto, Angelus 24 settembre 2006]
5. - “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35).
Così Gesù disse ai Dodici, sorpresi a discutere tra loro su “chi fosse il più grande” (Mc 9,34). È la tentazione di sempre, che non risparmia nemmeno chi è chiamato a presiedere l’Eucaristia, il sacramento dell’amore supremo del “Servo sofferente”. Chi compie questo servizio, in realtà, è ancor più radicalmente chiamato a esser servo. Egli è chiamato, infatti, ad agire “in persona Christi”, e perciò a rivivere la stessa condizione di Gesù nell’Ultima Cena, assumendone la medesima disponibilità ad amare sino alla fine, sino a dare la vita. Presiedere la Cena del Signore è, pertanto, invito pressante ad offrirsi in dono, perché permanga e cresca nella Chiesa l’atteggiamento del Servo sofferente e Signore.
Cari giovani, coltivate l’attrazione per i valori e per le scelte radicali che fanno dell’esistenza un servizio agli altri sulle orme di Gesù, l’Agnello di Dio. Non lasciatevi sedurre dai richiami del potere e dell’ambizione personale. L’ideale sacerdotale deve essere costantemente purificato da queste e altre pericolose ambiguità.
Risuona anche oggi l’appello del Signore Gesù: “Se uno mi vuol servire mi segua” (Gv 12,26). Non abbiate paura di accoglierlo. Incontrerete sicuramente difficoltà e sacrifici, ma sarete felici di servire, sarete testimoni di quella gioia che il mondo non può dare. Sarete fiamme vive di un amore infinito ed eterno; conoscerete le ricchezze spirituali del sacerdozio, dono e mistero divino.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XL Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 11 maggio 2003]
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manila]
The more we do for others, the more we understand and can appropriate the words of Christ: “We are useless servants” (Lk 17:10). We recognize that we are not acting on the basis of any superiority or greater personal efficiency, but because the Lord has graciously enabled us to do so [Pope Benedict, Deus Caritas est n.35]
Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono [Papa Benedetto, Deus Caritas est n.35]
A mustard seed is tiny, yet Jesus says that faith this size, small but true and sincere, suffices to achieve what is humanly impossible, unthinkable (Pope Francis)
Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili (Papa Francesco)
Hypocrisy: indeed, while they display great piety they are exploiting the poor, imposing obligations that they themselves do not observe (Pope Benedict)
Ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano (Papa Benedetto)
Each time we celebrate the dedication of a church, an essential truth is recalled: the physical temple made of brick and mortar is a sign of the living Church serving in history (Pope Francis)
Ogni volta che celebriamo la dedicazione di una chiesa, ci viene richiamata una verità essenziale: il tempio materiale fatto di mattoni è segno della Chiesa viva e operante nella storia (Papa Francesco)
As St. Ambrose put it: You are not making a gift of what is yours to the poor man, but you are giving him back what is his (Pope Paul VI, Populorum Progressio n.23)
Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene (Papa Paolo VI, Populorum Progressio n.23)
Here is the entire Gospel! Here! The whole Gospel, all of Christianity, is here! But make sure that it is not sentiment, it is not being a “do-gooder”! (Pope Francis))
Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! (Papa Francesco)
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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