don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mercoledì, 23 Aprile 2025 03:39

Nasce e vive in una famiglia

Oggi, primo maggio, celebriamo san Giuseppe lavoratore e iniziamo il mese tradizionalmente dedicato alla Madonna. In questo nostro incontro, vorrei soffermarmi allora su queste due figure così importanti nella vita di Gesù, della Chiesa e nella nostra vita, con due brevi pensieri: il primo sul lavoro, il secondo sulla contemplazione di Gesù.

1. Nel Vangelo di san Matteo, in uno dei momenti in cui Gesù ritorna al suo paese, a Nazaret, e parla nella sinagoga, viene sottolineato lo stupore dei suoi paesani per la sua sapienza, e la domanda che si pongono: «Non è costui il figlio del falegname?» (13,55). Gesù entra nella nostra storia, viene in mezzo a noi, nascendo da Maria per opera di Dio, ma con la presenza di san Giuseppe, il padre legale che lo custodisce e gli insegna anche il suo lavoro. Gesù nasce e vive in una famiglia, nella santa Famiglia, imparando da san Giuseppe il mestiere del falegname, nella bottega di Nazaret, condividendo con lui l’impegno, la fatica, la soddisfazione e anche le difficoltà di ogni giorno.

Questo ci richiama alla dignità e all’importanza del lavoro. Il libro della Genesi narra che Dio creò l’uomo e la donna affidando loro il compito di riempire la terra e soggiogarla, che non significa sfruttarla, ma coltivarla e custodirla, averne cura con la propria opera (cfr Gen 1,28; 2,15). Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione. E qui penso alle difficoltà che, in vari Paesi, incontra oggi il mondo del lavoro e dell’impresa; penso a quanti, e non solo giovani, sono disoccupati, molte volte a causa di una concezione economicista della società, che cerca il profitto egoista, al di fuori dei parametri della giustizia sociale.

Desidero rivolgere a tutti l’invito alla solidarietà, e ai Responsabili della cosa pubblica l’incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione; questo significa preoccuparsi per la dignità della persona; ma soprattutto vorrei dire di non perdere la speranza; anche san Giuseppe ha avuto momenti difficili, ma non ha mai perso la fiducia e ha saputo superarli, nella certezza che Dio non ci abbandona. E poi vorrei rivolgermi in particolare a voi ragazzi e ragazze a voi giovani: impegnatevi nel vostro dovere quotidiano, nello studio, nel lavoro, nei rapporti di amicizia, nell’aiuto verso gli altri; il vostro avvenire dipende anche da come sapete vivere questi preziosi anni della vita. Non abbiate paura dell’impegno, del sacrificio e non guardate con paura al futuro; mantenete viva la speranza: c’è sempre una luce all’orizzonte.

Aggiungo una parola su un’altra particolare situazione di lavoro che mi preoccupa: mi riferisco a quello che potremmo definire come il “lavoro schiavo”, il lavoro che schiavizza. Quante persone, in tutto il mondo, sono vittime di questo tipo di schiavitù, in cui è la persona che serve il lavoro, mentre deve essere il lavoro ad offrire un servizio alle persone perché abbiano dignità. Chiedo ai fratelli e sorelle nella fede e a tutti gli uomini e donne di buona volontà una decisa scelta contro la tratta delle persone, all’interno della quale figura il “lavoro schiavo”.

2. Accenno al secondo pensiero: nel silenzio dell’agire quotidiano, san Giuseppe, insieme a Maria, hanno un solo centro comune di attenzione: Gesù. Essi accompagnano e custodiscono, con impegno e tenerezza, la crescita del Figlio di Dio fatto uomo per noi, riflettendo su tutto ciò che accadeva. Nei Vangeli, san Luca sottolinea due volte l’atteggiamento di Maria, che è anche quello di san Giuseppe: «Custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (2,19.51). Per ascoltare il Signore, bisogna imparare a contemplarlo, a percepire la sua presenza costante nella nostra vita; bisogna fermarsi a dialogare con Lui, dargli spazio con la preghiera. Ognuno di noi, anche voi ragazzi, ragazze e giovani, così numerosi questa mattina, dovrebbe chiedersi: quale spazio do al Signore? Mi fermo a dialogare con Lui? Fin da quando eravamo piccoli, i nostri genitori ci hanno abituati ad iniziare e a terminare la giornata con una preghiera, per educarci a sentire che l’amicizia e l’amore di Dio ci accompagnano. Ricordiamoci di più del Signore nelle nostre giornate!

E in questo mese di maggio, vorrei richiamare all’importanza e alla bellezza della preghiera del santo Rosario. Recitando l'Ave Maria, noi siamo condotti a contemplare i misteri di Gesù, a riflettere cioè sui momenti centrali della sua vita, perché, come per Maria e per san Giuseppe, Egli sia il centro dei nostri pensieri, delle nostre attenzioni e delle nostre azioni. Sarebbe bello se, soprattutto in questo mese di maggio, si recitasse assieme in famiglia, con gli amici, in Parrocchia, il santo Rosario o qualche preghiera a Gesù e alla Vergine Maria! La preghiera fatta assieme è un momento prezioso per rendere ancora più salda la vita familiare, l’amicizia! Impariamo a pregare di più in famiglia e come famiglia!

Cari fratelli e sorelle, chiediamo a san Giuseppe e alla Vergine Maria che ci insegnino ad essere fedeli ai nostri impegni quotidiani, a vivere la nostra fede nelle azioni di ogni giorno e a dare più spazio al Signore nella nostra vita, a fermarci per contemplare il suo volto. Grazie.

[Papa Francesco, Udienza Generale 1 maggio 2013]

Domenica, 20 Aprile 2025 19:51

Anche noi vogliamo «VederLo»

Domenica, 20 Aprile 2025 03:29

«Di là verrà a giudicare»

Genesi Rinascita Giudizio

(Gv 3,16-21)

 

Ogni uomo posto di fronte al Mistero non comprende bene ciò che sente, fino a quando non accetta la scommessa e s’introduce in una nuova esistenza.

La vecchia vita presenta solo conti da pagare, che sempre riemergono; viceversa, la nuova Chiamata soppianta le categorie di giudizio e le scelte normalizzate.

Si passa come attraverso uno svuotamento del cuore, che nella sua virtù cosmica e personale acquista un senso generativo.

La vita nello Spirito procede per nuove Nascite, e spira dove vuole. Non secondo un progresso scandito da meccanismi, ma in modo sconcertante.

Realtà presente e operante, sebbene inesplicabile - che però arricchisce, lasciandoci penetrare o piombare in un’altra configurazione.

Altro’ regno, che nel «Figlio dell’uomo» unisce i due mondi.

Livello di Eternità che immette chi l’accoglie nel rapporto unico col Padre e la sua Vita esuberante.

 

«Di là verrà a giudicare» è un articolo del Credo Apostolico:

Riuscita o fallimento della vita saranno valutate «dalla Croce», ossia con il criterio della nuova ‘percezione’, Dono di sé, e Rinnovo sino in fondo.

Rovesciamento di prospettive; capovolgimento di visuale.

Fonte di Speranza e nuovo scatto in avanti: dove l’umiliazione si tramuta in Nascita autentica e trionfo della Vita indistruttibile.

Questa la Beatitudine che scopre tesori nascosti e perle preziose dietro i nostri lati oscuri.

Qui perfino le persecuzioni dei nemici e dei beffardi diventano vettori che introducono difformi energie; ci obbligano a migliorare binario.

E s’immaginava che la vita divina appartenesse solo alla sfera celeste - invece giunge paradossalmente alla nostra portata.

 

Nicodemo sapeva: nel deserto molti erano caduti vittime d’insidie. Ma Gesù fa capire che gli israeliti non erano stati risanati gratuitamente da un’effigie di bronzo, bensì dall’aver ‘elevato lo sguardo’.

Il Segreto è «dall’Alto» (v.7), fuori scala.

Il Signore si rifà a tale episodio e lo interpreta come scenario del proprio insegnamento; simbolo della sua vicenda estrema.

È per una nuova Genesi del proprio essere e dei criteri per cui ci si gioca la vita, che il Crocifisso diventa punto di riferimento di ogni nostra scelta.

Chi lo contemplerà ha già in sé il senso pieno, acuto e totale delle Scritture, e la stessa Vita dell’Eterno.

 

Secondo lo stile rabbinico, Mt 25 ricorre all’immagine del Giudizio universale per richiamare l’importanza e le conseguenze delle scelte che facciamo.

Gv parla di un Giudizio che si attua nel Presente, che è ‘solo redenzione’ a nostro esclusivo favore: per una vita da salvati.

Secondo una Sapienza che fa udire non pochi pareri inattesi.

In tal guisa, pur impiegando sfondi e linguaggio differenti, sia Mt che Gv si ritrovano nella medesima «verità» (v.21). Il Giudizio viene pronunciato dalla Croce.

Le difformità si commisurano sin d’ora sulla Persona del Figlio. Il Giudizio è già iniziato.

 

 

[Mercoledì 2.a sett. Pasqua, 30 aprile 2025]

Domenica, 20 Aprile 2025 03:24

«Di là verrà a giudicare»

Genesi Rinascita Giudizio

Gv 3,16-21(7-21)

 

Ogni uomo posto di fronte al Mistero non comprende bene ciò che sente, fino a quando non accetta la scommessa e s’introduce in una nuova esistenza.

La vecchia vita presenta solo conti da pagare, che sempre riemergono; viceversa, la nuova Chiamata soppianta le categorie di giudizio e le scelte normalizzate.

Si passa come attraverso uno svuotamento del cuore.

Dice infatti il Tao [Via] Tê Ching (xxi):

«Il contenere di chi ha la virtù del vuoto, solo al Tao s’adegua. Per le creature il Tao è indistinto e indeterminato [...] nel suo seno racchiude le immagini [...] nel suo seno racchiude gli archetipi [...] nel suo seno racchiude l’essenza dell’essere! Questa essenza è assai genuina [...] e così acconsente a tutti gli inizi».

Fuori della Via cosmica e personale l’esistenza dell’uomo non ha un senso generativo.

Anche la vicenda spirituale dell’esperto e ben inserito ristagna fino a non poter più tacitare le grandi domande di senso, la sua fiction, o l’accidia.

La vita nello Spirito procede per nuove Nascite e spira dove vuole.

Non secondo un progresso scandito da meccanismi, maniere, perbenismi, abilità, o libretti d’istruzione: in modo sconcertante - ma porta diverso refrigerio, e Pace anche repentina.

È una realtà presente e operante, sebbene inesplicabile - che però arricchisce, lasciandoci penetrare o piombare in un’altra configurazione della realtà.

Altro regno, che nel «Figlio dell’uomo» unisce i due mondi.

 

Nicodemo era maestro del solo Testamento Antico. Egli controllava ogni stagnazione o progresso comparandoli alla sapienza delle cose di Dio su una base di attese più che conosciute.

Ma non di rado la nostra crescita procede a visioni e balzi - neppure secondo “intelligenza” naturale. Figuriamoci per la vita spirituale.

Non basta esercitarsi e andare d’accordo con le idee dei padri o ielle alla moda, né rimanere concordi a propositi normali.

Assimilare saperi altrui e acquisire perizie già attese è non di rado cianfrusaglia che blocca i veri sviluppi - quelli che ci appartengono.

Purtroppo, nella vita religiosa si procede spesso in modo meccanico, e sembra non vi sia bisogno alcuno di lasciarsi salvare o sorprendere dagli accadimenti.

Al massimo ci si espone a qualche venticello, schiavo di linguaggi terrestri, limitato alla dimensione di “fenomeni” tutti rasoterra - che escludono e liquidano Cristo.

Nell’avventura di Fede battistrada, che disorienta, il Progetto divino e l’Opera radicale del Figlio non si dispiegano in modo ragionevole, bensì per Amore senza misura.

Livello di Eternità che immette chi l’accoglie nel tu-per-tu unico col Padre e la sua Vita esuberante.

L’unità di misura dello Spirito è differente da quella delle consuetudini concordi. Il suo impeto è Vento inafferrabile, “visibile” solo negli effetti ecclesiali e personali.

Il Segreto è «dall’Alto» (v.7), fuori scala. Si annida nella imprevedibilità di crocevia, eccedenze, e nuove creazioni.

La Beatitudine non procede per argomenti alla noia: sporge o impallidisce.

In tal guisa, si può avere spesso in mano l’Eucaristia o le Scritture e non comprendere che la strada già battuta può dare solo illusioni di dottorato spirituale.

 

«Di là verrà a giudicare» è un articolo del Credo Apostolico.

Riuscita o fallimento della vita saranno valutate «dalla Croce», ossia con il criterio della nuova percezione, Dono di sé e Rinnovo sino in fondo.

Rovesciamento di prospettive; capovolgimento di visuale.

Fonte di Speranza e nuovo scatto in avanti: dove l’umiliazione si tramuta in Nascita autentica e trionfo della Vita indistruttibile.

Questa la Beatitudine che scopre fioriture, tesori nascosti e perle preziose, dietro i nostri lati oscuri.

Qui perfino le persecuzioni dei nemici e dei beffardi diventano vettori che introducono difformi energie, ci obbligano a migliorare.

E s’immaginava che la vita divina appartenesse solo alla sfera celeste; invece giunge paradossalmente alla nostra portata.

 

Nicodemo sapeva: nel deserto molti erano caduti vittime d’insidie, ma Gesù fa capire che gli israeliti non erano stati risanati gratuitamente da un’effigie di bronzo, bensì dall’aver ‘elevato lo sguardo’.

Il Signore si rifà a tale episodio e lo interpreta come scenario del proprio insegnamento; simbolo della sua vicenda estrema.

Chi lo contemplerà ha già in sé il senso pieno, acuto e totale delle Scritture, e la stessa Vita dell’Eterno.

In tal senso è necessario «nascere dall’alto», spostare la percezione contemplativa, riconoscersi, e tenere gli occhi puntati sull’amore vero.

È per una nuova Genesi del proprio essere e dei criteri per cui ci si gioca la vita, che il Crocifisso diventa punto di riferimento di ogni nostra scelta.

Non per masochismo dolorista e finta consolazione. Non per usarlo come monile, e imbellettarsene.

Non amuleto; né emblema posto a forza sulle alture, che indicherebbe la conquista di territori.

Neppure la sacralizzazione d’un ambiente, o una figura “culturale”.

 

Secondo lo stile rabbinico, Mt 25 ricorre all’immagine del Giudizio universale per richiamare l’importanza e le conseguenze delle scelte che facciamo.

In Gv il tema del Giudizio sembra rovesciato: è come se fossimo noi a “giudicare” Dio - nel senso che al suo cospetto siamo e ci troveremo disarmati, riconoscendo che il suo Cuore è ben maggiore del nostro.

Così pure nell’esperienza della vita di Fede, che attira e apre il futuro impossibile.

Il quarto Vangelo infatti esclude che il Padre giudichi i figli. Gv parla di un Giudizio che si attua nel Presente, che è solo redenzione - a nostro esclusivo favore: per una vita da salvati.

“Quando” Dio agisce crea. Egli Giustifica: fa qualcosa di nuovo, globale, impareggiabile.

Non ripete. Fa nascere altre eccedenze, in solchi variegati, nella trama della storia, “imponendo” giuste posizioni - anzitutto dove giustizia non c’è.

Secondo una Sapienza che fa udire non pochi pareri inattesi.

 

Pur impiegando sfondi e linguaggio differenti, sia Mt che Gv si ritrovano nella medesima «verità» (v.21).

Il Giudizio viene pronunciato dalla Croce - secondo criteri difformi da quelli mondani, sempre precipitosi o manierati (e banalissimi).

Il Signore fa udire e vedere le sue opinioni, di fronte a qualsiasi accadimento e scelta - mettendo in guardia dalle opzioni di morte autentica.

L’opera di coloro che gestiscono assai male e sprecano la vita «finirà bruciata, e quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco» (1Cor 3,15).

Le difformità si commisurano sin d’ora sulla Persona del Figlio. Il Giudizio è già cominciato.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali ritieni siano state le tue Nascite? E le tue scelte autentiche?

Sei ancora nella direzione del venticello dei padri antichi o delle mode attorno?

Dispieghi le vele secondo la direzione del Vento dello Spirito, che butta all’aria le tue sicurezze, anche di gruppo o denominazionali?

Cosa ammiri, e cosa hai collocato “in alto” nella tua vita? È forse paglia già finita e bruciata?

Cosa finora ti ha esaltato, e pensavi invece potesse elevarti?

 

 

Ha tanto amato, e ha dato

 

«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Qui c’è il cuore del Vangelo, qui c’è il fondamento della nostra gioia. Il contenuto del Vangelo, infatti, non è un’idea o una dottrina, ma è Gesù, il Figlio che il Padre ci ha donato perché noi avessimo la vita. Gesù è il fondamento della nostra gioia: non è una bella teoria su come essere felici, ma è sperimentare di essere accompagnati e amati nel cammino della vita. “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio”. Soffermiamoci, fratelli e sorelle, un momento su questi due aspetti: “ha tanto amato” e “ha dato”.

Prima di tutto, Dio ha tanto amato. Queste parole, che Gesù rivolge a Nicodemo – un anziano giudeo che voleva conoscere il Maestro – ci aiutano a scorgere il vero volto di Dio. Egli da sempre ci ha guardati con amore e per amore è venuto in mezzo a noi nella carne del Figlio suo. In Lui ci è venuto a cercare nei luoghi in cui ci siamo smarriti; in Lui è venuto a rialzarci dalle nostre cadute; in Lui ha pianto le nostre lacrime e guarito le nostre piaghe; in Lui ha benedetto per sempre la nostra vita. Chiunque crede in Lui, dice il Vangelo, non va perduto (ibid.). In Gesù, Dio ha pronunciato la parola definitiva sulla nostra vita: tu non sei perduto, tu sei amato. Sempre amato.

Se l’ascolto del Vangelo e la pratica della nostra fede non ci allargano il cuore per farci cogliere la grandezza di questo amore, e magari scivoliamo in una religiosità seriosa, triste, chiusa, allora è segno che dobbiamo fermarci un po’ e ascoltare di nuovo l’annuncio della buona notizia: Dio ti ama così tanto da darti tutta la sua vita. Non è un dio che ci guarda indifferente dall’alto, ma è un Padre, un Padre innamorato che si coinvolge nella nostra storia; non è un dio che si compiace della morte del peccatore, ma un Padre preoccupato che nessuno vada perduto; non è un dio che condanna, ma un Padre che ci salva con l’abbraccio benedicente del suo amore.

E veniamo alla seconda parola: Dio “ha dato” il suo Figlio. Proprio perché ci ama così tanto, Dio dona sé stesso e ci offre la sua vita. Chi ama esce sempre da sé stesso – non dimenticatevi di questo: chi ama esce sempre da sé stesso. L’amore sempre si offre, si dona, si spende. La forza dell’amore è proprio questa: frantuma il guscio dell’egoismo, rompe gli argini delle sicurezze umane troppo calcolate, abbatte i muri e vince le paure, per farsi dono. Questa è la dinamica dell’amore: è farsi dono, darsi. Chi ama è così: preferisce rischiare nel donarsi piuttosto che atrofizzarsi trattenendosi per sé. Per questo Dio esce da sé stesso, perché “ha tanto amato”. Il suo amore è così grande che non può fare a meno di donarsi a noi. Quando il popolo in cammino nel deserto fu attaccato dai serpenti velenosi, Dio fece fare a Mosè il serpente di bronzo; in Gesù, però, innalzato sulla croce, Lui stesso è venuto a guarirci dal veleno che dà la morte, si è fatto peccato per salvarci dal peccato. Non ci ama a parole Dio: ci dona suo Figlio perché chiunque lo guarda e crede in Lui sia salvato (cfr Gv 3,14-15).

Più si ama e più si diventa capaci di donare. Questa è anche la chiave per comprendere la nostra vita. È bello incontrare persone che si amano, che si vogliono bene e condividono la vita; di loro si può dire come di Dio: si amano così tanto da dare la loro vita. Non conta solo ciò che possiamo produrre o guadagnare, conta soprattutto l’amore che sappiamo donare.

E questa è la sorgente della gioia! Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Da qui prende senso l’invito che la Chiesa rivolge in questa domenica: «Rallegrati [...]. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione» (Antifona d’ingresso; cfr Is 66,10-11). Ripenso a ciò che abbiamo vissuto una settimana fa in Iraq: un popolo martoriato ha esultato di gioia; grazie a Dio, alla sua misericordia.

A volte cerchiamo la gioia dove non c’è, la cerchiamo nelle illusioni che svaniscono, nei sogni di grandezza del nostro io, nell’apparente sicurezza delle cose materiali, nel culto della nostra immagine, e tante cose... Ma l’esperienza della vita ci insegna che la vera gioia è sentirci amati gratuitamente, sentirci accompagnati, avere qualcuno che condivide i nostri sogni e che, quando facciamo naufragio, viene a soccorrerci e a condurci in un porto sicuro.

[Papa Francesco, omelia in occasione dei 500 anni dell’evangelizzazione delle Filippine, 14 marzo 2021]

Domenica, 20 Aprile 2025 03:19

Solo da questa sorgente

“Dio è amore” (1 Gv 4,16): in questa semplice affermazione l’evangelista Giovanni ha racchiuso la rivelazione dell’intero mistero di Dio Trinità. E nell’incontro con Nicodemo Gesù, preannunciando la sua passione e morte in croce, afferma: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Abbiamo tutti bisogno di attingere alla fonte inesauribile dell’amore divino, che si manifesta a noi totalmente nel mistero della Croce, per trovare l’autentica pace con Dio, con noi stessi e con il prossimo. Solo da questa sorgente spirituale è possibile trarre quell’energia interiore indispensabile per sconfiggere il male e il peccato nella lotta senza pausa, che segna il nostro pellegrinaggio terreno verso la patria celeste.

[Papa Benedetto, Udienza corso Penitenzieria 16 marzo 2007]

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Liturgia delle Ore, vol. III, p. 601).

Ci presentiamo con il cuore trepidante e in umiltà davanti al grande mistero di Dio, che è amore. Oggi qui, a Gliwice, vogliamo esprimerGli la nostra lode ed insieme una immensa gratitudine.

E’ con grande gioia che vengo da voi, poiché mi siete cari. Tutto il popolo della Slesia è caro al mio cuore. Come metropolita di Kraków ogni anno andavo in pellegrinaggio alla Madonna di Piekary e là ci incontravamo per la comune preghiera. Apprezzavo molto ogni invito. Era sempre per me un’esperienza profonda. Però nella diocesi di Gliwice mi trovo per la prima volta, perché è una diocesi giovane istituita alcuni anni fa. Ricevete perciò il mio cordiale saluto, che rivolgo prima al vostro vescovo Jan e al vescovo ausiliare Gerard. Saluto anche il clero, le famiglie religiose, tutte le persone consacrate e il popolo fedele di questa diocesi. Sono lieto perché sul percorso del mio pellegrinaggio in Patria c’è anche Gliwice, una città che ho visitato più volte, alla quale mi legano speciali ricordi. Con grande gioia visito questa terra di uomini abituati al duro lavoro: è la terra del minatore polacco, la terra delle acciaierie, delle miniere e dei forni delle fabbriche, ma anche la terra che possiede una ricca tradizione religiosa. I miei pensieri e il mio cuore oggi si aprono a voi qui presenti, a tutti gli uomini dell’Alta Slesia e di tutta la terra di Slesia. Vi saluto tutti nel nome di Dio uno e trino.

2. "Dio è amore" (1 Gv 4, 16). Queste parole di San Giovanni evangelista costituiscono il tema guida del pellegrinaggio del Papa in Polonia. Alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000 bisogna che sia di nuovo trasmessa al mondo questa gioiosa e impressionante notizia su un Dio che ama. Dio è una realtà che sfugge alla nostra capacità di esauriente comprensione. Perché è Dio, non saremo in grado di comprendere con la nostra ragione la sua infinità, né di chiuderla nelle strette dimensioni umane. E’ Lui che ci valuta, che ci governa, ci guida e ci comprende, anche quando non ne siamo consapevoli. Però questo Dio, irraggiungibile nella sua essenza, si è fatto vicino all’uomo mediante il suo amore paterno. La verità su Dio che è amore costituisce quasi una sintesi e al contempo il culmine di tutto ciò che Dio ci ha rivelato su se stesso, di ciò che ci ha detto per mezzo dei Profeti e per mezzo di Cristo su ciò che egli è.

Dio ha rivelato questo amore in vari modi. Prima, nel mistero della creazione. La creazione è opera dell’onnipotenza di Dio, guidata dalla sapienza e dall’amore. “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà” - dirà Dio ad Israele per bocca del profeta Geremia (31, 3). Dio ha amato il mondo che ha creato, e in esso sopra ogni cosa ha amato l’uomo. E perfino quando l’uomo prevaricò contro questo amore originale, Dio non cessò di amarlo e lo alzò dalla caduta, poiché è Padre, poiché è Amore. Nel modo più perfetto e definitivo Dio ha rivelato il suo amore in Cristo - nella sua croce e nella sua risurrezione. San Paolo dirà: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo” (Ef 2, 4-5). Ho scritto nel messaggio di quest’anno per i giovani: “Il Padre vi ama”. Questa magnifica notizia è stata depositata nel cuore dell’uomo che crede, il quale come il discepolo prediletto di Gesù, poggia il capo sul petto del Maestro ed ascolta le sue confidenze: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).

“Il Padre vi ama” - queste parole del Signore Gesù costituiscono il centro stesso del Vangelo. Allo stesso tempo nessuno mette in risalto quanto Cristo il fatto che tale amore è esigente: “facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2, 8) ha insegnato nel modo più perfetto che l’amore attende la risposta da parte dell’uomo. Esige la fedeltà ai comandamenti e alla vocazione che l’uomo ha ricevuto da Dio.

3. “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4, 16).

Mediante la grazia, l’uomo è chiamato all’alleanza con il suo Creatore, a dare la risposta di fede e di amore che nessun’altro può dare al posto suo. Tale risposta non è mancata qui, nella Slesia. L’avete data a Dio per secoli interi con la vostra vita cristiana. Nella storia sempre siete stati uniti alla Chiesa e ai suoi Pastori, fortemente attaccati alla tradizione religiosa dei vostri avi. In modo particolare il lungo periodo del dopoguerra, fino ai cambiamenti, avvenuti nel nostro paese nel 1989, era tempo anche per voi di una grande prova di fede. Avete fedelmente perseverato presso Dio, resistendo all’ateizzazione e alla laicizzazione della nazione e alla lotta contro la religione. Mi ricordo come migliaia di operai della Slesia ripetevano con fermezza, nel Santuario di Piekary, il motto: “La Domenica è di Dio e nostra”. Sempre avete avvertito il bisogno della preghiera e dei luoghi da cui essa può meglio innalzarsi. Perciò non vi è mancata la volontà di spirito e la generosità per adoperarvi nella costruzione di nuove chiese e di luoghi di culto, che sono sorti numerosi in quel tempo nelle città e nei villaggi dell’Alta Slesia. Vi stava a cuore anche il bene della famiglia. Per questo reclamavate i diritti ad essa dovuti, specialmente quello della libera educazione nella fede dei vostri figli e dei giovani. Spesso vi radunavate nei santuari e in molti altri luoghi cari al vostro cuore, per esprimere l’attaccamento a Dio e per rendergli testimonianza. Invitavate anche me a queste comuni celebrazioni nella Slesia. Tanto volentieri vi annunciavo la parola di Dio, perché avevate bisogno di essere confortati nel difficile periodo di lotte per la conservazione dell’identità cristiana, per avere la forza di obbedire “a Dio piuttosto che agli uomini” (cfr At 5, 29).

Guardando al passato, oggi rendiamo grazie alla Provvidenza per questo esame sulla fedeltà a Dio e al Vangelo, alla Chiesa e ai suoi Pastori. Questo era anche un esame sulla responsabilità per la nazione, per la Patria cristiana e per il suo millenario patrimonio, che nonostante tutte le grandi prove non subì la distruzione o l’oblio. Accadde così perché “avete riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” e avete voluto rispondere sempre con amore a Dio.

4. “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte” (cfr Sal 1, 1-2).

Abbiamo ascoltato queste parole del Salmista nella breve lettura durante i Vespri di oggi. Rimanete fedeli all’esperienza delle generazioni, che vissero in questa terra con Dio nel cuore e con la preghiera sulle labbra. Nella Slesia vinca sempre la fede e la sana moralità, il vero spirito cristiano e il rispetto dei comandamenti divini. Conservate ciò che era fonte di forza spirituale per i vostri padri come il più grande tesoro. Essi sapevano includere Dio nella loro vita e in Lui sconfiggere tutte le manifestazioni del male. Eloquente simbolo di ciò è il saluto “Dio ti sia propizio!” che è proprio dei minatori. Sappiate conservare il cuore sempre aperto ai valori annunziati dal Vangelo, custoditeli; essi decidono della vostra identità.

Cari Fratelli e Sorelle, volevo anche dirvi che conosco le vostre difficoltà, i timori e le sofferenze che ora state vivendo; i timori e le sofferenze che sperimenta il mondo del lavoro in questa diocesi e in tutta la Slesia. Mi rendo conto dei pericoli uniti a questo stato di cose specialmente per molte famiglie e per tutta la vita sociale. E' necessaria un’attenta considerazione sia delle cause di tali pericoli che delle possibili soluzioni. Ho già parlato di ciò durante questo pellegrinaggio a Sosnowiec. Oggi mi rivolgo un’altra volta a tutti i miei connazionali nella Patria. Costruite il futuro della nazione sull’amore di Dio e degli uomini, sul rispetto dei comandamenti di Dio e sulla vita di grazia. E’ felice infatti l’uomo, è felice la nazione, che si compiace della legge del Signore.

La consapevolezza che Dio ci ama, dovrebbe sollecitare all’amore per gli uomini, di tutti gli uomini senza alcuna eccezione e senza alcuna divisione in amici e nemici. L’amore per l’uomo consiste nel desiderare per ognuno il vero bene. Consiste anche nella premura per garantire questo bene e respingere ogni forma di male e di ingiustizia. Bisogna sempre e con perseveranza cercare le vie di un giusto sviluppo per tutti, per "rendere - come dice il Concilio - più umana la vita dell’uomo” (cfr Gaudium et spes, 38). Abbondino nel nostro paese l’amore e la giustizia, producendo ogni giorno frutti nella vita della società. Soltanto grazie ad esse questa terra può diventare una casa felice. Senza un grande ed autentico amore non c’è casa per l’uomo. Pur raggiungendo grandi successi nel campo dello sviluppo materiale, senza di esso sarebbe condannato ad una vita priva di vero senso.

“L’uomo è la sola creatura sulla terra che Dio abbia voluto per se stesso” (cfr Gaudium et spes, 24). E’ stato chiamato a partecipare alla vita di Dio, è stato chiamato alla pienezza di grazia e di verità. La propria grandezza, il valore e la dignità della propria umanità egli la trova proprio in questa vocazione.

Dio che è amore, sia la luce della vostra vita per oggi e per i tempi che verranno. Sia la luce per tutta la nostra Patria. Costruite un futuro degno dell’uomo e della sua vocazione.

Depongo voi tutti, le vostre famiglie e i vostri problemi ai piedi della Madre Santissima, che è venerata in molti santuari di questa diocesi e in tutta la Slesia. Essa insegni l’amore di Dio e dell’uomo, come lo ha praticato Lei nella sua vita.

A tutti “Dio vi sia propizio”!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Gliwice 15 giugno 1999]

Domenica, 20 Aprile 2025 02:56

Ha tanto amato, e ha dato

«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Qui c’è il cuore del Vangelo, qui c’è il fondamento della nostra gioia. Il contenuto del Vangelo, infatti, non è un’idea o una dottrina, ma è Gesù, il Figlio che il Padre ci ha donato perché noi avessimo la vita. Gesù è il fondamento della nostra gioia: non è una bella teoria su come essere felici, ma è sperimentare di essere accompagnati e amati nel cammino della vita. “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio”. Soffermiamoci, fratelli e sorelle, un momento su questi due aspetti: “ha tanto amato” e “ha dato”.

Prima di tutto, Dio ha tanto amato. Queste parole, che Gesù rivolge a Nicodemo – un anziano giudeo che voleva conoscere il Maestro – ci aiutano a scorgere il vero volto di Dio. Egli da sempre ci ha guardati con amore e per amore è venuto in mezzo a noi nella carne del Figlio suo. In Lui ci è venuto a cercare nei luoghi in cui ci siamo smarriti; in Lui è venuto a rialzarci dalle nostre cadute; in Lui ha pianto le nostre lacrime e guarito le nostre piaghe; in Lui ha benedetto per sempre la nostra vita. Chiunque crede in Lui, dice il Vangelo, non va perduto (ibid.). In Gesù, Dio ha pronunciato la parola definitiva sulla nostra vita: tu non sei perduto, tu sei amato. Sempre amato.

Se l’ascolto del Vangelo e la pratica della nostra fede non ci allargano il cuore per farci cogliere la grandezza di questo amore, e magari scivoliamo in una religiosità seriosa, triste, chiusa, allora è segno che dobbiamo fermarci un po’ e ascoltare di nuovo l’annuncio della buona notizia: Dio ti ama così tanto da darti tutta la sua vita. Non è un dio che ci guarda indifferente dall’alto, ma è un Padre, un Padre innamorato che si coinvolge nella nostra storia; non è un dio che si compiace della morte del peccatore, ma un Padre preoccupato che nessuno vada perduto; non è un dio che condanna, ma un Padre che ci salva con l’abbraccio benedicente del suo amore.

E veniamo alla seconda parola: Dio “ha dato” il suo Figlio. Proprio perché ci ama così tanto, Dio dona sé stesso e ci offre la sua vita. Chi ama esce sempre da sé stesso – non dimenticatevi di questo: chi ama esce sempre da sé stesso. L’amore sempre si offre, si dona, si spende. La forza dell’amore è proprio questa: frantuma il guscio dell’egoismo, rompe gli argini delle sicurezze umane troppo calcolate, abbatte i muri e vince le paure, per farsi dono. Questa è la dinamica dell’amore: è farsi dono, darsi. Chi ama è così: preferisce rischiare nel donarsi piuttosto che atrofizzarsi trattenendosi per sé. Per questo Dio esce da sé stesso, perché “ha tanto amato”. Il suo amore è così grande che non può fare a meno di donarsi a noi. Quando il popolo in cammino nel deserto fu attaccato dai serpenti velenosi, Dio fece fare a Mosè il serpente di bronzo; in Gesù, però, innalzato sulla croce, Lui stesso è venuto a guarirci dal veleno che dà la morte, si è fatto peccato per salvarci dal peccato. Non ci ama a parole Dio: ci dona suo Figlio perché chiunque lo guarda e crede in Lui sia salvato (cfr Gv 3,14-15).

Più si ama e più si diventa capaci di donare. Questa è anche la chiave per comprendere la nostra vita. È bello incontrare persone che si amano, che si vogliono bene e condividono la vita; di loro si può dire come di Dio: si amano così tanto da dare la loro vita. Non conta solo ciò che possiamo produrre o guadagnare, conta soprattutto l’amore che sappiamo donare.

E questa è la sorgente della gioia! Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Da qui prende senso l’invito che la Chiesa rivolge in questa domenica: «Rallegrati [...]. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione» (Antifona d’ingresso; cfr Is 66,10-11). Ripenso a ciò che abbiamo vissuto una settimana fa in Iraq: un popolo martoriato ha esultato di gioia; grazie a Dio, alla sua misericordia.

A volte cerchiamo la gioia dove non c’è, la cerchiamo nelle illusioni che svaniscono, nei sogni di grandezza del nostro io, nell’apparente sicurezza delle cose materiali, nel culto della nostra immagine, e tante cose... Ma l’esperienza della vita ci insegna che la vera gioia è sentirci amati gratuitamente, sentirci accompagnati, avere qualcuno che condivide i nostri sogni e che, quando facciamo naufragio, viene a soccorrerci e a condurci in un porto sicuro.

[Papa Francesco, omelia in occasione dei 500 anni dell’evangelizzazione delle Filippine, 14 marzo 2021]

Domenica, 13 Aprile 2025 20:43

Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua

Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua

GIOVEDÌ SANTO [17 aprile 2025]

 

Carissimi Invio un testo per meditare il mistero del Giovedì sacerdotale, uno per contemplare il dono della Croce mistero di passione e di gloria per il Venerdì santo, e una nota che può interessare sulla Veglia pasquale di cui sarebbe importante recuperare il senso e valore teologico e pastorale.

Piuttosto che fornire come di consueto un commento per ogni lettura biblica, preferisco proporre una meditazione su Gesù che lava i piedi ai discepoli perché è un gesto che ci introduce nel cuore del mistero del Giovedì Santo. 

 

1. Eucaristia dono e servizio di amore

Punto di partenza è questo testo di sant’Agostino: “Surge et ambula: homo Christus tua vita est, Deus Christus patria tua est. Alzati e cammina: l’uomo Cristo è la tua vita, Cristo Dio è la tua patria (sant. Agostino, Discorso 375c)

Il quarto vangelo non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, ma approfondisce la testimonianza dei sinottici precisando che cosa Cristo voleva donarci nel mistero-sacramento eucaristico. Al posto delle parole dell’istituzione l’evangelista pone il racconto della lavanda dei piedi per indicare il senso e lo scopo del mistero eucaristico che è vivere nell’amore reciproco sull’esempio di Gesù. La lavanda dei piedi non sostituisce quindi il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia fatta da Matteo, Marco e Luca, ma intende presentarla come dono e servizio d’amore. Benedetto XVI invita a non fermarsi sulle differenze dei vangeli quando narrano l’ultima Cena: “per Giovanni, è Cena d’addio mentre per i sinottici è Cena Pasquale”. Scrive infatti che una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma Gesù ha rivelato in questo contesto la novità della sua Pasqua. Anche se il convito con gli apostoli non è stato una Cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la stretta connessione con la morte e la risurrezione di Cristo. Era la Pasqua di Gesù nella quale ha donato sé stesso e così ha veramente celebrato con loro la Pasqua. In questo modo non è stato negato l’antico, ma l’ha condotto al suo pieno compimento (cf. Gesù di Nazaret, II, p. 130). L’essenziale è fare costante memoria che quella sera Gesù celebrò la sua, la vera Pasqua. Ci aiuta a meglio focalizzare questa verità la liturgia con la sequenza “Lauda Sion” composta da san Tommaso d’Aquino in occasione della festa del Corpus Domini nel 1264: “Novae cenae novus rex, novae paschae novus lex, vetus transit observantia. La prima santa Cena è il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge e l’antico è giunto al termine”. Prosegue poi la sequenza: “Quod in cena Christus gessit - faciendum hoc espressit - in sui memoriam. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena - noi lo rinnoviamo”.

 

2. La forza dirompente della nuova Pasqua

La lavanda dei piedi ci aiuta proprio a comprendere la forza dirompente della “nuova Pasqua”. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).  Terminata la vita pubblica, Gesù lascia ai suoi avversari la “Pasqua dei giudei” e si prepara a celebrare la “sua” Pasqua con pochi prescelti e fra gli apostoli c’è il traditore. Che momento di grande sofferenza! Eppure Giovanni presenta quest’ora colma di dolore e tragicità come il momento atteso da Cristo, come “l’ora della gloria”. Scrive ancora Benedetto XVI che ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metàbasis) ed amore (agàpe). Due parole che si interpretano e spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Il passaggio è una trasformazione perché Cristo reca con sé la sua carne, il suo essere uomo. Donando sé stesso sulla croce la trasforma, trasforma l’uccisione in dono d’amore sino al colmo, fino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla croce: tutto è stato portato a termine, “è compiuto” (Gv 19, 30). Mediante il suo amore la croce, strumento di morte, diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione siamo tutti coinvolti e anche la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione.

Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto (cf Gv 13, 2-5). Con piena consapevolezza il Signore si accinge a compiere il grande e umile gesto della lavanda dei piedi. Sull’ultima Cena Giovanni non fornisce molti particolari, annota soltanto mentre cenavano, che è anche traducibile con “quando la cena era pronta”, oppure: “terminata la cena”. L’evangelista non è molto interessato ai dettagli di quel pasto e preferisce sorprenderci con la scelta inaspettata di Gesù. L’interruzione della cena per lavare i piedi è un fatto che disturba e stimola a riflettere per cercare le ragioni di tale scelta. 

 

2. Otto verbi per capire questo rito inusuale e imprevisto

La nostra attenzione è provocata a capire quel suo gesto meditando anche sulla sua minuziosa descrizione compiuta con ben otto verbi: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino, cominciò a lavare i piedi, li asciugò, riprese le vesti” dopo di che si siede di nuovo pronto a spiegarne il significato. San Giovanni accumula i verbi senza ripetersi perché il gesto di Gesù rimanga impresso nella mente del lettore dato che intende mostrare che il vero amore si traduce sempre in azioni concrete di gratuito servizio. Ecco allora Gesù che si spoglia e si cinge di un grembiule ricordandoci ciò che leggiamo in san Luca: “Ecco io sto in mezzo voi come uno che serve” (22,27). Il deporre le vesti esprime simbolicamente anche l’imminente dono della vita. Facendo questo vuole coinvolgere, partendo da Pietro, tutti i discepoli e anche ciascun credente: quindi anche noi.

A una prima valutazione questo rito inusuale e imprevisto appare come un invito a lasciarci purificare sempre e di nuovo dall’acqua fresca e salutare della sua parola e del suo amore. Si tratta di un “segno” autorevole perché il gesto e le parole sono sostanziate dal dono di sé stesso fin oltre la morte. Poche ore dopo infatti mentre ormai esanime giace in croce, il colpo di lancia di un soldato farà uscire dal suo costato sangue insieme ad acqua (cf Gv19,34) mostrando il suo corpo trafitto quale dono totale oltre la morte. Le parole di Cristo sono molto più di una semplice comunicazione; sono piuttosto carne e sangue per la vita del mondo poiché Gesù stesso è il Verbo fatto carne (Gv1,14) e la sua parola è vita che si dona, presenza reale, pane che fa vivere. In ogni sacramento celebrato in fedeltà alla sua parola, Cristo s’inginocchia e purifica la nostra vita.

 

3. L’opera di Dio a favore dell’uomo parte dal basso

Nel lavare i piedi Gesù presenta il servizio vicendevole, ispirato dall’amore, come il tramite indispensabile per mantener viva la sua presenza nella nuova Comunità nella quale i discepoli avranno il compito di creare condizioni di libertà e di uguaglianza, ponendosi ognuno a servizio dell’altro. L’opera di Dio a favore dell’uomo non viene dall’alto come un’elemosina, ma parte dal basso per innalzare l’uomo al livello divino. Così fa Gesù, Il leader indiscusso, che abbandona il suo ruolo per mettersi al disotto dei suoi discepoli: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Svuotò sé stesso (ekenosen): Cristo si è spogliato volontariamente della sua gloria divina per farsi servo, per entrare nella condizione umana con umiltà, debolezza e vulnerabilità, “obbediente fino alla morte”. 

Non facciamo fatica a capire Pietro che è disorientato, incapace di accettare quanto il Signore sta compiendo, anzi lo rifiuta del tutto. “Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!” (Gv 13,6-9). Pietro esprime perfettamente l’atteggiamento degli Undici che, dopo essere stati con lui per anni, pensano di conoscere tutto di Gesù. Pietro però, probabilmente interpretando il pensiero degli altri, non sa ancora dove il Maestro vuole arrivare amando “sino alla fine” e per questo Gesù gli ribadisce l’importanza del gesto perché tutti comprendano: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Nella sua azione educativa il divino Maestro prima insegna con i fatti, poi spiega a parole. Anzi, in verità, non spiega o spiega molto poco procedendo per affermazioni; non condanna, ma fa capire quanto è perdente chi pensa ed agisce come Pietro che non vuole lasciarsi lavare i piedi e quindi non avrà parte con lui.  Che dramma essere separati da Colui che ti ama “fino alla fine”!

Gesù però è paziente nell’attesa, sa che può essere lungo il tempo necessario per comprendere e mettere in pratica il suo vangelo. Osservando come educa Pietro possiamo imparare ad agire come lui desidera, restando alla sua scuola da discepoli umili e fedeli.

 

4. L’esempio di Cristo fonda e accompagna la nostra azione educativa

La lavanda dei piedi è per noi il modello da ben intteriorizzre e mettere in pratica. Questo perché siamo in presenza di un sacramentum che è al tempo stesso exemplum. Sacramentum cioè mistero di Cristo e forza che ci trasforma in una nuova forma di essere, rinvigorendoci con energia di vita nuova. Exemplum perché Cristo resta colui che si dona e sempre continuamente ci precede. La radice dell’etica cristiana non sta anzitutto nella nostra capacità morale, ma nel dono di Dio a noi. Sta nel dono gratuito di Dio la ragione per la quale l’atto centrale del nostro essere cristiani è l’Eucaristia: cioè gratitudine infinita per la vita nuova che la Santissima Trinità ci comunica con la  morte e risurrezione di Cristo. Ne consegue che il Mandatum Novum consiste nell’amare insieme a colui che ci ha amati per primo e mai prescindendo da questa verità. Come per Pietro, anche a ognuno di noi tocca imparare che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra immagine di grandezza e che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale spoliazione del proprio io. E questo va sempre di nuovo ribadito perché siamo costantemente tentati di cercare il Dio del potere e del successo, o addirittura dei compromessi, e non quello della Passione. E’ sempre faticoso e difficile, come osservava Benedetto XVI, rendersi conto che il Pastore viene come un Agnello immolato che si dona e, con questo stile, ci conduce al pascolo giusto.

Giovanni Papini, uno scrittore convertito del XX secolo, nella sua geniale e dallo stile vibrante e viscerale  “Vita di Cristo” mette in luce un collegamento tra la lavanda dei piedi e la missione degli apostoli. Egli scrive: «Gli Undici, al di là della sorda natura, avevano qualche diritto al beneficio della lavanda. Per settimane di mesi quei piedi avevano camminato le polverose, le fangose, le merdose strade della Giudea per seguire colui che dava la vita. E dopo la sua morte dovranno camminare, anni ed anni, su strade più lunghe, più malnote, in paesi de’ quali non sanno, oggi, neppure il nome. E la mota straniera lorderà, attraverso i calzari, i piedi di coloro che andranno, come pellegrini e forestieri a ripeter la chiamata del Crocifisso». Probabilmente Papini si collega ad Agostino che in modo più elegante e pacato, aveva presentato la lavanda dei piedi come un diritto e una necessità per tutti gli evangelizzatori. Per Agostino la lavanda, oltre ad essere un gesto esemplare per educare i discepoli, è anche un aiuto per gli apostoli nel loro compito di evangelizzatori. Scrive in proposito: «Quando noi, chiesa, annunciamo il vangelo, o Cristo, camminiamo sulla terra e ci sporchiamo i piedi per venire ad aprirti la porta [per farti entrare nel cuore delle persone che ci hai affidate]. Quando ti predichiamo, camminiamo con i piedi in terra per venire ad aprirti la porta. Lava i nostri piedi che...si sono sporcati camminando sulla terra per venire ad aprirti» (Omelia 57 su Gv).

 

5. Il Giovedì Santo occasione per purificare il servizio sacerdotale

In definitiva per noi sacerdoti il Giovedì Santo è occasione quanto mai propizia per domandare a Gesù di purificare il nostro servizio sacerdotale. Alla fine di faticose giornate di lavoro apostolico ci accorgiamo di esserci “sporcati i piedi” per aver dato troppa importanza a noi stessi così da rendere più difficile l’incontro di Cristo con le persone. Sentiamo risuonare in noi le sue parole: “Vi ho dato l’esempio perché come (kathòs) ho fatto io, facciate anche voi” (Gv13,13). Kathòs si può tradurre come, ma qui ha un significato speciale: indica un’azione che produce un effetto voluto ed è come se Gesù dicesse: facendo questo io rendo possibile anche a voi di agire come me nel servire i fratelli. Mentre i sinottici hanno trasmesso il suo comando “Fate questo in memoria di me”, riferendosi al gesto della “consacrazione” (Lc22,19; Mt26,26; Mc14,22), Giovanni ricorda che la nuova comunità dei suoi discepoli dovrà rendere presente il suo Signore anche nel servizio reciproco oltre che nel culto eucaristico: “Sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17). Nel quarto vangelo troviamo scritte soltanto due beatitudini: questa è la prima rivolta direttamente agli apostoli presenti; l’altra sarà proclamata otto giorni dopo la risurrezione e riguarda specialmente i futuri discepoli: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 29). Entrambe sono necessarie soprattutto per noi, sacerdoti, scelti da lui per proseguirne la missione: saremo beati solo se uniremo la pratica della carità alla saldezza della fede. 

In sintesi, il gesto di Cristo della lavanda dei piedi mostra in maniera visibile che l'amore deve tradursi in accoglienza fraterna, ospitalità e perdono conservando sempre lo stile e lo spirito del servizio da lui affidato agli apostoli, un ministero d’amore umile, gratuito fondato sempre su di lui. In definitiva si tratta di una vocazione a “lavare i piedi” nel cuore del mondo. 

Origene, vissuto tra il 185 e il 253/254, Padre della Chiesa di lingua greca, maestro di teologia spirituale e allegorica scrive in una sua omelia: «Gesù, vieni, ho i piedi sporchi. Per me fatti servo, versa l'acqua nel bacile; vieni, lavami i piedi. Lo so, è temerario quel che ti dico, ma temo la minaccia delle tue parole: Se non ti laverò, non avrai parte con me. Lavami dunque i piedi, perché abbia parte con te» (Omelia 5 su Isaia). E sant’Ambrogio, vescovo di Milano (339-397) e uno dei più importanti Padri della Chiesa latina, teologo dal taglio pastorale e spirituale, c’insegna a pregare così: «O mio signore Gesù, lasciami lavare i tuoi sacri piedi; te li sei sporcati da quando cammini nella mia anima... Ma dove prenderò l'acqua della fonte per lavarti i piedi? In mancanza di essa mi restano gli occhi per piangere: bagnando i tuoi piedi con le mie lacrime, fa' che io stesso rimanga purificato» (La penitenza, II, cap. 7). Infine, Jacques Dupont, monaco certosino, priore della certosa di Serra san Bruno e procuratore generale dell’ordine certosino (1993-2014), morto il 13 gennaio 2019 osserva: «Solo chi accetta di farsi lavare i piedi può farlo ad un altro senza atteggiamento di superiorità».

 

 

VENERDÌ SANTO [18 Aprile 2025]

Per quest’oggi ecco una riflessione su “La croce, unica speranza del mondo” 

1. Cronaca di una morte violenta

Ogni Venerdì Santo la liturgia ripropone la proclamazione della Passione di Cristo secondo san Giovanni. A ben vedere è in ultima analisi la cronaca di una morte violenta ed episodi del genere, all’epoca come a oggi, fanno parte della cronaca quotidiana. Uccisioni di criminali, persone vittime di attentati, gente innocente colpita da disgrazie, incidenti d’auto o sul lavoro con perdite di vite umane, disastri creati da calamità naturali come il recente devastante sisma in Myanmar, uno dei più forti registrati nel paese in oltre un secolo, persone uccise a causa della loro fede. Sono tutte notizie che si susseguono rapidamente e durano poco nel panorama rapido quotidiano della pubblica opinione. Al contrario la crocifissione di Gesù di Nazaret, avvenuta oltre due millenni fa, continua ad essere un evento vivo come se avviene oggi e questo perché la sua morte ha cambiato per sempre il volto della morte; anzi ha dato un nuovo significato e senso alla morte. Vale la pena allora fermarsi a meditare su questa morte che ha vinto per sempre la morte.

 

2. Dal tempio distrutto sgorga sangue e acqua

Un giorno Gesù a Gerusalemme, rispondendo a chi chiedeva con quale autorità cacciasse i mercanti dal tempio, rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 19. 21), commenta l’evangelista Giovanni, ma i suoi interlocutori non capirono. Era in verità un segno anticipatore d’un altro evento che nel racconto della passione di Giovanni trova piena comprensione. A crocifissione compiuta, vedendo che era già morto, non spezzarono le gambe a Gesù come agli altri due crocifissi, ma “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco e subito uscì sangue e acqua” (Gv19, 32-34). Si coglie qui il riferimento alla profezia di Ezechiele che parlava del futuro tempio di Dio, dal fianco del quale sgorga un filo d’acqua che diventa un ruscello, quindi un fiume navigabile e intorno a cui fiorisce ogni forma di vita (cf. Ez 47, 1 ss.). Quel tempio “distrutto” da cui sgorgano acqua e sangue è il cuore di Cristo trafitto, sorgente di un “fiume di acqua viva” (Gv 7, 38). Il cuore di Cristo già morto è vivo perché ha vinto la morte; il Cristo risorto dalla morte è vivo e anche il suo cuore vive in una nuova dimensione non fisica ma mistica. Facile pure il rimando all'Agnello che vive in cielo “immolato, ma in piedi” di cui parla l’Apocalisse (5, 6). Cristo è l’Agnello di Dio che si è sacrificato, ma ora vive risorto e glorificato “in piedi come immolato”. Il suo cuore trafitto é vivente, anzi “eternamente trafitto, proprio perché eternamente vivente”. In ogni Venerdì Santo, a conclusione della celebrazione della Passione di Cristo, dopo il suo “consummatum est - è compiuto” Gesù chinato il capo consegna lo spirito (Gv19,30). L’espressione “Consummatum est” (dal greco Τετέλεσται, Tetélestai) è densa di significato: è il compimento totale della missione di Gesù che ha portato a termine l’opera affidatagli dal Padre, realizzando le Scritture e il piano della salvezza.

 

3. Cristo consegna lo spirito 

L’espressione latina “tradidit spiritum” (Gv19, 30) nella versione greca originale del Nuovo Testamento in greco koinè “παρέδωκεν τ πνεμα” (parédōken tò pneûma) significa “egli consegnò”, “egli affidò”. È il verbo παραδίδωμι, che implica un atto volontario di consegna, mentre τ πνεμα (tò pneûma) = “lo spirito” può significare sia il respiro vitale sia, in senso più profondo, lo Spirito Santo. Tutto ciò si compie perché Gesù offre la sua vita liberamente per la salvezza dell’intera umanità. Da qui ha origine la saldezza della speranza dei cristiani che non teme ostacolo e resiste a ogni contrasto da allora fino alla fine del mondo: nonostante l’ammassarsi nel cuore degli uomini e nelle strutture nel mondo una mole crescente del male che fa sembrare l’umanità abitata da un “cuore di tenebra”, il sacrifico di Cristo fa palpitare nell’universo un cuore vivo di luce: il suo Cuore. “Ora si compie il disegno del Padre –dice un’antifona della Liturgia delle ore -, fare di Cristo il cuore del mondo”: proprio da questa certezza prende vigore l’ottimismo di noi cristiani. Illuminati dalla parola di Dio scrutiamo la realtà con il metro della saggezza dello Spirito e, certi della vittoria di Cristo, possiamo proclamare con la beata Giuliana di Norwich: “Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene e tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene” (Giuliana di Norwich).

 

4. Stat crux dum volvitur orbis. “La Croce sta salda mentre il mondo gira”

I monaci certosini hanno adottato uno stemma che figura all’ingresso dei loro monasteri, come nei loro documenti ufficiali. In questo stemma è disegnato il globo terrestre, sormontato da una croce e contornato da questa frase: “Stat crux dum volvitur orbis”: resta immobile la croce tra gli sconvolgimenti del mondo. L’affermazione “Stat crux dum volvitur orbis” contiene una verità spirituale confortante: in mezzo al vortice del tempo, del caos, dell’instabilità del mondo, la Croce rimane l’unico punto fermo, l’asse attorno al quale ruota tutto. La Croce è veramente come l’albero maestro della nave nella tempesta del mondo e diversi autori cristiani hanno usato immagini navali proprio parlando della Croce: San Colombano (VI-VII sec.) scriveva: “Il mondo è come un mare in tempesta: se vuoi arrivare al porto, attacca il tuo sguardo al legno della Croce.” Origene (III sec.) commentando l’Arca di Noè, vede in essa un’immagine della salvezza e della Chiesa, e nel legno un riferimento alla Croce. Chi vi si aggrappa, non affonda nel diluvio del mondo. Sant’Ambrogio nella sua esegesi della vicenda di Noè e della traversata del Mar Rosso, parla della Croce come timone e vela della Chiesa: è la Croce che guida, orienta. In verità l’albero maestro, la struttura centrale che sostiene la vela di una nave, è figura perfetta della Croce perché tiene insieme la nave della vita: permette orientamento anche nella burrasca; essendo verticale, unisce terra e cielo e porta la vela dello Spirito, che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8). “Stat Crux, dum volvitur orbis” ci ricorda che la Croce non è un simbolo di sconfitta, ma di stabilità, direzione e speranza. Anche se tutto gira, anche se la vita è scossa dalle onde, la Croce è il centro fermo del mondo, l’asse del senso  di tutta la storia. Lo scrittore giapponese Shusaku Endõ, nel suo romanzo “Silenzio “(Chinmoku, 1966), ambientato nel contesto delle persecuzioni del XVI secolo, mostra la croce come paradosso vivente: strumento di morte, ma anche emblema di salvezza e di pace. La Croce di Cristo è il “No” definitivo e irreversibile di Dio alla violenza, all’ingiustizia, all’odio, alla menzogna, a tutto ciò che chiamiamo “il male”. Al tempo stesso è il “Si” totale e irreversibile all’amore, alla verità, al bene. “No” chiaro al peccato e “Si” al peccatore: questo è lo stile della vita e dell’azione di Gesù durante tutta la sua vita e che ora consacra definitivamente con la sua morte. Di tutto ciò è dimostrazione vivente il buon ladrone, a cui Gesù morente promette il paradiso. Bisogna aver sempre chiara questa distinzione: il peccatore è creatura di Dio e conserva la sua dignità, nonostante tutti i propri traviamenti, mentre il peccato è frutto delle passioni e istinti e della “invidia del demonio” (Sap 2, 24) e per questo incarnandosi, il Verbo ha assunto tutto dell’uomo, eccetto il peccato. Davanti al Cristo crocifisso tutti, ma veramente tutti anche i più disperati, possono recuperare la fiducia e nessuno dica come Caino: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono” (Gen 4, 13). La croce di Cristo non “sta” contro il mondo, ma per il mondo: dà senso e persino valore a ogni tipo di sofferenza umana. All’anziano Nicodemo Gesù confida che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 17) e la croce proclama in maniera viva la vittoria finale dell’Amore. Non vince chi è dominatore degli altri, ma chi trionfa su sé stesso, non chi ferisce e fa soffrire, ma chi soffre anche ingiustamente e perdona.

 

 5. La Croce speranza certa nell’era digitale e volatile

La Croce di Cristo resta segno di speranza certa “dum volvitur orbis”. Il mondo, fin dalla sua origine, è segnato da costanti e mutevoli sconvolgimenti. Dalla primitiva età della pietra siamo ora all’era del digitale e del numerico, dove i dati numerici sono diventati il cuore della comunicazione, della conoscenza, dell’economia e persino della cultura. Domina così la digitalizzazione massiva: ogni informazione (testi, immagini, suoni, azioni) è convertita in dati numerici (bit), l’automazione e algoritmi. Dalla finanza alla salute, tutto è gestito da sistemi numerici e intelligenze artificiali per cui il dato numerico è il nuovo “petrolio”, usato per profilare, prevedere, influenzare, molte anzi quasi tutte le attività: comunicazione, lavoro, relazioni. Ci si muove ovunque in ambienti digitali non fisici e l’interconnessione globale, grazie a reti digitali, crea un mondo istantaneamente connesso, ma purtroppo estremamente fragile. L’uomo rischia di essere ridotto a dato, a comportamento misurabile. La verità è ciò che può essere quantificato, calcolato e controllato. La libertà è sotto minaccia dalla sorveglianza algoritmica e l’idea di transizione non basta più a descrivere la realtà in atto. All’idea di mutazione oggi si associa quella di frantumazione in una società “liquida” cui si associa l’acronimo VUCA (volatilità, incertezza, complessità, ambiguità), dove non esistono punti fermi, valori indiscussi. Il risultato è che purtroppo non c’è nulla di stabile a cui aggrapparsi: si ci perde nel “nulla” che non è solo assenza, ma un vuoto esistenziale che spesso si riempie di ansia, disorientamento, oppure con un’attività frenetica che serve solo a mascherarlo. L’oceano digitale resta una realtà complessa, per alcuni versi affascinante ma pericolosa: offre possibilità e rischi imprevisti, per questo richiede attenzione, prudenza e responsabilità. Padre Cantalamessa, in una sua predicazione del Venerdì Santo in San Pietro, ha così descritto la nostra era: “ Tutto è fluttuante, anche la distinzione dei sessi. Si è realizzata la peggiore delle ipotesi che il filosofo aveva previsto come effetto della morte di Dio, quella che l’avvento del super-uomo avrebbe dovuto impedire, ma che non ha impedito: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125).  E aggiungeva l’ex predicatore della casa Pontificia: “È stato detto che “uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi”, ed è quello che in parte stiamo vedendo. Non è vero che “dove nasce Dio, muore l’uomo” (J.-P. Sartre); è vero il contrario: dove muore Dio, muore l’uomo. Salvador Dalì ha dipinto un crocifisso che sembra una profezia di questa situazione. Una croce immensa, cosmica, con sopra un Cristo, altrettanto monumentale, visto dall’alto, con il capo reclinato verso il basso. Sotto di lui, però, non c’è la terra ferma, ma l’acqua. Il Crocifisso non è sospeso tra cielo e terra, ma tra il cielo e l’elemento liquido del mondo. Questa immagine tragica contiene però anche una consolante certezza: c’è speranza anche per una società liquida come la nostra perché sopra di essa “sta la croce di Cristo”.

 

6. O crux, ave spes unica 

In ogni Venerdì Santo la Chiesa proclama la sua speranza, consapevolmente certa, con le parole del poeta Venanzio Fortunato: “O crux, ave spes unica”, Salve, o croce, unica speranza del mondo. Il Figlio di Dio che si è fatto uomo è morto ma non è più nella tomba: è risorto. Il giorno di Pentecoste Pietro proclama con forza alla folla: “Voi l’avete crocifisso ma Dio l’ha risuscitato!” (Atti 2, 23-24), Colui che “era morto, ora vive nei secoli” (Ap 1, 18). La croce non “sta” immobile in mezzo agli sconvolgimenti del mondo come ricordo di un evento passato o come un semplice simbolo, ma resta ben piantata nella storia come un evento di oggi, anzi di ogni istante perché Cristo vive con noi. Abbiamo tutti qualcosa di quel cuore di pietra di cui parla il profeta Ezechiele: “Strapperò da loro il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” (Ez 36, 26). Sì, è di pietra il cuore quando si chiude all’amore di Dio e diventa insensibile ai bisogni e alla sofferenza dei fratelli; quando si lascia sedurre dall’avidità di beni materiali ed è sordo al grido di chi non ha nemmeno un soldo per campare. Cuore di pietra è il mio quando mi lascio dominare dalle passioni e vivo di compromessi, falsità, violenza e impurità. S’indurisce il mio cuore, quando ripiegato su me stesso, m’impedisce di vivere per Cristo, che mi ha amato morendo per me. Il cuore mi fa tremare dinanzi alle tempeste improvvise che m’invadono e rischiano di precipitarmi nel buio della paura e dello scoraggiamento. In queste situazione può avvenire ciò che successe in contemporanea con la morte di Cristo: ”il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51s.). Anche in situazioni complesse come questa emerge un invito al coraggio della speranza. In una liturgia del Venerdì Santo, il papa san Leone Magno esortava così i fedeli: “Tremi la natura umana di fronte al supplizio del Redentore, si spezzino le rocce dei cuori infedeli e quelli che erano chiusi nei sepolcri della loro mortalità vengano fuori, sollevando la pietra che gravava su di loro” (Sermo 66, 3; PL 54, 366).  Il cuore di carne preannunciato dai profeti, è il Cuore di Cristo trafitto sulla croce, “il Sacro Cuore” che continua a vivere nel nostro cuore quando lo riceviamo nell’Eucarestia. Annota l’arcivescovo Fulton Sheen: “Per il paradosso più straordinario della storia del mondo, crocifiggendo Cristo hanno dimostrato che Lui aveva ragione e loro avevano torto, e sconfiggendolo hanno perso. Uccidendolo lo hanno trasformato: per la potenza di Dio hanno cambiato la mortalità in immortalità…Lo hanno umiliato sul Calvario, ed Egli è stato esaltato e si è innalzato sopra un sepolcro vuoto. Hanno seminato il Suo corpo nel disonore ed è risorto nella gloria; Lo hanno seminato nella debolezza ed è risorto nella potenza. Nel togliergli la vita, Gli hanno dato Nuova Vita…Rifate l’uomo e rifarete il mondo! (Fulton J. Sheen, da “Justice and Charity”)

 

 

VEGLIA PASQUALE [19 Aprile 2025]

Spero possa esservi utile questa breve ricerca sulla Veglia Pasquale che rischia di perdere il suo significato e diventare quasi come la messa anticipata alla sera del sabato. Ma così non deve essere almeno per la Veglia di Pasqua.  

 

La Veglia pasquale nella storia 

La Veglia pasquale ha una storia bimillenaria, pur con vicende alterne nei tre periodi della sua vita. Ecco un suo rapido excursus storico per capirne sempre più il valore e l’importanza. La sua storia nella tradizione secolare della Chiesa, da un lato esprime una continuità celebrativa costante, non venendo mai a mancare, dall’altro subisce un’ampia oscillazione di orario, che la rende per lunghi secoli priva di coerenza tra il suo simbolismo e l’ora in cui avrebbe dovuto essere celebrata. 

 

1. Primo periodo: la grande notte di Veglia

Ecco le principali tappe: - Primo periodo (II – IV sec.): la Veglia pasquale è la celebrazione base della Chiesa, la grande notte di Veglia in onore del Signore. Da essa si svilupperà in seguito tutto l’Anno Liturgico, come da sua sorgente e spartiacque. La Veglia antica occupa tutta l’estensione della notte: dal lucernale dei vespri alle prime luci dell’alba, quando con l’Eucaristia si compirà il Mistero e si realizzarà l’incontro sacramentale col Risorto, che in quell’ora apparve ai primi testimoni. È la pannukia pasquale, nella quale sono proclamate le principali pagine scritturistiche, delineando così una ampia panoramica della storia della salvezza, che avrà in Cristo morto e risorto il suo vertice e il suo compimento. In essa si conclude anche l’istruzione battesimale dei catecumeni con la proclamazione dei grandi eventi biblici, che richiamano il mistero della rigenerazione. È così che il Battesimo trova nella Veglia il luogo più adatto: si tratta di morire e risorgere con Cristo nel mistero dei segni sacramentali. In tal modo la Pasqua del Signore diventa anche la Pasqua dei cristiani, che passano dalla morte del peccato alla vita della grazia. Fin dai primi tempi, quindi la Veglia pasquale ospita i tre elementi fondamentali, che costituiranno una costante permanente in tutti i secoli: la Parola profetica, i Sacramenti della Iniziazione, il Sacrificio eucaristico. Il giorno domenicale successivo sarà senza liturgia, in quanto tutto si è concentrato nella celebrazione notturna, così solenne e prolungata. Del resto prima del secolo IV tale giorno è lavorativo e non consente celebrazioni. 

 

2. Secondo periodo: la Veglio pasquale slitta al pomeriggio

Secondo periodo (sec. IV – XVI). Con la libertà religiosa la Veglia pasquale tende ad uscire sempre più dalla notte e slittare gradualmente nel pomeriggio del Sabato santo. Sul versante opposto l’Eucaristia solenne di Pasqua entra nel pieno giorno della domenica, ormai riconosciuta come festiva, originando una seconda e più solenne messa, quella ‘ del giorno’, mentre l’antica Messa della Veglia fa corpo con i riti notturni e scende con essi verso la vigilia. Inizialmente i Padri tendono ad assicurare che il popolo non sia congedato prima della mezzanotte, intesa come ora discriminante per l’autenticità e verità della stessa Veglia pasquale. Tuttavia, nella concreta celebrazione, l’orario si sposta sempre più al pomeriggio del Sabato santo, anche se permane la raccomandazione di non dimettere il popolo prima della mezzanotte e che il Gloria in excelsis non sia intonato prima del comparire delle prime stelle. Gradualmente la Veglia si fissa tra l’ora sesta e il Vespro e in tal modo viene recepita giuridicamente dal Messale di Pio V, che prevede che la Veglia inizi dopo l’ora Sesta e si concluda col Vespro. Tuttavia fin da san Pio V nella pratica, anche in seguito all’abolizione delle Messe vespertine (1566) la Veglia è di fatto celebrata al mattino del sabato santo. La prassi è recepita dal Cerimoniale dei Vescovi ed è definita nel Codice di diritto Canonico del 1917, che fisserà che il termine del digiuno pasquale col mezzogiorno del sabato santo. Con queste indicazioni la Veglia arriva fino alla sua grande riforma con Pio XII nel 1951. “Non si può negare che queste successive anticipazioni avevano creato, se non una incrinatura nella compagine  unitaria del Triduo sacro, almeno uno stridente contrasto fra il mistero del giorno e le formule liturgiche che lo esprimono e che vi si sono sovrapposte. Ciò malgrado, la Chiesa manteneva i suoi riti, i quali conservano sempre per i fedeli la loro ragione storica-commemorativa e tutto il loro valore di simbolo e di mistero” (Righetti, vol. II, p. 252). Finché i tre santi giorni (Giovedì, Venerdì e Sabato Santo) erano civilmente festivi - anche se i riti erano ormai da secoli celebrati in orario mattutino e incompatibile con le Ore relative ai Misteri ricordati - continuarono ad essere frequentati dai fedeli, ma quando nel 1642 il Papa Urbano VIII dovette riconoscere questi giorni come lavorativi non fu più possibile la partecipazione del popolo cristiano ai riti del Triduo pasquale, che finirono per essere celebrati unicamente dal clero, con un’assolvenza più giuridica che pastorale. - Terzo periodo (dal 1955 ad oggi). 

 

3. La Veglia pasquale torna al suo tempo

Con la riforma di Pio XII la Veglia pasquale ritorna al suo tempo conveniente con indicazioni precise, che ne garantiscono la coerenza celebrativa. Infatti il Decreto di restauro della Veglia pasquale, Dominicae Resurrectionis vigiliam (9 febbraio1951) al n. 9 afferma: “La solenne veglia pasquale si deve tenere all’ora competente, tale cioè che permetta di cominciare la messa solenne della stessa veglia verso la mezzanotte tra il sabato santo e la domenica di Risurrezione”. La fermezza di questa disposizione, che avrebbe assicurato una sicura riuscita in quanto ad orario alla celebrazione del solenne rito, è stata purtroppo stemperata, fin dall’inizio, nel medesimo decreto, da una concessione, che si rivelerà in seguito riduttiva del carattere notturno della Veglia, consentendo la sua celebrazione alla sera del Sabato santo. “Però dove, date le condizioni del luogo e dei fedeli, a giudizio dell’Ordinario, convenga anticipare l’ora della veglia pasquale, questa non si cominci prima del crepuscolo, mai comunque prima del tramonto del sole” (Idem n. 9). Tale disposizione influisce negativamente ancor oggi su una Veglia pasquale che di fatto non è mai stata notturna, ma semplicemente serale. Infatti, dalla prassi celebrativa risulta che già nei primi anni (1951-1955) nelle parrocchie si fa uso della facoltà di anticipare la Veglia alla sera. Con la riforma del Vaticano II e in particolare con l’Istruzione Paschalis Sollemnitatis del 16 gennaio 1988, si cerca di insistere maggiormente su una Veglia che sia veramente notturna e si afferma: “L’intera celebrazione della veglia pasquale si svolge di notte; essa quindi deve o cominciare dopo l’inizio della notte o terminare prima dell’alba della domenica’. Gli abusi e le consuetudini contrarie, che talvolta si verificano, così da anticipare l’ora della celebrazione della veglia pasquale nelle ore in cui di solito si celebrano le messe prefestive della domenica, non possono essere ammessi. Le motivazioni addotte da alcuni per anticipare la veglia pasquale, come ad es. l’insicurezza pubblica, non sono fatte valere nel caso della notte di Natale o per altri convegni che si svolgono di notte”. Tuttavia non si determina l’ora di mezzanotte come discriminante. Così in questa ulteriore incertezza la Veglia pasquale oggi tende a non decollare dal comodo orario serale. Come per la Messa di mezzanotte di Natale, anche per la Veglia Pasquale ha avuto grande influsso l’estensione del precetto festivo ai primi vespri, per cui la Veglia pasquale viene ritenuta legittima a partire dal tramonto del Sabato santo, come una messa ‘prefestiva’. Ciò non succedeva prima di questa disposizione, quando chi anticipava la Veglia alla sera sapeva anche che la Messa della notte assolveva il precetto, solo se celebrata dopo la mezzanotte. Per un efficace decollo della Veglia come celebrazione notturna, sarebbe oggi auspicabile una precisa indicazione di orario discriminante da parte dell’autorità della Chiesa, ritornando a stabilire in modo inequivocabile la mezzanotte come ora della liturgia eucaristica della Veglia stessa nella quale si entra col canto solenne del Gloria. Non si dovrebbero ammettere eccezioni, in quanto la Veglia si celebra solo nelle parrocchie o comunità ad esse assimilate, come atto corale, unico, e quindi irripetibile nella notte santa. Abbiamo visto come le concessioni in tal senso sono diventate la regola, perdendo di fatto la celebrazione notturna. 

 

4. La Domenica di risurrezione inizia a mezzanotte

Per di più il terzo giorno del Triduo pasquale, ossia la Domenica di risurrezione, non inizia all’ora dei vespri del Sabato santo, quasi fossero i primi vespri della domenica, come è norma per il sabato ordinario e le vigilie. Il tempo della Domenica di risurrezione inizia alla mezzanotte, in quanto il Sabato santo è giorno della medesima solennità, come anche il Venerdì santo. I tre santi giorni, infatti, hanno il medesimo grado di solennità. Si capisce allora che, nel rito romano, non è possibile trattare l’ora serale del Sabato santo come tempo già appartenente alla Domenica di risurrezione.

La mezzanotte viene presa come l’ora di riferimento per unire le due parti della Veglia pasquale: la liturgia della Parola e la liturgia sacramentale. L’ora della risurrezione non ci è riferita dalla Sacra Scrittura. Essa appartiene al mistero di Dio. La Chiesa esprime questa consapevolezza quando nell’Exultet canta: “O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Per questo la tradizione liturgica sospinge la Chiesa a trascorre le ore notturne della notte santa nella veglia. Anzi la notte pasquale è, fin dall’antichità, una notte di veglia completa, fino all’alba, l’ora in cui il sepolcro è ritrovato aperto e vuoto. Tra le varie ore notturne, tuttavia, trova una considerazione specialissima l’ora di mezzanotte. Essa è legata a precisi eventi biblici, che costituiscono il fondamento della celebrazione notturna della Pasqua. 

 

5. L’importanza della mezzanotte, l’Ora della Pasqua 

La mezzanotte è la grande Ora a lungo preparata da Dio per salvare il suo popolo: “A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto… Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione” (Es 12, 29. 42). Anche il passaggio del mar Rosso avvenne di notte e si concluse sul far del mattino: “…Il Signore durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente…Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani…il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 21-27). Forse il tutto si compì in quei tre giorni di cammino nel deserto che Mosé richiese al faraone per celebrare il culto al Signore: “Ci è dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio…” (Es 5, 3). Quei tre giorni sono profezia del vero Triduo pasquale in cui il Signore operò, nella pienezza dei tempi, la nostra redenzione. L’evento della Pasqua ebraica si compie quindi nel contesto di almeno due notti: quella del banchetto pasquale col passaggio dell’Angelo sterminatore, e quella della miracolosa traversata del mar Rosso. La liberazione pasquale, allora, nelle sue fasi salienti, avviene nella notte. Ma è la mezzanotte l’ora segnata da Dio per compiere l’evento decisivo e risolutore: l’Angelo colpisce e il popolo parte: è l’ora della Pasqua. La veglia del mattino, di cui si parla nella notte del passaggio del mar Rosso, è quella della consumazione della liberazione del popolo “Sul far del mattino il mare tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 27) e della gioiosa contemplazione delle grandi opere di Dio: in quell’ora nasce il canto di vittoria (Es 15, 1). È fin troppo evidente la profezia della Pasqua del Signore Gesù, quando nel cuore della notte, nell’ora che Lui solo conosce, risorse dai morti e sul far del mattino si mostrò vivo ai suoi discepoli: è questa l’ora dell’Alleluia della Chiesa. Il libro della Sapienza riprende in tono celebrativo l’evento della Pasqua e offre alla liturgia della Chiesa un ulteriore elemento per indicare l’idoneità dell’ora di mezzanotte per attuare nel tempo la celebrazionememoriale e sacramentale del Mistero nelle sue due fasi costitutive, natalizia e pasquale. “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sap 18, 14-15). Anche il salmo allude alla singolare Ora della mezzanotte: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode” (Sl 118, 62). Veramente nella notte di Pasqua, l’Uomo nuovo, il Signore Gesù, si sveglia e si alza dal sonno della morte e, risorto a vita nuova, rende gloria al Padre; come già nella notte di Natale i vagiti del Bambino divino iniziarono la lode nuova e perfetta al Padre. Infine, nella parabola evangelica delle dieci vergini lo scoccare della mezzanotte segna l’ora del grande evento: “A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!” (Mt 25). La medesima ora è richiamata dal Signore stesso quando afferma: “E se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!” (Lc 12, 38). L’ora di mezzanotte adombrata nella parabola delle vergini diventa, nella interpretazione mistica della Chiesa, un indizio del possibile ritorno del Signore, non solo nell’ora escatologica, ma anche nella sua prima ora, quando nacque in mezzo a noi e anche quando risvegliandosi dal sonno della morte, ritornò glorioso tra i viventi. In tale prospettiva la mezzanotte divenne l’ora discriminante e il riferimento più eloquente per la liturgia notturna sia natalizia che pasquale. Una tradizione giudaica dice che Cristo verrà a mezzanotte, come al tempo dell’Egitto, quando si celebrò la Pasqua e venne l’angelo sterminatore e il Signore passò sopra le case e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue. Di qui, credo, quella tradizione apostolica conservatasi fino ad oggi, secondo cui durante la veglia pasquale non è lecito congedare le folle prima della mezzanotte, quando attendono ancora la venuta di Cristo, mentre passato quel momento tutti celebrano il giorno di festa in una ritrovata sicurezza”. S. GIROLAMO (cfr. CANTALAMESSA, R., La Pasqua nella Chiesa antica, ed Internazionale, Torino, 1978, p. 113) 

 

6. La pastorale e il “dogma” della comodità 

Quando la Veglia è celebrata di sera viene privata di una sua componente essenziale: offrire a Dio il tempo del sonno, santificando la notte, mediante l’ascesi del ‘vegliare’. Ci domandiamo: la pastorale deve proprio sposare il ‘dogma’ della comodità a tutti i costi, rinunciando alla notte di Pasqua e alla notte di Natale, come attualmente sta succedendo? Che almeno nelle due notti sante, di Pasqua e Natale, tutto il popolo di Dio, nelle normali parrocchie, si disponga alla solenne celebrazione, vegliando nella notte e offrendo a Dio con generosità il tempo notturno, è veramente cosa pastoralmente impossibile e improponibile ai nostri giorni? Il passaggio più singolare della Veglia pasquale, quando si canta il Gloria in excelsis e si riprende l’jubilus dell’Alleluia è spesso depotenziato: dopo una liturgia della Parola piuttosto breve, senza aver raggiunto un congruo clima di trepida attesa e, senza alcuno stacco rituale, si intona l’Inno angelico e si suonano le campane. Siamo lontani da quello stupore mistico e commosso di cui ci parlano le fonti antiche. È più eloquente la notte di Natale quando, a mezzanotte, si inizia la solenne eucaristia ‘in nocte’. Perché allora privare l’annunzio pasquale nella notte santa dell’esperienza dell’attesa fervorosa, che dà vigore e letizia spirituale all’annunzio della risurrezione, proprio al primo esordio del giorno in cui avvenne la risurrezione, il giorno ottavo che non avrà mai più tramonto? Questo non è sentimentalismo, ma ricchezza celebrativa, forza coesiva e testimonianza efficace. 

 

7. Ridare alla Veglia pasquale il senso della gioia 

Se si vuole ridare alla Veglia pasquale il senso gioioso e commovente dell’attesa, occorre consentire che essa abbia il tempo necessario per impostare un itinerario progressivo verso un preciso termine, che in antico era il primo albeggiare del giorno della risurrezione e che oggi dovrebbe essere necessariamente lo scoccare della mezzanotte alla soglia della grande e santa Domenica di Pasqua. Dal momento che la liturgia si è arricchita in modo irreversibile della Messa solenne del giorno di Pasqua, e che questo giorno è ormai rivestito di regale e grande solennità, non è più auspicabile riproporre a tutto il popolo una Veglia che si estenda fino al mattino, come in antico per poi necessariamente ridurre la domenica di Pasqua a un giorno liturgicamente ‘vacante’. In questo contesto la mezzanotte dovrebbe ridiventare l’Ora da tutti accolta come discriminante tra le due parti della Veglia. Diversamente succede quello che attualmente si può constatare nelle varie ore serali del Sabato Santo: uno già ritorna dalla Veglia pasquale in una chiesa, mentre l’altro parte per la Veglia in un’altra chiesa. Povera Pasqua! Così è ridotta ad affare privato, persa nella routine del sabato sera. La celebrazione della Veglia, fatta all’unisono da tutte le comunità cristiane sul crinale della mezzanotte, offre un eccellente occasione per una testimonianza corale: la Chiesa, convocata nel cuore della notte santa, attende e annunzia la risurrezione del Signore. La Chiesa, celebrando all’unisono la Veglia pasquale percepisce quasi fisicamente il suo essere un cuor solo e un’anima sola, soprattutto quando, a mezzanotte, acclama Cristo risorto e lo annunzia al mondo. Per esprimere concretamente tale sinfonia, la mezzanotte diviene un criterio necessario e discriminante. In questo contesto, sarà possibile dare all’unisono anche l’annunzio pasquale al mondo esterno col suono delle campane.

+Giovanni D’Ercole

Giovedì, 10 Aprile 2025 10:05

Domenica delle Palme (anno C)

Domenica delle Palme (anno C)  [13 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Entriamo nella Settimana Santa con Gesù accolto a Gerusalemme e prepariamoci nel Triduo Pasquale a seguirlo nel cammino della passione morte e risurrezione. 

 

*Prima lettura dal libro de profeta Isaia (50,4-7)

Questo testo è tratto dalla parte del libro di Isaia che raccoglie i cosiddetti “Canti del Servo”, che sono particolarmente importanti per due ragioni: innanzitutto per il messaggio che Isaia voleva trasmettere ai suoi contemporanei e perché sono stati applicati dai primi cristiani a Cristo, anche se certamente Isaia non pensava a Gesù quando scrisse questo testo probabilmente nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia. Al popolo esiliato in condizioni molto dure, che rischiava di cedere a un grande sconforto, ricorda che Israele è il servo di Dio sostenuto e nutrito ogni mattina dalla Parola, ma perseguitato a causa della sua fede e, nonostante tutto, capace di resistere a ogni prova. Descrive in modo chiaro la straordinaria relazione che unisce al suo Dio il Servo (Israele) la cui caratteristica principale è l’ascolto della Parola, “l’orecchio aperto”, come scrive Isaia. Ascoltare la Parola, lasciarsi istruire da essa, significa vivere nella fiducia. Ascoltare è una parola che nella Bibbia significa fidarsi poiché due sono gli atteggiamenti tra cui oscilla continuamente la nostra esistenza: la fiducia in Dio, l’abbandono sereno alla sua volontà perché si sa, per esperienza, che la sua volontà è solo bene; oppure la diffidenza, il sospetto sulle intenzioni divine e la ribellione davanti alle prove, una ribellione che può portarci a credere che Egli ci abbia abbandonati o, peggio, che possa trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze. Tutti i profeti ripetono quest’invito: “Ascolta, Israele” o “ascoltate oggi la Parola di Dio”. Sulle loro labbra, l’esortazione “ascolta” è invito ad avere fiducia in Dio, qualunque cosa accada. A questo proposito san Paolo spiegherà che Dio fa concorrere tutto al bene di coloro che lo amano e si fidano di lui (cf Rm 8,28) perché da ogni male, difficoltà, prova sa trarre il bene; a ogni odio, oppone un amore ancora più forte; in ogni persecuzione, dona la forza del perdono; da ogni morte fa nascere la vita. Tutta la Bibbia è la narrazione della storia di una fiducia reciproca: Dio si fida del suo servo e gli affida una missione; in cambio Israele accetta la missione con fiducia. Ed è proprio questa fiducia che gli dà la forza necessaria per resistere a tutte le opposizioni che inevitabilmente incontrerà. In questo testo la missione consiste nel saper “indirizzare una parola allo sfiduciato” testimoniando la fedeltà del Signore che dona la forza necessaria e il linguaggio adeguato. Anzi è il Signore stesso a nutrire questa fiducia, sorgente di ogni audacia al servizio degli altri: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”.  Tutto allora diventa dono: la missione, la forza e la fiducia che rende incrollabili. Questa è la caratteristica del credente: riconoscere che tutto è dono di Dio. Quando poi fa fruttificare il dono permanente della forza del Signore, il credente è in grado di affrontare tutto, anche la persecuzione che mai è assente, e in verità ogni autentico profeta che parla a nome di Dio, raramente viene riconosciuto e apprezzato in vita.Isaia invita i suoi contemporanei a resistere: il Signore non vi ha abbandonati, anzi, vi ha affidato la sua missione e non meravigliatevi se siete maltrattati perché il Servo che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, diventa certamente scomodo e con la sua conversione provoca gli altri: alcuni ne ascoltano l’appello, altri lo respingono e, in nome delle loro buone ragioni, lo perseguitano. Ecco perché il Servo attinge vigore solamente da Colui che gli permette di affrontare tutto: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba …il Signore Dio mi assiste per questo non resto svergognato”. Isaia usa poi un’espressione comune in ebraico: “per questo rendo la mia faccia dura come pietra” che esprime determinazione e coraggio; non orgoglio o presunzione, bensì pura fiducia perché sa bene da dove viene la sua forza.  Gesù è ritratto perfetto del Servo di Dio nel cuore della persecuzione e anche nel momento in cui le acclamazioni della folla della Domenica delle Palme segnavano e acceleravano la sua condanna. San Luca riprende esattamente questa espressione quando scrive «Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51), che nelle nostre traduzioni diventa: «Gesù prese risolutamente la strada per Gerusalemme».

 

*Salmo responsoriale dal Salmo 21(22) (2, 8-9,17-20,22b-24)

Il Salmo 21/22 riserva alcune sorprese, a partire dall’incipit: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, molto citato che, estrapolato dal contesto, viene interpretato in modo sbagliato. Per capirne il vero significato va letto per intero il salmo composto di trentadue versetti che si chiude con un rendimento di grazie: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”. Chi nel primo versetto grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ringrazia alla fine Dio per la salvezza ricevuta. Non solo non è morto, ma rende grazie proprio perché Dio non lo ha abbandonato. A prima vista, questo salmo sembra scritto per Gesù: “Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa” allusione chiara alla crocifissione vissuta sotto gli occhi crudeli dei carnefici e della folla: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori… si fanno beffe di me quelli che mi vedono … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”. In realtà, non è stato scritto per Gesù Cristo, ma composto per gli esuli tornati da Babilonia, e si paragona la loro liberazione alla risurrezione di un condannato a morte, dato che l’esilio fu vera e propria condanna a morte per Israele che corse il rischio di essere cancellato dalla storia. Ora viene qui paragonato a un condannato che ha rischiato di morire sulla croce, supplizio all’epoca assai comune: ha subito oltraggi, umiliazioni, i chiodi, l’abbandono nelle mani dei carnefici ma miracolosamente ne esce illeso. In altre parole: tornato dall’esilio Israele si abbandona alla gioia che proclama a tutti gridando più forte di quando pianse nella sua angoscia. Il riferimento alla crocifissione non è dunque il centro del salmo, ma serve a mettere in risalto il rendimento di grazie di Israele, che nel pieno della sua angoscia, mai ha smesso di invocare aiuto e mai ha dubitato nemmeno  un istante. Il grande grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è di sicuro un grido di angoscia davanti al silenzio di Dio, ma non è un grido di disperazione, né tantomeno esprime dubbi; è piuttosto la preghiera di chi soffre e osa gridare il suo dolore. Quanta luce questo salmo fa scendere sulla nostra preghiera nei momenti di sofferenza di qualunque genere: abbiamo il diritto di gridare e la Bibbia ci incoraggia a farlo. Tornato dall’esilio Israele ricorda il dolore passato, l’angoscia, il silenzio apparente di Dio quando si sentiva abbandonato nelle mani dei suoi nemici, eppure ha continuato a pregare. La preghiera è la prova evidente della sua costante fiducia; continuava a ricordare l’Alleanza e i benefici ricevuti da Dio. Questo salmo somiglia nel suo insieme a un “ex voto” come quando si corre un serio pericolo, si prega e si fa un voto e, a grazia ottenuta, si mantiene la promessa portando l’ex voto in una chiesa o in un santuario.  Il salmo 21/22 descrive l’orrore dell’esilio, l’angoscia d’Israele e di Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, il senso di impotenza di fronte all’odio degli uomini che suscita un’ardente  supplica: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”? e infine la riconoscenza a Dio per la propria salvezza: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli”.  Nella domenica delle Palme non ci sono gli ultimi versetti che però sentiamo spesso nella liturgia: “I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli…Annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”.

 

*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo ai Filippesi (2,6-11)

Questo testo è spesso definito l’Inno della Lettera ai Filippesi, perché si ha l’impressione che Paolo non lo abbia scritto di suo pugno, ma abbia citato un inno in uso nella liturgia. Anzitutto da notare l’insistenza sul tema del Servo: “svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo”: i primi cristiani, di fronte allo scandalo della croce, hanno meditato spesso sui Canti del Servo contenuti nel libro di Isaia, perché offrivano spunti di riflessione per comprendere il mistero della persona di Cristo. “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Si è tentati di leggere: benché fosse di condizione divina, anche se in realtà, è il contrario e bisogna dunque leggere: “proprio perché era nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Uno dei pericoli di questo testo è la tentazione di leggerlo in termini di ricompensa, come se il ragionamento fosse: Gesù si è comportato in modo ammirevole e quindi ha ricevuto una ricompensa straordinaria. La grazia, come suggerisce il suo stesso nome, è gratuita, noi però siamo sempre tentati di parlare di meriti. La meraviglia dell’amore di Dio è che Egli non attende i nostri meriti per colmarci; è questa la scoperta che gli uomini della Bibbia hanno fatto grazie alla Rivelazione. Quindi, per essere fedeli al testo, dobbiamo leggerlo in termini di gratuità. Rischiamo di fraintenderlo se dimentichiamo che tutto è dono di Dio, tutto è grazia, come ripeteva Teresa del Bambino Gesù. Il dono gratuito di Dio è per san Paolo una verità evidente, una convinzione che permea tutte le sue lettere, talmente ovvia che non sente neppure il bisogno di ribadirla esplicitamente per cui possiamo riassumere il suo pensiero così: il progetto di Dio, il disegno della sua misericordia è farci entrare nella sua intimità, nella sua gioia e nel suo amore, un progetto assolutamente gratuito. Non c’è nulla di sorprendente in questo, poiché si tratta di un progetto d’amore, un dono da accogliere: è la partecipazione alla vita divina, anzi con Dio, tutto è dono. Ci si esclude da questo dono quando si assume un atteggiamento di pretesa, se ci si comporta come i progenitori nel giardino dell’Eden che si appropriano del frutto proibito. Gesù, al contrario, non ha fatto altro – “facendosi obbediente” - che accogliere il dono di Dio senza pretenderlo. “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” ed è proprio perché è di condizione divina che non rivendica nulla. Lui sa cosa sia l’amore gratuito, sa che non è giusto pretendere, non considera un bene reclamare il diritto di essere come Dio. E’ la stessa situazione dell’episodio delle tentazioni (vedi il vangelo della prima domenica di Quaresima): satana propone a Gesù solo cose che fanno parte del piano di Dio, ma Gesù rifiuta di appropriarsene con le proprie forze. perché vuole affidarsi al Padre affinché sia Lui a donargliele. Il tentatore lo provoca: “Se sei Figlio di Dio, puoi permetterti tutto, tuo Padre non può rifiutarti nulla: trasforma le pietre in pane quando hai fame… gettati giù dal tempio, ti proteggerà… adorami, e ti darò il dominio su tutto il mondo”. Gesù però aspetta tutto solo da Dio: ha  ricevuto il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome di Dio. Dire infatti che Gesù è il Signore significa affermare che è Dio. Nell’Antico Testamento, il titolo di “Signore” era riservato a Dio e pure la genuflessione “ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Ecco un’allusione a un passo del profeta Isaia: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, si pieghi…ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” presterà giuramento» (Is 45,23). Gesù ha vissuto nell’umiltà e nella fiducia; fiducia che san Paolo chiama  obbedienza. Obbedire, in latino «ob-audire», significa letteralmente porgere l’orecchio (audire) davanti (ob) alla parola: è l’atteggiamento di un dialogo perfetto, senza ombre, è fiducia totale.  L’inno si conclude così: “Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. La gloria è la rivelazione dell’amore infinito fatto persona. In altre parole anche noi, come il centurione, vedendo Cristo amarci sommamente accettando di morire per rivelarci fino a che punto arriva l’amore di Dio, proclamiamo,: «Sì, davvero, costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.

 

* Vangelo. Passione di Gesù Cristo secondo san Luca (22,14 – 23.56)

Ogni anno, per la Domenica delle Palme, torna il racconto della Passione in uno dei tre vangeli sinottici; quest’anno, è quello di Luca e mi limito a commentare gli episodi propri di questo vangelo. Se è vero che i quattro racconti della Passione sono simili, quando però si osservano da vicino, ci si rende conto che ogni evangelista ha accenti particolari, e questo perché sono tutti testimoni di uno stesso evento e raccontano i fatti ciascuno dal loro punto di vista e la Passione di Cristo risulta raccontata in quattro modi diversi: non scelgono tutti gli stessi episodi e le stesse frasi. Ecco dunque gli episodi e le parole che troviamo solo in san Luca. 1.Dopo l’ultima cena, prima di recarsi al Getsemani, Gesù aveva preannunciato a Pietro il suo triplice rinnegamento. In verità lo narrano tutti i vangeli, ma solamente Luca riporta questa frase di Gesù: “Simone, Simone, ecco: satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Una delicatezza di Gesù, che aiuterà Pietro dopo il suo tradimento a rialzarsi invece di disperare. Sempre solo Luca nota lo sguardo che Gesù posa su Pietro dopo il suo rinnegamento: per tre volte consecutive, Pietro afferma di non conoscerlo nella casa del sommo sacerdote. Subito dopo Gesù, voltandosi, fissò lo sguardo su Pietro e qui sentiamo l’eco della prima lettura dove Isaia scrive: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Questo vuole fare Gesù con Pietro, confortarlo in anticipo perché quando lo rinnegherà non cada nella disperazione. Altro episodio proprio di questo vangelo è Gesù davanti a Erode Antipa. Alla nascita di Gesù, su tutto il territorio regnava sotto l’autorità di Roma, Erode il Grande, ma alla sua morte (nel 4 a.C.), il territorio fu diviso in più province e, al momento della morte di Gesù (nell’anno 30 d.C.), la Giudea, ossia la provincia di Gerusalemme, era governata da un procuratore romano, mentre la Galilea era sotto l’autorità di un re riconosciuto da Roma, che era un figlio di Erode il Grande: il suo nome Erode Antipa, che da tempo desiderava incontrare Gesù e sperava di vederlo compiere un miracolo. Ora gli pone molte domande, ma Gesù tace. Erode lo insulta e lo schernisce facendolo rivestire con un manto splendente e lo rimanda a Pilato rinsaldando quel giorno l’amicizia tra Erode e Pilato. 

2.Ci sono poi tre frasi che troviamo solo nel racconto della Passione di Luca. Due parole di Gesù e, se Luca le annota, è perché rivelano ciò che per lui è importante: la prima è la sua preghiera mentre i soldati romani lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Ma cosa stanno facendo? Hanno espulso dalla Città Santa il Santo per eccellenza; hanno cacciato il loro Dio, mettendo a morte il Maestro della vita; il Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, in nome di Dio ha condannato Dio. E cosa fa invece Gesù? Perdona i nemici suoi fratelli mostrando fino a che punto si spinge l’amore di Dio. Chi ha visto me ha visto il Padre, aveva detto Gesù, il giorno prima. La seconda frase: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Tutti lo attaccano e per tre volte risuona una stessa provocazione: Se tu sei il Messia, lo scherniscono i capi… Se tu sei il re dei Giudei, si prendono gioco di lui i soldati romani… Se tu sei il Messia, lo insulta uno dei due malfattori crocifissi con lui. L’altro crocifisso con lui comincia a dire la verità: noi meritiamo questo castigo ma non Gesù e si rivolge a Gesù: “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Riconosce Gesù come il Salvatore, lo invoca con una preghiera umile e di fiduciosa: sembra aver capito tutto. Infine solo Luca riporta quest’ultima frase: “Già brillavano le luci del sabato” (23,54) conclude così il racconto della Passione con un’insistente evocazione del sabato. Parla delle donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea e ora vanno al sepolcro per osservare come era stato sepolto recando aromi e profumi per i riti della sepoltura. Già brillavano le luci del sabato: tutto si chiude con una nota di luce e di pace: il sabato è prefigurazione del mondo a venire, giorno in cui Dio si era riposato da tutta l’opera della creazione (cf Genesi); giorno in cui, per fedeltà all’Alleanza, si scrutavano le Scritture nell’attesa della nuova creazione. Luca ci fa capire che nel travaglio della Passione di Cristo è nata la nuova umanità che è l’inizio del regno della grazia. Il crocifisso risorto indica la via da seguire: la via dell’amore e del perdono a qualsiasi costo.

+Giovanni D’Ercole

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May we obtain this gift [the full unity of all believers in Christ] through the Apostles Peter and Paul, who are remembered by the Church of Rome on this day that commemorates their martyrdom and therefore their birth to life in God. For the sake of the Gospel they accepted suffering and death, and became sharers in the Lord's Resurrection […] Today the Church again proclaims their faith. It is our faith (Pope John Paul II)
Ci ottengano questo dono [la piena unità di tutti i credenti in Cristo] gli Apostoli Pietro e Paolo, che la Chiesa di Roma ricorda in questo giorno, nel quale si fa memoria del loro martirio, e perciò della loro nascita alla vita in Dio. Per il Vangelo essi hanno accettato di soffrire e di morire e sono diventati partecipi della risurrezione del Signore […] Oggi la Chiesa proclama nuovamente la loro fede. E' la nostra fede (Papa Giovanni Paolo II)
Family is the heart of the Church. May an act of particular entrustment to the heart of the Mother of God be lifted up from this heart today (John Paul II)
La famiglia è il cuore della Chiesa. Si innalzi oggi da questo cuore un atto di particolare affidamento al cuore della Genitrice di Dio (Giovanni Paolo II)
The liturgy interprets for us the language of Jesus’ heart, which tells us above all that God is the shepherd (Pope Benedict)
La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore (Papa Benedetto)
In the heart of every man there is the desire for a house [...] My friends, this brings about a question: “How do we build this house?” (Pope Benedict)
Nel cuore di ogni uomo c'è il desiderio di una casa [...] Amici miei, una domanda si impone: "Come costruire questa casa?" (Papa Benedetto)
Try to understand the guise such false prophets can assume. They can appear as “snake charmers”, who manipulate human emotions in order to enslave others and lead them where they would have them go (Pope Francis)
Chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti? Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro (Papa Francesco)
Every time we open ourselves to God's call, we prepare, like John, the way of the Lord among men (John Paul II)
Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini (Giovanni Paolo II)
Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Papa Benedetto)
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)

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