Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Dalle usanze coi limiti alla Spiritualità dei beni-Relazione
(Mt 19,16-22)
Al tempo di Gesù si viveva un momento di collasso sociale e disgregazione della dimensione comunitaria della vita - nel passato più legata alla famiglia, al clan e alla comunità.
La politica di Erode garantiva all’Impero il controllo della situazione: una realtà di massimo sfruttamento e grave repressione economica e civile.
Le imposizioni religiose assicuravano persino l’asservimento delle coscienze - e le autorità spirituali si facevano volentieri garanti di questa più occulta forma di schiavitù.
La condizione di sottomissione totale (civile e religiosa) del popolo tendeva ovunque a sminuire il senso della fraternità interpersonale e di gruppo.
Non mancavano severe condizioni di esclusione sociale e cultuale, che accentuavano lo smarrimento della gente, emarginata, priva di dimora e di riferimenti - persino religiosi.
Alcuni movimenti tentavano di ritessere le lacerazioni e proporre forme di vita condivisa, certo - ma accomunate da un’idea di decontaminazione tormentosa [Esseni, Farisei, Zeloti].
Gesù sceglie la strada d’un riscatto vitale decisivo, rispetto alle ideologie della riscoperta del purismo ascetico e di costume, tradizionalista nazionalista fondamentalista.
Per un radicale compimento dello spirito della Legge bisognava andare oltre le dottrine. Esse eccitano alcuni, eppure non cancellano il nostro senso intimo di vuoto.
La comunità dei figli non si tiene nei ‘limiti’, e non vive separata; così non accentua i tormenti d’imperfezione, o la percezione d’incompiutezza, né le emarginazioni - bensì le accoglie.
Non si sente messa in pericolo dal contatto con le realtà che il legalismo esterno della devozione antica considerava pericolose e maledette o in peccato. Trepida per esse.
La Chiesa riconosce il valore delle povertà esistenziali: non gli basta cercare “cose buone” senza ‘fuoco’ dentro.
Confessa la ricchezza non di tutto ciò che risulta già riconoscibile e statico, bensì delle nuove posizioni e dei rapporti difformi, che aprono il presente e spalancano visioni creative di futuro.
La Fede insomma non è un credere popolaresco identificato e in grado di accreditare ruoli, mansioni e personaggi - e i loro vantaggi, da cui tutti dovrebbero dipendere [!].
Né la dimensione-ricchezza può fare ancora rima con differenziazione-sicurezza.
Ai vv.18-19 Gesù non enumera comandamenti che farebbero vivere l’interlocutore [come si diceva un tempo] ‘più da presso’ a ‘Dio solo’, ma i criteri che ci portano vicino e accanto a sorelle e fratelli.
L’onore riservato al Padre non è una delle tante forme di amore competitivo: la soglia è il prossimo.
Il Dio delle religioni è un ragazzino capriccioso che pretende il pezzo grande della torta, a merenda: ma il Figlio non c’inganna con le idee più infantili delle credenze diffuse.
Neppure cita i primi comandamenti, identificativi del Signore eccelso del suo popolo.
Le nostre mani abbracciano il senza-tempo nell’amore concreto.
Esse innescano i dinamismi che annientano i tormenti dei minimi, e così in modo impensabile aiutano a farci riscoprire il senso e la gioia di vivere - lasciando rinascere il mondo, assai più che con le solite forme assicurative (sacralizzanti titoli e livelli economici acquisiti).
La vita consapevole non ha a che fare con usanze e cliché [che producono alibi] ma con un’altra serenità e gioia: lo stupore dell’inconsueto e di nuovi gradi, posti, stati, relazioni, situazioni.
Non esiste altra ricchezza che possa riempire le nostre giornate, mentre non c’è che tristezza (v.22) nei vecchi legami senza umanità. Essi calano tutti noi in una realtà mentale ed emotiva artificiosa.
Distaccarsi dal calcolo immediato sembra una scelta assurda, campata per aria e destinata male, ma è viceversa la mossa vincente che apre le porte alla Vita nuova del Regno e alla Felicità, cui si accede appunto quando i beni materiali vengono trasformati in Relazione.
Non conosciamo disciplina religiosa che tenga [e che riesca a sfidare il tempo, le nostre emozioni].
Solo il rischio per la Vita completa - nostra, di tutti - fa da molla alla volontà e spinge a piena dedizione.
Dice il Tao (xiii): «A chi di sé fa pregio a pro del mondo, si può affidare il mondo; a chi di sé ha cura a pro del mondo, si può confidare il mondo».
E il maestro Ho-shang Kung commenta: «Se facessi sì da non tenere alla mia persona, avrei in me la spontaneità del Tao: mi solleverei con leggerezza innalzandomi fino alle nubi, entrerei e uscirei là dove non sono interstizi, porrei lo spirito in comunicazione col Tao. Allora quale sventura avrei?».
Liberiamoci dalla pletora di obbiettivi sbagliati, che schiacciano i nostri percorsi, rendendoli paludosi. Riflettiamo bene anche noi, dunque, su «ciò ch’è insigne» (v.17).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Grazie alle guide spirituali hai imparato a cogliere la tua vita a partire dalla Bontà di Dio, o a cullarti e accontentarti di quanto c’è?
Nella Chiesa hai trovato realizzato il criterio di Gesù, il forte desiderio di Bene anche altrui, in grado d’indicare un percorso? O più attenzione alle cose della terra?
Uno ti manca
Ereditare la Vita dell’Eterno
(Mc 10,17-27)
Cosa ci sfugge, malgrado la convinzione e il coinvolgimento? Per quale alto motivo abbiamo fatto alcune scelte comportamentali?
Anche se dedicassimo anni d’impegno al cammino spirituale in religione, ci accorgeremmo che infine non manca solo la ciliegina sulla torta, ma l’Uno globale.
Non è sufficiente accentuare o perfezionare le cose buone, bisogna fare un Balzo; non basta un passetto (anche alternativo) in più.
Paradossalmente si parte dalla percezione d’una ferita interiore che smuove (v.17) alla ricerca di quel Bene che unifica e dà senso alla vita.
Gesù fa riflettere su ciò che è da considerare «Insigne» (così il testo greco: vv.17-18).
Non è un magistero per i lontani, bensì per noi: «Uno ti manca!» - come se volesse sottolineare: «Ti manca il Tutto, non hai quasi niente!».
La vita normale procede, ma il cammino di fiducia difetta. Non c’è stupore.
Il nostro andare non si consolida né qualifica adeguandosi all’ambiente circostante, aggiungendo patrimonio a patrimonio e scansando peccatucci, o - soprattutto - le incognite.
Mancano troppe cose: la sfida del di più personale, la cura altrui, il confronto con la drammaticità del reale: non c’è unità, scarseggia la Presenza autentica che lancia l’amore nello spirito di avventura.
Non si tratta di avere uno spunto in aggiunta a quanto già possediamo, continuando a esserne schiavi (i titoli, il capitale o il soldo, che ci danno ordini come padroni; promettono, garantiscono, lusingano).
Non basta migliorare situazioni di relazione che conosciamo a memoria, facendosi approvare fin dal primo passo - né limitarsi ad approfondire pie curiosità saziando la gola spirituale.
Il passaggio dalla religiosità alla Fede che porta il nostro destino vocazionale e la piena realizzazione si gioca su una penuria di appoggi - in sistemi caotici di correlazione.
Per essere felici non vale “normalizzarsi” né rimanere persone perbene, devote, perché l’anima esige la sfida di cieli inesplorati.
Acque che non abbiamo sondato: lati di noi stessi, degli altri e della realtà che non abbiamo fatto emergere, e ancora forse non stiamo nemmeno scrutando.
Bisogna avventurarsi nei tratti basali e straordinari che oggi chiamano anche nel giorno dopo giorno; non attendere assicurazioni.
E il punto di partenza può anche essere l’accento del dubbio, una sana inquietudine dell’anima - il pericolo stesso... tipico dei testimoni critici.
Non tacitiamo il nostro essere malsicuro, né il senso d’insoddisfazione per una esistenza comune, senza scossoni: sono feconde sospensioni, che (quando pronti) ci attiveranno.
Sentirsi completo, realizzato, felice? Bisogna che sguardo e cuore cedano, non siano già occupati.
È assolutamente necessario lasciar andare le certezze dalla mente e dalla propria mano.
L’azzardo non è macerazione di sé o delle linee portanti della propria personalità - ma il temerario investire tutto per un altro regno, dove affiorano energie, si esplorano differenti rapporti; si tenta di sublimare i beni in matrice di vita (anche altrui: v.21).
Dopo che un senso d’incompletezza o persino l’infermità spirituale ci hanno spinti a una ricca sintonia con i codici dell’anima e condotti a tu per tu con Gesù (v.17) da Lui comprendiamo il segreto della Gioia.
Il nostro Nucleo rimane inquieto se non infonde corrispondenze che sorvolino - appunto - l’antico dominatore: i possedimenti, che fanno ristagnare.
Malgrado le garanzie promesse, essi rimangono stitici, privi di senso.
Anzi, bloccandoci nella dipendenza fanno regredire quasi nel pre-umano - scippando la delizia delle relazioni aperte, nel rispetto di sé.
Le Radici profonde vogliono modificare il vettore dell’io paludoso e situato - “come si deve”, ben inserito o autoreferenziale - affinché dilati comprendendo il Tu e il tutto reale (vv.28-30).
È la Nascita della donna e dell’uomo nuovi, madri e padri dell’umanizzazione (in una comunità viva, che accetta la convivialità delle differenze). Ciò che sfiora la condizione divina.
In grado persino di rovesciare le posizioni (v.31). Segno escatologico e della Chiesa genuina. Nido e Focolare vero.
È la Genesi nell’autenticità delle energie cosmiche e delle potenze interiori, che stanno preparando tappe di crescita - altrove.
Via via si crea il calore e la reciprocità d’un rapporto comprensivo, lo scopo d’Amore in ciò che intraprendiamo o rifacciamo; come il tepore amico d’una Presenza non frigida.
Viviamo il discrimine colmo d’ebbrezza da cui non si torna indietro, perché ci colloca nella Vita stessa dell’Eterno (v.17). L’Uno che manca (v.21).
Mentre mi adopero per rimettermi in discussione o in favore degli altri, affiorano le risorse prima celate - che neppure sapevo.
Con stupore faccio esperienza d’una realtà che passo passo si dischiude... nonché del Padre che provvede a me (v.27).
In tale estensione, impariamo a riconoscere il (nuovo decisivo) Soggetto del cammino spirituale: il Disegno di Dio nell’essere stesso.
Sogno che conduce, e malgrado le traversie, le tempeste emotive, i nostri contorcimenti, si rivela via via Somigliante.
Come innato: schietto, genuino, limpido; inconfutabile, smagliante, scorrevole.
Inseriti nella Comunità che ode l’appello a “uscire”, ci smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).
Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere Fratelli, sullo stesso piano.
Non ci sarà nessun cento per uno di “padri” (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente da sfaccettature d’Ignoto.
Una vita di attaccamenti o sottomessa a dirigismi blocca la creatività.
Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o pre-occupazioni è come creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati, senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità personale.
Chi si lascia inibire edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.
Congetturando di riuscire a prevedere le avventure globali ci rattrappiamo, spaventiamo. Non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui.
È quanto si palesa durante un processo - che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici».
Sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto, sono le nuove genesi a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Cosa devo «fare» (v.17)? Accogliere il Dono del diverso e delle differenze - persino nei miei stessi volti interiori, non di rado opposti; che completano.
Trasaliremo dell’Uno che manca, ma che ci raggiunge.
Non si fabbrica, ma si riceve, si «eredita» (v.17) gratuitamente - dal reale che preme.
«Dov’è l’Insigne per me?».
Per diventare ciò che autenticamente siamo nell’elezione della nostra sacra Sorgente, bisogna abbandonarsi alle cose, alle situazioni, persino agli ospiti emotivi inusitati - trattandoli con dignità, così come sono.
Dentro questo nuova terra antica c’è il segreto di quell’elevatezza che si staglia sui dilemmi, per ciascuno.
Con tutto il suo carico di stimolanti sorprese e appelli a rifiorire in pienezza umanizzante, il Buono sta nell’accogliere qualcosa che non so già cos’è o sarà, ma Viene.
«L’Unico ti manca!» - e il modo migliore per stimarne il contatto è una scommessa, matrice di essere: trasformare i beni (di ogni genere) in vita e relazione.
Il giovane del Vangelo - lo sappiamo - chiede a Gesù: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Oggi non è facile parlare di vita eterna e di realtà eterne, perché la mentalità del nostro tempo ci dice che non esiste nulla di definitivo: tutto muta, e anche molto velocemente. “Cambiare” è diventata, in molti casi, la parola d’ordine, l’esercizio più esaltante della libertà, e in questo modo anche voi giovani siete portati spesso a pensare che sia impossibile compiere scelte definitive, che impegnino per tutta la vita. Ma è questo il modo giusto di usare la libertà? E’ proprio vero che per essere felici dobbiamo accontentarci di piccole e fugaci gioie momentanee, le quali, una volta terminate, lasciano l’amarezza nel cuore? Cari giovani, non è questa la vera libertà, la felicità non si raggiunge così. Ognuno di noi è creato non per compiere scelte provvisorie e revocabili, ma scelte definitive e irrevocabili, che danno senso pieno all’esistenza. Lo vediamo nella nostra vita: ogni esperienza bella, che ci colma di felicità, vorremmo che non avesse mai termine. Dio ci ha creato in vista del “per sempre”, ha posto nel cuore di ciascuno di noi il seme per una vita che realizzi qualcosa di bello e di grande. Abbiate il coraggio delle scelte definitive e vivetele con fedeltà! Il Signore potrà chiamarvi al matrimonio, al sacerdozio, alla vita consacrata, a un dono particolare di voi stessi: rispondetegli con generosità!
Nel dialogo con il giovane, che possedeva molte ricchezze, Gesù indica qual è la ricchezza più importante e più grande della vita: l’amore. Amare Dio e amare gli altri con tutto se stessi. La parola amore - lo sappiamo - si presta a varie interpretazioni ed ha diversi significati: noi abbiamo bisogno di un Maestro, Cristo, che ce ne indichi il senso più autentico e più profondo, che ci guidi alla fonte dell’amore e della vita. Amore è il nome proprio di Dio. L'Apostolo Giovanni ce lo ricorda: “Dio è amore”, e aggiunge che “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio”. E “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,8.10.11). Nell’incontro con Cristo e nell’amore vicendevole sperimentiamo in noi la vita stessa di Dio, che rimane in noi con il suo amore perfetto, totale, eterno (cfr 1Gv 4,12). Non c'è nulla, quindi, di più grande per l'uomo, un essere mortale e limitato, che partecipare alla vita di amore di Dio. Oggi viviamo in un contesto culturale che non favorisce rapporti umani profondi e disinteressati, ma, al contrario, induce spesso a chiudersi in se stessi, all’individualismo, a lasciar prevalere l’egoismo che c’è nell’uomo. Ma il cuore di un giovane è per natura sensibile all’amore vero. Perciò mi rivolgo con grande fiducia a ciascuno di voi e vi dico: non è facile fare della vostra vita qualcosa di bello e di grande, è impegnativo, ma con Cristo tutto è possibile!
[Papa Benedetto, Incontro con i Giovani, Torino 2 maggio 2010]
6. Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale: «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Egli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"«(Mt 19,16-21).
7. «Ed ecco un tale...». Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione illustri l'altissima vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo, unica risposta che appaga pienamente il desiderio del cuore umano.
Perché gli uomini possano realizzare questo «incontro» con Cristo, Dio ha voluto la sua Chiesa. Essa, infatti, «desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita».
[Papa Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor nn.6-7 cf.ss]
l Signore Gesù regala il compimento, è venuto per questo. Quell’uomo doveva arrivare sulla soglia di un salto, dove si apre la possibilità di smettere di vivere di sé stessi, delle proprie opere, dei propri beni e – proprio perché manca la vita piena – lasciare tutto per seguire il Signore. A ben vedere, nell’invito finale di Gesù – immenso, meraviglioso – non c’è la proposta della povertà, ma della ricchezza, quella vera: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (v. 21).
Chi, potendo scegliere fra un originale e una copia, sceglierebbe la copia? Ecco la sfida: trovare l’originale della vita, non la copia. Gesù non offre surrogati, ma vita vera, amore vero, ricchezza vera! Come potranno i giovani seguirci nella fede se non ci vedono scegliere l’originale, se ci vedono assuefatti alle mezze misure? È brutto trovare cristiani di mezza misura, cristiani – mi permetto la parola – “nani”; crescono fino ad una certa statura e poi no; cristiani con il cuore rimpicciolito, chiuso. È brutto trovare questo. Ci vuole l’esempio di qualcuno che mi invita a un “oltre”, a un “di più”, a crescere un po’. Sant’Ignazio lo chiamava il “magis”, «il fuoco, il fervore dell’azione, che scuote gli assonnati».
La strada di quel che manca passa per quel che c’è. Gesù non è venuto per abolire la Legge o i Profeti ma per dare compimento. Dobbiamo partire dalla realtà per fare il salto in “quel che manca”. Dobbiamo scrutare l’ordinario per aprirci allo straordinario.
[Papa Francesco, Udienza Generale 13 giugno 2018]
19a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [10 Agosto 2025]
*Prima lettura dal Libro della Sapienza (18, 6-9)
Il primo versetto ci introduce immediatamente nell’atmosfera: l’autore si abbandona a una meditazione sulla “notte della liberazione pasquale”, la notte dell’uscita d’Israele dall’Egitto, guidato da Mosè. Di anno in anno Israele celebra il pasto pasquale per rivivere il mistero della liberazione operata da Dio in quella notte memorabile (Es 12,42). Celebrare per rivivere: il verbo “celebrare” non significa semplicemente commemorare, ma “fare memoria” lasciare cioè che Dio agisca nuovamente, il che implica lasciarsi trasformare in profondità. Ancora oggi, quando il padre di famiglia, durante il pasto pasquale, inizia il proprio figlio al significato della festa, non gli dice: “Il Signore ha agito a favore dei nostri padri”, ma: “Il Signore ha agito a mio favore, quando sono uscito dall’Egitto» (Es 13,8). E i commenti dei rabbini confermano: “In ogni generazione, ciascuno deve considerarsi come se fosse uscito dall’Egitto”. La celebrazione della notte pasquale racchiude tutte le dimensioni dell’Alleanza sia l’azione di grazie per la liberazione compiuta da Dio come pure l’impegno di fedeltà ai comandamenti. Liberazione, dono della Legge e alleanza sono un unico evento come Dio comunicò a Mosè, e tramite lui al popolo, ai piedi del Sinai (Es 19,4-6). Nelle poche righe del Libro della Sapienza ci vengono qui proposte le due dimensioni: anzitutto l’azione di grazie: “La notte (della liberazione) fu preannunciata ai nostri padri perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà” (v.6). Si parla qui dei giuramenti, che sono le promesse di Dio al suo popolo: una discendenza, una terra, una vita felice in quella terra (Gen 15,13-14; 46,3-4). “Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi chiamandoci a te” (v.7). Questa è la lezione: scegliendo l’oppressione e la violenza, gli Egiziani hanno provocato da sé la propria rovina. Il popolo oppresso, invece, ha ricevuto la protezione di Dio. La seconda dimensione della celebrazione della notte pasquale è l’impegno personale e comunitario: “I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacri lodi dei padri” (v.9). L’autore metta in parallelo: la pratica del culto “offrivano sacrifici in segreto”, e l’impegno di solidarietà fraterna “si imposero concordi di condividere successi e pericoli”. La Legge d’Israele ha sempre unito la celebrazione dei doni di Dio e la solidarietà tra i membri del popolo dell’Alleanza. Anche Gesù opererà lo stesso legame: “fare memoria di lui” significa, con un solo gesto, celebrare l’Eucaristia e mettersi al servizio dei fratelli, come lui stesso fece la sera del Giovedì Santo, lavando i piedi ai discepoli.
*Salmo responsoriale (32/33, 1.12, 18-19, 20.22)
“Esultate, o giusti, nel Signore; per gli uomini retti è bella la lode”. Fin dal primo versetto sappiamo di essere nel Tempio di Gerusalemme, nel contesto di una liturgia di rendimento di grazie. Attenzione: “giusti” e “uomini retti” non indicano atteggiamenti di orgoglio o autocompiacimento, ma l’atteggiamento umile di chi si inserisce nel progetto di Dio perché nella Bibbia la giustizia (per noi sarebbe santità) non è una qualità morale bensì un dono. “Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità” (v.12. L’Alleanza è il progetto di Dio cioè la scelta libera con cui ha voluto affidare a un popolo il suo mistero. È naturale, quindi, rendere grazie per questo dono. Non si tratta di un orgoglio arrogante, ma di una legittima fierezza, la consapevolezza dell’onore che Dio gli ha fatto scegliendolo per una missione ed è la fierezza nostra di essere incorporati col battesimo al suo popolo in missione nel mondo. La fiducia nasce dalla fede e il versetto seguente esprime in un altro modo questa esperienza della fede:”L’occhio del Signore è chi su lo teme, su chi spera nel suo amore”(v.18) Splendida definizione del “timore di Dio” in senso biblico: non paura, ma fiducia totale e interessante è l’accostamento delle due parti del versetto: “chi lo teme” e “chi spera nel suo amore”. Il timore di Dio è, in realtà, fiducia nell’amore di Dio, non timore servile, ma risposta d’amore come dice il Salmo 102/103: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. L’unico vero modo per rispettare Dio è amarlo come appare chiaramente nella professione di fede d’Israele: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza” (Dt 6,4). Torno sul versetto centrale: “L’occhio del Signore è chi su lo teme, su chi spera nel suo amore”. Dio ha vegliato su Israele come un padre durante il cammino nel deserto. Liberati dall’Egitto gli ebrei, senza l’ntervento divino, non sarebbero sopravvissuti né al passaggio del Mare, né alle prove del deserto. Al roveto ardente,il Signore aveva promesso a Mosè di accompagnare il suo popolo verso la libertà e ha mantenuto la promessa. Quando leggiamo “il Signore” si tratta sempre del famoso tetragramma YHWH, che gli ebrei non pronunciano per rispetto e che significa: “Io sono, io sarò con voi, in ogni istante della vostra vita.”, in fondo si tratta del respiro dell’essere umano. Il salmista continua: “Per liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame” (v.19) che richiama il Libro del Deuteronomio dove si dice che il Signore ha vegliato sul suo popolo “come sulla pupilla del suo occhio”. Il salmo prosegue: “il Signore è nostro aiuto e nostro scudo. Su di noi sia il tuo amore, Signore come date noi speriamo” (vv20. 22) Una fiducia non sempre facile e Israele ha oscillato tra fiducia e ribellione, attratto costantemente da idoli. Questo salmo è in fondo una chiamata alla fede salda. Chi l’ ha composto conosce bene le incertezze del suo popolo. Per questo invita a ritrovare la certezza della fede, l’unica in grado di generare felicità duratura. E ha composto questo salmo di ventidue versetti come le lettere dell’alfabeto ebraico, per indicare che la Legge è un tesoro che guida la vita dall’A alla Z.
*Seconda lettura dalle Lettera agli Ebrei (11,1-2.8-19)
“Per fede”: questa espressione ritorna come un ritornello nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei e l’autore arriva perfino a dire che il tempo gli manca per elencare tutti i credenti dell’Antico Testamento, la cui fede ha permesso al progetto di Dio di compiersi. Il testo che ci viene proposto questa domenica si concentra solo su Abramo e Sara, modelli di vera fede. Tutto è cominciato per loro con la prima chiamata di Dio (Gn 12): “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, e va’ verso il paese che io ti indicherò”. E Abramo obbedì, ci dice il testo, nel senso più bello del termine: obbedire nella Bibbia significa libera sottomissione di chi accetta di fidarsi perché sa che quando Dio ordina è per il suo bene e per la sua liberazione sapendo che Dio vuole soltanto il nostro bene, la nostra felicità. Abramo partì verso un paese che doveva ricevere in eredità: credere, significa vivere tutto ciò che possediamo come un dono di Dio. Partì senza sapere dove andava: se si sapesse dove si va, non ci sarebbe più bisogno di credere. Credere è fidarsi senza capire e senza sapere tutto; accettare che la strada non è quella da noi prevista o desiderata perché sia Dio a deciderla. Sia fatta la tua volontà, non la mia , disse molto tempo dopo Gesù, che a sua volta si fece obbediente, come dice san Paolo, fino alla morte di croce (Fil 2). “Per fede anche Sara, sebbene fuori dell’età (90 anni), potè diventare madre”. E’ vero che all’inizio rise a un annuncio così incredibile, ma poi lo accolse come una promessa e si fidò ascoltando la risposta del Signore al suo riso: “C’è forse qualcosa di troppo difficile per il Signore? – disse Dio – Al tempo stabilito ritornerò da te, e Sara avrà un figlio” (Gn 18,14). E ciò che era impossibile umanamente si realizzò. Un’altra donna, Maria, secoli più tardi, ascoltò l’annuncio della nascita del figlio della promessa, e accettò credendo che nulla è impossibile a Dio (Lc 1). Per fede Abramo affrontò la prova incredibile di offrire in sacrificio Isacco, ma anche lì, benché non comprendesse, sapeva che l’ordine di Dio era dato per amore: era il cammino della promessa, un cammino oscuro, ma sicuro. Dal punto di vista umano, la promessa di una discendenza e la richiesta del sacrificio di Isacco sono in netta contraddizione, ma Abramo, il credente, proprio perché aveva ricevuto la promessa di una discendenza per mezzo di Isacco, può arrivare fino al punto di offrirlo in sacrificio perché crede che Dio non può rinnegare la sua promessa. Alla domanda di Isacco: Padre, vedo il fuoco e la legna… ma dov’è l’agnello per l’olocausto?, Abramo risponde con tutta sicurezza: Dio provvederà, figlio mio. Il cammino della fede è oscuro, ma è sicuro. E non mentiva neppure quando disse ai suoi servi, lungo la strada: Rimanete qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin là per adorare e poi torneremo da voi. Non sapeva quale lezione Dio volesse dargli sull’interdizione dei sacrifici umani, non conosceva l’esito della prova, ma si fidava. Secoli dopo, Gesù, il nuovo Isacco, credette che poteva risuscitare dai morti, e fu esaudito, come dice la Lettera agli Ebrei. Abbiamo qui una straordinaria lezione di speranza! E’ la fede a salvarci e l’autore della Lettera agli Ebrei commenta che il progetto salvifico si compie grazie a chi crede e lascia che la promessa possa compiersi attraverso di lui.
NOTA In ebraico, il verbo credere è aman (da cui deriva il nostro «amen»),termine che implica solidità, fermezza; credere significa “tenersi saldi”, avere fiducia fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento o nell’angoscia.
*Dal Vangelo secondo Luca (12, 32 – 48)
Questo testo inizia con una parola di speranza che dovrebbe darci tutto il coraggio possibile:
“Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto darvi il Regno.” In altre parole: questo Regno, è certo, vi è stato donato; credetelo anche se le apparenze sembrano dire il contrario. Ma Gesù non si ferma qui: descrive subito le esigenze che derivano da questa promessa. Perché “a chi fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”. L’unico pensiero dominante nel cuore del credente è la realizzazione della promessa di Dio che libera da ogni altra preoccupazione:
“Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.” Gesù spiega ciò che si aspetta da noi con tre brevi parabole: la prima è quella dei servi che attendono il ritorno del loro padrone; la seconda, più breve, paragona il suo ritorno all’arrivo inaspettato di un ladro; la terza descrive l’arrivo del padrone e il giudizio che pronuncia sui suoi servi. La parola chiave è “servizio”: Dio ci fa l’onore di prenderci al suo servizio, di renderci suoi collaboratori. Più tardi, san Pietro — che ha ben compreso il messaggio di Gesù — dirà ai cristiani dell’Asia Minore: “Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certi credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che qualcuno si perda, ma che tutti giungano alla conversione” (2 Pt 3,9). E arriva persino a dire: “Voi che attendete affrettate la venuta del giorno di Dio» (2 Pt 3,12). Sta a noi la responsabilità di “affrettare” l’avvento del Regno di Dio, come diciamo nel Padre nostro: “Venga il tuo Regno!” Verrà tanto più rapidamente quanto più crederemo e ci impegneremo. Così, ogni nostro sforzo, anche il più modesto, in modo misterioso, è collaborazione all’avvento del Giorno di Dio: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tuti i suoi averi”. “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.”A ben vedere questo si realizza ogni domenica a Messa: il Signore ci invita alla sua mensa ed è lui stesso a nutrirci rinnovandoci l’energia necessaria per continuare il nostro servizio.
+ Giovanni D’Ercole
XVIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [3 agosto 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Nel cuore delle vacanze la Parola di Dio ci provoca a dare senso vero alla vita.
*Prima Lettura dal libro di Qoèlet (1,2; 2,21-23)
Quando si legge il libro del Qoelet (Qoelet indica colui che convoca o il maestro che parla davanti all’assemblea) detto anche l’Ecclesiaste, c’è il rischio di pensare che l’autore sia un filosofo; invece è un predicatore e si cela qui una delle personalità più affascinati e scomode della sapienza biblica. È vero che il suo libro è classificato tra i “libri sapienziali”, ma i libri biblici detti di sapienza non sono saggi filosofici alla maniera dei pagani o degli agnostici. Sono prima di tutto libri scritti da credenti per dei credenti, in un certo senso sono dei catechismi. “Vanità delle vanità, tutto è vanità”: ecco le prime parole del libro del Qoelet, e forse anche ciò che lo riassume meglio. “Vanità” tradotto letteralmente sarebbe: “soffio di soffi”, qualcosa di evanescente e chi può vantarsi di trattenere un soffio tra le dita? Un’altra espressione simile, molto cara all’autore, è “corsa dietro al vento”(1,14). In altri termini tutto ciò a cui dedichiamo pensieri, sogni, forze, attività, tempo, tutto è effimero, provvisorio, passeggero. Tutto, tranne una sola cosa. Quale? L’autore mantiene il mistero e solo alla fine del libro dirà che l’unica cosa importante al mondo è la ricerca di Dio. Si comprende alla fine che non si tratta di una meditazione filosofica disillusa, ma di una predicazione vigorosa in modo velato. Nel frattempo, descrive in mille modi le tante attività umane come sforzi inutili, un correre dietro al vento per afferrare un soffio tra le dita. Per meglio argomentare fa parlare il re Salomone in persona, come uomo di desideri, di potere, coronato di gloria, ma di una gloria che non ha avuto futuro. In effetti diverse fasi segnano la sua vita: prima di diventare re, non sappiamo nulla di lui se non la sua sete di potere e come re, all’inizio fu ammirevole per saggezza e umiltà, alla fine cadde nell’idolatria e fu schiavo dell’amore per la ricchezza. Qoelet fa parlare Salomone come se stesse facendo il bilancio del suo regno: regno di potere e ricchezza (Gesù dirà di lui: «Salomone in tutta la sua gloria»). Ebbe sapienza e ricercò le grandi opere che affascinano i potenti e i saggi del tempo; tutti i piaceri della vita, e alla fine il fallimento del suo regno. Con Roboamo, suo figlio, incapace di una politica saggia, il regno si divise, e, peggio ancora, l’idolatria riprese il sopravvento e in qualche anno la gloria di Salomone svanì. Quel che leggiamo oggi si riferisce a lui: “chi ha lavorato con sapienza, con scienza dovrà lasciare a un altro che per nulla vi ha faticato” (2,21). Roboamo, suo figlio e successore al trono di Gerusalemme, mancò gravemente di saggezza e da lì nacque lo scisma che divise per sempre il regno di Davide. Alla luce di questa esperienza Qoelet afferma: “Tutto è vanità”. Leggiamo la stessa cosa nel salmo 103: “L’uomo: i suoi giorni sono come l’erba, fiorisce come il fiore dei campi: basta un soffio di vento, e non esiste più (15-16). In Qoelet c’è un vero linguaggio di fede: Dio solo conosce tutti i misteri e ogni ricerca della felicità fuori di Lui è vana perché solo Lui possiede le chiavi della vera sapienza, e in definitiva, anche se non comprendiamo tutti i misteri dell’esistenza, sappiamo che tutto è dono di Dio. Mai sarà deluso chi confida in Dio e la sapienza consiste nell’abbandono in Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti è l’unica via verso la felicità: “Chi osserva il comandamento non conoscerà nulla di male.” (Qo 8,5). Alla fine, la vera sapienza è l’umiltà della vita vissuta come dono di Dio: “Ogni uomo che mangia, beve e gode del benessere in tutto il suo lavoro: è un dono di Dio. (Qo 3,13).
*Salmo responsoriale 89 /90 (3-4.5-6.12-13.14-17)
Il salmo ci conduce nel contesto di una cerimonia di richiesta di perdono al Tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese: la preghiera “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13) è tipica di una liturgia penitenziale. Questo salmo è dunque una preghiera per chiedere la conversione: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” v.12). La conversione consiste nel vivere secondo la sapienza di Dio per conoscere la vera misura dei nostri giorni. Non è un caso che questo salmo ci venga offerto in eco alla prima lettura, dal libro del Qoèlet, una meditazione sulla vera sapienza mentre il salmo propone una splendida definizione della sapienza che è la vera misura dei nostri giorni, una sana lucidità sulla nostra condizione di uomini. Nati senza sapere perché e destinati a morire senza poter nemmeno prevedere quando: ecco il nostro destino, e questo è il senso dei primi versetti che abbiamo letto: Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: “Ritornate, figli dell’uomo!”(v.3), cioè ritornate alla terra da cui vi ho tratto. Ciò non crea tristezza ma serenità perché la nostra miseria poggia sulla grandezza e la stabilità di Dio: “mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4). Dio ci da sicurezza perché Egli vuole solo il nostro bene. I guai però nascono quando perdiamo la lucidità sulla sulla nostra miseria, come ben illustrano i capitoli 2 e 3 della Genesi, che raccontano l’errore di Adamo, personaggio simbolico, il cui comportamento è considerato modello di ciò che non si deve fare. “Adamo ha fatto questo o quello” non descrive un ipotetico primo uomo, ma un tipo di comportamentoe ed in tale luce questo salmo è in sintonia con la prima lettura dove Qoèlet fa parlare Salomone re saggio all’inizio, ma sedotto poi dal lusso, dal potere, dalle donne che l’hanno reso idolatra. Nella seconda parte del regno, si è comportato come Adamo che si allontana dalla sapienza di Dio. Questo salmo invita a ritrovare la sapienza e l’umiltà del giovane Salomone perché vera sapienza è la coscienza della piccolezza dell’uomo mai umiliante: una piccolezza fiduciosa, filiale. Splendida la conclusione: “l’opera delle nostre mani rendi salda” (v.17) che mostra la cooperazione tra Dio e l’uomo: l’uomo lavora, Dio dà solidità e senso all’opera umana.
*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (3,1-5.9-11)
Paolo fa anzitutto una distinzione tra “le cose di lassù” e “quelle della terra”, due modi diversi di vivere: i comportamenti ispirati dallo Spirito Santo e quelli che non lo sono. “Le cose di lassù” sono la benevolenza, l’umiltà, la dolcezza, la pazienza, il perdono reciproco, vivendo secondo lo Spirito ed è il comportamento dei battezzati. “Quelle della terra” sono dissolutezza, impurità, passione sfrenata, avidità, cupidigia, comportamenti non ispirati dallo Spirito. Paolo tabilisce il legame tra il battesimo e il modo di vivere: “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù” (v.1). Dice “siete risorti”, però poi afferma “voi infatti siete morti” (v.2) e le parole per lui non hanno lo stesso significato che per noi. Per Paolo, dalla risurrezione di Cristo in poi, niente è più come prima. Essere dei risorti significa precisamente essere morti al mondo e nati a una vita secondo lo Spirito, ciò che lui chiama le realtà di lassù. Il cristiano, è un “trasformato, che vive alla maniera di Cristo” e Paolo lo chiama “l’uomo nuovo”. Non disprezza “le cose della terra”; al contrario, dirà poco dopo: “Qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù rendendo per mezzo di lui grazie a Dio (3,17). Non si tratta quindi di vivere un’altra vita rispetto a quella ordinaria, ma di viverla diversamente: non rifiutare questo mondo, ma viverlo già come seme del Regno, dove tutti gli uomini sono fratelli come spiega nella lettera ai Galati (3,26-28) e ripete alla fine del brano della lettera ai Colossesi di questa domenica: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti.” La comunità di Colosse probabilmente aveva gli stessi problemi dei Galati e in particolare, la grande questione che agitava le prime comunità cristiane e cioè se i non-ebrei diventati cristiani dovevano assumere le pratiche giudaiche: norme alimentari, abluzioni rituali, e soprattutto la circoncisione. C’erano cristiani circoncisi e altri non circoncisi e taluni ebrei imponevano la circoncisione. Identica risposta ai Galati e ai Colossesi: il battesimo fa di tutti dei fratelli e ogni forma di esclusione è superata: conta solo essere discepoli di Cristo.
NOTA. Alcuni esegeti pensano che questa lettera attribuita a Paolo non sia stata effettivamente scritta da lui; Paolo, infatti, non è mai stato a Colosse: è stato Epafra, un suo discepolo, a fondare quella comunità. Secondo una prassi molto comune nel I secolo (chiamata pseudepigrafia), si ipotizza (ma è solo un’ipotesi) che un discepolo molto vicino al pensiero di Paolo si sia rivolto ai Colossesi sotto l’autorità del nome dell’apostolo, perché il momento era grave. Se questa ipotesi è corretta, non ci si stupisce di trovare in questo scritto frasi letteralmente prese da Paolo e altre che mostrano come la riflessione teologica continuasse a svilupparsi nelle comunità cristiane. Gesù aveva detto: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera.” E nelle domeniche precedenti abbiamo già avuto modo di vedere sviluppi teologici che non si trovano ancora negli scritti di Paolo stesso.
*Dal Vangelo secondo Luca (12, 13 – 21)
Sembra brusca la risposta di Gesù: “O uomo chi mi ha costituito vostro giudice o mediatore di sopra di voi?” Tuttavia, buon pedagogo, Gesù coglie l’occasione per trarre una lezione che spiega bene con questa parabola. Un uomo arricchitosi con gli affari studia come meglio godersi la sua ricchezza; pensa a demolire i magazzini, costruirne di più grandi per ammassarvi tutto il grano e i suoi beni per poi dire a sé stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni: ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (v.19). Purtroppo ha dimenticato che la sua vita non dipende da lui e infatti la notte stessa muore. Si crede ricco, ma la vera ricchezza non è quella che lui immagina. Per meglio capire l’insegnamento di Gesù occorre ricordare quel che ha detto prima: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede” (v.13) e, anche se non c’è nella lettura liturgica di questa domenica, egli alla fine tira le conclusioni: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, di cosa vi vestirete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito.” (Lc 12,22-23). Insegnamento di Gesù non nuovo che riprende temi già noti nell’Antico Testamento. Ben Sira diceva che chi diventa ricco non sa quanto tempo gli resta da vivere, poi lascerà i suoi beni ad altri e morirà (cf. Sir 11,18-19); e nella prima lettura di questa domenica, il Qoelet ha proposto riflessioni simili: “Quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?” (Qo 2,22) ritornando più volte sullo stesso tema (cf.Qo 5,9…15). Molto incisivo il profeta Isaia che accusa il popolo di Gerusalemme di stordirsi nei piaceri, invece di ascoltare l’appello di Dio alla conversione (cf Is 22,13) e il libro di Giobbe ripete: ”Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò” (Gb 1,21), frase ancor oggi recitata in Israele durante ogni funerale. Tutte queste frasi suonano come richiami alla realtà della vita. Gesù denuncia la condotta insensata: Stolto! Questa notte stessa ti sarà richiesta la vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (v.20) e la parabola si chiude: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio”. Il che implica due cose: Non dimenticare mai che le ricchezze vengono da Dio e al lui appartengono perché ce le affida per metterle a servizio del Regno di Dio. La vita è breve, ma proprio per questo, affrettiamoci a metterla a frutto! Gesù risponde bruscamente al richiedente l’eredità: quell’uomo sbaglia priorità perché l’eredità più preziosa è la fede ricevuta dai nostri padri. E ogni volta che Gesù risponde in modo brusco (a sua madre a Cana (Gv 2,4) a Pietro a Cesarea (Mt 16,23), è perché in gioco c’è la sua missione.
+ Giovanni D’Ercole
XVII Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [27 Luglio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa volta mi sono dilungato un poco nel presentare nelle NOTE alcuni dettagli importanti delle letture, utili per la meditazione personale e per la lectio divina in questo tempo di vacanza.
*Prima Lettura dal libro della Genesi (18, 20-32)
Questo testo segna un passo avanti nell’idea che gli uomini si fanno del loro rapporto con Dio: è la prima volta che si osa immaginare che un uomo possa intervenire nei progetti di Dio. Purtroppo, la lettura liturgica non ci fa ascoltare i versetti precedenti nei quali leggiamo che subito dopo l’incontro alle Querce di Mamre, Abramo si congeda accompagnando i tre misteriosi uomini a contemplare dall’alto Sodoma. Il Signore, parlando tra sé, dice: ”Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra?” (vv.17-19). Dio prende molto sul serio l’alleanza appena fatta ed è qui che inizia quella che potremmo chiamare “la più bella trattativa della storia”: Abramo, armato di tutto coraggio, intercede per cercare di salvare Sodoma e Gomorra da un castigo certamente meritato. In sostanza chiede se Dio vuole veramente sterminare queste città anche se incontra almeno cinquanta giusti, o solo quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci. Che audacia! Eppure, a quanto pare, Dio accetta che l’uomo si ponga come interlocutore: in nessun momento il Signore sembra spazientirsi ed anzi risponde ogni volta esattamente come Abramo sperava. Forse Dio apprezza che Abramo abbia una così alta idea della sua giustizia. A questo proposito, si può notare che questo testo è stato redatto in un’epoca in cui si comincia ad avere coscienza della responsabilità individuale: infatti Abramo si scandalizzerebbe all’idea che dei giusti possano essere puniti insieme ai peccatori e per loro colpa. Siamo lontani dal tempo in cui un’intera famiglia veniva eliminata per la colpa di uno solo. La grande scoperta della responsabilità individuale risale al profeta Ezechiele e al periodo dell’esilio a Babilonia, cioè al VI secolo a.C. Possiamo quindi formulare un’ipotesi sulla composizione del capitolo letto oggi e domenica scorsa: si tratta di un testo redatto in epoca piuttosto tarda, pur derivando da racconti forse molto più antichi, la cui forma orale o scritta non era ancora definitiva. Dio ama che l’uomo si faccia intercessore per i suoi fratelli come possiamo vedere con Mosè: quando il popolo si fabbricò un “vitello d’oro” da adorare subito dopo aver giurato di non seguire mai più gli idoli. Mosè intervenne per supplicare Dio di perdonare e Dio, che non aspettava altro, si affrettò a perdonare(Es 32). Mosè intercedeva per il popolo di cui era responsabile; Abramo, invece, intercede per dei pagani e questo è logico, in fondo, visto che egli è portatore di una benedizione per tutte le famiglie della terra. Questo testo è un grande passo avanti nella scoperta del volto di Dio, ma è solo una tappa collocandosi ancora in una logica di contabilità: quanti giusti serviranno per ottenere il perdono dei peccatori? L’ultimo passo teologico sarà scoprire che con Dio non si tratta mai di pagamento. La sua giustizia non ha nulla a che vedere con una bilancia, i cui due piatti devono essere perfettamente in equilibrio ed è ciò che san Paolo cercherà di farci capire nel passo della lettera ai Colossesi di questa domenica. Questo testo della genesi è anche una bella lezione sulla preghiera, che ci viene proposta nel giorno in cui il vangelo di Luca riporta l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, a cominciare dal Padre Nostro, la preghiera plurale per eccellenza che ci invita pregando ad allargare il cuore alla dimensione dell’intera umanità.
NOTA: Sviluppo della nozione di giustizia di Dio nella Bibbia: All’inizio si trovava normale che tutto il gruppo pagasse per la colpa di uno: vedi il caso di Akân ai tempi di Giosuè (Gs 7,16-25). In una seconda fase si immagina che ognuno paghi per sé. Qui, c’è un nuovo passo avanti: se si trovano dieci giusti, essi possono salvare tutta una città. Geremia oserà andare oltre: un solo giusto può ottenere il perdono per tutti: «Percorrete le strade di Gerusalemme, cercate: se trovate un solo uomo che pratichi il diritto… io perdonerò alla città» (Ger 5,1). Anche Ezechiele ragiona in questi termini: «Ho cercato tra loro un uomo che si ponesse sulla breccia davanti a me… ma non l’ho trovato» (Ez 22,30). È con il libro di Giobbe, fra gli altri, che si compie l’ultimo passo: quando si comprenderà finalmente che la giustizia di Dio è sinonimo di salvezza, non di punizione. Geremia arriva persino a invocare un perdono senza condizioni, fondato sulla sola grandezza di Dio: «Se i nostri peccati testimoniano contro di noi, agisci, Signore, per l’onore del tuo nome!» (Ger 14,7-9). Davanti a Dio, proprio come Geremia, Abramo ha capito che i peccatori non hanno altro argomento che Dio stesso! Infine, si noti l’ottimismo di Abramo, che gli vale pienamente il titolo di “padre nella fede”: egli continua a credere che non tutto è perduto, che non tutti sono perduti. Persino in una città orrenda come Sodoma, egli è convinto che ci siano almeno dieci uomini buoni!
Salmo responsoriale (137/138), 1-2a, 2bc-3, 6-7ab, 7c-8)
Questo salmo è tutto un canto di ringraziamento per l’Alleanza che Dio propone all’umanità: l’Alleanza conclusa, in primo luogo, con Israele, ma anche l’Alleanza aperta a tutte le nazioni e la vocazione di Israele è proprio introdurre in essa le altre nazioni. Torna tre volte
il ringraziamento: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”, “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”, e – nel versetto 4 che non ascoltiamo questa domenica – “Ti rendano grazie tutti i re della terra”. Qui si nota una progressione: dapprima è Israele che parla a nome proprio: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore”; poi viene precisato il motivo: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”; infine, è l’intera umanità che entra nell’Alleanza e rende grazie: “Ti rendano grazie tutti i re della terra”.
Poiché si parla dell’Alleanza, è normale che vi siano allusioni all’esperienza del Sinai e si colgono echi della grande scoperta del roveto ardente quando Dio disse a Mosè di aver visto la miseria del suo popolo e di essere sceso a liberarlo (Es 2,23-24). In eco, il salmo canta: “Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto”(v.3) Un altro richiamo alla rivelazione di Dio al Sinai è l’espressione “Il tuo amore e la tua fedeltà”(v.2): sono le stesse parole con cui Dio si è definito davanti a Mosè (Es 34,6). La frase “La tua destra mi salva” (v.7) è, per gli ebrei, un’allusione all’uscita dall’Egitto. La “destra” è, naturalmente, la mano destra e, sin dal cantico di Mosè dopo il passaggio miracoloso del Mar Rosso (Es 15), si è presa l’abitudine di parlare della vittoria che Dio ha ottenuto con mano forte e braccio potente (Es 15,6.12). Anche l’espressione “Signore, il tuo amore è per sempre” (v.8) evoca tutta l’opera di Dio, in particolare l’Esodo come il salmo 135/136, il cui ritornello è: “Perché il suo amore è per sempre”. Un un altro legame tra questo salmo e il cantico di Mosè è il nesso tra tutta l’epopea dell’Esodo, l’Alleanza del Sinai e il Tempio di Gerusalemme. Mosè cantava:
“Mia forza e mio canto è il Signore, egli è stato la mia salvezza. È il mio Dio, lo voglio lodare, è il Dio di mio padre, lo voglio esaltare” (Es 15,1-2.13), e il salmo riprende in eco:
“Non agli dei, ma a Te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo” (vv.1-2) perché il
Tempio è il luogo in cui si fa memoria di tutta l’opera di Dio a favore del suo popolo. La presenza di Dio non si limita però a un tempio di pietra, ma quel tempio, o ciò che ne resta, è un segno permanente di quella presenza. E ancora oggi, dovunque si trovi nel mondo, ogni ebreo prega rivolto verso Gerusalemme, verso il monte del tempio santo perché è il luogo scelto da Dio, ai tempi del re Davide, per offrire al suo popolo un segno della sua presenza. Infine, la grandezza di Dio non schiaccia l’uomo; almeno non colui che sa riconoscere la propria piccolezza: “Eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile; il superbo invece lo riconosce da lontano”(v.6). Anche questo è un grande tema biblico: la sua grandezza si manifesta proprio nella sua bontà verso la piccolezza dell’uomo (cf.Sap 12,18) e il salmo 113/112: “Dalla polvere rialza il debole, dall’immondizia solleva il povero” e nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Il credente lo sa e ne resta meravigliato: Il Dio è grande non ci schiaccia, ma al contrario, ci fa crescere.
Questi parallelismi cioè l’influenza del cantico di Mosè, l’esperienza del Sinai dal roveto ardente fino all’uscita dall’Egitto e all’Alleanza, si ritrovano in molti altri salmi e testi biblici.
Ciò dimostra quanto questa esperienza sia stata – e resti – il fondamento della fede di Israele.
Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Colossesi (2,12-14)
Dio ha annullato il documento scritto contro di noi (Col 2,14). Paolo qui fa riferimento a una pratica molto diffusa quando si prendeva in prestito del denaro: era consuetudine che il debitore consegnasse al creditore un “documento di riconoscimento del debito”. Anche Gesù ha utilizzato questa immagine nella parabola dell’amministratore disonesto. Il giorno in cui il padrone lo minaccia di licenziamento, egli pensa a procurarsi degli amici; a questo scopo convoca i debitori del suo padrone e a ciascuno dice: «Ecco il tuo documento di debito, cambia la somma. Dovevi cento sacchi di grano? Scrivi ottanta.» (Lc 16,7). Come fa spesso, Paolo utilizza il linguaggio della vita quotidiana per esprimere un pensiero teologico. Questo il suo ragionamento: a causa della gravità dei nostri peccati, possiamo considerarci debitori nei confronti di Dio. Del resto, nel giudaismo, i peccati erano spesso chiamati “debiti”; e una preghiera ebraica del tempo di Gesù diceva: “Per la tua grande misericordia, cancella tutti i documenti che ci accusano.” Ebbene, chiunque alzi lo sguardo verso la croce di Cristo scopre fino a che punto arriva la misericordia di Dio per i suoi figli: con Lui non si tratta di tenere una contabilità: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” è la preghiera del Figlio; ma è Lui stesso ad aver detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Il corpo di Cristo inchiodato alla croce mostra che Dio è così: dimentica ogni nostro torto, ogni nostra colpa verso di Lui. Il suo perdono è esposto davanti ai nostri occhi: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, diceva il profeta Zaccaria (Zc 12,10; Gv 19,37). È come se il documento del nostro debito fosse stato inchiodato alla croce di Cristo. Si resta comunque sorpresi perché tutto questo passaggio è scritto al passato: “con Cristo sepolti nel battesimo, con Lui siete anche risorti… con lui Dio ha dato vita anche a voi… perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi … lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”.
NOTA Paolo vuole affermare che la salvezza del mondo è già compiuta: questo “già-realizzato” della salvezza è uno dei grandi temi della Lettera ai Colossesi. La comunità cristiana è già salvata attraverso il battesimo; partecipa già alla realtà celeste. Anche qui si nota una evoluzione rispetto ad alcune lettere precedenti di Paolo, come “Siamo stati salvati, ma nella speranza” (Rm 8,24); “Se siamo stati totalmente uniti a Lui nella morte, lo saremo anche nella risurrezione.” (Rm 6,5). Mentre la Lettera ai Romani pone la risurrezione nel futuro, le Lettere ai Colossesi e agli Efesini parlano al passato, sia della sepoltura con Cristo sia della risurrezione come realtà già attuale. “Quando eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha fatto rivivere con Cristo – per grazia siete salvati –; con Lui ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù.” (Ef 2,5-6). “Siete stati sepolti con Cristo, con Lui siete anche risorti… Eravate morti… ma Dio vi ha dato la vita con Cristo.” Il battesimo per Paolo è come una seconda nascita e l’insistenza sul fatto che la salvezza è già avvenuta, mediante la nascita a una vita totalmente nuova, è probabilmente legata anche al contesto storico: dietro molte espressioni della Lettera si intravede un clima di tensione e di conflitto. La comunità di Colosse sembra subire influenze pericolose, contro cui Paolo vuole metterla in guardia: “Nessuno vi inganni con discorsi seducenti” (Col 2,4)… “Nessuno vi intrappoli con una filosofia vuota e ingannevole” (Col 2,8)… “Nessuno vi giudichi per questioni di cibo, di bevande, di feste o di sabati” (Col 2,16). Riappare così, in filigrana, un problema ricorrente: come si entra nella salvezza? Bisogna continuare a osservare rigorosamente tutta la legge ebraica? Paolo risponde: per mezzo della fede. Questo tema è presente in molte lettere, e lo ritroviamo chiaramente anche qui (v.12): sepolti nel battesimo con Cristo… risorti… per mezzo della fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La Lettera agli Efesini lo ripete ancora più chiaramente: “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio. Non viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene.” (Ef 2,8-9) La vita con Cristo nella gloria del Padre non è solo una speranza futura, ma un’esperienza attuale dei credenti: un’esperienza di vita nuova, di vita divina. D’ora in poi, se lo vogliamo, Cristo vive in noi; e siamo resi capaci di vivere nella vita quotidiana la vita divina del Cristo risorto! Questo significa che nessuna delle nostre vecchie condotte è più una condanna inevitabile. L’amore, la pace, la giustizia, la condivisione sono possibili. E se non lo riteniamo possibile, allora diciamo che Cristo non ci ha salvati! Attenzione! Finora abbiamo sempre parlato della Lettera ai Colossesi come se Paolo ne fosse l’autore; in realtà, molti esegeti ritengono che sia stata scritta da un discepolo molto vicino a Paolo, ispirato dal suo pensiero, ma di una generazione successiva,
Dal Vangelo secondo Luca (11,1-13)
Può forse sorprendere ma Gesù non ha inventato le parole del Padre Nostro: esse provengono direttamente dalla liturgia ebraica e, più in profondità, dalle Scritture. A partire dal vocabolario, che è molto biblico: Padre, nome, santo, regno, pane, peccati, tentazioni…. Cominciamo dalle prime due domande: con grande pedagogia, esse si rivolgono innanzitutto verso Dio e ci insegnano a dire “il tuo nome”, “il tuo Regno”. Educano il nostro desiderio e ci impegnano a collaborare alla crescita del suo Regno. Il Padre Nostro, probabilmente insegnato da Gesù in aramaico “Abun d’bashmaya…nethqadash shimukin che richiama l’ebraico liturgico, è una scuola di preghiera, o se si preferisce, un metodo per imparare a pregare: non dimentichiamo la richiesta del discepolo che direttamente precede: “Signore, insegnaci a pregare” (v.1). Ebbene, se seguiamo il metodo di Gesù, grazie al Padre Nostro, finiremo per sapere parlare la lingua di Dio il cui primo termine è Padre. L’invocazione “Padre nostro” ci pone subito in relazione filiale con Dio ed era già presente nell’Antico Testamento: “Tu, Signore, sei nostro Padre, nostro Redentore da sempre.” (Is 63,16). Le prime due domande riguardano il nome e il regno. “Sia santificato il tuo nome”: nella Bibbia, il nome rappresenta la persona stessa; dire che Dio è santo (kadosh / shmokh in aramaico - separato) significa affermare che Egli è “al di là di tutto e questa richiesta significa: “Fa’ che tu sia riconosciuto come Dio”. “Venga il tuo regno”: ripetuta ogni giorno, questa domanda ci trasformerà in operai del Regno. La volontà di Dio – lo sappiamo – è che l’umanità, radunata nel suo amore, diventi regina della creazione: “Riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,27) e i credenti aspettano il giorno in cui Dio sarà riconosciuto re su tutta la terra, come annunciava il profeta Zaccaria: “Il Signore sarà re su tutta la terra” (Zc 14,9). La nostra preghiera, questo nostro metodo per imparare la lingua di Dio, ci farà diventare persone che desiderano sopra ogni cosa che Dio sia riconosciuto, adorato, amato, che tutti lo riconoscano come Padre, appassionati dell’evangelizzazione e del Regno di Dio. Le tre domande successive riguardano la vita quotidiana: “Dacci”, “Perdonaci”, “Non abbandonarci alla tentazione”. Dio non smette mai di compiere tutto questo e noi ci poniamo in un atteggiamento di accoglienza dei suoi doni. “Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano ”τὸν ἐπιούσιον”: la manna che cadeva ogni mattina nel deserto educava il popolo a confidare giorno per giorno e questa richiesta ci invita a non preoccuparci del domani e a ricevere ogni giorno il cibo come dono di Dio: qui il pane riveste vari significati, compreso il pane eucaristico come spiegherò nella Nota e il plurale “nostro pane” c’invita a condividere la preoccupazione del Padre di sfamare tutti i suoi figli. “Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore”: il perdono di Dio non è condizionato dal nostro comportamento e il perdono fraterno non compra il perdono di Dio, ma è l’unica via per entrare nel perdono divino che è già donato: chi ha il cuore chiuso non può accogliere i doni di Dio. “Non abbandonarci alla tentazione” qui c’è un problema di traduzione, perché – ancora una volta – la grammatica ebraica è diversa dalla nostra: il verbo usato nella preghiera ebraica significa «fa’ che non entriamo nella tentazione» Si tratta di ogni tentazione, certamente, ma soprattutto della più grave, la tentazione di dubitare dell’amore di Dio. Nella preghiera del Padre nostro tutta la vita del mondo è coinvolta: parlare la lingua di Dio significa sapere chiedere e la preghiera di domanda non solo è permessa, ma è raccomandata perché è esercizio di umiltà e fiducia, e non sono richieste qualsiasi: pane, perdono, forza contro le tentazioni. Tutte le domande sono al plurale e ognuno di noi le formula a nome dell’intera umanità. In fondo c’è un legame stretto tra le prime domande del Padre Nostro e le successive: chiediamo a Dio ciò che serve per compiere la nostra missione battesimale: Dacci tutto ciò che ci serve – pane e amore – e proteggici, affinché abbiamo la forza di annunciare il tuo Regno. Nel vangelo segue immediatamente la parabola dell’amico importuno che invita a non smettere mai di pregare, certi che il Padre celeste dà sempre lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono (v.13) per cui anche se i problemi non saranno risolti con un colpo di bacchetta magica, non li vivremo però più da soli ma insieme a Lui.
NOTA
1 – A proposito del “pane”, nel versetto 3: lo stesso aggettivo è presente in una preghiera del libro dei Proverbi: «Non darmi né povertà né ricchezza; concedimi solo il cibo necessario.» (Pr 30,8).
2 Il termine pane τὸν ἐπιούσιον, aggettivo molto raro è un hapax legomenon, cioè appare solo qui (e in Mt 6,11), e non si trova altrove nella letteratura greca classica o nei LXX (Settanta). Molteplici le interpretazioni, ma ἐπιούσιος resta enigmatico e porta con sé una ricchezza di significati: il pane materiale necessario per vivere ogni giorno; il pane spirituale, cioè la Parola di Dio e l’Eucaristia, il segno di una fiducia giorno per giorno nella Provvidenza del Padre. Alcuni esegeti lo leggono come “il pane per il giorno che sta per venire”, quindi un’invocazione fiduciosa per il futuro immediato.
3. Gesù prende il Padre nostro direttamente dalla liturgia ebraica ed ecco alcune preghiere ebraiche che ne sono all’origine: Padre nostro che sei nei cieli» (Mishnah Yoma, invocazione comune); Sia santificato il tuo nome eccelso nel mondo che hai creato secondo la tua volontà (Qaddish, Qedushah e Shemoné Esré); Venga presto e sia riconosciuto nel mondo intero il tuo Regno… Sia fatta la tua volontà in cielo e sulla terra… Dacci il pane quotidiano…
Rimetti i nostri peccati come noi li rimettiamo… Non ci indurre in tentazione… A te appartengono grandezza, potenza, gloria… (1 Cr 29,11)
4. La dossologia finale del Padre Nostro: Molti gruppi cristiani, ben prima del Concilio Vaticano II, recitavano alla fine del Padre Nostro: Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli. Questa “dossologia” (parola di lode) si trova in alcuni manoscritti di Matteo, ed è probabilmente derivata da un uso liturgico molto antico, già nel I secolo, ma risale ancora più indietro, fino alla preghiera di Davide (cf Cronache 29,11).
5. Sull’importanza delle preghiere di domanda, eco un’interessante immagine proposta da Denys l’Areopagita: immagina una barca sul mare; sulla riva, c’è una roccia, su di essa un anello e un altro anello sulla barca, legati da una corda L’uomo che prega è come chi, dalla barca, tira la corda: non attira la roccia verso di sé, ma avvicina sé stesso – e la barca – alla roccia.
+ Giovanni D’Ercole
The great thinker Romano Guardini wrote that the Lord “is always close, being at the root of our being. Yet we must experience our relationship with God between the poles of distance and closeness. By closeness we are strengthened, by distance we are put to the test” (Pope Benedict)
Il grande pensatore Romano Guardini scrive che il Signore “è sempre vicino, essendo alla radice del nostro essere. Tuttavia, dobbiamo sperimentare il nostro rapporto con Dio tra i poli della lontananza e della vicinanza. Dalla vicinanza siamo fortificati, dalla lontananza messi alla prova” (Papa Benedetto)
The present-day mentality, more perhaps than that of people in the past, seems opposed to a God of mercy, and in fact tends to exclude from life and to remove from the human heart the very idea of mercy (Pope John Paul II)
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia (Papa Giovanni Paolo II)
«Religion of appearance» or «road of humility»? (Pope Francis)
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? (Papa Francesco)
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore. Occorre saper contemplare. L’uomo d’oggi sente molto il bisogno di non limitarsi alle pure preoccupazioni materiali, e di integrare invece la propria cultura tecnica con superiori e disintossicanti apporti provenienti dal mondo dello spirito [Giovanni Paolo II]
This can only take place on the basis of an intimate encounter with God, an encounter which has become a communion of will, even affecting my feelings (Pope Benedict)
Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento (Papa Benedetto)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent" (Pope John Paul II)
don Giuseppe Nespeca
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