don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mercoledì, 05 Febbraio 2025 10:19

Figli, cagnolini e libera circolazione

Briciole eucaristiche

(Mc 7,24-30)

 

La legge religiosa impediva di occuparsi di persone straniere e di altra etnia, frontiere, o cultura.

All’inizio, Gesù [ovvero: Lui nelle prime comunità, suo Corpo mistico] sembra non volersene occupare (v.27).

Ma dopo aver aiutato le folle e i suoi ad emanciparsi dalla prigione delle norme di purità (vv.14-23) il giovane Rabbi stesso era uscito dai modi conformisti di sperimentare Dio.

Egli fa Esodo persino da territori nazionali e di razza che allora sequestravano le linfe vitali - così sorvolando i preconcetti “sacri”.

Per farci crescere nella Fede, Cristo promuove l’esistere variegato. In tal guisa, al di fuori della miopia standard, può riscontrare adesioni sbalorditive.

Fede: Principio Nuovo, che non allontana da noi stessi. E sgretola ogni illusione di esclusività.

 

Le singolari iniziative del Figlio nascono sulla base dell’esperienza tutta personale del divino, di un Padre munifico nell’elargire senza condizioni. 

Provvidente e disuguale dal Dio taccagno delle religioni antiche: quest’ultimo tutto discordante dalle creature, estraneo, predatorio e (incomprensibilmente) abitudinario.

Con una trovata inconsueta, il giovane Rabbi cerca di aprire la mentalità giudaizzante, superando le frontiere.

Persino il dialogo con una donna non del suo popolo era una “pensata” aliena dalla mentalità delle folle dell’epoca. Iniziativa estranea perfino alle concezioni delle prime due generazioni di credenti, sotto questo aspetto ancora ingessate e frammiste d’idoli.

Ma c’era tutto un popolo di sconosciuti [la «Donna» meticcia e la sua ‘discendenza’ spirituale] che sentiva di non avere futuro... e ciò interpellava i tanti apriorismi del tempo.

Insomma, anche la chiesa di Mc non aveva colto appieno il significato del «pane dei figli» - tutto a disposizione affinché venisse “riconosciuto”.

 

A motivo di rivalità, i popoli antichi erano soliti chiamare gli stranieri con l’appellativo sprezzante di «cane» sinonimo d’impudenza, meschinità e ignobile bassezza.

La frase durissima del Signore (v.27) riflette un paragone proveniente dalle zone povere e dalla vita in famiglia, dove un tempo abbondavano animali domestici e gioventù.

Vi era pur differenza tra ‘bambini’ generati dall’ascolto della Parola di Dio e coloro che si regolavano “a fiuto”. Ma sebbene nessuno negasse il sostentamento ai «figli» per darlo ai «cani» attorno - questi ultimi avevano almeno il diritto delle briciole cadute sul terreno.

Per i diversi e lontani - anche malconsiderati - non è un problema ricorrere a Gesù in modo istintivo; anzi, anche oggi si accontenterebbero dei frantumi.

[Purtroppo, non di rado gli estranei e difformi sono più affamati della vera Manna dal Cielo].

 

Nella comunità cristiana non dovrebbe mancare il nutrimento del corpo e l’Alimento per chiunque (Mc 6,42-44).

La Fede non ha nazionalità, ed è l’unico linguaggio e relazione immediata validi per la comunicazione fra Dio e la donna e l’uomo.

Cristo è vivanda sapienziale per una libera circolazione; non cibo impedito, da tener chiuso.

Spezzare il Pane è partecipare l'esistere in radice; ciò che abbiamo e siamo. Metro di ciò che annunciamo, crediamo e pratichiamo.

 

 

[Giovedì 5.a sett. T.O. 13 febbraio 2025]

Mercoledì, 05 Febbraio 2025 10:15

Briciole eucaristiche

Figli, cagnolini, demoni e libera circolazione

(Mc 7,24-30)

 

Gesù scopriva la volontà del Padre negli eventi della vita. Lo stesso per la crescita di consapevolezza delle prime comunità, le quali si sono trascinate pregiudizi non da poco, almeno sino alla terza generazione di credenti (compresa) - come testimoniato dai Sinottici.

La legge religiosa impediva di occuparsi di persone straniere e di altra etnia, frontiere o cultura. All’inizio, Gesù [ovvero: Lui nelle prime comunità, suo Corpo mistico] sembra non volersene curare (v.27).

Ma dopo aver aiutato le folle e i suoi ad emanciparsi dalla prigione delle norme di purità (vv.14-23) Cristo esce dai modi conformisti di sperimentare Dio.

Egli fa esodo persino da territori nazionali e di razza che allora sequestravano le linfe vitali - così sorvolando i preconcetti sacri.

 

Le singolari iniziative del Figlio nascono sulla base dell’esperienza tutta personale del divino, di un Padre munifico nell’elargire senza condizioni.

Provvidente e disuguale dal Dio taccagno delle religioni: quest’ultimo discordante dalle creature, estraneo, e (incomprensibilmente) abitudinario.

Il Signore stesso ci aiuta nella sua vicenda a sperimentare il trascendente nella vita anche sommaria. Così, a uscire dai modi dottrinali artificiosi che mettono l’esistenza in gabbia [territorio, costumi, ideologia, appartenenze di vario genere - anche “interne”].

Con una trovata inconsueta, il giovane Rabbi cerca di aprire la mentalità giudaizzante, superando le frontiere.

L’intento è quello di farci sviluppare la sua stessa Fede. Essa che promuoveva l’esistere variegato, e al di fuori della miopia tradizionale poteva così riscontrare adesioni sbalorditive.

Nessuno steccato a confine, nessun ostacolo... riescono a contenere la nostra voglia di vivere: vogliamo alimentarci non dell’orgoglio (o di resistenze) ma dell’amore a rischio, non svilito - ed esprimerci completamente.

Persino il dialogo con una donna non del suo popolo era una “pensata” aliena dalla mentalità delle folle dell’epoca - estranea perfino alle concezioni delle prime due generazioni di credenti, sotto questo aspetto ancora ingessate e frammiste d’idoli.

Ma c’era tutto un popolo di sconosciuti [la «donna» meticcia e la sua ‘discendenza’ spirituale] che sentiva di non avere futuro. E ciò interpellava i tanti apriorismi del tempo.

Insomma, anche la chiesa di Mc non aveva colto appieno il significato del «pane dei figli» - tutto a disposizione affinché venisse “riconosciuto”.

 

A motivo di ataviche rivalità, i popoli antichi erano soliti chiamare gli stranieri con l’appellativo sprezzante di «cane», sinonimo d’impudenza, meschinità e ignobile bassezza.

Erano diffuse titubanze del senso della fraternità umana - da visione primitiva [e non solo, nell’era dell’accesso].

La frase durissima del Signore (v.27) riflette un paragone proveniente dalle zone povere e dalla vita in famiglia, dove un tempo abbondavano animali domestici e gioventù.

Vi era pur differenza tra ‘bambini’ generati dall’ascolto della Parola di Dio e coloro che si regolavano “a fiuto”.

Ma sebbene nessuno negasse il sostentamento ai «figli» per darlo ai «cani» attorno - questi ultimi avevano almeno il diritto delle briciole cadute sul terreno.

In effetti, il testo parla di «piccoli cani» [kynaría-kynaríois] come animali domestici amati dai giovanissimi e che durante i pasti facilmente davano loro da mangiare gli avanzi.

In certo senso, appartenevano alla “casa”.

 

Per i diversi e lontani - anche malconsiderati - non è un problema ricorrere a Gesù in modo istintivo; anzi, si accontenterebbero dei frantumi.

In base a ciò, nella comunità dei figli non dovrebbe mancare il nutrimento del corpo e l’alimento sapienziale per chiunque (Mc 6,42-44).

Tuttavia i veterani che si ritenevano famigliari di spettanza e accampavano diritti anagrafici, tenevano il broncio e nelle assemblee pretendevano non consentire a tutti di partecipare alla comunione, ai granelli eucaristici, ai doni del Regno di festa.

Ma grazie all’appello dei Vangeli [ben diversi dagli esagerati proclami “evangelici” imperiali o delle legioni] il dominio dei demoni (v.29) - così vivo in tutte le varie forme di religiosità al tempo in Roma - volgeva al termine.

Secondo Mc non dovrebbe esistere ossessione, catena o preconcetto che possa toglierci orientamenti di progresso ed energie, affinché con estrema libertà siamo messi in grado di adoperarci e aprirsi nei confronti dei bisogni altrui, anche pagani (Mc 6,45a).

 

Dunque nelle fraternità romane sorge un dibattito circa le condizioni di appartenenza comunitaria.

Qual è la posizione dei convertiti dal paganesimo? Hanno diritto di partecipare allo spezzare del Pane senza previa trafila dottrina-disciplina? C’è o no frattura con la tradizione osservante?

Mc ribadisce che non abbiamo prelazione alcuna: principio di salvezza universale è l’attitudine di Fede; non un diritto.

La comunità dei battezzati non è autorizzata a vivere di rendita. Il Vangelo è aperto, supera la biblica priorità del popolo eletto.

La ragione di ogni eventuale eccezione è l’amore sensibile, che ha la libertà di cedere, che diviene unico principio di appartenenza.

 

Condizione di adesione al nuovo popolo di Dio è la Fede nel cuore e non nel sangue o nella testa, né nella disciplina che allontana da noi stessi, da Dio e dagli altri.

Fede: principio nuovo, che sgretola ogni illusione di esclusività.

 

Col Padre, nel Figlio, non si tratta più di mortificarsi, dipendere, sforzarsi e lottare, per poter stare uno di fronte all’altro.

La purità legale è insufficiente (vv.1-23), anzi ora è la persona anche dalle origini sconcertanti - prima un’estranea - che esce “vittoriosa” dal botta e risposta con il Signore.

L’Affidamento sponsale è apprezzabile ovunque, da parte di chiunque: Eros fondante che zampilla da ogni anima, e non è legato a repertori. Supera qualsiasi particolarismo.

Certo, ha i suoi criteri - però essenziali: trasparenza, freschezza, tensione all’unità, superamento delle condizioni e dei tabù; valore della persona; empatia segreta di energie.

 

Il passo di Vangelo traccia un intero cammino di adesione a Cristo.

I lontani possono accostarsi e addirittura partire dall’idea popolare - sconveniente - che Gesù sia il «Figlio di Davide» atteso [cf. parallelo Mt 15,22]: comandante militare e sovrano che avrebbe dovuto prendere il potere, assoggettare le nazioni, assicurare l’età dell’oro, adempiere egli stesso le prescrizioni di Legge come fosse un Modello, e imporne a tutti l’osservanza.

Il punto di partenza del cammino può essere un misero barlume, un inizio che forse non promette granché. Infatti nel caso specifico risulta decisamente confusionario: il Maestro non risponde (Mt 15,23).

Il titolo a Lui affibbiato non ha nulla a che vedere con Dio, né riguarda l’autentico Primogenito. Egli non è Messia potente - immagine predatoria, omologata - bensì servitore.

Non ha alcun senso neppure chiedergli «Pietà» (Mt 15,22)! Anzi - diciamola tutta - malgrado le superficiali abitudini rituali che abbiamo, qui Cristo sembra proprio adirato (v.23).

Non è questo il rapporto sano col Signore: Egli non mette in castigo e non gode di sentirsi implorato dai bisognosi.

Piuttosto educa come fa un amico, fratello o genitore; e non concede grazie a lotteria, né miracoli a simpatia e protezione, o favori a territorio - come gli dèi pagani.

Quell’immagine è totalmente deviante, ma è una figura fasulla che vien fuori proprio dagli “interni” (Mt 15,23-24), i quali sul tema non avrebbero nulla da eccepire [cf. ancora v.23].

Anzi, la loro stessa catechesi ne è la scaturigine: il titolo «figlio di Davide» suona strano, sulla bocca di una pagana.

 

Ancora oggi questa idea paternalista omologante - di colpa inculcata - tende ad allontanare chi cerca un compagno di strada amabile.

La priorità per “Israele” è riconosciuta da Gesù perché sono proprio i figli maggiori a doversi convertire a un nuovo Volto del primo Dio del Sinai - ancora valutato Legislatore e Giudice, invece che Creatore e Redentore della nostra intelligenza e libertà.

[Sebbene in modo bonario-infantile, purtroppo continuano a diffonderlo, quale notaio arcigno, sin dal pre-catechismo].

Gesù prende le distanze da chi accampa pretese e nel contempo devia le anime dei bisognosi che lo cercano.

Poi, in termini spirituali nessuno può millantare diritto a nulla: i Doni davvero sacri non derivano da nessun rapporto di elezione selettiva, e neppure clientelare [del tipo compravendita].

 

Dunque, per diventare intimi a Cristo... ci si può accontentare delle «briciole» eucaristiche - ossia “salvezza minima”?

Ci si può sentire appagati dai soli frantumi che cadono dalla tavola dei supponenti chiusi in piccoli schemi (Mc 7,27-28)?

Certo, perché è la Fede che salva (Mc 7,28-29a), non un grande gesto o una lunga consuetudine nelle discipline dell’arcano - né un codice di purità.

L’autentico Signore dice solo:

«Per questa Parola, va’» (v.29) - ossia procedi pure verso la gioia di una vita piena, trasmissibile a una “prole” non destinata a tormenti o morte prematura.

E senza più sul groppone il giudizio altrui, quello con solite tare ingannevoli, d’inadeguatezza.

Grazie a Lui non siamo introdotti in una pratica religiosa sommaria, ma in una Relazione che si cesella nel tempo (vv.25-30).

 

Come orientarsi?

Invece della stretta Legge, è il Vangelo che ci abilita in pieno.

Come fossimo «cagnolini» (vv.27-28) che cercano vita e alimento, procedendo istintivamente [a “fiuto”] per strade inesplorate. E che secondo carattere, inclinazione, Chiamata per Nome, fanno appello ad altre forze segrete.

Insomma, tutti gli uomini - sebbene ancora lontani da un’esplicita adesione di fede - sono abitati da questo sapere al contempo personale e primordiale, che orienta in modo immediato, e infallibile.

Così in semplicità faremo anche noi, per trovare la Via.

Infatti la Fede non ha nazionalità, ed è l’unico linguaggio-relazione-traiettoria validi per la comunicazione fra Dio e la donna e l’uomo.

La proposta è universale; valica i tempi, le frontiere denominazionali e persino religiose.

 

A commento del Tao Te Ching (LVIII), il maestro Wang Pi afferma:

«Chi ben governa non ha forma né nome, non dà inizio ad amministrazioni. Le varie categorie si dividono e si separano, per questo il popolo è frammentato».

Aggiunge il maestro Ho-shang Kung:

«Quando chi governa è liberale, il popolo è unito nella ricchezza e nella sazietà: gli uomini si amano e vanno d’accordo».

 

Oggi si tratta di condividere i minuzzoli e frammenti del “di più” da noi in occidente ereditato dalle passate generazioni.

Un “di più” molto istruttivo e agiato; elargito in modo sovrabbondante, eppure ricevuto senza “nulla di troppo” [ne quid nimis] né tanti meriti o azzardi (da “buoni cristiani...”).

E rispettando in tutto la nomenclatura dei reduci, di cordate e potenti - sempre poco inclini alla convivenza reale.

Cristo è invece vivanda sapienziale per una libera circolazione; non cibo impedito, da tener chiuso nei tabernacoli.

La sua virtù è compresa ormai solo fuori delle sagrestie - da discosti e remoti (vv.24-25) - dove persino un minuzzolo di Pane fa confidare e risorgere, nella condivisione.

Spezzare l’Eucaristia sorgente e culmine è proclamarla Dono da non trattenere né conservare intatto, bensì da esporre e distribuire senza previ moralismi.

Dividere quel Cibo è partecipare l'esistere in radice, ciò che abbiamo e siamo; metro di quel che annunciamo, crediamo e pratichiamo.

 

Purtroppo, non di rado gli estranei e difformi sono più affamati della vera Manna dal Cielo.

Saturi fino alla nausea - e forse ancora incapaci di comprenderne il senso - perché vivere il Nutrimento condiviso [forse con pochi riguardi al suo significato] come problema e paura?

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Se non è del “tuo popolo”, ti va almeno di parlarci - anche se veterani, clubs interni e regolari lo vietano?

Non pensi che il cammino sinodale sia una buona occasione per rivedere posizioni astratte?

Sai di qualche parrocchietta ecclesiale che non lascia possibilità agli esterni?

Conosci persone ferite dalle esclusioni? Tu cosa fai, silenzio-assenso?

Mercoledì, 05 Febbraio 2025 10:11

Le basta poco

Cari fratelli e sorelle,

il brano evangelico […] inizia con l’indicazione della regione dove Gesù si stava recando: Tiro e Sidone, a nord-ovest della Galilea, terra pagana. Ed è qui che Egli incontra una donna cananea, che si rivolge a Lui chiedendoGli di guarire la figlia tormentata da un demonio (cfr Mt 15,22). Già in questa richiesta, possiamo ravvisare un inizio del cammino di fede, che nel dialogo con il divino Maestro cresce e si rafforza. La donna non ha timore di gridare a Gesù “Pietà di me”, un’espressione che ricorre nei Salmi (cfr 50,1), lo chiama “Signore” e “Figlio di Davide” (cfr Mt 15,22), manifesta così una ferma speranza di essere esaudita. Qual è l’atteggiamento del Signore di fronte a quel grido di dolore di una donna pagana? Può sembrare sconcertante il silenzio di Gesù, tanto che suscita l’intervento dei discepoli, ma non si tratta di insensibilità al dolore di quella donna. Sant’Agostino commenta giustamente: “Cristo si mostrava indifferente verso di lei, non per rifiutarle la misericordia, ma per infiammarne il desiderio” (Sermo 77, 1: PL 38, 483). L’apparente distacco di Gesù, che dice “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele” (v. 24), non scoraggia la cananea, che insiste: “Signore, aiutami!” (v. 25). E anche quando riceve una risposta che sembra chiudere ogni speranza - “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini” (v. 26) -, non desiste. Non vuole togliere nulla a nessuno: nella sua semplicità e umiltà le basta poco, le bastano le briciole, le basta solo uno sguardo, una buona parola del Figlio di Dio. E Gesù rimane ammirato per una risposta di fede così grande e le dice: “Avvenga per te come desideri” (v. 28)

Cari amici, anche noi siamo chiamati a crescere nella fede, ad aprirci e ad accogliere con libertà il dono di Dio, ad avere fiducia e gridare anche a Gesù “donaci la fede, aiutaci a trovare la via!”. È il cammino che Gesù ha fatto compiere ai suoi discepoli, alla donna cananea e agli uomini di ogni tempo e popolo, a ciascuno di noi. La fede ci apre a conoscere e ad accogliere la reale identità di Gesù, la sua novità e unicità, la sua Parola, come fonte di vita, per vivere una relazione personale con Lui. Il conoscere della fede cresce, cresce con il desiderio di trovare la strada, ed è finalmente un dono di Dio, che si rivela a noi non come una cosa astratta senza volto e senza nome, ma la fede risponde a una Persona, che vuole entrare in un rapporto di amore profondo con noi e coinvolgere tutta la nostra vita. Per questo ogni giorno il nostro cuore deve vivere l’esperienza della conversione, ogni giorno deve vedere il nostro passare dall’uomo ripiegato su stesso, all’uomo aperto all’azione di Dio, all’uomo spirituale (cfr 1Cor 2, 13-14), che si lascia interpellare dalla Parola del Signore e apre la propria vita al suo Amore.

Cari fratelli e sorelle, alimentiamo quindi ogni giorno la nostra fede, con l’ascolto profondo della Parola di Dio, con la celebrazione dei Sacramenti, con la preghiera personale come “grido” verso di Lui e con la carità verso il prossimo. Invochiamo l’intercessione della Vergine Maria, che domani contempleremo nella sua gloriosa assunzione al cielo in anima e corpo, perché ci aiuti ad annunciare e testimoniare con la vita la gioia di aver incontrato il Signore.

[Papa Benedetto, Angelus 14 agosto 2011]

6. Particolarmente toccante è l’episodio della donna cananea, che non cessava di chiedere l’aiuto di Gesù per sua figlia “crudelmente tormentata da un demonio”. Quando la cananea si prostrò dinanzi a Gesù per chiedergli aiuto, egli rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini” (era un richiamo alla diversità etnica tra israeliti e cananei, che Gesù figlio di Davide, non poteva ignorare nel suo comportamento pratico, ma alla quale accennava in funzione metodologica per provocare la fede). Ed ecco la donna pervenire d’intuito a un atto insolito di fede e di umiltà. Dice: “È vero, Signore . . . ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”. Dinanzi a questa parola così umile, garbata e fiduciosa, Gesù replica: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri” (cf. Mt 15, 21-28).

È un avvenimento difficile da dimenticare, soprattutto se si pensa agli innumerevoli “cananei” di ogni tempo, paese, colore e condizione sociale, che tendono la mano per chiedere comprensione e aiuto nelle loro necessità!

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 16 dicembre 1987]

Il Vangelo […] (cfr Mt 15,21-28) descrive l’incontro tra Gesù e una donna cananea. Gesù si trova a nord della Galilea, in territorio straniero per stare con i suoi discepoli un po’ lontano dalle folle, che lo cercano sempre più numerose. Ed ecco avvicinarsi una donna che implora aiuto per la figlia malata: «Pietà di me, Signore!» (v. 22). È il grido che nasce da una vita segnata dalla sofferenza, dal senso di impotenza di una mamma che vede la figlia tormentata dal male e non può guarirla. Gesù inizialmente la ignora, ma questa madre insiste, insiste, anche quando il Maestro dice ai discepoli che la sua missione è rivolta soltanto alle «pecore perdute della casa d’Israele» (v. 24) e non ai pagani. Lei continua a supplicarlo, e Lui, a questo punto, la mette alla prova citando un proverbio - sembra quasi un po’ crudele questo -: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (v. 26). E la donna subito, svelta, angosciata risponde: «È vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (v. 27).

Con queste parole questa madre dimostra di aver intuito che la bontà del Dio Altissimo, presente in Gesù, è aperta ad ogni necessità delle sue creature. Questa saggezza piena di fiducia colpisce il cuore di Gesù e gli strappa parole di ammirazione: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri» (v. 28). Quale è la fede grande? La fede grande è quella che porta la propria storia, segnata anche dalle ferite, ai piedi del Signore domandando a Lui di guarirla, di darle un senso. Ognuno di noi ha la propria storia e non sempre è una storia pulita; tante volte è una storia difficile, con tanti dolori, tanti guai e tanti peccati. Cosa faccio, io, con la mia storia? La nascondo? No! Dobbiamo portarla davanti al Signore: “Signore, se Tu vuoi, puoi guarirmi!”. Questo è quello che ci insegna questa donna, questa brava madre: il coraggio di portare la propria storia di dolore davanti a Dio, davanti a Gesù; toccare la tenerezza di Dio, la tenerezza di Gesù. Facciamo, noi, la prova di questa storia, di questa preghiera: ognuno pensi alla propria storia. Sempre ci sono delle cose brutte in una storia, sempre. Andiamo da Gesù, bussiamo al cuore di Gesù e diciamoGli: “Signore, se Tu voi, puoi guarirmi!”. E noi potremo fare questo se abbiamo sempre davanti a noi il volto di Gesù, se noi capiamo come è il cuore di Cristo: un cuore che ha compassione, che porta su di sé i nostri dolori, che porta su di sé i nostri peccati, i nostri sbagli, i nostri fallimenti.

Ma è un cuore che ci ama così, come siamo, senza trucco. “Signore, se Tu vuoi, puoi guarirmi!”. E per questo è necessario capire Gesù, avere familiarità con Gesù. E torno sempre al consiglio che vi do: portate sempre un piccolo Vangelo tascabile e leggete ogni giorno un passo. Portate il Vangelo: nella borsa, nella tasca e anche nel telefonino, per vedere Gesù. E lì troverete Gesù come Lui è, come si presenta; troverete Gesù che ci ama, che ci ama tanto, che ci vuole tanto bene. Ricordiamo la preghiera: “Signore, se Tu vuoi, puoi guarirmi!”. Bella preghiera. Il Signore ci aiuti, tutti noi, a pregare queste bella preghiera che ci insegna una donna pagana: non cristiana, non ebrea, ma pagana.

La Vergine Maria interceda con la sua preghiera, perché cresca in ogni battezzato la gioia della fede e il desiderio di comunicarla con la testimonianza di una vita coerente, che ci dia il coraggio di avvicinarci a Gesù e dirGli: “Signore, se Tu vuoi, puoi guarirmi!”.

[Papa Francesco, Angelus 16 agosto 2020]

Martedì, 04 Febbraio 2025 12:55

V Domenica T.O. (C) [con Commento breve]

9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi. 

 

*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)

 Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Quando Isaia dice: io vidi, ci comunica una visione e poiché i libri profetici sono costellati di visioni occorre riuscire a decodificare questo linguaggio. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che tutto ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che  regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”:  in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Nella visione d’Isaia Dio è seduto su un trono elevato, il fumo si diffonde e riempie tutto lo spazio, una voce tuona così forte che i luoghi tremano: “Tutta la terra è piena della tua gloria”. Il profeta pensa a ciò che accadde a Mosè sul monte Sinai, quando Dio fece alleanza con il suo popolo e gli diede le Tavole della Legge. Il libro dell’Esodo racconta: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché il Signore vi era disceso nel fuoco; il fumo saliva come quello di una fornace e tutto il monte tremava molto…” (Es 19,18-19). Isaia, nella sua piccolezza, prova un reverenziale timore: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono… eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.  Il timore d’Isaia è anzitutto consapevolezza del nostro essere piccoli e del divario incolmabile che ci separa da Dio. Dio però non si ferma e dice: “Non temere”. Nella visione di Isaia la parola è sostituita dal gesto: “Uno dei serafini volò verso di me, teneva in mano un carbone ardente… mi toccò la bocca”. Lo purifica perché il profeta viene purificato dalla Parola che gli permette di entrare in relazione con Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio.  In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi. 

 

Tre note integrative: 

1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.

2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione. 

3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio. 

 

*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)

Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Le quattro lettere ebraiche sono: yod, he, vav, he e la pronuncia esatta si è persa nel tempo, poiché le vocali originali non sono indicate nel testo ebraico. Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Quasi sempre viene sostituito da Adonai (“Signore”) o HaShem (“Il Nome”) durante la lettura. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia, preziosa scoperta di Israele, grazie allo Spirito di Dio: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). Non è un caso che la rivelazione della tenerezza di Dio avvenga dopo l’episodio del vitello d’oro, cioè in un momento di grave infedeltà del popolo perché è nelle sue ripetute infedeltà che Israele ha sperimentato la misericordia di Dio. Fedeltà di Dio cantata incessantemente nel tempio di Gerusalemme: «Mi prostro verso il tuo tempio santo» (v.2) e il salmo prosegue: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Come appare nella vita del profeta Isaia, il divario che ci separa da Dio, incolmabile con azioni meritorie, è colmato da Dio stesso invitandoci nella sua intimità. E in questo salmo scopriamo in cosa consiste la santità di Dio: Amore e fedeltà. Alla fine del salmo leggiamo “il tuo amore” è per sempre e “la tua destra mi salva”, un ulteriore richiamo all’Esodo dove si dice che Egli ci ha liberati “con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34). Israele sa di essere il destinatario della Rivelazione, il confidente di Dio, ma si rende anche conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Questo è il senso del versetto: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra… quando ascolteranno le parole della tua bocca» (v.4). Soltanto quando Israele avrà compiuto la sua missione di testimone di Dio, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. Il salmo si conclude con una preghiera: “Non abbandonare l’opera delle tue mani”, che vuol dire: Continua nonostante le nostre infedeltà. Vanno lette insieme le due frasi: “Signore, il tuo amore è per sempre…non abbandonare l’opera delle tue mani”. Il suo amore eterno ci dà certezza che non abbandonerà mai l’opera delle sue mani e per questo non smettiamo di rendere grazie: “Il Signore farà tutto per me” (v.8).

Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.

 

*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)

Se oggi rileggiamo quanto scrive san Paolo è grazie al fatto che in questi millenni, di generazione in generazione, è stato trasmesso il vangelo come in una ininterrotta staffetta dove, lungo il percorso, si consegna il “testimone” a chi viene dopo che a sua volta lo consegnerà al seguente.  La Chiesa è chiamata a trasmettere fedelmente il vangelo. Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e per lui, in particolare, Anania, Barnaba e la comunità cristiana di Antiochia di Siria. Grazie a loro, egli ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è universale: il trionfo della vita e la salvezza sono per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Innestati in lui siamo già parte della nuova umanità resa viva dallo Spirito Santo. Paolo racconta che ha personalmente sperimentato questa salvezza essendo un persecutore perdonato, convertito e trasformato in colonna della Chiesa e mai lo dimenticherà testimoniando la meraviglia dell’amore di Dio per l’umanità: un amore senza condizioni e continuamente offerto. Paolo, come Isaia, come Pietro, è profondamente consapevole del proprio peccato; ma lascia agire la grazia di Dio in lui: “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è me” (v.10). Da persecutore Dio l’ha fatto apostolo, il più ardente, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. Il vangelo da gridare sui tetti dell’umanità è proprio l’Amore e la Misericordia di Dio per tutti.

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*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)

 La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti.  Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”.  Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità. Soltanto però, quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Pietro e Isaia sono presi da un timore reverenziale davanti alla sua presenza: Isaia vede un carbone ardente toccargli la bocca, Pietro sente le parole di Gesù: “Non temere” e alla fine entrambi vengono chiamati al servizio dello stesso progetto di Dio, la salvezza degli uomini. Isaia come profeta, Pietro diventerà pescatore di uomini per la loro salvezza. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare  sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. Come dice Paolo nella seconda lettura, è la sua grazia che fa tutto: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana”. A ben vedere l’unica collaborazione che ci viene chiesta è una fiduciosa disponibilità come fa Pietro che con coraggio rischia un nuovo tentativo di pesca. E dopo il miracolo non chiama più Gesù Maestro, ma Signore, il nome riservato a Dio: si prostra ai suoi piedi pronto ormai a fare tutto ciò che dirà. In definitiva è grazie al sì di Isaia, di Pietro e dei suoi compagni e di Paolo, che oggi anche noi siamo qui. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. Per una pesca miracolosa il segreto è fidarsi sempre di Cristo, cosa non facile ma possibile a tutti.

 

Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” è συνεκλεισαν (synekleisan), derivato dal verbo συγκλείω (synkleió), che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Nelle sue opere, Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Così annota nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2): “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.

+Giovanni D’Ercole

 

 

*Sintesi 9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi. 

 

*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)

 Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che  regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”:  in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio.  In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi. 

 

Tre note integrative: 

1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.

2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione. 

3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio. 

 

*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)

Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). In questo salmo scopriamo che la santità di Dio consiste in Amore e fedeltà. Israele si rende conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Soltanto quando Israele avrà compiuto questa  sua missione, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. 

 

Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.

 

*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)

Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e grazie a loro, ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Da persecutore Dio ha fatto san Paolo apostolo, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)

 La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti.  Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”.  Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità e quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. 

 

Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” deriva dal verbo greco synkleió, che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2) scrive: “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.

+Giovanni D’Ercole

Purezza, impudicizie e santità travisate

(Mc 7,14-23)

 

Il Signore è per una umanizzazione a tutto campo. Ma nelle culture antiche la visione mitica del mondo portava la gente ad apprezzare qualsiasi realtà partendo dalla categoria della ‘santità’ come ‘distacco’.

Le leggi sulla purezza indicavano le condizioni necessarie per mettersi davanti a Dio e sentirsi bene alla sua presenza - ma di fatto sempre sgomenti, perché [ovvio] non totalmente ottemperanti.

All’epoca di Mc alcuni giudei convertiti ritenevano di poter abbandonare gli antichi costumi e avvicinarsi ai pagani; altri erano di opinione opposta: sarebbe stato come rigettare parti consistenti della Torah.

Infatti l’evangelista sottolinea che il problema è «in Casa» (v.17) ossia nella Chiesa. Fraternità dove ancora non si capiva il Maestro, venuto per liberare da ossessioni artificiose.

Cristo deve insistere nel suo insegnamento, ora non rivolto a degli estranei ma proprio ai discepoli [appunto] incapaci di «comprendere» (vv.14.18).

In tal guisa, il Vangelo rigetta la distinzione tra la sfera religiosa della vita e un assetto quotidiano “contaminato”; fonte di corruzione. Ma normale,  spicciolo, sommario - per questo valutato distante dal ‘divino’.

Quintessenza che viceversa non intende soggiogare nessuno.

 

La presenza attiva di un Ordine nuovo abolisce le prescrizioni legali e sposta il centro della moralità dei nostri atti.

Qui si richiama l’insegnamento di Gesù: l’impurità non viene dall’esterno [ossia da fuori a dentro]. Non è quella la minaccia.

Le realtà del mondo non sono mai scellerate e inadatte - neanche al culto.

Diventano obbrobrio solo passando attraverso decisioni queste sì sacrileghe, perché bloccano la vita. E distacchi che imbarbariscono.

Non vi è sacro e profano in sé.

Mistero e Beatitudine vengono al mondo esclusivamente attraverso il canale del dialogo e dell’incontro nel rispetto dell’intelligenza, dell’anima personale, e delle culture difformi. Non percorrendo entità di meriti, né strettoie travisate.

Qui il legalismo formale uccide il dilatarsi della vita e degli ideali: “impuro” è ciò che avvelena l'esistenza e la realizzazione spontanea delle persone, le loro relazioni, e la creazione stessa.

 

Gesù libera la folla dei senza voce e smarriti dall’ossessione di tormenti e timori, dallo stare sempre sulla difensiva.

Siamo chiamati a voler bene ai limiti: sono il terreno di energie preparatorie della reale fioritura -  impulsi e segni del nostro ‘compito nel mondo’ secondo la Novità di Dio.

Ogni Esodo valorizza le alternative.

E troviamo la realizzazione, il senso della vita, nonché via via maggiore completezza, incontrando appunto i nostri lati opposti.

Non siamo chiamati a fissarci in una direzione. Ce ne sono altre.

Chiunque intimorisce il fratello “inadeguato” minaccia la vita del cosmo e rende sfiduciate proprio le persone più sensibili e attente.

Sono le imperfezioni a renderci nuovi, eccezionali, unici!

Impariamo dunque a non provare sgomento per il fatto che ‘non siamo’ religiosamente “riusciti” - bensì Primizia!

 

 

[Mercoledì 5.a sett. T.O.  12 febbraio 2025]

Purezza, impudicizie e santità travisate

(Mc 7,14-23)

 

La Chiesa ha conservato la fede nella bontà del creato; non vede di malocchio la natura, la società, e l’opera concreta del Padre, come purtroppo si propugna in certe mentalità schizzinose (in chiave devota).

Neppure ritiene che per sentirsi salvi esistano strumenti o zone di rifugio che basterebbe usare, fruire o raggiungere, e rifrequentare. Il Signore è per una umanizzazione a tutto campo.

Nelle culture antiche la visione religiosa e mitica del mondo portava la gente ad apprezzare qualsiasi realtà partendo dalla categoria della santità come distacco e separatezza - persino inaccessibilità.

Le leggi sulla purezza indicavano le condizioni necessarie per mettersi davanti a Dio e sentirsi bene alla sua presenza - ma di fatto sempre sgomenti, perché (ovvio) non totalmente ottemperanti.

Non ci si poteva presentare nel punto in cui la persona era, o in qualsiasi occasione e modo - bensì secondo norme legate al cibo, al contatto, al vestito, ai tempi raccomandati di preghiera; così via.

 

Nel contesto della dominazione achemenide, per valorizzare l’identità, ricostruire il Tempio di Gerusalemme e mantenere la propria classe, i sacerdoti accentuarono le norme di purità e gli obblighi sacrificali, manipolando più volte il senso, i contesti, e le postille della Scrittura.

Ovviamente, parte consistente delle offerte così gonfiate rimanevano al ceto che si occupava dei riti.

Tutto ciò, a spese d’una concezione appiattita sullo stile cultuale propiziatorio e (supposto) taumaturgico, il quale investiva ogni aspetto della vita ordinaria della gente.

Moltitudine resa schiava dalla visione imposta - in sé infantile - algida forse, ma paludosa e irritante.

 

All’epoca di Mc alcuni giudei convertiti ritenevano di poter abbandonare gli antichi costumi e avvicinarsi ai pagani; altri erano di opinione opposta: sarebbe stato come rigettare parti consistenti della Torah [es: Lv 11-16 e 17ss].

Infatti Mc sottolinea che il problema è «in Casa» (v.17 testo greco: dentro casa) ossia nella Chiesa e fra i suoi intimi [la traduzione CEI recita in “una” casa].

Un posto dove paradossalmente ancora non si capisce il Maestro [!] venuto per liberarci dalle ossessioni inventate e artificiose.

Cristo deve insistere nel suo insegnamento, ora non rivolto a degli estranei, ma proprio agli habitué, incapaci - al contrario delle folle - di «comprendere» (v.14) perfino i rudimenti delle cose spirituali.

Per educare i testardi ancora «privi d’intelletto» (v.18) che si ritengono maestri, non si dirige in una dimora qualsiasi, ma esattamente nel posto dove purtroppo si coltivano aspettative talora ben lontane dal popolo (vv.14.17).

L’evangelista rigetta la distinzione tra la sfera religiosa della vita e un assetto quotidiano “contaminato”; fonte di corruzione. Ma normale,  spicciolo, sommario - per questo valutato distante dal “divino”.

Quintessenza che viceversa non intende soggiogare nessuno.

 

Le prescrizioni restano insufficienti a darci accesso a Dio: esse non sono che simboli, traiettorie, e immagini.

La presenza attiva di un Ordine nuovo abolisce le prescrizioni legali, e sposta il centro della moralità dei nostri atti.

Qui si richiama l’insegnamento di Gesù: l’impurità non viene dall’esterno [ossia da fuori a dentro].

Non è quella la minaccia per la vita della donna, dell’uomo, e della comunità, secondo il disegno senza trucchi di Dio.

Le realtà del mondo non sono mai scellerate e inadatte - neanche al culto.

Diventano obbrobrio solo passando attraverso decisioni queste sì sacrileghe, perché bloccano la vita. E distacchi che imbarbariscono.

 

La canonicità del bigotto e talare non c’entra nulla con la divinizzazione, la quale viceversa fa rima con ciò che è concretamente umanizzante.

Il dibattito sul puro e impuro non va collocato sul piano delle cose [ad es. dei cibi che vanno fino allo stomaco] bensì del comportamento, che parte e va fino al cuore. Luogo non sempre sereno e ben “ordinato”.

Non vi sono apriorismi sacri: non basta che un luogo, una casa, degli oggetti, una persona... siano stati legittimati da cerimonie o addirittura scambi, perché diventino intoccabili, onesti ed eminenti.

 

In tal guisa, non vi è sacro e profano in sé.

Mistero e Beatitudine vengono al mondo esclusivamente attraverso il canale del dialogo e dell’incontro nel rispetto dell’intelligenza, dell’anima personale, e delle culture difformi. Non percorrendo entità di meriti, né strettoie travisate.

 

La santificazione è legata alla condotta. E nei casi di coerenza, persino all’insuccesso, all’angoscia, alle frustrazioni, che derivano da scelte di campo impegnative.

Sono decisioni le quali mettono a repentaglio, e talora ci ridicolizzano nel paragone con il costume delle autenticazioni obbligate - ove talora sembra che sia necessario eludere la vita. O non sei “nessuno”.

Qui il legalismo formale purtroppo uccide qualsivoglia dilatarsi delle risorse e degli ideali.

Insomma, impuro è ciò che avvelena l'esistenza e la realizzazione spontanea delle persone, le loro relazioni, e la creazione stessa.

 

Eppure sono le imperfezioni a renderci nuovi, eccezionali, unici!

 

Gesù apre una nuova Via per far avvicinare tutti noi malfermi a Dio, agli altri persino lontani, e a se stessi - senza esclusioni puritane.

Quando ad es. non ci accettiamo così come siamo - dentro, o in campo, non accogliendo il diverso e l’opposto - perché nell’opinione comune “non va bene”, rischiamo di trasformare l’insoddisfazione in un clima d’intimo assillo.

Perfino il religioso senso d’impurezza ci porterà dall’agitazione al disastro.

Ma fuori dall’impegno per l’amicizia con noi stessi, con le cose create, e lo spirito di fraternità, di convivialità dei contrari, la paura di contaminarsi è infondata.

Anzi, siamo chiamati a voler bene ai limiti: sono il terreno anche scomposto e impudico di energie preparatorie della reale fioritura.

Sono impulsi e segni primordiali del nostro compito nel mondo secondo la Novità di Dio.

Ogni Esodo valorizza le alternative.

E troviamo la realizzazione, il senso della vita, nonché via via maggiore completezza, incontrando appunto i nostri lati opposti.

 

Chiunque intimorisce il fratello “inadeguato” minaccia la vita del cosmo e rende sfiduciate proprio le persone più sensibili e attente.

Gesù libera la folla dei senza voce, degli smarriti, dall’ossessione di apprensioni e timori, dallo stare sempre sulla difensiva.

Non siamo chiamati a fissarci in una direzione. Ce ne sono altre.

Impariamo dunque a non provare sgomento per il fatto che non siamo religiosamente “riusciti” - bensì Primizia!

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ritieni ti renda presentabile in società? In che senso sei impeccabile - perché imbellettato e conforme all’opinione?

Essere “figlio” e “primizia” ti fa stare sulla difensiva o restituisce voglia di vivere in pienezza?

L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c'è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro... Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7,14-15.20-21). Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore. Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione. Questo modo di pensare - ammonisce Gesù - è ingenuo e miope. L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51,7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr Gen 3,1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore?

[Papa Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2010]

Martedì, 04 Febbraio 2025 05:03

Nuovo significato di Purezza

Tradizione anticotestamentaria e nuovo significato di “purezza”

1. Un indispensabile completamento delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna sulle quali abbiamo centrato il ciclo delle nostre presenti riflessioni, dovrà essere l’analisi della purezza. Quando Cristo, spiegando il giusto significato del comandamento "Non commettere adulterio", fece richiamo all’uomo interiore, specificò al tempo stesso la dimensione fondamentale della purezza, con cui vanno contrassegnati i reciproci rapporti tra l’uomo e la donna nel matrimonio e fuori del matrimonio. Le parole: "Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28) esprimono ciò che contrasta con la purezza. Ad un tempo, queste parole esigono la purezza che nel Discorso della montagna è compresa nell’enunciato delle beatitudini: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8). In tal modo Cristo rivolge al cuore umano un appello: lo invita, non lo accusa, come già abbiamo precedentemente chiarito.

2. Cristo vede nel cuore, nell’intimo dell’uomo la sorgente della purezza - ma anche dell’impurità morale - nel significato fondamentale e più generico della parola. Ciò è confermato, ad esempio, dalla risposta data ai farisei, scandalizzati per il fatto che i suoi discepoli "trasgrediscono la tradizione degli antichi, poiché non si lavano le mani quando prendono cibo" (Mt 15,2). Gesù disse allora ai presenti: "Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo" (Mt 15,11). Ai suoi discepoli, invece, rispondendo alla domanda di Pietro, così spiegò queste parole: "...ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l’uomo" (cf. Mt 15,18-20; cf. Mc 7,20-23).

Quando diciamo "purezza", "puro", nel significato primo di questi termini, indichiamo ciò che contrasta con lo sporco. "Sporcare" significa "rendete immondo", "inquinare". Ciò si riferisce ai diversi ambiti del mondo fisico. Si parla, ad esempio, di una "strada sporca", di una "stanza sporca", si parla anche dell’"aria inquinata". È così pure, anche l’uomo può essere "immondo", quando il suo corpo non è pulito. Per togliere le lordure del corpo, bisogna lavarlo. Nella tradizione dell’Antico Testamento si attribuiva una grande importanza alle abluzioni rituali, ad esempio il lavarsi le mani prima di mangiare, di cui parla il testo citato. Numerose e particolareggiate prescrizioni riguardavano le abluzioni del corpo in rapporto all’impurità sessuale, intesa in senso esclusivamente fisiologico, a cui abbiamo accennato in precedenza (cf. Lv 15 ). Secondo lo stato della scienza medica del tempo, le varie abluzioni potevano corrispondere a prescrizioni igieniche. In quanto erano imposte in nome di Dio e contenute nei Libri Sacri della legislazione anticotestamentaria, l’osservanza di esse acquistava, indirettamente, un significato religioso; erano abluzioni rituali e, nella vita dell’uomo dell’Antica Alleanza, servivano alla "purezza" rituale.

3. In rapporto alla suddetta tradizione giuridico-religiosa dell’Antica Alleanza si è formato un modo erroneo di intendere la purezza morale(1). La si capiva spesso in modo esclusivamente esteriore e "materiale". In ogni caso, si diffuse una tendenza esplicita ad una tale interpretazione. Cristo vi si oppone in modo radicale: nulla rende l’uomo immondo "dall’esterno", nessuna sporcizia "materiale" rende l’uomo impuro in senso morale, ossia interiore. Nessuna abluzione, neppure rituale, è idonea di per sé a produrre la purezza morale. Questa ha la sua sorgente esclusiva nell’interno dell’uomo: essa proviene dal cuore. È probabile che le rispettive prescrizioni dell’Antico Testamento (quelle, ad esempio, che si trovano nel Levitico) ( Lv 15,16-24 ; 18,1ss ; 12,1-5 ) servissero, oltre che a fini igienici, anche ad attribuire una certa dimensione di interiorità a ciò che nella persona umana è corporeo e sessuale. In ogni caso Cristo si è ben guardato dal collegare la purezza in senso morale (etico) con la fisiologia e con i relativi processi organici. Alla luce delle parole di Matteo 15,18-20, sopra citate, nessuno degli aspetti dell’"immondezza" sessuale, nel senso strettamente somatico, biofisiologico, entra di per sé nella definizione della purezza o della impurità in senso morale (etico).

4. Il suddetto enunciato ( Mt 15,18-20 ) è soprattutto importante per ragioni semantiche. Parlando della purezza in senso morale, cioè della virtù della purezza, ci serviamo di un’analogia, secondo la quale il male morale viene paragonato appunto alla immondezza. Certamente tale analogia è entrata a far parte, fin dai tempi più remoti, dell’ambito dei concetti etici. Cristo la riprende e la conferma in tutta la sua estensione: "Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo". Qui Cristo parla di ogni male morale, di ogni peccato, cioè di trasgressioni dei vari comandamenti, ed enumera "i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie", senza limitarsi ad uno specifico genere di peccato. Ne deriva che il concetto di "purezza" e di "impurità" in senso morale è anzitutto un concetto generale, non specifico: per cui ogni bene morale è manifestazione di purezza, ed ogni male morale è manifestazione di impurità. L’enunciato di Matteo 15,18-20 non restringe la purezza ad un unico settore della morale, ossia a quello connesso al comandamento "Non commettere adulterio" e "Non desiderare la moglie del tuo prossimo", cioè a quello che riguarda i rapporti reciproci tra l’uomo e la donna, legati al corpo e alla relativa concupiscenza. Analogamente possiamo anche intendere la beatitudine del Discorso della montagna, rivolta agli uomini "puri di cuore", sia in senso generico, sia in quello più specifico. Soltanto gli eventuali contesti permetteranno di delimitare e di precisare tale significato.

5. Il significato più ampio e generale della purezza è presente anche nelle lettere di San Paolo, in cui gradualmente individueremo i contesti che, in modo esplicito, restringono il significato della purezza all’ambito "somatico" e "sessuale", cioè a quel significato che possiamo cogliere dalle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna sulla concupiscenza, che si esprime già nel "guardare la donna", e viene equiparata ad un "adulterio commesso nel cuore" (cf. Mt 5,27-28 ).

 

Non è San Paolo l’autore delle parole sulla triplice concupiscenza. Esse, come sappiamo, si trovano nella prima lettera di Giovanni. Si può, tuttavia, dire che analogamente a quella che per Giovanni ( 1Gv 2,16-17 ) è contrapposizione all’interno dell’uomo tra Dio e il mondo (tra ciò che viene "dal Padre" e ciò che viene "dal mondo") - contrapposizione che nasce nel cuore e penetra nelle azioni dell’uomo come"concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita" - San Paolo rileva nel cristiano un’altra contraddizione: l’opposizione e insieme la tensione tra la "carne" e lo "Spirito" (scritto con la maiuscola, cioè lo Spirito Santo): "Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste" ( Gal 5,16-17 ). Ne consegue che la vita "secondo la carne" è in opposizione alla vita "secondo lo Spirito". "Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito" ( Rm 8,5 ).

 

Nelle successive analisi cercheremo di mostrare che la purezza - la purezza di cuore, di cui ha parlato Cristo nel Discorso della montagna - si realizza propriamente nella vita "secondo lo Spirito".

 

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 10 dicembre 1980]

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Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him. When we speak of this task in which we share by virtue of our baptism, it is no reason to boast (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui. Quando parliamo di questo nostro comune incarico, in quanto siamo battezzati, ciò non è una ragione per farne un vanto (Papa Benedetto)
Because of this unique understanding, Jesus can present himself as the One who reveals the Father with a knowledge that is the fruit of an intimate and mysterious reciprocity (John Paul II)
In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità (Giovanni Paolo II)
Yes, all the "miracles, wonders and signs" of Christ are in function of the revelation of him as Messiah, of him as the Son of God: of him who alone has the power to free man from sin and death. Of him who is truly the Savior of the world (John Paul II)
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo (Giovanni Paolo II)
It is known that faith is man's response to the word of divine revelation. The miracle takes place in organic connection with this revealing word of God. It is a "sign" of his presence and of his work, a particularly intense sign (John Paul II)
È noto che la fede è una risposta dell’uomo alla parola della rivelazione divina. Il miracolo avviene in legame organico con questa parola di Dio rivelante. È un “segno” della sua presenza e del suo operare, un segno, si può dire, particolarmente intenso (Giovanni Paolo II)
That was not the only time the father ran. His joy would not be complete without the presence of his other son. He then sets out to find him and invites him to join in the festivities (cf. v. 28). But the older son appeared upset by the homecoming celebration. He found his father’s joy hard to take; he did not acknowledge the return of his brother: “that son of yours”, he calls him (v. 30). For him, his brother was still lost, because he had already lost him in his heart (Pope Francis)
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore (Papa Francesco)
Doing a good deed almost instinctively gives rise to the desire to be esteemed and admired for the good action, in other words to gain a reward. And on the one hand this closes us in on ourselves and on the other, it brings us out of ourselves because we live oriented to what others think of us or admire in us (Pope Benedict)
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi (Papa Benedetto)

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