Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Ecco un contributo per entrare nella parola di Dio di domenica prossima. Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
[15 Dicembre 2024] 3a Domenica di Avvento 2024
*Prima Lettura Sof 3, 14-18
Fin dall’VIII secolo a.C. (con Osea), i profeti compresero e annunciavano che Dio è amore sviluppando il tema dell’Alleanza come nozze tra il Signore e il popolo che si è scelto. Quando tornano a parlare dell’infedeltà d’Israele è per denunciare il rischio costante del ritorno all’idolatria e richiamano sempre la promessa del Messia, che suona come annuncio di speranza. Nel libro del profeta Zaccaria leggiamo: “Non temere, poiché io sono in mezzo a te dice il Signore” (2,15), e in Osea: “Non temere…Io sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te.” (11,9). E alcuni secoli dopo l’angelo Gabriele dirà a Maria: “Rallegrati, Maria… Il Signore è con te” e la Vergine darà alla luce Gesù, l’Emmanuele, il Dio con noi. Oggi la prima lettura ci fa incontrare Sofonia che circa un secolo dopo Osea utilizza i due linguaggi abituali dei profeti: le minacce contro chi compie il male e l’incoraggiamento per quanti s’impegnano a restare fedeli all’Alleanza: “Il Signore gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia” (Sof 3,17-18). Basta questa frase, che conclude l’odierna prima lettura, per comprendere che già nell’Antico Testamento i profeti avevano annunciato che Dio è amore. Non è pertanto esatto affermare che solo nel Nuovo Testamento si parla di Dio che è amore. Le parole di Sofonia non sono nuove anche se ci sono voluti alcuni secoli di rivelazione biblica, cioè di pedagogia divina, per arrivare a tale comprensione. All’inizio dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, l’immagine delle nozze per indicare l’Alleanza sarebbe stata ambigua e per questo In un primo tempo, fu essenziale scoprire il Dio completamente Altro rispetto gli dei delle nazioni limitrofe e al tempo stesso affermare la necessità di instaurare un’Alleanza con Lui. Fu Osea (VIII secolo a.C.) il primo a parlare dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo come un vero e proprio legame d’amore, simile a quello del fidanzamento, seguito dai profeti successivi: il Primo Isaia, Geremia, Ezechiele, Zaccaria, il Secondo e il Terzo Isaia, i quali ricorrono al linguaggio tipico del fidanzamento e delle nozze con nomi affettuosi, citando abiti nuziali, corone da sposa, fedeltà. Il cosiddetto Terzo Isaia (VI secolo a.C.) giunse a impiegare il termine “desiderio” (nel senso di desiderio amoroso) per descrivere i sentimenti di Dio verso il suo popolo. Pensiamo poi al Cantico dei Cantici (tra VI e III secolo a.C. anche se qualche parte è anteriore), lungo dialogo d’amore composto da sette poemi, dove non si identificano mai chiaramente chi sono i due innamorati. Israele però l’interpreta come il dialogo tra Dio e il suo popolo e lo proclama durante la celebrazione della Pasqua, festa dell’Alleanza tra Dio e Israele. Se il popolo d’Israele è paragonato a una sposa, ogni infedeltà all’Alleanza diventa non solo una violazione di un contratto, ma un vero e proprio adulterio ed ecco perché i profeti ricorrono a termini come gelosia, ingratitudine, tradimento e riconciliazione: ogni infedeltà è un ritorno all’idolatria. In questo contesto va situato Sofonia (VII secolo a.C.) vissuto a Gerusalemme durante il regno di Giosia (nel 640 a.C.) e il suo libro è composto solo di cinque pagine, ma denso e ricco di messaggi celebri. Egli esorta il re e il popolo alla conversione (cf. 2,3), urgente sotto i regni di Manasse e Amon segnati da idolatria, violenza, frodi, menzogne, ingiustizie sociali, arroganza dei potenti e oppressione dei poveri. Sofonia denuncia chi si prostra davanti al Signore e poi giura per il proprio dio, l’idolo Milkom identificato spesso con Moloch (cf.1,5) e condanna il sincretismo religioso; condanna pure coloro che riempiono la casa del Signore con frutti di violenza e d’inganno (cf.1,9). Ben chiari i due linguaggi profetici: Minacce contro i malvagi, come nel celebre canto del “Dies Irae” tratto dai suoi testi e incoraggiamento per i fedeli umili, come nel brano che leggiamo oggi. Sofonia si rivolge a Gerusalemme “figlia di Sion” con parole di gioia e speranza: “Rallegrati, figlia di Sion… Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un Salvatore potente”. Malgrado l’infedeltà d’Israele l’amore di Dio persevera verso il suo popolo. Sofonia lo invita alla conversione annunciando una nuova Gerusalemme, terra di umili e fedeli, dove Dio porrà la sua residenza per sempre e anticipa così il messaggio che verrà ripreso da altri (come Gioele e Zaccaria). Messaggio che si realizzerà pienamente nel Nuovo Testamento, quando l’angelo dirà a Maria: “Rallegrati, piena di grazia… Il Signore è con te” (Lc 1,28) e nel vangelo di Giovanni: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). L’invito alla gioia risuona in tutta la liturgia di questa domenica che si chiama “domenica Gaudete” (gioite) perché Dio si fa uomo e nasce a Betlemme: ci rende scosì possibile condividere la sua stessa vita, che il peccato dei progenitori aveva precluso e perduto.
*Salmo responsoriale Isaia 12, 2-6
“Mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza”. Ecco il canto che Isaia prevede per il giorno in cui il popolo sarà salvato, ma che possiamo già cantare oggi nel cuore delle difficoltà perché proprio nella debolezza possiamo sperimentare la vera fonte della nostra forza. San Paolo scriverà che la potenza del Signore appare in pienezza nella nostra debolezza (cf.2 Cor 12, 9). Questo cantico, pur non facendo parte del Salterio, può benissimo considerarsi un vero salmo perché è intriso di fiducia e di ringraziamento, in un periodo decisamente cupo per Israele che si trovava tra le minacce dell’impero assiro come pure dei due re vicini. In quel tempo Isaia cantava parole di speranza annunciando la non remota fine dell’Assiria e la liberazione di Giuda con uno stile che rassomiglia molto al canto di ringraziamento di Mosè dopo la liberazione dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso (Es 15). Come allora Mosè, anche Isaia canta la sua fede in un Dio liberatore, che mai abbandona il suo popolo ed è anzi costantemente presente in mezzo a esso. Come Mosè, Isaia comprese che l’elezione di Israele non costituiva un’esclusiva; era piuttosto una vocazione e per realizzarla il popolo salvato aveva un’unica missione: testimoniare in mezzo agli uomini che Dio è davvero l’unico liberatore. Questo salmo di fiducia e di ringraziamento a Dio, il salvatore, Isaia lo proclama mentre il contesto politico è oscuro e la paura domina in tutta la regione. Siamo nell’VIII secolo a.C., tra il 740 e il 730 circa, quando l’impero assiro (capitale Ninive) costituiva una potenza emergente con un’espansione apparentemente inarrestabile. Gli Assiri erano il nemico e Ninive, come leggiamo nel libro di Giona, una città empia dove si compivano malvagità d’ogni natura. Dopo la morte di Salomone (930 a.C.) il popolo di Dio si divise in due regni minuscoli, che invece di allearsi come fratelli scelsero politiche diverse e talvolta persino opposte. Il regno del Nord (capitale Samaria) cercò di resistere alla pressione assira e si alleò con il re di Damasco per assediare Gerusalemme per costringere il re Achaz a unirsi alla loro coalizione. Achaz si trovò quindi tra due fuochi: da un lato, i due re vicini meno potenti ma molto prossimi già alle porte di Gerusalemme; dall’altro, Ninive, che forse finirà per schiacciare tutti. Achaz preferì arrendersi prima di combattere diventando vassallo dell’Assiria: compra la sua sicurezza a prezzo della libertà. Questa scelta era umanamente preferibile, ma il popolo di Dio ha il diritto di ragionare secondo logiche umane? I calcoli provenivano dalla paura, ma un credente può permettersi di avere paura? Dov’è finita la fede? Isaia scrive: “Il cuore di Achaz e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano gli alberi della foresta per il vento” (Is 7,2) e il re Achaz, in preda a dubbi e paure, compie un gesto terribile: sacrifica suo figlio a una divinità pagana, pronto ormai a tutto pur di non perdere la guerra. Fu uomo di poca fede ed è in questo contesto storico che Isaia incoraggia il piccolo resto fedele a sperare perché: “Tu dirai quel giorno: Ti lodo, Signore, perché pur essendoti adirato contro di me, la tua colera si è calmata e tu mi hai consolato” (12,1). Continua a esortare alla calma e a non aver paura (cf 7,4) perché se non crederete, non resisterete(cf 7,9) mentre al contrario, rivolgendosi a uomini di poca fede, avvia un lungo discorso di speranza, che occupa i capitoli dal 7 all’11, proprio quelli che precedono il nostro canto di oggi. I trionfi dell’Assiria furono, come previsto, passeggeri e presto si giunse al canto della libertà. Il profeta Isaia compose questo cantico, che oggi è il salmo responsoriale, proprio per celebrare in anticipo la liberazione operata da Dio, un autentico canto di sollievo dove più che la gioia di essere liberati, emerge una vera professione di fede. Riprendendo il paragone con il cantico di Mosè e degli Israeliti, Isaia, cinquecento anni dopo, rinnova la stessa professione di fede per sostenere i suoi contemporanei perché comprendano che come un giorno Dio liberò Israele dal Faraone, allo stesso modo ora lo libererà dall’impero assiro. Chiudo rimarcando che Israele non si riserva mai l’esclusiva della relazione di Alleanza con Dio: ogni volta che nei salmi ringrazia per l’elezione divina, fa emergere una nota di universalismo perché lungo i secoli ha sempre più compreso che la sua elezione non è un’esclusiva, ma una vocazione. All’epoca di Isaia, questo era già chiaro e nell’odierno testo la nota di universalismo si percepisce nella formula: “Proclamate fra i popoli le sue opere, fate ricordare che il suo nome è sublime” (v.4). Un messaggio chiaro anche per noi: per rispondere alla nostra vocazione di uomini salvati dall’amore misericordioso di Dio abbiamo, come unica missione, il compito di testimoniare, con il canto e la vita, che Dio è veramente la nostra salvezza: “Mia forza e mio canto è il Signore”.
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (4,4-7)
Vale la pena ribadire che tutti i testi di questa domenica parlano di gioia e invitano alla gioia.
«Fratelli, il Signore è vicino… , non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere suppliche e ringraziamenti”. In questo testo, che è il paragrafo dell’ultimo capitolo della lettera alla comunità macedone di Filippi, san Paolo ci offre alcune indicazioni spirituali da ben considerare:
1. E’ caratteristico della preghiera ebraica saldare sempre supplica e ringraziamento. Si unisce: Benedetto sei tu, Signore, che ci dai… e, ti preghiamo, concedici, questo perché chi prega Dio per il suo bene è certo di essere esaudito e il fatto di domandare qualcosa è già implicitamente ringraziarlo. In effetti, ogni umana richiesta non rivela nulla di nuovo a Dio, ci prepara però ad accogliere il dono che ci fa. Con la preghiera apriamo la porta a Dio e ci immergiamo nel suo dono.
2. ”Il Signore è vicino”: Quest’espressione, parallela a quella di Sofonia nella prima lettura, e analoga a quanto Giovanni Battista annuncia: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2) evoca un tema centrale in san Paolo e riveste almeno due significati: Dio è vicino perché ci ama e questa consapevolezza è cresciuta gradualmente nell’Antico Testamento. Inoltre Dio è vicino anche perché i tempi sono ormai compiuti, il Regno di Dio è niziato e noi viviamo negli ultimi tempi. Nella prima lettera ai Corinti l’apostolo scrive che “Il tempo si è fatto breve” ( 7,29-31) richiamando l’immagine di un veliero che, giunto ormi vicino al porto, raccoglie le veli in preparazione all’approdo. Chiaro è il messaggio: la storia sta per giungere al suo compimento e, come i passeggeri del naviglio si affollano ai bordi per scorgere la terra ormai vicina, così il cristiano deve orientare la sua vita verso il regno di Dio ormai vicino.
3. Se il Signore è vicino, non abbiamo motivo di preoccuparci perché la nostra dimora definitiva è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo (cf Fil 3,20). Non aveva Gesù ripetuto: “Perché avete paura, uomini di poca fede?”. E non aveva raccomandato: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di cosa mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di cosa vi vestirete… Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Mt 6,25-34). Quando cerchiamo il Regno di Dio proclamiamo con la vita :“Venga Signore il tuo regno” e proiettiamo la nostra esistenza decisamente verso Cristo. Si tratta allora, ascoltando san Paolo, di rivedere le priorità della vita e controllare quali sono i valori fondamentali che la muovono: Il regno di Dio è il vero scopo primario della nostra esistenza? E se così è, l’unica testimonianza da offrire è vivere nella serenità dell’abbandono fiducioso: “La vostra amabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino”. Per quanto gravi i problemi ed enormi gli ostacoli, il male sarà sconfitto definitivamente ed allora:“Non angustiatevi per per nulla”. Quando si vive così, l’amabilità/serenità di cui parla san Paolo si trasforma in gioia: “Fratelli, siate sempre lieti nel Signore”.
Oggi, terza domenica di Avvento, è dunque la domenica della gioia e, a sottolineare quest’invito incessante a essere gioiosi, sono anche gli ornamenti rosa che il celebrante indossa. L’esortazione alla gioia è fin dall’inizio della messa che si apre così: “Gaudete – Rallegratevi”, e si tratta più che di un consiglio, di un vero comando. E al riguardo, come dimenticare le parole di Gesù: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Gioia che non elimina le difficoltà, ma ci fa restare uniti a lui per condividere con lui anche le nostre difficoltà; gioia che non proviene da eventi esterni all’uomo, ma dalla presenza di Dio nel nostro cuore: è la gioia cristiana che non ha nulla da spartire con il piacere mondano e che conquista il mondo.
Vangelo secondo Luca 3,10-18
Quest’oggi nel vangelo domina la figura Giovanni Battista che, come i profeti dell’Antico Testamento, invitava alla pratica della giustizia, alla condivisione e alla non-violenza, temi cari a tutti i profeti. Ad ascoltarlo erano i piccoli, la folla, il popolo, i malvisti (come i pubblicani e i soldati che probabilmente li accompagnavano) e a loro annunciava con linguaggio diretto e severo la conversione per accogliere la venuta del Messia. Anzi la gente, supponendo che fosse lui il Messia che attendevano da lungo tempo, gli domandavano in cosa consistesse la conversione che egli predicava. Assai semplice la risposta: la vera conversione si misura dal nostro atteggiamento verso il prossimo: praticare la giustizia, condividere i nostri beni con gli altri e praticare la non-violenza. Incoraggiati dal suo esempio molti siavvicinavano a lui per ricevere il battesimo, convinti che fosse il Messia. Chiara tuttavia la sua risposta: non sono io il Messia. Vi annuncio comunque che sta per venire colui che è più forte di me e, aggiunge l’evangelista Luca, con queste e molte altre esortazioni, annunciava al popolo il vangelo. Ci sono dunque due poli in questo testo di Luca: il primo è l’attesa e la speranza umana che si esprime nella domanda della gente per tre volte: “Che dobbiamo fare?” e le tre volte richiamano, secondo alcuni esegeti, il rituale del battesimo delle primitive comunità. Il secondo polo è l’annuncio di Cristo al popolo in attesa – non sono io ma lui è già fra voi – come ripete Giovanni. I primi capitoli del vangelo di Luca sono impregnati dell’attesa: gli anziani Simeone e Anna nel Tempio e qui coloro che ascoltano il Battista e quando Luca parla di vangelo, si riferisce proprio a questo: l’annuncio del Messia che il Battista presenta in due modi: Colui che battezza nello Spirito Santo e Colui che esercita il Giudizio di Dio.
1. Colui che battezza nello Spirito Santo. Il profeta Gioele aveva previsto che, alla venuta del Messia, Dio avrebbe effuso il suo Spirito su ogni essere umano (cf Giol. cap.3/ cap. 2 nelle traduzioni ebraiche). Il battesimo non lo ha dunque inventato Gesù perché Giovanni lo faceva già e per questo lo chiamavano il Battista. Anche se a Qumran si praticavano cerimonie di immersione, al tempo di Gesù il battesimo era poco diffuso e assai recente. Nell’Antico Testamento i termini battesimo e battezzare sono rarissimi; infatti, il rito di ingresso nella comunità era la circoncisione, non il battesimo e mai nella Torah si parla di battesimo. La religione ebraica prevedeva dei riti di acqua, delle abluzioni senza mai prevedere l’immersione totale nell’acqua e tutte avevano lo scopo di purificare in senso biblico: non togliere il peccato ma permettere all’uomo di separarsi da tutto ciò che è impuro perché fa parte del mondo profano, per poter entrare in contatto con il sacro cioè con Dio.
Con Giovanni Battista avviene un passaggio importante e del tutto rivoluzionario: il battesimo assume il nuovo significato di conversione e di remissione dei peccati. E’ poi lui stesso ad annunciare che con l’arrivo di Cristo il battesimo sarà ancor più diverso: Io vi battezzo con l’acqua, ma lui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. La grande novità non è nel verbo battezzare perché Giovanni sta battezzando degli ebrei nel Giordano, ma nella frase che segue “in Spirito Santo e fuoco” che deve aver avuto un effetto straordinario ed è per tale ragione che la gente accorreva in massa da Giovanni per farsi battezzare. L’espressione Spirito Santo non esisteva quasi per nulla nell’Antico testamento e le rare volte che appare l’aggettivo santo indicava lo spirito di Dio santo e non lo Spirito Santo, persona distinta della Trinità. Nell’Antico Testamento l’urgenza era liberare il popolo dal rischio del politeismo e rivelare il Dio unico per cui poteva essere eccessivo rivelare subito il mistero di Dio unico in tre persone. Si parlava del soffio di Dio che da forza vitale all’uomo e lo spinge ad agire secondo la volontà divina, ma non si era ancora rgiunti a conoscerlo come Spirito Santo persona. Le parole di Giovanni aprono la porta alla rivelazione quando annuncia un battesimo in Spirito Santo e non più un battesimo con l’acqua, segnando un cambiamento radicale. Il suo battesimo è simbolo di conversione e remissione dei peccati e annuncia un battesimo diverso: Io vi battezzo con acqua… il Messia che è già tra voi vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco dove la preposizione greca “kai” (in italiano e) non indica un’aggiunta, ma un’equivalenza per cui il Battista afferma che il Messia battezzerà nello Spirito Santo che è fuoco, cioè nel fuoco dello Spirito Santo. Luca evidenzia sempre la differenza tra il battesimo di Giovanni e quello di Gesù: Giovanni battezzava con acqua come segno di conversione, mentre il battesimo cristiano è un’immersione nello Spirito Santo, fuoco dell’amore di Dio, battesimo che innesta i credenti nel mistero pasquale di Cristo, sconfiggendo il peccato e la morte.
2. Giovanni presenta il Messia come Colui che esercita il Giudizio di Dio. Nell’Antico Testamento, il Messia veniva atteso come il re che avrebbe eliminato il male e fatto regnare la giustizia. Nei canti del Servo di Dio (nel Secondo Isaia) emerge il giudizio che il Messia avrebbe esercitato con autorità e con il fuoco. Qui Giovanni riprende il segno del fuoco come simbolo di purificazione: “Egli tiene in mano la pala per pulire la sua aiae raccogliere il frumento nel suo granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”. Si tratta di un’immagine che i suoi ascoltatori conoscevano e che rappresentava una buona notizia perché questa separazione non sopprimeva nessuno; questo fuoco non distrugge ma purifica. Il fuoco del Giudizio purifica senza nulla distruggere: come l’oro viene purificato e reso splendente tramite il fuoco, così il fuoco dello Spirito Santo libera chi lo riceve da tutto ciò che non è conforme al Regno di giustizia e di pace instaurato dal Messia.
Alcune riflessioni conclusive
*Giovanni invita alla condivisione senza mai giudicare gli altri. Ci capita spesso di aiutare qualcuno solo dopo esserci chiesti se lo merita, ma questo modo di agire si basa ancora sul merito, non sulla gratuità dell’amore.
*Giovanni confessa di non essere degno nemmeno di sciogliere il laccio dei sandali di Cristo. I rabbini raccomandavano di non imporre a uno schiavo d’origine ebraica un compito cosi umile e umiliante come sciogliere i sandali del maestro o lavare i piedi.
*Accorrono da Giovanni tanti publicani cioè gli esattori delle tasse che lavoravano per l’Impero Romano i quali erano tassati dai Romani e spesso recuperavano più di quanto avevano dovuto versare come loro tassa. Per questo ogni funzionario era considerato e temuto come un pubblicano.
*I soldati,dei quali qui si parla, probabilmente erano dei mercenari al servizio dei publicani e non soldati ebrei né romani. Gli ebrei non avevano il diritto di avere un esercito e i soldati romani, che ocupavano la Palestina, non si mischiavano nelle vicende della popolazione.
Buona Domenica!
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Ecco il commento alle letture e testi biblici della Solennità dell’Immacolata Concezione [Domenica 8 Dicembre 2024]
*Prima Lettura Genesi 3.9-15.20
L’albero della vita fu piantato da Dio al centro dell’Eden e da qualche parte, nello stesso giardino, l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè l’albero di ciò che ci rende felici o infelici. La consegna fu semplice: «Potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” Gn 2,16-17). Dio ordina di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma non è specificato dove quest’albero si trova perché il racconto ha un alto significato allegorico e simbolico e invita a concentrarsi piuttosto che sulla sua localizzazione geografica, sul messaggio etico e teologico. Per molti teologi e santi quest’albero simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. Sant’Agostino l’interpreta come un test di obbedienza e libero arbitrio: “Il frutto dell’albero era buono non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio “(dal De Genesi ad litteram, sulla Genesi alla lettera). Il serpente chiede alla donna se è vero che Dio ha ordinato di non mangiare di alcuno albero del giardino e lei, molto onesta, lo corregge rispondendo che si possono mangiare i frutti degli alberi del giardino, eccetto del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino perché Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” (Gn3,1-3). Pensa di rettificare, ma, senza saperlo, ha già deformato la verità: il semplice fatto di essere entrata in conversazione con il serpente ha falsato il suo sguardo e si potrebbe dire che ora è l’albero a nascondere la foresta perché vede al centro del giardino l’albero proibito e non invece l’albero della vita. Ormai il tranello è fatto e il serpente prosegue l’opera di seduzione dicendo che non moriranno affatto, e Dio sa che il giorno in cui ne mangereranno gli occhi si apriranno e saranno come Dio, conoscendo ciò che rende felici o infelici. Diventare come Dio con un semplice gesto magico è irresistibile e la donna si lascia tentare. Lapidaria la conclusione: “Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anche egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutte e due entrambi e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”(6-7). Fino a quel momento la loro nudità (cioè la loro fragilità) non sembra li ponesse a grande disagio, mentre ora si vergognano l’uno “di fronte” all’altra. E’ qui che è entrata in crisi anche la relazione – l’uno di fronte all’altra - con tutte le conseguenze che segnano le difficoltà dei rapporti tra noi esseri umani. Prima si fidavano di Dio, ma il serpente ha sussurrato che non solo Dio era per loro un antagonista ma aveva persino paura perché voi – dice loro - “sareste come Dio”. In realtà, i loro occhi si sono aperti, ma il loro sguardo è completamente falsato: d’ora in poi vivranno nella paura di Dio e per questo si nascondono. Ma Dio non li abbandona, anzi li cerca nonostante che il progetto originario è stato contraddetto: ormai l’uomo ha rotto la sua relazione di creatura felice con Dio ed è soggetto alla paura, al disagio nella ricerca d’una propria autonomia. Alle domande del Creatore, l’uomo e la donna rispondono la pura verità senza aggiungere né togliere nulla: entrambi si sono lasciati sedurre e hanno disobbedito. L’uomo dice che la donna gli ha dato il frutto e la donna aggiunge di essere stata ingannata dal serpente: tutto insomma viene dal serpente. A questo punto il Signore aggredisce il serpente: “poiché hai fatto questo, maledetto fra tutti gli animali selvatici. La conclusione che da questo racconto fortemente simbolico possiamo trarre è che il male non è nell’uomo e questa è un’affermazione fondamentale della Bibbia. Di fronte a civiltà pessimiste, che considerano l’umanità intrinsecamente cattiva, la rivelazione biblica afferma che il male è esterno all’uomo: quando ci si lascia attrarre su strade sbagliate, è perché siamo ingannati e sedotti e la lotta di tutti profeti nel corso dei secoli ha teso a contrastare le innumerevoli seduzioni che minacciano l’uomo, in primo luogo l’idolatria. Il male è completamente estraneo a Dio e la sua collera è sempre contro ciò che distrugge l’uomo. Da dove viene il male se non è Dio a volerlo? Come già detto, nella Bibbia è chiaro che il male non fa parte della natura dell’uomo e non viene nemmeno da Dio. Legittimo era il desiderio dei progenitori di essere come dèi e Dio non li rimprovera per questo avendoli creati a sua somiglianza e proprio il suo respiro (ruah) è il respiro dell’uomo. Il problema è che essi hanno ceduto alla menzogna di satana, certi di poter soddisfare quest’aspirazione da soli, con una sorta di gesto magico e il risultato è che si scoprono nudi, infelici. Tutto però non è perso ed è qui la notizia più bella che leggiamo in questa pagina biblica: Dio intima al serpente “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa, e tu le insidierai (in ebraico shuph significa schiacciare, ferire, insidiare, tendere un agguato) il calcagno”. Si annuncia un duro combattimento tra il serpente e la stirpe della donna, ma di cui è già certo l’esito finale: il serpente sarà colpito alla testa, che è la sua parte più vulnerabile e il punto da cui provengono il morso e il veleno. A schiacciarlo sarà la stirpe della donna e il serpente ne insidierà e ferirà il calcagno. La ferita al calcagno è simbolo delle sofferenze d’ogni tipo dell’umanità e dei patimenti volontari di Cristo crocifisso, una ferita questa non definitiva perché il Risorto uscendo dal sepolcro sconfigge per sempre satana. In definitiva queste parole di Dio al serpente costituiscono una promessa di speranza di redenzione realizzata pienamente in Cristo. La tradizione cristiana ha intravisto in questo racconto della Genesi un lontano annuncio della vittoria della Nuova Eva, Maria, al punto da definirlo “protoevangelo”, cioè un “pre-evangelo”. Maria è considerata elemento chiave nel piano di redenzione di Dio, in quanto madre di Cristo, il Salvatore che ha sconfitto il peccato e la morte. La sua partecipazione al divino progetto di salvezza è illuminata dai testi biblici, mentre la riflessione teologica successiva ne ha arricchito la comprensione e ha meglio focalizzato il ruolo di Maria in tutta la storia. Uno dei titoli a lei attribuiti nella tradizione cristiana è proprio quello di Nuova Eva perché se Eva fu la donna che, con la sua disobbedienza, introdusse il peccato nel mondo, Maria è colei che, con la sua docile e totale obbedienza a Dio, ha reso possibile l’incarnazione di Cristo. Così come il peccato è entrato nel mondo attraverso una donna, la salvezza entra attraverso un’altra donna, Maria, per mezzo della quale Dio ha dato al mondo il Salvatore. La Madre di Cristo è vista come cooperatrice nella vittoria di Dio sul peccato e sulla morte e la sua obbedienza, il suo sacrificio e la sua intercessione fanno di lei una figura centrale dell’intero piano salvifico. Infine tre annotazioni per meglio comprendere questo testo:
1.Secondo il testo ebraico (Gen 2,9), si dovrebbe parlare di “albero della conoscenza del bene e del male”, ma tale traduzione, pur corretta dal punto di vista grammaticale e spesso ripresa nelle nostre traduzioni, potrebbe portare a un serio fraintendimento: i termini “bene” e “male” in italiano, come in altre lingue, hanno un senso astratto che non corrisponde alla sensibilità concreta ed esistenziale del pensiero ebraico. Per questo è preferibile l’espressione “albero della conoscenza di ciò che rende felici o infelici”.
2. La conoscenza del bene e del male fa pensare al re Salomone tradizionalmente considerato il simbolo della sapienza e del giudizio illuminato. Egli chiese a Dio non ricchezze o potere, ma un cuore saggio e intelligente per governare il popolo con giustizia (1 Re 3,9). Dio lo esaudì rendendolo il re più saggio della sua epoca. Secondo la visione biblica, la saggezza non è pura intelligenza umana, ma dono di Dio per discernere il bene dal male; è capacità di governare con giustizia e prendere decisioni giuste; è ricerca di conoscenza universale, della natura, delle leggi del cosmo e della vita umana, come testimoniano i libri attribuiti a Salomone, tra cui i Proverbi, il Qoelet e il Cantico dei Cantici. E’ infine saggezza pratica e morale che integra conoscenza intellettuale, giustizia morale e prudenza nelle relazioni umane. La fama di saggio attirò a Salomone sovrani e studiosi da terre lontane, come la regina di Saba, che lo visitò per verificare la sua saggezza (1 Re 10,1-13). Alla sua corte si ricercava la saggezza perché è il vero modo di vivere.
3.Il racconto biblico del peccato dei progenitori invita all’umiltà perché solo a Dio appartiene il possesso dell’albero della conoscenza del bene e del male, di ciò che rende felici o infelici: esso è pertanto inaccessibile all’uomo. Che fare allora? La Bibbia invita a nutrirsi ogni giorno dell’albero della vita, che è la Legge di Dio, la Torah. Purtroppo a tentare l’uomo è sempre la sete di una conoscenza sedotta dalla sete di potere in ogni sua forma. Dio c’introduce in un’altra conoscenza in senso biblico, l’unica che valga davvero, cioè l’amore.
*Salmo responsoriale 97/98:
“Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio” (v.3).
A parlare è Israele, che definisce Dio “il nostro Dio”, mettendo in evidenza la relazione privilegiata che esiste tra questo piccolo popolo e il Dio dell’universo. Un popolo che ha compreso a poco a poco che la sua missione nel mondo è quella di non custodire gelosamente per sé questa intima relazione, ma di annunciare che l’amore di Dio è per tutti gli uomini integrando gradualmente nell’Alleanza l’intera umanità. In questo salmo percepiamo i “due amori di Dio”: Dio ama il popolo che si è scelto e ama tutti gli altri popoli della terra che il salmista definisce con il termine: “le genti”. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2). E subito dopo, al versetto 3, troviamo: «si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele». La casa d’Israele richiama ciò che definiamo “l’elezione d’Israele”. Dietro questa breve frase si percepisce tutto il peso della storia e del passato: le semplici parole « il suo amore » e « la sua fedeltà » evocano con forza l’Alleanza. Se l’elezione di Israele è centrale, Israele non deve dimenticare che la sua testimonianza deve risplendere davanti a tutta l’umanità. In effetti, anche ora nei giorni della festa delle Capanne o dei Tabernacoli (sukkot o “festa del raccolto” Chag HaAsif), che commemora i 40 anni vissuti nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto, a Gerusalemme il popolo acclama Dio già come re a nome di tutta l’umanità. Questo salmo dunque anticipa il giorno in cui Dio sarà riconosciuto come re di tutta la terra. Una delle grandi certezze che gli uomini della Bibbia hanno acquisito progressivamente è che Dio ama tutta l’umanità, non solo Israele e in questo salmo, questa certezza si riflette anche nella stessa struttura del testo. Quando si canta la vittoria di Dio, si celebra la sua vittoria definitiva pure contro tutte le forze del male. Come cristiani possiamo acclamano Dio con ancora più forza, perché i nostri occhi hanno conosciuto Cristo, il Re del mondo: con la sua Incarnazione, il Regno di Dio, che è Regno dell’amore, è già cominciato.
*Seconda Lettura Ef. 1,3-6.11-12
In soli dodici versetti san Paolo presenta il progetto di Dio e ci invita a unirci alla sua contemplazione, progetto che consiste nel radunare l’umanità per formare un solo Uomo in Gesù Cristo, capo di tutta la creazione: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose quelle nei cieli e quelle sulla terra” (vv. 9-10). Fermiamoci a sottolineare semplicemente qualche bella buona notizia.
Prima notizia: Dio ha un progetto su ciascuno di noi e su tutta la creazione. La storia ha un senso, una direzione e un significato. Per i credenti, gli anni non si susseguono in modo uniforme e la storia avanza verso il suo compimento avvicinandoci, come scrive san Paolo“alla pienezza dei tempi” (v. 10). Mai avremmo potuto scoprire tale disegno da soli perché è un mistero che ci supera infinitamente e nel linguaggio di Paolo, mistero non è un segreto che Dio custodisce gelosamente, bensì la sua intimità alla quale ci invita.
Seconda notizia: la volontà di Dio è tutto e solo amore. Le parole “benedizione, amore, grazia, benevolenza” costellano il testo che poi prorompe “a lode dello splendore della sua grazia ( della sua gloria v.12,14) di cui ci ha gratificati nel Figlio amato” (v. 6). A lode della sua grazia perché Dio va riconosciuto come il Dio della grazia, cioè il Dio il cui amore è gratuito. Gesù ci ha rivelato che il Padre celeste è amore, vuole farci entrare nella sua intimità e desidera che in ogni circostanza si compia la sua volontà, perché è sempre buona.
Terza sottolineatura: il progetto di Dio si realizza attraverso Cristo, citato molte volte in questi versetti: tutto avviene “per lui, con lui e in lui”, come dice la liturgia. Dio ci ha predestinati “a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo” (v. 5). Cristo è il centro del mondo e della storia umana (l’alfa e l’omega); Figlio diletto nel quale ci ha “gratificati” il Padre (v. 6) e in lui saremo tutti riuniti al compimento dei tempi. Il “mistero” della volontà di Dio è infatti ricapitolare in Cristo l’universo intero.
*Vangelo Luca 1, 26-38
A Nazareth, villaggio in quel momento sconosciuto e insignificante, in una provincia poco considerata dalle autorità di Gerusalemme, l’angelo Gabriele ha parlato a una ragazza di nome Maria, facendole il complimento più sublime mai ricevuto da una donna: “piena di grazia” (Kecharitomene) che significa immersa totalmente nella grazia di Dio, colma del favore divino senza alcuna ombra. Questa vergine, Maria, poco più che adolescente, al termine dell’incontro e in perfetta sintonia, risponde al progetto di Dio con piena adesione: ”Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Tra le parole dell’angelo e la risposta della Vergine, la storia ha conosciuto la svolta decisiva che è l’ora dell’Incarnazione del Verbo. Da quel momento in poi nulla sarà più come prima perché tutte le promesse dell’Antico Testamento trovano ora il loro compimento. Anzi ogni parola dell’angelo le evoca e svela il “compimento” dell’attesa del Messia che ha segnato per sempre il corso dei secoli. Si attendeva un re discendente di Davide e qui riecheggia la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (2 Sam 7) dalla quale si è sviluppata tutta l’attesa messianica e costituisce proprio il cuore dell’annuncio dell’angelo Gabriele: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (vv. 32-33). Un altro titolo attribuito al Messia è “sarà chiamato Figlio di Dio (dell’Altissimo)” che nel linguaggio biblico significa «re», in riferimento alla promessa fatta da Dio a Davide: ogni nuovo re, nel giorno della sua consacrazione, riceveva il titolo di Figlio di Dio. Maria comprende e ricorda all’angelo di essere vergine e quindi non può concepire un figlio in modo naturale. Ben nota è la risposta dell’angelo che richiama altre promesse messianiche, superandole infinitamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Si attendeva il Messia investito della potenza dello Spirito Santo per compiere la sua missione di salvezza come Isaia aveva predetto: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore» (Is 11, 1-2), tuttavia l’annuncio dell’angelo Gabriele va ben oltre perché il bambino concepito sarà realmente Figlio di Dio. Evidente è l’insistenza di Luca su questo punto: il bambino non ha un padre umano, ma è «Figlio di Dio». Il testo offre due prove/segni: innanzitutto Maria dichiara: “Non conosco uomo” (nel testo originale: non ho relazioni con uomo). Inoltre l’angelo affida il compito di dare il nome al bambino alla madre e questo risulta una procedura del tutto insolita, che si spiega solo in assenza di un padre umano perché era sempre il padre a decidere il nome del figlio come si vede nella nascita di Giovanni Battista. I parenti si rivolsero a Zaccaria, anche se muto, e non a Elisabetta, per decidere come chiamare il bambino. Inoltre, quando l’angelo rassicura Maria: “la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” è naturale pensare a una nuova creazione richiamando alla mente quanto leggiamo nel libro della Genesi: «In principio Dio creò il cielo e la terra… Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1, 2). Questa stessa immagine è presente nel salmo 104: “Manda il tuo spirito, sono creati” (v. 30). La “nuvola”, “l’ombra” del Dio Altissimo evoca la presenza divina sulla Tenda del Convegno durante l’Esodo, e nel giorno della Trasfigurazione designa Gesù come Figlio di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”(Lc 9,35).
Commuove e sorprende, anzi diventa scuola di fede, la risposta di Maria a così grandi rivelazioni. E’ d’una disarmante semplicità, esempio perfetto di “obbedienza della fede” come dice Paolo (Rm1,5; 16,26), abbandono con fiducia totale alla volontà divina. Rispondendo “sì, eccomi”, Maria si unisce ai veri credenti della storia. Samuele rispose: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3, 10) e Maria semplicemente: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Il termine “serva” proclama la piena disponibilità al progetto di Dio e mostra che per le opere di Dio basta un semplice “sì” perché “nulla è impossibile a Dio”. Grazie al sì di Maria sconosciuta ragazza in Nazaret, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi “(Gv1,14). Torna in mente la promessa del profeta Sofonia al popolo di Dio che si era macchiato di tanti crimini e infedeltà per cui era ridotto a un piccolo resto: “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme… Il re d’Israele, il Signore, è in mezzo a te” (Sof 3, 14-15). L’odierna solennità esalta un evento che supera ogni possibile umana immaginazione e anche Maria avrà bisogno di tutta la vita per “custodire tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2.19; 51). L’attitudine di meditazione e di totale apertura alla volontà di Dio è un aspetto centrale della vita di Maria, e diventa il modello di ogni vero credente, di ogni autentico discepolo di Cristo.
*L’albero della conoscenza del bene e del male. Mi permetto aggiungere qualche riflessione sul valore simbolico di quest’albero spesso confuso con quello della vita. Non è specificato dove si trovi esattamente e già questo ci dice che la sua posizione è irrilevante rispetto al suo ruolo simbolico e allegorico. Il racconto si concentra sulla relazione tra Dio e Adamo ed Eva e tra loro per cui quest’albero funge da test per verificare l’obbedienza degli esseri umani a Dio e invita a capire il perché delle difficoltà esistenti di relazione tra noi esseri umani “uno di fronte all’altro”. Specificare la posizione geografica avrebbe spostato l’attenzione dal tema principale, che è la caduta e il peccato. Molti studiosi e teologi ritengono che l’albero della conoscenza del bene e del male simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. L’assenza di una descrizione geografica suggerisce anche che l’albero non è un oggetto fisico, ma un simbolo di una conoscenza che è riservata a Dio e non accessibile direttamente all’uomo. In molte tradizioni ebraiche e cristiane, l’albero è visto come un simbolo di un confine tra il divino e l’umano. Dio non vieta all’uomo l’albero per crudeltà, ma perché il tipo di conoscenza rappresentato da quell’albero — una conoscenza assoluta del bene e del male — prerogativa divina e la sua collocazione indefinita potrebbe suggerire che non si tratta di un luogo fisico raggiungibile dall’essere umano, ma rappresenta una dimensione spirituale che può essere compresa solo attraverso l’esperienza del rapporto con Dio. Ogni persona, in un certo senso, deve affrontare nella propria vita la scelta rappresentata simbolicamente dall’albero della conoscenza del bene e del male. Nella Genesi, accanto all’albero della conoscenza del bene e del male, c’è anche l’albero della vita, anch’esso non descritto geograficamente. Questo suggerisce che entrambi gli alberi rappresentano aspetti della vita spirituale che trascendono la realtà materiale. La loro localizzazione non è importante perché sono archetipi di esperienze spirituali, non oggetti fisici. Tutto qui invita a riflettere non su dove si trovi l’albero, ma su cosa rappresenti nel cammino di crescita spirituale e di confronto con la libertà e la responsabilità umana.
Le interpretazioni che vedono l’albero della conoscenza come simbolo di una realtà trascendente o di un confine tra il divino e l’umano hanno radici profonde nella tradizione esegetica sia antica che moderna. Ecco alcuni esempi di autori e teologi, sia tra i Padri della Chiesa che tra i teologi moderni, che hanno esplorato questo tema:
1. Sant’Agostino di Ippona (354-430 d.C.) interpreta l’albero della conoscenza del bene e del male in modo simbolico, vedendolo non come un semplice albero fisico, ma come un test di obbedienza e libero arbitrio. Nel suo capolavoro “La Città di Dio”, sottolinea che l’albero non aveva un potere intrinseco, ma rappresentava il limite morale imposto da Dio per educare l’uomo alla dipendenza da Lui. Egli vede l’albero come simbolo di una conoscenza che solo Dio può possedere pienamente, in quanto l’uomo non è creato per decidere autonomamente il bene e il male. Opera: De Genesi ad Litteram (Sulla Genesi alla lettera)
“Il frutto dell’albero era buono, non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio.”
2. Tommaso d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theologiae, affronta il tema dell’albero della conoscenza e lo interpreta come il simbolo della capacità di discernimento morale che Dio voleva riservare all’uomo nel momento opportuno, dopo aver raggiunto una piena maturità. Secondo Tommaso mangiare il frutto rappresenta una ribellione contro l’ordine divino, cercando di appropriarsi di una conoscenza che l’uomo, da solo, non era pronto a gestire.
Opera: Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2 “L’albero non era proibito per il suo frutto, ma per il significato morale: l’uomo doveva attendere il tempo di Dio per partecipare alla piena conoscenza.”
3. Gregorio di Nissa (IV secolo d.C.) Padre della Chiesa orientale, interpreta l’albero come simbolo della crescita spirituale e del progresso dell’anima verso la perfezione. Egli vede l’albero della conoscenza come una tappa che l’uomo doveva raggiungere solo in un secondo momento, attraverso un cammino di purificazione e conoscenza progressiva di Dio. Opera: De Hominis Opificio (Sulla creazione dell’uomo) “L’albero della conoscenza non è male di per sé, ma diventa tale quando l’uomo lo approccia con arroganza e disobbedienza, fuori dal tempo stabilito da Dio.”
4. Tra i teologi moderni, l’interpretazione simbolica e trascendente dell’albero è ripresa da autori come: Claus Westermann (1909-2000), esegeta tedesco, nel suo commentario sulla Genesi, sottolinea che l’albero rappresenta l’autonomia morale che l’uomo cerca di conquistare senza Dio. Opera: Genesis (Commentary) “L’albero non è un semplice albero fisico, ma una realtà che rappresenta la scelta fondamentale dell’uomo tra fidarsi di Dio o cercare la propria indipendenza morale.” Henri Blocher (1942), teologo evangelico francese, interpreta l’albero come il simbolo del mistero della sovranità di Dio, una conoscenza che appartiene esclusivamente al Creatore. Opera: In the Beginning: The Opening Chapters of Genesis: “L’albero rappresenta ciò che appartiene esclusivamente a Dio: il diritto di definire ciò che è bene e ciò che è male.”
*Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza del bene e del male (Etz HaDa’at Tov va-Ra’) ha un significato complesso e ricco di interpretazioni, che spesso differiscono da quelle cristiane. Mentre il cristianesimo si concentra sulla caduta e sul peccato originale, l’ebraismo non considera il peccato di Adamo ed Eva come una colpa ereditaria, ma piuttosto come un evento che offre importanti insegnamenti sull’essere umano, la libertà e la responsabilità morale. Ecco alcune delle principali interpretazioni ebraiche dell’albero della conoscenza:
1. L’Albero come simbolo di maturità e discernimento. Molti rabbini e studiosi ebrei vedono l’albero come simbolo della capacità di discernere tra bene e male, una qualità che Adamo ed Eva acquisiscono mangiandone il frutto. Prima di mangiare dall’albero, essi vivevano in una condizione di innocenza, priva di consapevolezza morale e responsabilità.
Rabbi Samson Raphael Hirsch (1808-1888), uno dei fondatori del moderno ebraismo ortodosso, interpreta l’albero come la capacità di fare scelte morali autonome, una tappa necessaria per l’umanità affinché potesse evolversi da una condizione infantile a una vita di responsabilità. “Il frutto proibito rappresenta la transizione dall’obbedienza infantile a una consapevolezza etica autonoma.”
2. Non il peccato, ma la consapevolezza della mortalità. Alcuni rabbini, tra cui il filosofo Maimonide (Rambam, 1138-1204), sostengono che mangiare dall’albero non ha portato il peccato nel mondo, ma ha dato agli esseri umani la consapevolezza della loro mortalità e della loro condizione imperfetta. Per Maimonide, l’albero rappresenta la conoscenza sensibile e materiale, che contrasta con la conoscenza intellettuale e divina. Opera: Guida dei Perplessi (Moreh Nevukhim): “Prima di mangiare dall’albero, Adamo ed Eva vivevano secondo la verità pura e intellettuale; dopo, iniziarono a percepire il mondo attraverso la lente del desiderio e del piacere sensibile.” In questa visione, l’albero non è necessariamente negativo: rappresenta l’ingresso dell’umanità in una condizione complessa, in cui si mescolano bene e male, vita e morte, piacere e dolore.
3. La conoscenza come responsabilità morale. Nel Midrash (racconti esegetici rabbinici), l’albero è spesso interpretato come una prova attraverso la quale Dio voleva insegnare all’uomo la responsabilità morale. Adamo ed Eva non erano destinati a rimanere per sempre nel Giardino dell’Eden, ma dovevano dimostrare la loro capacità di rispettare i confini stabiliti da Dio. Secondo il Midrash Rabbah sulla Genesi, Dio voleva che l’uomo imparasse a rispettare i limiti e che comprendesse che non tutto gli è accessibile o utile. Il divieto di mangiare dall’albero simboleggia il fatto che la libertà umana è sempre accompagnata da limiti etici. “Non tutto ciò che è desiderabile è buono, e non tutto ciò che è permesso è necessario.”
4. Il frutto dell’albero: simbolismo e interpretazioni. La tradizione ebraica non identifica esplicitamente quale fosse il frutto dell’albero. Tuttavia, esistono diverse interpretazioni rabbiniche sul tipo di frutto: Fico: Alcuni commentatori suggeriscono che fosse un fico, poiché Adamo ed Eva si coprono immediatamente con foglie di fico dopo aver mangiato il frutto (Genesi 3:7). Uva: Secondo un’altra tradizione midrashica, il frutto potrebbe essere stato l’uva, simbolo del desiderio e del vino, che porta sia gioia che sventura. Grano: Alcuni rabbini interpretano il frutto come chicchi di grano, simbolo della conoscenza e della capacità di distinguere tra bene e male, poiché nella cultura ebraica il grano è legato alla saggezza.
5. Il ruolo di Dio e la libertà umana. Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza è spesso interpretato come un dono che Dio concede agli esseri umani per permettere loro di diventare co-creatori del loro destino. A differenza della tradizione cristiana, che sottolinea il concetto di caduta e peccato, l’ebraismo mette in evidenza l’importanza della libertà di scelta e la possibilità di rettificare le proprie azioni attraverso il pentimento (teshuvah); è quindi considerato come una sfida educativa che porta l’essere umano a crescere in consapevolezza e responsabilità. Autori come Maimonide, Hirsch e il Midrash Rabbah sottolineano che l’essenza del racconto è il tema della libertà morale, della necessità di accettare i limiti imposti da Dio e della possibilità di evoluzione spirituale.
+ Giovanni D’Ercole
Qualche giorno mi trovavo in un bar. C’erano dei giovani che parlavano dei loro problemi quotidiani, quando a un certo punto esce fuori il problema dell’invidia.
La discussione su questo argomento viene accolta anche dalle persone che erano lì e qualcuno scherzando o meno (chissà) ha espresso: ma come si toglie?
Mi sono tornate in mente vecchie pratiche magiche e superstiziose di quando ero bimbo. Oppure di tutte quelle volte che ho sentito dire di fronte a un insuccesso o situazione poco favorevole: “devo andare a far togliere l’invidia”. E non solo da gente semplice, ma anche da persone con un certo grado di cultura. Come già sostenuto nei precedenti articoletti, anche l’uomo di scienza ha la sua parte irrazionale.
Nel vocabolario Treccani alla voce invidia si legge: “Sentimento spiacevole per un bene o qualità altrui che si vorrebbero per sé, accompagnato spesso da avversione e rancore per colui che invece le possiede”.
E’ un sentimento che abbiamo tutti e che ci rifiutiamo di riconoscere perché spesso è una cosa di cui ci vergogniamo. Spesso crediamo che questo sentimento abbia poteri occulti e per questo crediamo che pseudo pratiche magiche possano liberarci. Nulla di più illusorio.
Melanie Klein ha scritto il libro “Invidia e Gratitudine” dove affronta tale tematica.
Quest’autrice ha indagato a fondo il primo rapporto che il bambino ha con il seno materno e poi con la madre quando riesce a percepirla come oggetto totale. Rapporto primario che può risultare difficile anche per cause materne: non accettazione del bimbo, difficoltà nel parto, o riluttanza nell’allattarlo.
Ma ci sono cause che possono scaturire anche dal bambino, e fra queste primeggia proprio l’invidia che gli impedisce un bel rapporto col seno.
Il bimbo può provare un grosso sentimento di rabbia verso il seno, sia che venga percepito come buono, cioè che lo soddisfi, sia come cattivo - perché non accontenta i suoi bisogni e genera invidia perché possiede qualcosa che lui non ha.
E allora il lattante prova a danneggiarlo come può, mettendoci le sue parti cattive (sputando, orinando, mordendo, ecc.).
In una persona una forte presenza dell’invidia può danneggiare il proprio modo di vivere, e i suoi rapporti con gli altri; non per cause esterne, ma perché non riesce a comprendere l’oggetto buono.
Ritiene di averlo rovinato e reso cattivo.
Non riesce a sentire i suoi sentimenti buoni, e questo aumenta la sua invidia e il suo odio.
Invece il bambino che è più capace di provare amore e gratitudine per il dono che ha ricevuto, sperimenta maggiormente l’oggetto buono.
Di conseguenza, acquistando fiducia nella propria bontà, supererà invidia e odio con maggiore facilità.
La persona affetta da invidia difficilmente riesce a godere delle gioie della vita, perché il rapporto con la madre e poi con qualsiasi altro oggetto di amore è danneggiato.
I sentimenti positivi spingono il bambino a conservare il latte ricevuto come buono.
Saper sperimentare gratitudine è la base del piacere, e in seguito egli sarà in grado di stabilire rapporti soddisfacenti, perché sono diminuiti i desideri distruttivi: le sue angosce saranno meno forti.
L’invidia non ci fa vivere bene, per il semplice motivo che va in senso contrario alla vita - e il mondo esterno diventa il nostro nemico.
Oppure essa ci fa vivere un “seno” troppo idealizzato o troppo cattivo.
Una persona con una buona capacita di voler bene riesce ad amare l’ “oggetto” pur vedendone i limiti.
Una cosa positiva che l’invidia può operare in noi è la possibilità di migliorarci.
Spesse volte, per chi chiede aiuto ad un professionista, fra le varie tematiche che la persona porta in analisi, si deve affrontare questo problema.
Se l’analista ha ben cosciente queste sue parti distruttive, riuscirà a condurre la persona che ha di fronte a riconoscere le parti negative, e a mitigarle con l’amore e i sentimenti positivi.
La persona ben adattata sopporterà meglio i propri sensi di colpa, e non avrà bisogno di vederli addosso agli altri. .
Molto spesso è difficile sopportare noi stessi.
Francesco Giovannozzi Psicologo – Psicoterapeuta.
Man is involved in penance in his totality of body and spirit: the man who has a body in need of food and rest and the man who thinks, plans and prays; the man who appropriates and feeds on things and the man who makes a gift of them; the man who tends to the possession and enjoyment of goods and the man who feels the need for solidarity that binds him to all other men [CEI pastoral note]
Nella penitenza è coinvolto l'uomo nella sua totalità di corpo e di spirito: l'uomo che ha un corpo bisognoso di cibo e di riposo e l'uomo che pensa, progetta e prega; l'uomo che si appropria e si nutre delle cose e l'uomo che fa dono di esse; l'uomo che tende al possesso e al godimento dei beni e l'uomo che avverte l'esigenza di solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini [nota pastorale CEI]
The Cross is the sign of the deepest humiliation of Christ. In the eyes of the people of that time it was the sign of an infamous death. Free men could not be punished with such a death, only slaves, Christ willingly accepts this death, death on the Cross. Yet this death becomes the beginning of the Resurrection. In the Resurrection the crucified Servant of Yahweh is lifted up: he is lifted up before the whole of creation (Pope John Paul II)
La croce è il segno della più profonda umiliazione di Cristo. Agli occhi del popolo di quel tempo costituiva il segno di una morte infamante. Solo gli schiavi potevano essere puniti con una morte simile, non gli uomini liberi. Cristo, invece, accetta volentieri questa morte, la morte sulla croce. Eppure questa morte diviene il principio della risurrezione. Nella risurrezione il servo crocifisso di Jahvè viene innalzato: egli viene innalzato su tutto il creato (Papa Giovanni Paolo II)
St John Chrysostom urged: “Embellish your house with modesty and humility with the practice of prayer. Make your dwelling place shine with the light of justice; adorn its walls with good works, like a lustre of pure gold, and replace walls and precious stones with faith and supernatural magnanimity, putting prayer above all other things, high up in the gables, to give the whole complex decorum. You will thus prepare a worthy dwelling place for the Lord, you will welcome him in a splendid palace. He will grant you to transform your soul into a temple of his presence” (Pope Benedict)
San Giovanni Crisostomo esorta: “Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà con la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza” (Papa Benedetto)
Only in this friendship are the doors of life opened wide. Only in this friendship is the great potential of human existence truly revealed. Only in this friendship do we experience beauty and liberation (Pope Benedict)
Solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera (Papa Benedetto)
A faith without giving, a faith without gratuitousness is an incomplete faith. It is a weak faith, a faith that is ill. We could compare it to rich and nourishing food that nonetheless lacks flavour, or a more or less well-played game, but without a goal (Pope Francis)
Una fede senza dono, una fede senza gratuità è una fede incompleta (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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