Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Mc 9,38-43.45.47-48)
La concezione di chiusura e inquisizione
(Mc 9,38-40)
Non è strano che la santa Inquisizione sia nata nel tempo di una ecclesiologia assente.
La malattia della casta - sempre incline al sequestro di Gesù - e il senso dell’assoluto monopolio... erano già tentazioni delle prime comunità, segnatamente degli Apostoli di spicco.
I superApostoli pretendevano fissare la tipologia dei membri di Chiesa, comprese autorizzazioni, deferenze, caratteristiche.
Invece - sebbene in semplicità - non c’è nessun criterio banale che porga l’imprimatur di poter discriminare “fedeli” e “non”.
Vale: quanto conta la Persona del Figlio dell’uomo, per la nostra vita e nelle scelte quotidiane?
Sentire - o meno - amico chiunque s’impegni ad annientare il male (ricorrendo magari al suo modo libero di recepire Dio) fa riflettere anche oggi.
Siamo solo alle soglie d’un cammino nello Spirito? Il segno di una separazione di fatto dal disegno di Dio sulla donna e l’uomo viene forse celato da espressioni epidermiche.
Probabilmente non abbiamo ben capito che ogni passo di liberazione - ovunque provenga - avvicina al Padre e ci umanizza anche la testa.
Il lievito dei farisei e di Erode (Mc 8,14) porta anche i discepoli diretti di Cristo a una mentalità sigillata - secondo la quale se qualcuno “non è dei nostri” («non ci seguiva» v.38) dev’essere emarginato.
La differenza tra religiosità e Fede: non c’è più bisogno di aderire a un modo di pensare riconosciuto, né essere membro d’un club ufficiale.
Saggezza spirituale e Apertura sono la stessa cosa. Ogni gesto vitale spalanca possibilità felici: l’essere «attirati da Dio» è tutto questo.
Per fare il bene (scacciare i demoni, v.38) non conta il distintivo (ad es il nome sul registro dei Battesimi) o essere confermato in circoli esclusivi.
Nell’avventura personale della Fede genuina, non c’è monopolio - neppure per l’apostolo Giovanni. Nessuno è abilitato a sentenziare in nome dell’assemblea!
La santità come separazione attiene i criteri, la mentalità, la concatenazione dei princìpi (o il loro rovesciamento): non l’elezione-predestinazione di un “popolo di puri”.
Per Cristo ciò che conta non è l’appartenenza formale - che tende a omologare - ma cosa fare nel concreto (ovviamente su base vocazionale e d’inclinazione irripetibile).
Non ha peso alcuno il sentirsi discepolo, bensì l’esserlo di fatto. L’amore per la “verità” non esclude, bensì include tutti coloro che hanno alti valori (anche sovrannaturali, e che non capiamo).
L’adesione autentica è sul bene - unica Vittoria del popolo dei rinati nel Risorto. Opera di vita che anche la Chiesa ufficiale è chiamata a edificare, senza atteggiamenti schizzinosi.
Anzi, vediamo che proprio le situazioni fuori le righe diventano pungolo: sollecitano i “cristiani” scialbi e opachi a farsi seme.
La “comunità” non è importante perché si ritiene tale.
La chiamata universale alla promozione dell’umanità è divina: ricchezza che sorvola gli ostacoli, patrimonio di gioia da qualsiasi parte provenga.
Se relegata e stretta negli schedari, la storia della Salvezza non si fa vita da salvati.
Il Corpo mistico del Signore rifugge l’ideologia di potere e lo stile supponente dei manipolatori (arraffoni spirituali) che immaginano di essere chissà cosa.
«Ma Gesù disse: Non glielo impedite. Infatti non c’è nessuno che faccia una meraviglia potente nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me» (v.39).
Per formare i discepoli, Cristo non solletica l'amor proprio allestendo un festival o promuovendo fictions.
Con i suoi intimi, il Maestro non usa un linguaggio diplomatico (espressioni attente a non offendere la loro suscettibilità di esperti).
La formazione dei discepoli è essenziale alla costruzione del Regno dai larghi confini, anzitutto mentali.
Nelle religioni esoteriche esistono modelli. Qui no, solo carismi, anche personalissimi - condizione dell’amore vero.
Siamo governati da Dio solo - unico a sapere quel che suscita in ciascuno, e dove andare.
Gesù è rivelatore e cardine di questa Notizia lieta, impensabile: ma nel senso di Motivo e Motore intimo, del tutto non esteriore.
Il Signore chiama la persona nel modo che agli altri pare incomprensibile.
Cristo marca la sua Amicizia nella vita dei credenti, quale centro e asse. Eppure sono moltissimi i gesti e le sensibilità che il mondo nuovo suscita, e parimenti segnano la sua Presenza.
L’educazione interiore e la scommessa della Fede riflessa nelle attività ci prepara alla vita quotidiana, nonché alla grande missione.
Formandoci alla Parola-evento schietta, il Messia dimesso trasmette la sua stessa esperienza del Padre.
Egli ci coinvolge con incredibile e immeritata fiducia nell’opera di evangelizzazione.
Né si stanca di ripetere ciò che non desideriamo capire.
Il Figlio dell’uomo ordina solo di percepire bene la realtà (Mc 8,27-29) dove si annida il segreto di Dio (che il pensiero conformista non riesce neanche lontanamente a immaginare: Mc 8,30-35).
La Regola vale solo per la devozione normalizzata, la quale pone sempre più risposte (già antiche) che domande.
Lo standard non ha peso specifico per l’eccedenza dell'avventura di Fede.
Lo squilibrio dell’amore è personale: serenamente ammette la diversità e l’incremento eccentrico di vita che ne sussegue.
È tale la nuova coscienza della Missione fatta nell’ascolto, e nel rispetto non solo nei confronti dell’intelligenza e cultura altrui, ma anche di se stessi.
Tuttora in mille guise e finalmente con l’aiuto di un Magistero ecclesiale più saggio, la Provvidenza incoraggia a collocarci meglio - in appoggio proprio agli esclusi dal “giro”.
L’opera della “conversione evangelica” giunge chiara e forte sino a noi, sorvolando qualsiasi considerazione fatta dal punto di vista di Chiesa trionfante o di antico diritto.
Nessuno ha il monopolio della Grazia: motivo per non rattrappire il cuore sui canoni o sulle mode.
Nella verità del Bene, il senso di proprietà è fuori luogo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che peso hanno su di te gli interessi materiali, le vuote rigidezze, o le fantasie senza nerbo, di chi (senza neppure aver titolo) scimmiotta piccole gerarchie e fulmina i diversi con mediocri sentenze impersonali?
Come vivi la Parola: «Chi non è contro, è per»?
Il rapporto con gli esclusi e le loro esigenze (modeste)
(Mc 9,41-50)
Con linguaggio tipico della vivacità orientale, le esortazioni di Gesù alla convivenza rovesciano la gerarchia tra forti e deboli.
Nelle religioni troviamo frotte di emarginati che non possono accedere né partecipare agli allestimenti di coloro che ingannano le folle (anche se stessi) usando la religione piramidale.
La vigliaccheria delle classi abbienti produce l’esitazione dei senza voce, indefinitamente.
Nella Chiesa di Dio - segno di società alternativa - non ci dev’essere dubbio, a partire dalle piccole privazioni.
Men che mai in ambito ben strutturato nei ruoli, i miseri attenderebbero di vedere (non dico realizzate le speranze di riscatto, ma semplicemente) esaudite le esigenze modeste che si trascinano dietro, per motivi di giustizia.
Purtroppo, ancora oggi risultano piuttosto beffeggiati e castigati - da coloro che temono di perdere visibilità, privilegi e ruoli.
Al contrario, chi come Gesù è in grado di donare tutto, non deve dimenticare i piccoli gesti, che parlano d’un gratis non “esemplare” quindi autentico (limitato nel giorno dopo giorno).
È questo venire incontro nel sommario - poco encomiato - che valorizza il clima e non spinge i deboli al risentimento, e al male.
La nuova “dottrina” di Gesù è sapiente e finalizzata alla decisione, perché non smarrisce l’entusiasmo. Anzi ci fa già sperimentare la stessa qualità di vita dell’Eterno, allontanando da ciò che corrompe.
Chi è tutto preso dal grande e non s’accorge del dettaglio, mai ha il senso del valore delle cose, e presto o tardi finirà per disprezzare tutto.
Gesù s’identifica con noi (v.41) perché ci abita: siamo la sua Vittoria reale, incarnata.
Una pietra d’inciampo o anche solo nella scarpa (v.42) allontana i «mikròi» dal cammino di Fede.
Gli «incipienti» - appunto, i dotati di poca energia e relazioni - iniziano a fare i primi passi… sono ancora fuori dalle cricche e dalle cordate (perfino interne).
Coloro che pretendono e si mettono di traverso, o danno scialba e pessima testimonianza, hanno però in serbo altro che una pietruzza: una mola al collo e una fine indegna (esistenza mortifera: v.42).
“Meglio” quella dei finti devoti che la mortificazione ulteriore di tutti, dai primi della classe costretti a vivere male.
Non perché Dio la fa pagare, ma perché buttano la vita e rovinano gli altri, che infine si allontanano, giustamente ripugnati - mentre l’avventura di condivisione potrebbe essere meravigliosa per ciascuno.
È questo del non senso (per usare un eufemismo) il tratto che spinge le folle a cercare un cristianesimo più autentico di quello vissuto solo nei segni, nelle passerelle e nelle formule, o nelle strutture preposte.
La scelta - se c’è - è radicale, o non convince più. E l’odore che si sprigiona è peggio che maleodorante (v.43).
A forza di professare, molti restano senza Dio e senza umanità; neanche si accorgono che esistono gli altri - differenti e legittime aspirazioni di vita (verso di sé ben riconosciute e trattenute).
Invece, la comunità in cui si sperimenta gioia è come quel pizzico di sapidità e sapienza che rende piena - bella - l’onda vitale spontanea della gente.
Il fermento che non fa lievitare non serve più a nulla.
A maggior ragione è vacuo anzitutto ai piccoli e malfermi che si accostano alla Chiesa per sentirsi bene, o finalmente non più esposti al ludibrio della società tutta esterna delle competizioni.
Atmosfera artificiosa, buona solo a ridurre al silenzio gl’indifesi, disprezzati e ridotti all’obbedienza - e che si fa burle dell’accoglienza.
Ciò nelle religioni dell’impero era abituale pensarlo, anche in nome della legge “divina”... dunque, qual è la differenza?
«Avere sale in noi stessi» (v.50) significa che in Cristo siamo resi capaci di dare alle cose minime e consuete quella tonalità e gusto in grado di trasmettere anche al prossimo il sapore di una vita da salvati - a partire da “dentro”.
Nella cultura del medio oriente antico, il sale era messo in relazione con Dio e aveva dunque un’importanza anche religiosa: simbolo di durata (per conservare i cibi) e di coraggio (sapidità, condimento, purificazione).
Il sale aveva potere di scacciare i demoni, che corrompevano la vita e suscitavano fetore. Per tale motivo era largamente usato nei sacrifici cultuali e nel sancire “alleanze”.
Insomma, il sale era garanzia di durata genuina.
Ma il sale cristiano è solo… Amore al prossimo e capacità di corrispondere alla propria Vocazione.
Se non vi fosse, scomparirebbe il carattere stesso della vita in Cristo.
Quindi il «patto del sale» è essenziale per la credibilità, per l’Annuncio, per il tenore della vita; per la sopravvivenza stessa delle comunità, e il loro tocco inconfondibile.
L’Ascolto dello Spirito e reciproco permane così ingrediente irrinunciabile dello «Shalôm».
Nessun’altra opera di difesa dall’esterno - inquisizione, prevenzione o repressione - può garantire la sopravvivenza della Chiesa.
Differenza tra religione e Fede? La norma, usata per promuovere o legittimare situazioni (di emarginazione e dominio).
Per il nostro progresso umano, spirituale e della vita intera, Gesù parteggia (forse non come ci si attenderebbe) - perché a nessuno è data l’esclusiva.
Per interiorizzare il messaggio:
Nella tua comunità sono i piccoli che devono adeguarsi ai grandi e ai loro circoli... o viceversa, c’è serio ascolto dei nuovi dalle scarse energie e relazioni, malfermi e disadattati?
Il Vangelo di questa domenica presenta uno di quegli episodi della vita di Cristo che, pur essendo colti, per così dire, en passant, contengono un profondo significato (cfr Mc 9,38-41). Si tratta del fatto che un tale, che non era dei seguaci di Gesù, aveva scacciato dei demoni nel suo nome. L’apostolo Giovanni, giovane e zelante come era, vorrebbe impedirglielo, ma Gesù non lo permette, anzi, prende spunto da quella occasione per insegnare ai suoi discepoli che Dio può operare cose buone e persino prodigiose anche al di fuori della loro cerchia, e che si può collaborare alla causa del Regno di Dio in diversi modi, anche offrendo un semplice bicchiere d’acqua ad un missionario (v. 41). Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» (Agostino, Sul battesimo contro i donatisti: PL 43, VII, 39, 77). Perciò, i membri della Chiesa non devono provare gelosia, ma rallegrarsi se qualcuno esterno alla comunità opera il bene nel nome di Cristo, purché lo faccia con intenzione retta e con rispetto. Anche all’interno della Chiesa stessa, può capitare, a volte, che si faccia fatica a valorizzare e ad apprezzare, in uno spirito di profonda comunione, le cose buone compiute dalle varie realtà ecclesiali. Invece dobbiamo essere tutti e sempre capaci di apprezzarci e stimarci a vicenda, lodando il Signore per l’infinita ‘fantasia’ con cui opera nella Chiesa e nel mondo.
Nella Liturgia odierna risuona anche l’invettiva dell’apostolo Giacomo contri i ricchi disonesti, che ripongono la loro sicurezza nelle ricchezze accumulate a forza di soprusi (cfr Gc 5,1-6). Al riguardo, Cesario di Arles così afferma in un suo discorso: «La ricchezza non può fare del male a un uomo buono, perché la dona con misericordia, così come non può aiutare un uomo cattivo, finché la conserva avidamente o la spreca nella dissipazione» (Sermoni 35, 4). Le parole dell’apostolo Giacomo, mentre mettono in guardia dalla vana bramosia dei beni materiali, costituiscono un forte richiamo ad usarli nella prospettiva della solidarietà e del bene comune, operando sempre con equità e moralità, a tutti i livelli.
Cari amici, per intercessione di Maria Santissima, preghiamo affinché sappiamo gioire per ogni gesto e iniziativa di bene, senza invidie e gelosie, e usare saggiamente dei beni terreni nella continua ricerca dei beni eterni.
[Papa Benedetto, Angelus 30 settembre 2012]
Il testo di questa Via Crucis è stato scritto da un cristiano laico, membro della Chiesa Ortodossa. Questo laico sente di essere uno qualunque, ed ha accettato l'invito con molta emozione e riconoscenza per almeno due motivi principali.
Prima di tutto, perché sul cammino verso il Golgota non ci può più essere alcuna separazione. La morte d'amore del Cristo rende irrisorio ogni atteggiamento che non sia di penitenza e di riconciliazione.
In secondo luogo, perché scrivere una Via Crucis, significa meditare, attraverso una strana esperienza mistica, le parole e i gesti del Dio fatto uomo nel momento in cui assume fino in fondo la nostra condizione, per conoscere dal di dentro la morte e aprirla alla risurrezione.
Esistono, come si è potuto costatare negli ultimi anni, due versioni della Via Crucis. La più recente cita e commenta soltanto testi del vangelo. Quella più antica aggiunge delle stazioni nate dalla sensibilità medievale, soprattutto francescana: quali le tre cadute di Gesù, oppure il suo incontro con la Veronica, scene che sono commentate con testi dell'Antico Testamento.
Tanti dipinti o sculture che si succedono sui muri delle chiese, in Europa occidentale ed oramai dappertutto nel mondo, tante cappelle e tante croci erette lungo i sentieri dei pellegrinaggi, sulle montagne, hanno reso familiari a tutti le rappresentazioni di queste scene della Via Crucis. E per questo il commentatore ha preferito seguire la forma tradizionale, per entrare pienamente e senza nulla perdere della propria visione della redenzione, nella sensibilità del mondo cattolico.
Si ripete spesso che l'Occidente cristiano aveva messo l'accento sul Venerdì Santo e l'Oriente sulla Pasqua. Ciò sarebbe dimenticare che la Croce e la Risurrezione sono inseparabili, come sottolinea questo commento. Gli stigmatizzati del mondo cattolico sapevano (e sanno) che il sangue che scorre dalle loro piaghe è un sangue di luce, e gli ortodossi, celebrando durante i Vespri del Venerdì Santo l'ufficio delle « sante sofferenze », oppure affermando che ogni uomo di preghiera e di compassione è uno stauroforo, cioè un « portatore della Croce », hanno sempre capito che soltanto la Croce è portatrice di risurrezione.
Per un ortodosso, entrare nella spiritualità francescana della Via Crucis, era tentare di sottolinearne la profondità non solo umana ma divino-umana. Perché è Dio stesso che sul Golgota soffre umanamente le nostre agonie disperate per aprirci cammini (forse inattesi) di risurrezione.
L'epoca moderna, come si sa, ha intentato un processo accanito e senza pietà contro Dio, sia Egli l'onnipotente, nel senso umano della parola (allora perché il mondo è assurdo e cattivo?), sia Egli Colui che ci ha creati liberi, ma sapendo che cosa avremmo fatto della nostra libertà. Bisognava far vedere — tentare di far vedere — che all'insolubile questione del male, l'unica risposta è appunto la Via Crucis.
Dio scende volontariamente nel male, nella morte, — un male e una morte di cui non è affatto responsabile, di cui forse non ha neanche l'idea, come ha detto un teologo contemporaneo — scende per frapporsi per sempre fra il nulla e noi, per farci sentire, farci vivere, che al fondo delle cose, non c'è il nulla, ma l'amore.
Dio al di là di Dio, questo « oceano della limpidezza », e questo uomo coperto di sangue e di sputi che barcolla e cade sotto il peso di tutte le nostre croci, è lo stesso, sì veramente è lo stesso nella sua trascendenza e nella sua « follia d'amore ». Tale antinomia fa l'inimmaginabile originalità del cristianesimo. La sofferenza del corpo, la derisione sociale, la disperazione dell'anima abbandonata, tutto si concentra affinché Dio si riveli qui, non come pienezza che schiaccia, giudica e condanna, ma come apertura senza limite di amore nel rispetto senza limite della nostra libertà.
Ecco che la distanza impensabile fra Dio e il Crocifisso — « Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? » — si riempie tutto ad un tratto del soffio dello Spirito, del soffio della risurrezione.
Si apre l'ultima tappa della storia umana e del divenire del cosmo: nel sangue che sgorga dal costato trafitto del Cristo, il fuoco che egli è venuto a gettare sulla terra brucia ormai, questo fuoco dello Spirito Santo che feconda la nostra libertà affinché diventi capace di cambiare in risurrezione la lunga passione della storia. Effusione di pace e di luce che non può appunto manifestarsi se non attraverso questa libertà che egli libera e che lo libera...
Da qui viene senza dubbio l'ultima caratteristica di questa Via Crucis ripresa nella sua forma tradizionale: il ruolo più grande delle donne, le uniche rimaste fedeli, a parte Giovanni, le più esposte, le più capaci di amore. Come dimostra il gesto della Veronica che asciuga il Volto di Cristo con un velo sul quale esso si imprime e si trasmette alle nostre chiese: tanti Santo Volto in cui si mostra nella sua pasta umana il volto di Dio, affinché noi possiamo vedere in Dio ogni volto umano.
[Olivier Clément, presentazione Via Crucis 10 aprile 1998]
Il Vangelo di questa domenica (cfr Mc 9,38-43.45.47-48) ci presenta uno di quei particolari molto istruttivi della vita di Gesù con i suoi discepoli. Questi avevano visto che un uomo, il quale non faceva parte del gruppo dei seguaci di Gesù, scacciava i demoni nel nome di Gesù, e perciò volevano proibirglielo. Giovanni, con l’entusiasmo zelante tipico dei giovani, riferisce la cosa al Maestro cercando il suo appoggio; ma Gesù, al contrario, risponde: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (vv. 39-40).
Giovanni e gli altri discepoli manifestano un atteggiamento di chiusura davanti a un avvenimento che non rientra nei loro schemi, in questo caso l’azione, pur buona, di una persona “esterna” alla cerchia dei seguaci. Invece Gesù appare molto libero, pienamente aperto alla libertà dello Spirito di Dio, che nella sua azione non è limitato da alcun confine e da alcun recinto. Gesù vuole educare i suoi discepoli, anche noi oggi, a questa libertà interiore.
Ci fa bene riflettere su questo episodio, e fare un po’ di esame di coscienza. L’atteggiamento dei discepoli di Gesù è molto umano, molto comune, e lo possiamo riscontrare nelle comunità cristiane di tutti i tempi, probabilmente anche in noi stessi. In buona fede, anzi, con zelo, si vorrebbe proteggere l’autenticità di una certa esperienza, tutelando il fondatore o il leader dai falsi imitatori. Ma al tempo stesso c’è come il timore della “concorrenza” – e questo è brutto: il timore della concorrenza –, che qualcuno possa sottrarre nuovi seguaci, e allora non si riesce ad apprezzare il bene che gli altri fanno: non va bene perché “non è dei nostri”, si dice. E’ una forma di autoreferenzialità. Anzi, qui c’è la radice del proselitismo. E la Chiesa – diceva Papa Benedetto – non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, cioè cresce per la testimonianza data agli altri con la forza dello Spirito Santo.
La grande libertà di Dio nel donarsi a noi costituisce una sfida e una esortazione a modificare i nostri atteggiamenti e i nostri rapporti. È l’invito che ci rivolge Gesù oggi. Egli ci chiama a non pensare secondo le categorie di “amico/nemico”, “noi/loro”, “chi è dentro/chi è fuori”, “mio/tuo”, ma ad andare oltre, ad aprire il cuore per poter riconoscere la sua presenza e l’azione di Dio anche in ambiti insoliti e imprevedibili e in persone che non fanno parte della nostra cerchia. Si tratta di essere attenti più alla genuinità del bene, del bello e del vero che viene compiuto, che non al nome e alla provenienza di chi lo compie. E – come ci suggerisce la restante parte del Vangelo di oggi – invece di giudicare gli altri, dobbiamo esaminare noi stessi, e “tagliare” senza compromessi tutto ciò che può scandalizzare le persone più deboli nella fede.
La Vergine Maria, modello di docile accoglienza delle sorprese di Dio, ci aiuti a riconoscere i segni della presenza del Signore in mezzo a noi, scoprendolo dovunque Egli si manifesti, anche nelle situazioni più impensabili e inconsuete. Ci insegni ad amare la nostra comunità senza gelosie e chiusure, sempre aperti all’orizzonte vasto dell’azione dello Spirito Santo.
[Papa Francesco, Angelus 30 settembre 2018]
XXIV Domenica del Tempo Ordinario B (15 settembre 2024)
1. La liturgia di questa domenica ben si collega con la festa dell’esaltazione della Croce che ieri abbiamo celebrato e che ci ha portati a meditare sulla morte gloriosa di Cristo. Dall’alto della Croce è lui stesso a rivolgerci la domanda che, come leggiamo nell’odierno vangelo, pose un giorno ai suoi discepoli: Chi sono io per voi? Chi è Gesù, il Cristo? Questa è la questione fondamentale della nostra fede e provoca tutti, mentre attende una risposta personale: o lo accetti o lo rifiuti perché non sono ammessi compromessi e mezze misure. Gesù di Nazaret, che i cristiani adorano come vero Dio e vero uomo, continua a far discutere e inquieta la coscienza di molti. Come infatti restare indifferenti dinanzi a Cristo, vero Dio e vero, che si svuota della sua divinità non solo fino a farsi uomo, ma addirittura a morire abbandonato e disprezzato su una croce come uno schiavo? E come se non bastasse, si rende pane spezzato per nutrire i fedeli della sua vita immortale nel sacramento dell’eucarestia? San Marco, che dopo aver lasciato san Paolo segue e vive per lungo tempo accanto all’apostolo Pietro, trasmette di quest’apostolo la certezza della fede in Gesù il Cristo; una fede passata però attraverso un lungo travaglio spirituale che tiene in conto anche il suo triplice rinnegamento durante la passione del suo Maestro. L’evangelista si fa nostro “pedagogo” per insegnarci come incontrare Cristo e conoscerlo facendoci comprendere che non è necessario capire per seguirlo, ma al contrario occorre seguirlo per conoscerlo. Nel brano evangelico di questa domenica il nostro sguardo si focalizza su san Pietro che dopo aver appena fatto per la prima volta una bella professione di fede: ”Tu sei il Cristo” riceve un duro rimprovero : “va dietro di me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Perché una reazione così decisa e persino violenta al punto da apostrofarlo come “satana”? Cominciamo a meglio capirlo leggendo l’episodio di cui parla oggi il brano evangelico, avvenuto mentre il Maestro con i discepoli vanno a Cesarea di Filippo, terra di confine tra il popolo eletto e i pagani. Se finora i discepoli e tutta la gente si sono posti la domanda: Chi è costui che fa miracoli, che parla in maniera coinvolgente, che è capace di calmare il mare in tempesta e scaccia i demoni? Non è forse il Messia atteso? Qui, dopo la prima professione di Pietro “Tu sei il Cristo” Gesù comincia sa svelare gradualmente il mistero della sua identità.
2. Si usa spesso dire che il Vangelo di Marco si snoda in una dinamica che parte proprio dall’oscurità dell’inizio e giunge allo splendore luminoso finale della risurrezione. Occorrerà ancora percorrere della strada e soltanto alla fine, mentre Gesù muore, le parole della confessione del centurione sotto la croce: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio” (15,39) mostreranno chi Egli è veramente e la luce della resurrezione, cioè la vittoria della vita sulla morte, distruggerà l’oscurità mostrando in pienezza la vera identità di Cristo, il Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Dopo, il messaggio evangelico comincerà a diffondersi in tutte le regioni del mondo, anche se occorrerà coraggio, pazienza e soprattutto fede perché diventi vita vissuta, come testimoniano le comunità cristiane grazie ai numerosi martiri e ai santi del cristianesimo. Il rapporto tra l’oscurità e la luce è connesso al cosiddetto “segreto messianico”, che caratterizza la graduale rivelazione dell'identità di Gesù e della sua missione nel vangelo di Marco. Inizia proprio dal primo capitolo: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (1,1), Gesù è Cristo e Signore (1,3); mentre viene battezzato una voce dal cielo lo dichiara “Figlio amato” (1,11). La sua identità viene confermata dagli spiriti impuri con il titolo di “Santo di Dio” o “Figlio di Dio” (cf. 1,24; 3,11; 5,7), mentre le folle che lo incontrano chiedono: “chi è questo Gesù di Nazaret? sino al capitolo settimo quando la donna siro-fenicia lo chiama Gesù “Signore” (7,28).
3. Siamo così giunti al capitolo ottavo, alla pagina odierna del vangelo. Se sinora possiamo tutto riassumere nella domanda: “Ma tu chi sei? Sei il Messia?”, oggi Gesù risponde a Pietro e conferma che egli è il Messia, ma precisa di non esserlo secondo le aspettative umane, e preannuncia la sua passione e morte. Nel cuore dei discepoli si fa più vivo il contrasto oscurità/luce e guidati dalla pazienza del divino Maestro dall’incomprensione iniziale giungeranno gradualmente alla scoperta della sua vera identità. Annunciando il vangelo e compiendo miracoli invitava sempre a tacere e non voleva che se ne facesse propaganda perché era facile fraintenderlo. Messia era in effetti un titolo che si prestava a varie interpretazioni e pur confermando di esserlo, come fece con Pietro, Gesù si presenta non un Messia trionfante ma sofferente e anche per i discepoli, che conoscevano la storia del loro popolo, si tratta di qualcosa di paradossale e inconcepibile. La loro fragile fede aveva bisogno di essere purificata e illuminata ed è per questo che Gesù chiede loro “di non parlare di lui a nessuno” e li sgrida come prima aveva fatto con i demoni. Insieme ai discepoli lasciamoci anche noi prendere per mano dall’evangelista e seguiamolo nel lungo cammino che porterà a incontrare chi è in verità il Messia. Da questo momento in poi la domanda sarà infatti: “Chi sono io per te”? E’ il Maestro a interpellarci e ci aiuta ad entrare nell’intimità del suo amore parlando della sua passione e morte in croce. Siamo di fronte a una novità assoluta che manifesta il suo pieno vigore nell’estrema fragilità della croce. Se vogliamo incontrare Gesù non superficialmente dobbiamo accettare di seguirlo dovunque egli ci conduce, ed essere suoi discepoli significa continuare a camminare dietro di lui. Indica pure le tre condizioni di questa sequela: anzitutto “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso”; in secondo luogo “prenda la sua croce e mi segua” ovunque, se necessario sino ad essere con lui crocifissi e finalmente “chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. Il messaggio è duro e chiaro, ma liberante e felice: se perdi la vita per Cristo la salvi perché non la fondi su te stesso ma su lui, il Cristo. E questa è la vera saggezza dei santi.
Buona domenica!
+Giovanni D’Ercole
Creare abbondanza dov’essa non c’è
(Lc 9,43b-45)
«Figlio dell’uomo» (v.44) è colui che essendosi spinto al massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina - e la irradia, senza prospettive anguste.
‘Figlio dell’uomo’ è il Figlio riuscito: la Persona dal passo definitivo; Verbo fattosi «fratello», che in noi aspira alla pienezza diffusa nella storia.
Sembrerebbe non all’altezza; invece è caratura indistruttibile, dentro ciascuno che accosta - incontrando i contrassegni divini che fanno emergere ciò che siamo [e rinascere].
Nel passo di Vangelo, è il Messia che diventa servo (!) e si fa «parente prossimo»: colui che nella cultura semitica era tenuto al riscatto e liberazione dei famigliari fatti schiavi.
Si nota però un netto contrasto fra ciò che la gente sogna e spera, e l’opinione delle autorità, messe in discussione da questa atmosfera di umanizzazione dai contorni troppo ampi.
Da sempre, per bloccare la ricerca del Tu-per-tu, del faccia a faccia con Dio [e indirizzare le coscienze] le guide interessate avevano riempito le menti di cose del passato, o tutte conformiste, e la vita della gente di problemi che incagliavano il cammino.
Lo schiavo della religione antica usuale, alleata col potere, viveva sotto condanna perché fuori Casa propria, quindi in una realtà che ristagnava, accentuando zavorre e sottolineando limiti e sensi di sudditanza.
Disturbando l’onda vitale di ciascuno.
In tal guisa, l’anima spenta si sottometteva alla cappa esteriore, bloccando l’energia spontanea. Ammantando di cose morte tutte le proposte che arrivavano dalla Provvidenza, e le sue stesse risorse.
«Figlio dell’uomo» non è un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo.
Essi superano i fermi e propri confini naturali facendo spazio al Dono, accogliendo da Dio pienezza di essere, nei suoi nuovi, irripetibili binari.
Sentendosi totalmente e immeritatamente amati, scoprono altre sfaccettature, cambiano il modo di stare con se stessi, e possono crescere, si realizzano, fioriscono, irradiando la completezza ricevuta.
Emanando una differente atmosfera, la persona integrata nei suoi lati anche opposti, sente nascere consapevolezze, crea progetti, emette e attrae altre energie; le fa attivare.
Così Dio vuole estendere l’ambito in cui “regna” - rapportandosi a tutta l’umanità, Chiesa senza confini visibili.
Insomma, nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti vogliono indicare il trionfo dell’umano sul disumano, e la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione dell’onda vitale.
Il Popolo che riluce in modo divino non si trova più impigliato, anzi porta al massimo tutta la sua variegata potenzialità d’amore, di effusione di vita.
«Figlio dell’uomo» - realtà possibile - è chiunque raggiunga pienezza, fioritura della capacità di essere, nell’estensione dei rapporti… entrando in sintonia con la sfera di Dio Creatore, Amante della vita.
Lo fa nelle sue variegate sfaccettature, e si fonde con Lui - diventando Uno. Creando abbondanza.
«Figlio dell’uomo» è l’uomo che si comporta sulla terra come farebbe Dio stesso, che rende presente il divino e la sua forza nella storia.
Quindi può permettersi di sostituire sia la cupa seriosità che la superficialità, con una sapiente ‘spensieratezza’ che rende tutto lieve.
«Figlio dell’uomo» raffigura il massimo dell’umano, la Persona per eccellenza, che diventa liberante invece che opprimente.
Le conseguenze sono inimmaginabili, perché ciascuno di noi in Cristo e per i fratelli non ha più percorsi morti, astratti, o altrui, da rifare.
[Sabato 25.a sett. T.O. 28 settembre 2024]
Creare abbondanza dov’essa non c’è
(Lc 9,43b-45)
‘Figlio di Dio’ è Cristo che manifesta Dio nella condizione umana. ‘Figlio dell’uomo’ è Gesù che manifesta l’uomo nella condizione divina.
«Figlio dell’uomo» (v.44) è colui che essendosi spinto al massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina - e la irradia, senza prospettive anguste.
Insomma, ‘Figlio dell’uomo’ è la persona affidabile, autentica; anche “piccola” - senza neppure un retaggio d’idee giuste e invariabili, o forze d’identico livello, e sempre performanti.
«Figlio dell’uomo» è qui il Figlio riuscito: la Persona dal passo definitivo. Verbo fattosi «fratello», che in noi aspira alla pienezza diffusa nella storia.
Sembrerebbe non all’altezza; invece è caratura indistruttibile, dentro ciascuno che accosta tale ‘misura’ - incontrando i contrassegni divini che fanno emergere ciò che siamo [e rinascere].
Nel passo di Vangelo, è il Messia che diventa servo (!) e si fa «parente prossimo»: colui che nella cultura semitica era tenuto al riscatto e liberazione dei famigliari fatti schiavi.
Si nota però un netto contrasto fra ciò che la gente sogna e spera, e l’opinione delle autorità, messe in discussione da questa atmosfera di umanizzazione dai contorni troppo ampi.
I maestri di spirito affermati e ufficiali si trovavano a loro agio in ambito stretto: accentuando sensi di colpa, sfigurando le persone; rendendole bisognose, infantili - invece che adulte, sicure, emancipate.
Anche l’istituzione religiosa tremava: la condizione divina diffusa nella vita delle donne e degli uomini resi autonomi e in grado di camminare sulle proprie gambe avrebbe reso superflua ogni struttura di mediazione.
Da sempre, per bloccare la ricerca del Tu-per-tu, del faccia a faccia con Dio [e indirizzare le coscienze] le guide interessate avevano riempito le menti di cose del passato, o tutte conformiste, e la vita della gente di problemi che incagliavano il cammino.
Lo schiavo della religione antica usuale, alleata col potere, viveva sotto condanna, perché fuori Casa propria. In una realtà che ristagnava, o avanzava in modo severamente moralistico.
Tale confusione arenava le anime - ancor più accentuando zavorre, sottolineando limiti, e sensi di sudditanza. Disturbando l’onda vitale di ciascuno.
La logica dei vecchi maestri era inaccettabile, sia in un’ottica di realizzazione personale, che per la convivenza.
In qualsiasi ambito vigeva il criterio dei parrucconi che amano solo se stessi.
Tutto era in accordo al principio che chi si ferma è meglio controllabile, sta dove lo collochi, e non può avere passioni; quindi non mette in moto nulla.
Sotto l’enorme condizionamento sociale, l’anima ormai spenta si vedeva costretta a sottomettersi alla cappa esteriore, la quale volentieri bloccava l’energia spontanea delle anime, e del mondo.
Ancora oggi, forse, sussistono agenzie di plagio che ammantano di cose già morte o astratte [di maniera, altrui, comunque esterne] tutte le proposte della Provvidenza, e le stesse risorse di donne e uomini, o di carisma.
Il Figlio vero invece conquista spazi di libertà non tanto dagli errori, quanto ad es. dall’egoismo che annienta la comunione, dall’amor proprio che rifiuta l’ascolto, dall’omologazione che cancella l’unicità, dal conformismo che fa impallidire l’eccezionalità, dall’invidia che separa e blocca lo scambio dei doni, dalla competizione anche spirituale che ci droga; dall’accidia di chi crede di non valere abbastanza, che sconforta e paralizza.
«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo.
Essi superano i fermi e propri confini naturali, facendo spazio al Dono; accogliendo da Dio pienezza di essere, nei suoi nuovi, irripetibili binari.
Sentendosi totalmente e immeritatamente amati, scoprono altre sfaccettature, cambiano il modo di stare con se stessi, e possono crescere: si realizzano, fioriscono; irradiano la completezza ricevuta.
Uscendo dall’idea scarsa o statica che abbiamo di noi - problema grave in molte anime sensibili e dedite - anche la personalità relazionale può iniziare a immaginare.
E sognare, scoprendo di poter non dare più peso a coloro che vogliono condizionare il cammino di persona, in pienezza di essere, carattere, vocazione.
Chi attiva l’idea di potercela fare, trasmette poi la forza dello Spirito che ha ricevuto e accolto, e l’universo attorno fiorisce.
Emanando una differente atmosfera, la persona integrata nei suoi lati anche opposti, sente nascere consapevolezze, crea progetti, emette e attrae altre energie; le fa attivare.
Rapportandosi in modo interpersonale, Dio vuole estendere l’ambito in cui “regna” - a tutta l’umanità.
Chiesa senza confini visibili, che inizierà con il «Figlio dell’uomo». Figura non esclusiva di Gesù.
Figlio di Davide e Figlio dell’uomo
Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33). Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.
[Papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012]
Con l’immagine del Figlio d’uomo, già il profeta Daniele voleva indicare un ribaltamento dei criteri di autenticità umana e divina: un uomo o un popolo, leader, finalmente dal cuore di carne invece che di belva.
Nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano; la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di esistenza piena, di totalità di energia profonda.
Il Popolo che riluce in modo divino non si trova più impigliato da paure, da manipolazioni, o isterismi, anzi porta al massimo tutta la sua variegata potenzialità d’amore, di effusione di vita.
‘Figlio dell’uomo’ - realtà possibile - è chiunque raggiunga completezza, fioritura della capacità di essere, nell’estensione dei rapporti. Con ciò entrando in sintonia con la sfera di Dio Creatore, Amante della vita.
Lo fa nelle sue variegate sfaccettature, e si fonde con Lui - diventando Uno. Creando abbondanza; non una finta identità.
«Figlio dell’uomo» è l’uomo che si comporta sulla terra come farebbe Dio stesso; insomma, che rende presente il divino e la sua forza dispiegata nella storia.
Quindi può permettersi di sostituire la cupa seriosità dell’essere pio e sottoposto, o la superficialità del sofisticato e disincarnato, con la sapiente ‘spensieratezza’ che rende tutto lieve [perché fa rima con naturalezza].
‘Figlio dell’uomo’ raffigura il massimo dell’umano, la Persona per eccellenza - nel suo Sé eminente, che diventa liberante invece che opprimente.
Le conseguenze sono inimmaginabili, perché ciascuno di noi in Cristo e per i fratelli e sorelle, non ha più percorsi morti, astratti, o altrui, da rifare.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In che modo la figura di «Figlio dell’uomo» ti parla dei tuoi stessi pensieri e speranze personali, e qual è la differenza o il contrasto coi pensieri e le speranze dei manipolatori?
La preghiera di Gesù nell'imminenza della morte - Lc
Cari fratelli e sorelle,
nella nostra scuola di preghiera, mercoledì scorso, ho parlato sulla preghiera di Gesù sulla Croce presa dal Salmo 22: “Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” adesso vorrei continuare a meditare sulla preghiera di Gesù in croce, nell’imminenza della morte, vorrei soffermarmi oggi sulla narrazione che incontriamo nel Vangelo di san Luca. L'Evangelista ci ha tramandato tre parole di Gesù sulla croce, due delle quali – la prima e la terza – sono preghiere rivolte esplicitamente al Padre. La seconda, invece, è costituita dalla promessa fatta al cosiddetto buon ladrone, crocifisso con Lui; rispondendo, infatti, alla preghiera del ladrone, Gesù lo rassicura: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Nel racconto di Luca sono così intrecciate suggestivamente le due preghiere che Gesù morente indirizza al Padre e l'accoglienza della supplica che a Lui è rivolta dal peccatore pentito. Gesù invoca il Padre e insieme ascolta la preghiera di quest’uomo che spesso è chiamato latro poenitens, «il ladrone pentito».
Soffermiamoci su queste tre preghiere di Gesù. La prima la pronuncia subito dopo essere stato inchiodato sulla croce, mentre i soldati si stanno dividendo le sue vesti come triste ricompensa del loro servizio. In un certo senso è con questo gesto che si chiude il processo della crocifissione. Scrive san Luca: «Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte» (23,33-34). La prima preghiera che Gesù rivolge al Padre è di intercessione: chiede il perdono per i propri carnefici. Con questo, Gesù compie in prima persona quanto aveva insegnato nel discorso della montagna quando aveva detto: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27) e aveva anche promesso a quanti sanno perdonare: «la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo» (v. 35). Adesso, dalla croce, Egli non solo perdona i suoi carnefici, ma si rivolge direttamente al Padre intercedendo a loro favore.
Questo atteggiamento di Gesù trova un’«imitazione» commovente nel racconto della lapidazione di santo Stefano, primo martire. Stefano, infatti, ormai prossimo alla fine, «piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Detto questo, morì» (At 7,60): questa è stata la sua ultima parola. Il confronto tra la preghiera di perdono di Gesù e quella del protomartire è significativo. Santo Stefano si rivolge al Signore Risorto e chiede che la sua uccisione – un gesto definito chiaramente con l’espressione «questo peccato» – non sia imputata ai suoi lapidatori. Gesù sulla croce si rivolge al Padre e non solo chiede il perdono per i suoi crocifissori, ma offre anche una lettura di quanto sta accadendo. Secondo le sue parole, infatti, gli uomini che lo crocifiggono «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Egli pone cioè l’ignoranza, il «non sapere», come motivo della richiesta di perdono al Padre, perché questa ignoranza lascia aperta la via verso la conversione, come del resto avviene nelle parole che pronuncerà il centurione alla morte di Gesù: «Veramente, quest’uomo era giusto» (v. 47), era il Figlio di Dio. «Rimane una consolazione per tutti i tempi e per tutti gli uomini il fatto che il Signore, sia a riguardo di coloro che veramente non sapevano – i carnefici – sia di coloro che sapevano e lo avevano condannato, pone l'ignoranza quale motivo della richiesta di perdono – la vede come porta che può aprirci alla conversione» (Gesù di Nazaret, II, 233).
Cari fratelli e sorelle, le parole di Gesù sulla croce negli ultimi istanti della sua vita terrena offrono indicazioni impegnative alla nostra preghiera, ma la aprono anche ad una serena fiducia e ad una ferma speranza. Gesù che chiede al Padre di perdonare coloro che lo stanno crocifiggendo, ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», diciamo quotidianamente nel «Padre nostro». Allo stesso tempo, Gesù, che nel momento estremo della morte si affida totalmente nelle mani di Dio Padre, ci comunica la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele. Grazie.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 15 febbraio 2012]
1. Gesù Cristo, Figlio dell’uomo e di Dio: è il tema culminante delle nostre catechesi sull’identità del Messia. È la verità fondamentale della rivelazione cristiana e della fede: l’umanità e la divinità di Cristo sulla quale dovremo riflettere in seguito in modo più completo. Per ora ci preme completare l’analisi dei titoli messianici già in qualche modo presenti nell’Antico Testamento e vedere in quale senso Gesù li attribuisce a sè.
Quanto al titolo di “Figlio dell’uomo”, è significativo che Gesù ne abbia fatto un uso frequente parlando di se stesso, mentre sono gli altri che lo chiamano “Figlio di Dio”, come vedremo nella prossima catechesi. Invece egli si autodefinisce “Figlio dell’uomo”, mentre nessun altro lo chiamava così, se si eccettuano il diacono Stefano prima della lapidazione (At 7, 56) e l’autore dell’Apocalisse in due testi (At 1, 13; 14, 14).
2. Il titolo “Figlio dell’uomo” proviene dall’Antico Testamento dal Libro del profeta Daniele. Ecco il testo che descrive una visione notturna del profeta: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”(Dn 7, 13-14).
E quando il profeta chiede la spiegazione di questa visione, riceve la risposta seguente: “I santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli . . . allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo, saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo” (Dn 7, 18.27). Il testo di Daniele riguarda una persona singola e il popolo. Notiamo subito che ciò che si riferisce alla persona del Figlio dell’uomo si ritrova nelle parole dell’angelo nell’annunciazione a Maria: “regnerà per sempre . . . e il suo regno non avrà fine” (Lc 1, 33).
3. Quando Gesù chiama se stesso “Figlio dell’uomo” usa un’espressione proveniente dalla tradizione canonica dell’Antico Testamento e presente anche negli apocrifi giudaici. Occorre però notare che l’espressione “Figlio dell’uomo” (ben-adam) era diventata nell’aramaico dei tempi di Gesù un’espressione indicante semplicemente “uomo” (“bar-enas”). Gesù, perciò, chiamando se stesso “figlio dell’uomo”, riuscì quasi a nascondere dietro il velo del significato comune il significato messianico che la parola aveva nell’insegnamento profetico. Non a caso, tuttavia, se enunciazioni sul “Figlio dell’uomo” appaiono specialmente nel contesto della vita terrena e della passione di Cristo, non ne mancano anche in riferimento alla sua elevazione escatologica.
4. Nel contesto della vita terrena di Gesù di Nazaret troviamo testi quali: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8, 20); o anche: “È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11, 19). Altre volte la parola di Gesù assume un valore più fortemente indicativo del suo potere. Così quando dice: “Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc 2, 28). In occasione della guarigione del paralitico calato attraverso un’apertura praticata nel tetto egli afferma in tono quasi di sfida: “Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua” (Mc 2, 10-11). Altrove Gesù dichiara: “Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione” (Lc 11, 30). In altra occasione si tratta di una visione avvolta nel mistero: “Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete” (Lc 17, 22).
5. Alcuni teologi notano un parallelismo interessante tra la profezia di Ezechiele e le enunciazioni di Gesù. Scrive il profeta: “(Dio) Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti . . . che si sono rivoltati contro di me . . . Tu dirai loro: Dice il Signore Dio”” (Ez 2, 3-4). “Figlio dell’uomo, tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono . . .” (Ez 12, 2) “Tu, figlio dell’uomo . . . tieni fisso lo sguardo su di essa (Gerusalemme) che sarà assediata . . . e profeterai contro di essa” (Ez 4, 1-7). “Figlio dell’uomo, proponi un enigma che racconta una parabola agli Israeliti” (Ez 17, 2).
Facendo eco alle parole del profeta, Gesù insegna: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19, 10). “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45; cf. anche Mt 20, 28). Il “Figlio dell’uomo” . . . “quando verrà nella gloria del Padre”, si vergognerà di chi si vergognava di lui e delle sue parole davanti agli uomini (cf. Mc 8, 38).
6. L’identità del Figlio dell’uomo appare nel duplice aspetto di rappresentante di Dio, annunciatore del regno di Dio, profeta che richiama alla conversione. Dall’altra egli è “rappresentante” degli uomini, dei quali condivide la condizione terrena e le sofferenze per riscattarli e salvarli secondo il disegno del Padre. Come dice egli stesso nel colloquio con Nicodemo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14-15).
È un chiaro annuncio della passione, che Gesù ripete: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8, 31). Per ben tre volte proviamo a fare preannuncio nel Vangelo di Marco (cf. Mc 9, 31; 10, 33-34) e in ciascuna di esse Gesù parla di se stesso come “Figlio dell’uomo”.
7. Con lo stesso appellativo Gesù si autodefinisce dinanzi al tribunale di Caifa, quando alla domanda: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”, risponde: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Mc 14, 62). In queste poche parole risuona l’eco della profezia di Daniele sul “Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo” (Dn 7, 13) e del salmo 110 che vede il Signore assiso alla destra di Dio (cf. Sal 110, 1).
8. Ripetutamente Gesù parla della elevazione del “Figlio dell’uomo”, ma non nasconde ai suoi ascoltatori che essa include l’umiliazione della croce. Alle obiezioni e alla incredulità della gente e dei discepoli, che ben comprendevano la magicità delle sue allusioni e che pure gli chiedevano: “Come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?” (Gv 12, 34), Gesù asserisce: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che io sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre” (Gv 8, 28). Gesù afferma che la sua “elevazione” per mezzo della croce costituirà la sua glorificazione. Poco dopo aggiungerà: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (Gv 12, 23). È significativo che alla partenza di Giuda dal Cenacolo, Gesù dica “ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui”(Gv 13, 31).
9. Ciò costituisce il contenuto di vita, di passione, di morte e di gloria di cui il profeta Daniele aveva offerto un pallido abbozzo. Gesù non esita ad applicare a sé anche il carattere di regno eterno e intramontabile che Daniele aveva assegnato all’opera del Figlio dell’uomo, quando nel mondo proclama: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26; cf. Mt 24, 30). In questa prospettiva escatologica deve svolgersi l’opera di evangelizzazione della Chiesa. Egli avverte: “Non avrete finito di percorrere la città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt 10, 23). E si chiede: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8).
10. Se come “Figlio dell’uomo” Gesù ha realizzato con la sua vita, passione, morte e resurrezione, il piano messianico, delineato nell’Antico Testamento, nello stesso tempo egli assume con quello stesso nome il suo posto tra gli uomini come uomo vero, come figlio di una donna, Maria di Nazaret. Per mezzo di questa donna, sua Madre, lui, il “Figlio di Dio”, è contemporaneamente “Figlio dell’uomo”, uomo vero, come attesta la Lettera agli Ebrei: “Si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (Eb 4, 5; cf. Gaudium et Spes, 22).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 29 aprile 1987]
Farsi «il segno della croce» distrattamente e ostentare «il simbolo dei cristiani» come fosse «il distintivo di una squadra» o «un ornamento», magari con «pietre preziose, gioielli e oro», non ha nulla a che vedere con «il mistero» di Cristo. Tanto che Papa Francesco ha suggerito un esame di coscienza proprio sulla croce, per verificare come ciascuno di noi porta nella quotidianità l’unico vero «strumento di salvezza». Ecco le linee di riflessione che il Pontefice ha proposto nella messa celebrata martedì mattina, 4 aprile, a Santa Marta.
«Attira l’attenzione — ha fatto notare subito, riferendosi al passo dell’evangelista Giovanni (8, 21-30) — che in questo breve passo del Vangelo per tre volte Gesù dice ai dottori della legge, agli scribi, ad alcuni farisei: “Morirete nei vostri peccati”». Lo ripete «tre volte». E «lo dice — ha aggiunto — perché non capivano il mistero di Gesù, perché avevano il cuore chiuso e non erano capaci di aprire un po’, di cercare di capire quel mistero che era il Signore». Infatti, ha spiegato il Papa, «morire nel proprio peccato è una cosa brutta: significa che tutto finisce lì, nella sporcizia del peccato».
Ma poi «questo dialogo — nel quale per tre volte Gesù ripete “morirete nei vostri peccati” — continua e, alla fine, Gesù guarda indietro alla storia della salvezza e fa ricordare loro qualcosa: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono e che non faccio nulla da me stesso”». Il Signore dice proprio: «quando avrete innalzato il figlio dell’uomo».
Con queste parole — ha affermato il Pontefice, riferendosi al brano tratto dal libro dei Numeri (21, 4-9) — «Gesù fa ricordare quello che è accaduto nel deserto e abbiamo sentito nella prima lettura». È il momento in cui «il popolo annoiato, il popolo che non può sopportare il cammino, si allontana dal Signore, sparla di Mosè e del Signore, e trova quei serpenti che mordono e fanno morire». Allora «il Signore dice a Mosè di fare un serpente di bronzo e innalzarlo, e la persona che subisce una ferita del serpente, e che guarda quello di bronzo, sarà guarita».
«Il serpente — ha proseguito il Papa — è il simbolo del cattivo, è il simbolo del diavolo: era il più astuto degli animali nel paradiso terrestre». Perché «il serpente è quello che è capace di sedurre con le bugie», è «il padre della menzogna: questo è il mistero». Ma allora «dobbiamo guardare il diavolo per salvarci? Il serpente è il padre del peccato, quello che ha fatto peccare l’umanità». In realtà «Gesù dice: “Quando io sarò innalzato in alto, tutti verranno a me”. Ovviamente questo è il mistero della croce».
«Il serpente di bronzo guariva — ha detto Francesco — ma il serpente di bronzo era segno di due cose: del peccato fatto dal serpente, della seduzione del serpente, dell’astuzia del serpente; e anche era segnale della croce di Cristo, era una profezia». E «per questo il Signore dice loro: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono”». Così possiamo dire, ha affermato il Papa, che «Gesù si è “fatto serpente”, Gesù si “è fatto peccato” e ha preso su di sé le sporcizie tutte dell’umanità, le sporcizie tutte del peccato. E si è “fatto peccato”, si è fatto innalzare perché tutta la gente lo guardasse, la gente ferita dal peccato, noi. Questo è il mistero della croce e lo dice Paolo: “Si è fatto peccato” e ha preso l’apparenza del padre del peccato, del serpente astuto».
«Chi non guardava il serpente di bronzo dopo essere ferito da un serpente nel deserto — ha spiegato il Pontefice — moriva nel peccato, il peccato di mormorazione contro Dio e contro Mosè». Allo stesso modo, «chi non riconosce in quell’uomo innalzato, come il serpente, la forza di Dio che si è fatto peccato per guarirci, morirà nel proprio peccato». Perché «la salvezza viene soltanto dalla croce, ma da questa croce che è Dio fatto carne: non c’è salvezza nelle idee, non c’è salvezza nella buona volontà, nella voglia di essere buoni». In realtà, ha insistito il Papa, «l’unica salvezza è in Cristo crocifisso, perché soltanto lui, come il serpente di bronzo significava, è stato capace di prendere tutto il veleno del peccato e ci ha guarito lì».
«Ma cosa è la croce per noi?» è la questione posta da Francesco. «Sì, è il segno dei cristiani, è il simbolo dei cristiani, e noi facciamo il segno della croce ma non sempre lo facciamo bene, alle volte lo facciamo così... perché non abbiamo questa fede alla croce» ha evidenziato il Papa. La croce, poi, ha affermato, «per alcune persone è un distintivo di appartenenza: “Sì, io porto la croce per far vedere che sono cristiano”». E «sta bene», però «non solo come distintivo, come se fosse una squadra, il distintivo di una squadra»; ma, ha detto Francesco, «come memoria di colui che si è fatto peccato, che si è fatto diavolo, serpente, per noi; si è abbassato fino ad annientarsi totalmente».
Inoltre, è vero, «altri portano la croce come un ornamento, portano croci con pietre preziose, per farsi vedere». Ma, ha fatto presente il Pontefice, «Dio disse a Mosè: “Chi guarda il serpente sarà guarito”; Gesù dice ai suoi nemici: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete”». In sostanza, ha spiegato, «chi non guarda la croce, così, con fede, morirà nei propri peccati, non riceverà quella salvezza».
«Oggi — ha rilanciato il Papa — la Chiesa ci propone un dialogo con questo mistero della croce, con questo Dio che si è fatto peccato, per amore a me». E «ognuno di noi può dire: “per amore a me”». Così, ha proseguito, è opportuno domandarci: «Come porto io la croce: come un ricordo? Quando faccio il segno della croce, sono consapevole di quello che faccio? Come porto io la croce: soltanto come un simbolo di appartenenza a un gruppo religioso? Come porto io la croce: come ornamento, come un gioiello con tante pietre preziose d’oro?». Oppure «ho imparato a portarla sulle spalle, dove fa male?».
«Ognuno di noi oggi — ha suggerito il Pontefice a conclusione della sua meditazione — guardi il crocifisso, guardi questo Dio che si è fatto peccato perché noi non moriamo nei nostri peccati e risponda a queste domande che io vi ho suggerito».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 4 aprile 2017]
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manila]
The more we do for others, the more we understand and can appropriate the words of Christ: “We are useless servants” (Lk 17:10). We recognize that we are not acting on the basis of any superiority or greater personal efficiency, but because the Lord has graciously enabled us to do so [Pope Benedict, Deus Caritas est n.35]
Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono [Papa Benedetto, Deus Caritas est n.35]
A mustard seed is tiny, yet Jesus says that faith this size, small but true and sincere, suffices to achieve what is humanly impossible, unthinkable (Pope Francis)
Il seme della senape è piccolissimo, però Gesù dice che basta avere una fede così, piccola, ma vera, sincera, per fare cose umanamente impossibili, impensabili (Papa Francesco)
Hypocrisy: indeed, while they display great piety they are exploiting the poor, imposing obligations that they themselves do not observe (Pope Benedict)
Ipocrisia: essi, infatti, mentre ostentano grande religiosità, sfruttano la povera gente imponendo obblighi che loro stessi non osservano (Papa Benedetto)
Each time we celebrate the dedication of a church, an essential truth is recalled: the physical temple made of brick and mortar is a sign of the living Church serving in history (Pope Francis)
Ogni volta che celebriamo la dedicazione di una chiesa, ci viene richiamata una verità essenziale: il tempio materiale fatto di mattoni è segno della Chiesa viva e operante nella storia (Papa Francesco)
As St. Ambrose put it: You are not making a gift of what is yours to the poor man, but you are giving him back what is his (Pope Paul VI, Populorum Progressio n.23)
Non è del tuo avere, afferma sant’Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene (Papa Paolo VI, Populorum Progressio n.23)
Here is the entire Gospel! Here! The whole Gospel, all of Christianity, is here! But make sure that it is not sentiment, it is not being a “do-gooder”! (Pope Francis))
Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo! Ma guardate che non è sentimento, non è “buonismo”! (Papa Francesco)
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
don Giuseppe Nespeca
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