Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Illustri Signori!
In occasione di queste giornate di studio, dedicate alle “Comuni radici cristiane delle Nazioni Europee”, avete desiderato questa udienza, per incontrarvi con me.
Mentre porgo a tutti voi personalmente, uomini di cultura dell’Europa e del mondo intero convenuti a Roma, il mio saluto più sentito, vi manifesto il mio ringraziamento, non solo per questa vostra visita, per me così gradita, ma anche perché avete scelto come spunto ed argomento delle vostre riflessioni idee che sento intimamente radicate nel mio spirito e che ho avuto modo di esprimere fin dall’inizio del mio pontificato (Discorso del 22 ottobre 1978) e poi man mano, nell’Omelia sulla piazza del Duomo di Gniezno (3 giugno 1979), nel discorso tenuto a Czestochowa ai Vescovi polacchi (5 giugno 1979), durante le visite a Subiaco, a Montecassino, a Norcia in occasione del 1550° anniversario della nascita di san Benedetto, nel discorso tenuto all’Assemblea generale dell’UNESCO (2 giugno 1980), e che soprattutto ho manifestato apertamente e sintetizzato nella lettera apostolica Egregiae virtutis (31 dicembre 1980), con cui ho proclamato i santi Cirillo e Metodio patroni dell’Europa insieme con san Benedetto.
Grazie per questa sensibilità e attenzione alle ansie apostoliche, che caratterizzano la vita del Pastore supremo della Chiesa che, in nome di Cristo, si sente anche Padre affettuoso e responsabile dell’intera umanità.
1. Il grido che mi uscì spontaneo dal cuore in quel giorno indimenticabile, in cui per la prima volta nella storia della Chiesa un Papa slavo, figlio della martoriata e sempre gloriosa Polonia, iniziava il suo servizio pontificale, non era altro che l’eco dell’anelito che spinse san Cirillo e Metodio ad affrontare la loro missione evangelizzatrice: “Aprite, spalancate le porte a Cristo! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà... Alla sua salvatrice potenza aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi della cultura, della civiltà, dello sviluppo. Non abbiate paura. Permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo Lui ha parole di vita”.
Voi conoscete la vita e le vicende dei due santi: si può ben dire che la loro esistenza si presenta sotto due aspetti essenziali: un immenso amore a Cristo e una triplice fedeltà.
Il loro amore appassionato e coraggioso a Cristo si manifestò nella fedeltà alla vocazione missionaria ed evangelizzatrice, nella fedeltà alla Sede Romana del Pontefice e, infine, nella fedeltà ai popoli slavi. Essi annunziarono la verità, la salvezza, la pace; essi vollero la pace! E perciò rispettarono le ricchezze spirituali e culturali di ogni popolo, ben convinti che la grazia portata da Cristo non distrugge, ma eleva e trasforma la natura. Per questa fedeltà al Vangelo ed alle culture locali, essi inventarono un alfabeto particolare per rendere possibile la trascrizione dei libri sacri nella lingua dei popoli slavi, e così, contro le recriminazioni di coloro che ritenevano quasi un dogma le tre lingue sacre, l’ebraico, il greco e il latino (i “pilatiani” come li chiamava san Cirillo), essi introdussero la lingua slava anche nella liturgia, con autorevole conferma del Papa, e come primo messaggio tradussero il “Prologo” del Vangelo di Giovanni. “Greci di origine, Slavi di cuore, inviati canonicamente da Roma, essi sono un fulgido esempio dell’universalismo cristiano. Di quell’universalismo che abbatte le barriere, estingue gli odi e unisce tutti nell’amore del Cristo Redentore Universale” (Lettera del Cardinale Segretario di Stato ai fedeli partecipanti alle celebrazioni dei santi Cirillo e Metodio a Velehrad, in Cecoslovacchia) (cf. “L’Osservatore Romano”, 6-7 luglio 1981).
2. La proclamazione dei due santi apostoli degli Slavi a patroni dell’Europa insieme con san Benedetto voleva prima di tutto ricordare l’undicesimo centenario della lettera Industriae tuae, inviata da Papa Giovanni VIII al Principe Svatopluk nel giugno dell’anno 880, nella quale veniva lodato e raccomandato l’uso della lingua slava nella liturgia, e il primo centenario della pubblicazione della lettera enciclica Grande munus (30 settembre 1880), con la quale il Pontefice Leone XIII ricordava a tutta la Chiesa le figure e l’attività apostolica dei due santi. Ma con essa, in particolare, ho voluto sottolineare che “l’Europa nel suo insieme geografico è, per così dire, frutto dell’azione di due correnti di tradizioni cristiane, alle quali si aggiungono anche due forme di cultura diverse, ma allo stesso tempo profondamente complementari” (Leone XIII, Grande munus): Benedetto abbraccia la cultura prevalentemente occidentale e centrale dell’Europa, più logica e razionale, e la spande mediante i vari centri benedettini negli altri continenti; Cirillo e Metodio mettono in risalto specialmente l’antica cultura greca e la tradizione orientale più mistica e intuitiva.
Questa proclamazione ha voluto essere il riconoscimento solenne dei loro meriti storici, culturali, religiosi dell’evangelizzazione dei popoli europei e nella creazione dell’unità spirituale dell’Europa.
Anche voi, illustri signori, venuti da tante parti del mondo, vi siete fermati a riflettere su questo innegabile fenomeno di unità ideale del continente. I Responsabili dell’Università Lateranense di Roma e dell’Università Cattolica di Lublino hanno voluto richiamare qui, nella Città Eterna presso la Sede di Pietro, per quattro giorni di intensa attività, più di duecento intellettuali di ventitré Nazioni europee ed extraeuropee, con uno schema di studio articolato in dodici gruppi di lavoro con centinaia di relazioni. Due Istituzioni culturali di prestigio internazionale hanno invitato uomini pensosi e responsabili ad entrare con un dialogo fraterno e costruttivo nello spirito e nell’area della sollecitudine non solo della Chiesa cattolica, ma anche delle supreme Organizzazioni mondiali. Si è seguita appropriatamente una linea di assoluta convergenza: la ricerca delle radici cristiane dei popoli europei per offrire una indicazione alla vita di ogni singolo cittadino, e dare un significato complessivo e direzionale alla storia che stiamo vivendo, talvolta con allarmante angoscia.
Abbiamo infatti un’Europa della cultura con i grandi movimenti filosofici, artistici e religiosi che la contraddistinguono e la fanno maestra di tutti i Continenti; abbiamo l’Europa del lavoro, che, mediante la ricerca scientifica e tecnologica, si è sviluppata nelle varie civiltà, fino ad arrivare all’attuale epoca dell’industria e della cibernetica; ma c’è pure l’Europa delle tragedie dei popoli e delle Nazioni, l’Europa del sangue, delle lacrime, delle lotte, delle rotture, delle crudeltà più spaventose. Anche sull’Europa, nonostante il messaggio dei grandi spiriti, si è fatto sentire pesante e terribile il dramma del peccato, del male, che, secondo la parabola evangelica, semina nel campo della storia la funesta zizzania. Ed oggi, il problema che ci assilla e proprio salvare l’Europa e il mondo da ulteriori catastrofi!
3. Certamente, il Congresso, a cui partecipate, ha direttamente un programma ed un valore scientifico. Ma non basta rimanere sul piano accademico. Occorre anche cercare i fondamenti spirituali dell’Europa e di ogni Nazione, per trovare una piattaforma di incontro tra le varie tensioni e le varie correnti di pensiero, per evitare ulteriori tragedie e soprattutto per dare all’uomo, al “singolo” che cammina per vari sentieri verso la Casa del Padre, il significato e la direzione della sua esistenza.
Ecco allora il messaggio di Benedetto, di Cirillo e Metodio, di tutti i mistici e santi cristiani, il messaggio del Vangelo, che è luce, vita, verità, salvezza dell’uomo e dei popoli. A chi rivolgersi, infatti, per conoscere il “perché” della vita e della storia se non a Dio, che si è fatto uomo per rivelare la Verità salvifica e per redimere l’uomo dal vuoto e dall’abisso dell’angoscia inutile e disperata? “Cristo Redentore – ho scritto nella enciclica Redemptor Hominis – rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. Questa è... la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità e i valori propri della sua umanità... L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo... deve, con la sua inquietudine e incertezza e anche con la debolezza e peccaminosità, con la sua vita e con la sua morte avvicinarsi a Cristo. Deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso..” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 28). L’Europa ha bisogno di Cristo! Bisogna entrare a contatto con Lui, appropriarsi del suo messaggio, del suo amore, della sua vita, del suo perdono, delle sue certezze eterne ed esaltanti! Bisogna comprendere che la Chiesa da Lui voluta è fondata ha come unico scopo di trasmettere e garantire la Verità da Lui rivelata, e mantenere vivi e attuali i mezzi di salvezza da Lui stesso istituiti, e cioè i Sacramenti e la preghiera. Questo compresero spiriti eletti e pensosi, come Pascal, Newman, Rosmini, Soloviev, Norwid.
Ci troviamo in un’Europa in cui si fa ognor più forte la tentazione dell’ateismo e dello scetticismo; in cui alligna una penosa incertezza morale, con la disgregazione della famiglia e la degenerazione dei costumi; in cui domina un pericoloso conflitto di idee e di movimenti. La crisi della civiltà (Huizinga) e il tramonto dell’Occidente (Spengler) vogliono soltanto significare l’estrema attualità e necessità di Cristo e del Vangelo. Il senso cristiano dell’uomo, immagine di Dio, secondo la teologia greca tanto amata da Cirillo e Metodio ed approfondita da sant’Agostino, è la radice dei popoli dell’Europa e ad esso bisogna richiamarsi con amore e buona volontà per dare pace e serenità alla nostra epoca: solo così si scopre il senso umano della storia, che in realtà è “Storia della salvezza”.
4. Illustri e cari Signori!
Mi piace concludere ricordando l’ultimo gesto e le ultime parole di un grande slavo, legato da un profondo amore all’Europa, Fiodor Michailovic Dostojevskij, che morì cento anni fa, la sera del 28 gennaio 1881 a Pietroburgo. Grande innamorato di Cristo, egli aveva scritto: “...la sola scienza non completerà mai ogni ideale umano e la pace per l’uomo; la fonte della vita e della salvezza dalla disperazione per tutti gli uomini, la condizione sine qua non e la garanzia per l’intero universo si racchiudono nelle parole: Il Verbo si è fatto carne e la fede in queste parole (F. Dostojevskij, I Demoni, Sansoni, Firenze, 1958). Prima di morire si fece ancora portare e leggere il Vangelo che l’aveva accompagnato nei dolorosi anni della prigionia in Siberia e lo consegnò ai figli.
L’Europa ha bisogno di Cristo e del Vangelo, perché qui stanno le radici di tutti i suoi popoli. siate anche voi all’ascolto di questo messaggio!
Vi accompagni la mia benedizione, che con grande effusione vi imparto nel nome del Signore!
[Papa Giovanni Paolo II, Discorso 6 novembre 1981]
Per conoscere la nostra vera identità non possiamo essere «cristiani seduti» ma dobbiamo avere il «coraggio di metterci sempre in cammino per cercare il volto del Signore», perché noi siamo «immagine di Dio». Nella messa celebrata a Santa Marta martedì 10 febbraio, Papa Francesco, commentando la prima lettura liturgica — il racconto della creazione nel libro della Genesi (1, 20 - 2, 4) — ha riflettuto su una domanda essenziale per ogni persona: «Chi sono io?».
La nostra «carta d’identità», ha detto il Papa, si ritrova nel fatto che gli uomini sono stati creati «all’immagine, secondo la somiglianza di Dio». Ma allora, ha aggiunto, «la domanda che noi possiamo farci è: Come conosco, io, l’immagine di Dio? Come so com’è lui per sapere come sono io? Dove trovo l’immagine di Dio?». La risposta si trova «certamente non sul computer, non nelle enciclopedie, non nei libri», perché «non c’è un catalogo dove c’è l’immagine di Dio». C’è solo un modo «per trovare l’immagine di Dio, che è la mia identità» ed è quello di mettersi in cammino: «Se non ci mettiamo in cammino, mai potremo conoscere il volto di Dio».
Questo desiderio di conoscenza si ritrova anche nell’Antico testamento. I salmisti, ha fatto notare Francesco, «tante volte dicono: io voglio conoscere il tuo volto»; e «anche Mosè una volta l’ha detto al Signore». Ma in realtà «non è facile, perché mettersi in cammino significa lasciare tante sicurezze, tante opinioni di come è l’immagine di Dio, e cercarlo». Significa, in altri termini, «lasciare che Dio, la vita, ci metta alla prova», significa «rischiare», perché «soltanto così si può arrivare a conoscere il volto di Dio, l’immagine di Dio: mettendosi in cammino».
Il Papa ha attinto ancora all’Antico testamento per ricordare che «così ha fatto il popolo di Dio, così hanno fatto i profeti». Per esempio «il grande Elia: dopo aver vinto e purificato la fede di Israele, lui sente la minaccia di quella regina e ha paura e non sa cosa fare. Si mette in cammino. E a un certo punto, preferisce morire». Ma Dio «lo chiama, gli dà da mangiare, da bere e dice: continua a camminare». Così Elia «arriva al monte e lì trova Dio». Il suo è stato dunque «un lungo cammino, un cammino penoso, un cammino difficile», ma ci insegna che «chi non si mette in cammino, mai conoscerà l’immagine di Dio, mai troverà il volto di Dio». È una lezione per tutti noi: «i cristiani seduti, i cristiani quieti — ha affermato il Pontefice — non conosceranno il volto di Dio». Hanno la presunzione di dire: «Dio è così, così...», ma in realtà «non lo conoscono».
Per camminare, invece, «è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo». La stessa cosa, ha spiegato il Pontefice, è successa «a Giobbe che, con la sua prova, ha incominciato a pensare: ma come è Dio, che permette questo a me?». Anche i suoi amici «dopo un grande silenzio di giorni, hanno incominciato a parlare, a discutere con lui». Ma tutto ciò non è stato utile: «con questi argomenti, Giobbe non ha conosciuto Dio». Invece «quando lui si è lasciato interpellare dal Signore nella prova, ha incontrato Dio». E proprio da Giobbe si può ascoltare «quella parola che ci aiuterà tanto in questo cammino di ricerca della nostra identità: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto”». È questo il cuore della questione secondo Francesco: «l’incontro con Dio» che può avvenire «soltanto mettendosi in cammino».
Certo, ha continuato, «Giobbe si è messo in cammino con una maledizione», addirittura «ha avuto il coraggio di maledire la vita e la sua storia: “Maledetto il giorno che sono nato...”». In effetti, ha riflettuto il Papa, «a volte, nel cammino della vita, non troviamo un senso alle cose». La stessa esperienza è stata vissuta dal profeta Geremia, il quale «dopo essere stato sedotto dal Signore, sente quella maledizione: “Ma perché a me?”». Egli voleva «restarsene seduto tranquillo» e invece «il Signore voleva fargli vedere il suo volto».
Questo vale per ognuno di noi: «per conoscere la nostra identità, conoscere l’immagine di Dio, bisogna mettersi in cammino», essere «inquieti, non quieti». Proprio questo «è cercare il volto di Dio».
Papa Francesco si è quindi riferito anche al passo del Vangelo di Marco (7, 1-13), nel quale «Gesù incontra gente che ha paura di mettersi in cammino» e che costruisce una sorta di «caricatura di Dio». Ma quella «è una falsa carta d’identità» perché, ha spiegato il Pontefice, «questi non-inquieti hanno fatto tacere l’inquietudine del cuore: dipingono Dio con i comandamenti» ma così facendo «si dimenticano di Dio» per osservare solo «la tradizione degli uomini». E «quando hanno un’insicurezza, inventano o fanno un altro comandamento». Gesù dice a scribi e farisei che accumulano comandamenti: «Così voi annullate la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi, e di cose simili ne fate molte». Proprio questa «è la falsa carta d’identità, quella che possiamo avere senza metterci in cammino, quieti, senza l’inquietudine del cuore».
In proposito il Papa ha messo in evidenza un particolare «curioso»: il Signore infatti «li loda ma li rimprovera dove c’è il punto più dolente. Li loda: “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione”», ma poi «li rimprovera lì dove è il punto più forte dei comandamenti con il prossimo». Gesù ricorda infatti che Mosè disse: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte». E prosegue: «Voi invece dite: se uno dichiara al padre o alla madre che “ciò con cui dovrei aiutarti, cioè darti da mangiare, darti da vestire, darti per comprare le medicine, è Korbàn, offerta a Dio”, non consentite loro di fare più nulla per il padre e la madre». Così facendo «si lavano le mani con il comandamento più tenero, più forte, l’unico che ha una promessa di benedizione». E così «sono tranquilli, sono quieti, non si mettono in cammino». Questa dunque «è l’immagine di Dio che loro hanno». In realtà il loro è un cammino «fra virgolette»: ossia «un cammino che non cammina, un cammino quieto. Rinnegano i genitori, ma compiono le leggi della tradizione che loro hanno fatto».
Concludendo la sua riflessione il vescovo di Roma ha riproposto il senso dei due testi liturgici come «due carte d’identità». La prima è «quella che tutti noi abbiamo, perché il Signore ci ha fatto così», ed è «quella che ci dice: mettiti in cammino e tu avrai conoscenza della tua identità, perché tu sei immagine di Dio, sei fatto a somiglianza di Dio. Mettiti in cammino e cerca Dio». L’altra invece ci rassicura: «No, stai tranquillo: compi tutti questi comandamenti e questo è Dio. Questo è il volto di Dio». Da qui l’auspicio che il Signore «dia a tutti la grazia del coraggio di metterci sempre in cammino, per cercare il volto del Signore, quel volto che un giorno vedremo ma che qui, sulla terra, dobbiamo cercare».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 11/02/2015]
Pane e prodigi del Cristo-fantasma
(Mc 6,53-56)
Per una esistenza da salvati serve una trasformazione dall’interno; un altro inizio. Un diverso appiglio del bene.
In effetti la «frangia del mantello» è il suo Popolo - e ciascuno di noi, quando siamo messi in grado di percepire e prolungarne il richiamo, lo spirito, la cura, l’azione.
Un «toccare» che non è semplice gesto: chiama il coinvolgimento totale; Fede personale, scavo dentro.
Le folle attorno al Signore e alla Chiesa, sua presenza primaria, cercano pane e guarigione… ma talora dimenticano l’adesione alla Persona interiore che dona e cura.
Eppure anche in questi casi la Guida infallibile ripropone la sua onda vitale ininterrotta - con terapie che non s’impongono attraversando le anime come farebbe un fulmine, bensì nell’esistenza reale.
Dio libera, salva, crea, a partire dalle tensioni e dai difetti (anche religiosi) perché vuole portarci a consapevolezza.
Il Padre desidera far penetrare il valore dell’atto d’amore che rende forte il debole; ogni gesto ri-creante, incarnato, aperto a qualsiasi senso di vuoto.
I fastidi non capitano per sfortuna o castigo: arrivano per lasciarci rifiorire, proprio a partire dai dolori dell’anima.
Se perdurano, nessuna paura: essi diventano messaggi più espliciti, del nostro stesso Seme superiore.
Significa che nella nostra orchestra qualcosa è stonato o trascurato, e deve tramontare oppure venire scoperto e messo in gioco.
Anche i sintomi dell’inquietudine appartengono alla quintessenza innata - che ha sempre potere di attualità.
La chiave di volta non sarà dunque il look, né la salute, bensì l’accoglienza stessa delle amarezze, degli stenti, i quali vengono per sgombrare l’inessenziale - e liberare pulsioni spirituali intrappolate.
Forse non pochi preferirebbero attendere uno sbarco miracolistico del Maestro [guaritore tipificato] che rechi subito beneficio, favori immediati.
Salvezza esteriore dal sapore magico - caduca, anche se fisicamente palpabile.
La redenzione totale e sacra - davvero messianica - non è clamorosa. Si realizza unicamente passo dopo passo; così permane profonda e radicale.
Si fa capace di nuovi inizi e atti di nascita d’energia ancora embrionale, proprio a partire dalle singole precarietà.
Annunciamo con parole e gesti il Volto autentico del Figlio, proprio per annientare l’idea del Cristo-fantasma del passo precedente (v.49), figura evanescente, solo apologetica.
Il suo Popolo di intimi - presenza non più ineffabile e misteriosa - si adopera nella prossimità, perché essere guariti non vuol dire sfuggire la transitorietà.
Per una esistenza da salvati serve una trasformazione dall’interno; un altro inizio. Un diverso appiglio del bene.
Altrove dalla civiltà dell’apparenza è il ‘miglioramento’ della nostra condizione e la sicurezza, dall’insicurezza.
Non in un semplice rimetterci in piedi; ‘guadagno’ indiscreto e passeggero.
Fenomenale, ma solo puntuale e inconcludente, o che infine abdica.
[Lunedì 5.a sett. T.O. 10 febbraio 2025]
Pane e prodigi del Cristo-fantasma
(Mc 6,53-56)
«Può portare il mantello del Maestro colui che è votato alla causa della non-violenza e del non-possesso, che è sospinto dalla ricerca della verità e della retta visione, che è capace di risolvere i propri problemi emotivi e intellettuali e può mostrare agli altri la via per superare i loro problemi emotivi e intellettuali» [Acharya Mahaprajna].
Mentre qualcuno fa ressa continua intorno a Gesù e impedisce ad altri di avere un rapporto personale con Lui, ecco che bisogna inventarsi qualcosa; almeno prenderlo di struscio (v.56).
«E dovunque entrava in villaggi o in città o in borgate ponevano gli infermi nelle piazze e lo supplicavano di toccare anche solo la frangia del suo mantello. E quanti lo toccarono erano salvati».
In effetti la frangia del mantello è il suo Popolo - e ciascuno di noi, quando per Dono siamo messi in grado di percepire e prolungarne il richiamo, lo spirito, la cura, l’azione.
Un «toccare» che non è semplice gesto: chiama il coinvolgimento totale; Fede personale, scavo dentro.
Le folle attorno al Signore e alla Chiesa, sua presenza primaria, cercano pane e guarigione… ma talora dimenticano l’adesione alla Persona interiore che dona e cura.
Eppure anche in questi casi la Guida infallibile ripropone la sua onda vitale ininterrotta - con terapie che non s’impongono attraversando le anime come farebbe un fulmine, bensì nell’esistenza reale.
Dio libera, salva, crea, a partire dalle tensioni e dai difetti (anche religiosi) perché vuole portarci a consapevolezza.
Il Padre desidera far penetrare il valore dell’atto d’amore che rende forte il debole; ogni gesto ri-creante, incarnato, aperto a qualsiasi senso di vuoto.
I fastidi non capitano per sfortuna o castigo: arrivano per lasciarci rifiorire, proprio a partire dai dolori dell’anima.
Se perdurano, nessuna paura: essi diventano messaggi più espliciti, del nostro stesso Seme superiore.
Significa che nella nostra orchestra qualcosa è stonato o trascurato, e deve tramontare oppure venire scoperto e messo in gioco.
Altrimenti non si riuscirà a crescere verso il destino che caratterizza una Chiamata e ogni disagio.
Anche i sintomi dell’inquietudine appartengono alla quintessenza innata - che ha sempre potere di attualità.
La chiave di volta non sarà dunque il look, né la salute, bensì l’accoglienza stessa delle amarezze, degli stenti, i quali vengono per sgombrare l’inessenziale - e liberare pulsioni spirituali intrappolate.
Energie dello squilibrio, che però vogliono essere tramutate in capacità di gettare zavorre; nonché ospitare meglio e integrare la vocazione nella propria storia, onde costruire ancora vita.
Forse non pochi preferirebbero attendere uno sbarco miracolistico del Maestro [guaritore tipificato] che rechi subito beneficio, favori immediati.
Salvezza esteriore dal sapore magico - caduca, anche se fisicamente palpabile o persino in sembiante etico.
Un Signore fenomenale, ma semplicistico.
Un’Apparenza che muore subito, poi si ricomincia daccapo - se Egli (in noi, nelle nostre svolte) non coinvolgesse le stesse incertezze che ci segnano.
E il lungo tempo dei processi, i quali via via prendono peso più intimo.
La redenzione totale e sacra - davvero messianica - è poco incline al clamore epidermico.
La guarigione non è scenografica. Si realizza unicamente passo dopo passo; così permane profonda e radicale.
Si fa capace di nuovi inizi e atti di nascita d’energia ancora embrionale, proprio a partire dalle singole precarietà.
Il suo Popolo di intimi - presenza non più ineffabile e misteriosa - si adopera nella prossimità, per cancellare la falsa immagine del Dio filosofico o forense, sempre esterno.
Sovrano o motore imperativo, lontano e assente - permaloso, predatorio - che ogni tanto si punta; non supera, e neppure riconferma. Mai che guardi il nostro presente.
Così la Chiesa rifiuta l’idea dell’Eterno che ratifica, ma pure quella del taumaturgo di massa, immediatamente risolutivo - tanto caro ai mercanti di miracolo.
Figura che facilmente s’impadronisce delle nostre fantasie.
Annunciamo con parole e gesti il suo Volto autentico, proprio per annientare l’idea del Cristo-fantasma del passo precedente (v.49), figura deplorevole e assurda.
Icona evanescente, solo apologetica, che purtroppo nella storia ha dato largo spazio ai soci in affari con l’Altissimo.
In tal guisa, essere guariti non vuol dire sfuggire la transitorietà.
Per una esistenza da salvati serve una trasformazione dall’interno; un altro inizio. Un diverso appiglio del bene.
Gesù percorre i nostri ambienti come un silenzioso viandante, e accetta anche una fede primitiva.
Ma seppure con potenza dimessa, l’impulso divino opera in ogni cercatore di senso e in ciascun bisognoso.
Vi si stabilisce personalmente, proprio a partire dai sogni interrotti.
Il Signore non può essere imprigionato e contenuto: si accosta, per avviare grandi pulizie, farci spostare lo sguardo, e rinnovare l’universo stantio.
Così trasforma l’anima nostra, nell’esperienza della sua comunione gratuita,
Convivenza che vuole prendere dimora in noi, per fondersi e dilatare la pulsione alla vita - forse acquattata nell’astensione. Affinché ciascuno stupisca di sé, delle passioni sconosciute, dei nuovi rapporti.
Credente e comunità manifestano in fogge empatiche la forza incisiva di guarigione della Fede nel Risorto, a partire dalla propria vicenda intima.
Lo sperimentiamo vivo nel giorno per giorno monotono, poco gratificante e precario - tuttavia capace di cambiare l’assetto dell’esistenza celata in contrade sommarie [v.56: «borgate»] e la sua destinazione inespressa.
Senza turbare con effetti speciali, unilaterali, o pressanti.
Scrive il Tao Tê Ching (xi): «Trenta razze si uniscono in un sol mozzo, e nel suo non-essere si ha l'utilità del carro».
Altrove dalla civiltà dell’apparenza è il ‘miglioramento’ della nostra condizione e la sicurezza, dall’insicurezza.
Non in un semplice rimetterci in piedi; ‘guadagno’ indiscreto e passeggero.
Fenomenale, ma solo puntuale e inconcludente, o che infine abdica.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come consideri Gesù? Facitore di miracoli o di recuperi?
Come ti comporti con coloro che vengono esclusi o sembrano senza pastore?
Essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 18 maggio 2011]
2. Molti sono già stati i frutti missionari del Concilio: si sono moltiplicate le chiese locali fornite di propri Vescovi, clero e personale apostolico; si verifica un più profondo inserimento delle Comunità cristiane nella vita dei popoli; la comunione fra le Chiese porta a un vivace scambio di beni spirituali e di doni; l'impegno evangelizzatore dei laici sta cambiando la vita ecclesiale; le Chiese particolari si aprono all'incontro, al dialogo e alla collaborazione con i membri di altre chiese cristiane e religioni. Soprattutto si sta affermando una coscienza nuova: cioè che la missione riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e parrocchie, le istituzioni e associazioni ecclesiali.
Tuttavia, in questa «nuova primavera» del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo Documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del Concilio e del Magistero successivo. Difficoltà interne ed esterne hanno indebolito lo slancio missionario della chiesa verso i non cristiani, ed è un fatto, questo, che deve preoccupare tutti i credenti in Cristo. Nella storia della Chiesa, infatti, la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione è segno di una crisi di fede.
[Papa Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio]
Dio è sempre all’opera per amore e sta a noi rispondergli con responsabilità e in spirito di riconciliazione, lasciando campo allo Spirito Santo. È l’invito rivolto dal Papa nella messa celebrata lunedì mattina, 9 febbraio, nella cappella della Casa Santa Marta.
«La liturgia della Parola di oggi — ha spiegato subito Francesco riferendosi al passo della Genesi (1, 1-19) — ci porta a pensare, a meditare sui lavori di Dio: Dio lavora». Tanto che «Gesù stesso ha detto: “Mio Padre ancora lavora, ancora agisce, ancora opera; anche Io!”». E così, ha ricordato il Papa, «alcuni teologi medievali spiegavano: prima Dio, il Creatore, crea l’universo, crea i cieli, la terra, i viventi. Lui crea. Il lavoro di creazione». Però «la creazione non finisce: Lui continuamente sostiene quello che ha creato, opera per sostenere quello che ha creato perché vada avanti».
Proprio nel vangelo di Marco (6, 53-56), ha fatto notare il Papa, «vediamo “l’altra creazione” di Dio» cioè «quella di Gesù che viene a “ri-creare” quello che era stato rovinato dal peccato». E «vediamo Gesù fra la gente». Scrive infatti Marco: «Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe e accorrendo da tutta quella regione cominciò a portargli sulle barelle i malati, dovunque udiva Egli si trovasse; e quanti lo toccavano venivano salvati». È «la “ri-creazione”», appunto e «la liturgia esprime l’anima della Chiesa in questo, quando fa dire in una bella preghiera: “Oh Dio che Tu così meravigliosamente hai creato l’universo, ma più meravigliosamente lo hai ricreato nella redenzione”». Dunque «questa “seconda creazione” è più meravigliosa della prima, questo secondo lavoro è più meraviglioso».
C’è poi, ha proseguito Francesco, «un altro lavoro: il lavoro della perseveranza nella fede, che Gesù dice che lo fa lo Spirito Santo: “Io vi invierò il Paraclito e Lui vi insegnerà e vi ricorderà, vi farà ricordare quello che ho detto”». È «il lavoro dello Spirito dentro di noi, per fare viva la parola di Gesù, per conservare la creazione, per garantire che questa creazione non venga meno». Dunque «la presenza dello Spirito lì, che fa viva la prima creazione e la seconda».
Insomma «Dio lavora, continua a lavorare e noi possiamo domandarci come dobbiamo rispondere a questa creazione di Dio, che è nata dall’amore perché Lui lavora per amore». Così «alla “prima creazione” dobbiamo rispondere con la responsabilità che il Signore ci dà: “La terra è vostra, portatela avanti; fatela crescere!”». Perciò «anche per noi c’è la responsabilità di far crescere la terra, di far crescere il creato, di custodirlo e farlo crescere secondo le sue leggi: noi siamo signori del creato, non padroni». E non dobbiamo «impadronirci del creato, ma farlo andare avanti, fedeli alle sue leggi». Proprio «questa è la prima risposta al lavoro di Dio: lavorare per custodire il creato, per farlo fruttificare».
In questa prospettiva, ha sostenuto il Papa, «quando noi sentiamo che la gente fa riunioni per pensare a come custodire il creato, possiamo dire: “Ma no, sono i verdi!”». Invece, ha rilanciato, «non sono i verdi: questo è cristiano!». Ed «è la nostra risposta alla “prima creazione” di Dio, è la nostra responsabilità!». Difatti «un cristiano che non custodisce il creato, che non lo fa crescere, è un cristiano cui non importa il lavoro di Dio, quel lavoro nato dall’amore di Dio per noi». E «questa è la prima risposta alla prima creazione: custodire il creato, farlo crescere».
Ma «alla “seconda creazione”, come rispondiamo?» ha domandato Francesco, rilevando che, in proposito, «l’apostolo Paolo ci dice una parola giusta, che è la vera risposta: “Lasciatevi riconciliare con Dio”». Si tratta, ha spiegato, di «quell’atteggiamento interiore aperto per andare continuamente sulla strada della riconciliazione interiore, della riconciliazione comunitaria, perché la riconciliazione è opera di Cristo». E Paolo dice ancora: «Dio ha riconciliato il mondo in Cristo». E «questa è la seconda risposta». Dunque «alla “seconda creazione” noi diciamo: “Sì, dobbiamo lasciarci riconciliare col Signore”».
Francesco ha poi proposto un’altra questione: «E al lavoro che fa lo Spirito Santo in noi, di ricordarci le parole di Gesù, di spiegarci, di fare capire quello che Gesù ha detto, come rispondiamo?». È stato proprio «Paolo a dirci» di non rattristare «lo Spirito Santo che è in voi: state attenti, è il vostro ospite, è dentro di voi, lavora dentro di voi! Non rattristate lo Spirito Santo». E questo «perché noi crediamo in un Dio personale. Dio è persona: è persona Padre, persona Figlio e persona Spirito Santo». Del resto «tutti e tre sono coinvolti in questa creazione, in questa ricreazione, in questa perseveranza nella ri-creazione». Così «a tutti e tre noi rispondiamo: custodire e far crescere il creato, lasciarci riconciliare con Gesù, con Dio in Gesù, in Cristo, ogni giorno, e non rattristare lo Spirito Santo, non cacciarlo via: è l’ospite del nostro cuore, quello che ci accompagna, ci fa crescere».
In conclusione il Papa ha pregato perché «il Signore ci dia la grazia di capire che Lui è all’opera; e ci dia la grazia di rispondere giustamente a questo lavoro di amore».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 10/02/2015]
(Lc 5,1-11)
«Pescare», portare alla vita. Attrazione e attenzione (feriali)
L’episodio della Chiamata dei discepoli in Lc indica l’attrazione della Parola di Gesù - che agisce in noi, come una sorta di Sé eminente.
La Vocazione si manifesta in un luogo e giorno feriale, non all’interno d’un recinto sacro, né in data stabilita (di rito ufficiale e pubblico).
Il Messaggio di Cristo non collima con quello esclusivo dei soliti maestri di sinagoga, che si rivolgevano a una platea di persone scelte.
Il Signore è per qualsiasi luogo, e dove c’è gente non selezionata - che desideri ascoltarlo.
Poi è interpellato proprio il responsabile della Chiesa: primo a farsi esempio di affidamento. Se così, tutti gli altri seguiranno.
La Barchetta è simbolo della comunità, da cui ci si deve attendere proclamazione e attenzione verso la Parola.
Forza che si fa evento - malgrado sembra che il Signore chieda gesti inutili e insensati.
Nella relazione di Fede, l’Amicizia e il fidarsi sponsale diventa più determinante di ciò che la mentalità comune e i convincimenti normali suggeriscono all’io inferiore [con aggiunta di riunioni, assemblee, consigli, progetti, schemi, sussiego alla catena di comando, obbedienza conformista estranea alla nostra quintessenza; e propaganda, carta, avvisi].
Per fare il balzo e dare un colpo d’ali alla realtà e all’uomo spento, meglio dell’organizzare e pianificare vale il consegnarsi alla Parola, che vibra all’unisono con l’anima.
L’esperienza del recupero altrui, della vicinanza - prossimità della condizione divina in Gesù, nella potenza del suo Verbo - ci fa comprendere chi siamo, e incontrare noi stessi in verità (v.8).
Qui la soluzione dei problemi non rinnega il portato umano, bensì tenta di farlo parlare, nei disagi di tutti, nell’ascoltarne i sintomi, nel dargli piena voce - perché sono spie che già sanno in se stesse cosa non va (v.8).
È il frutto interiore dell’esperienza della missione: una nuova e più lucida consapevolezza di sé, ormai senza rimozioni, che ridona naturalezza, e a sua volta apre nuovi canali di comunicazione.
Il rispetto del buonsenso, e di pareri comuni, dei giudizi conformisti, meccanismi, propositi più logici… non ha la molla della rigenerazione. Vale anche nel tempo della crisi globale.
La nuova nascita si attua nel trasformare ciò ch’è oscuro o incompiuto in quel che fa intuire e conoscere noi stessi e la vita intima dell’Eterno, aiutando i fratelli, vivendo in simbiosi coi guai della gente.
Pertanto chi guida la Chiesa deve scostarsi dalla “riva” che sa, e ha l’obbligo di condurre nel «profondo» [v.4 testo greco] anche dei marosi.
Nella cultura semitica il mare è simbolo del caos, della morte, del demoniaco, delle forze contrarie alla vita. È il contesto in cui si affoga.
I pesci stanno benone nell’acqua, e non son contenti di essere tratti fuori. Però nell’acqua gli uomini non si trovano altrettanto a loro agio, in specie quando si tratta di mare cupo e agitato.
La Missione è «tirar fuori vivi» [v.10 testo greco] gli uomini sopraffatti da liquami putridi, sommersi da onde impetuose, trascinati sul fondo (a profondità abissali) dalla violenza di forze inumane.
Il verbo greco non indica un “pescare” bensì un «catturare vivi», il «prendere per mantenere in vita», dunque «portare alla vita»: recuperare alla luce, al respiro; essere sospinti oltre gli abissi inquinati che soffocano gli indigenti in attesa di compassione.
Un venire innalzati dal contesto tenebroso degl’impedimenti interiori e a contorno, che imbrigliano l’esistere e smorzano lo sviluppo.
Esser guidati dove la vita non attenua né annega: afferrati e sollevati a libertà e compiutezza; emancipati, collocati in ambito puro, qualitativamente relazionale, animato da spirito di benessere integrale.
Portare avanti l’opera del Maestro significa aiutare a esistere intensamente; recuperare le persone coinvolte in contesti mortiferi, travolte da gorghi e onde che trascinano in basso - affinché possano tuffarsi in un’acqua non più torbida ma sana.
Accanto all’adesione alla Chiamata che corrisponde alla nostra essenza profonda, è questa attività di recupero che consente di superare il senso d’inadeguatezza, producendo sovrabbondanza di libertà e virtù.
Opera che si configura nella sinergia plurale delle chiese, perché nessuna di esse riesce a farsi completa da sola (v.7).
L’obiettivo comune della missione in favore degli uomini fa superare alle denominazioni particolari qualsiasi distinguo o ripartizione, ogni conflitto tra fraternità di fede.
Malgrado le incertezze e l’ora forse inadatta, credere che la Parola di Cristo possa realizzare l’impossibile val più dell’abilità e delle opinioni.
Pronti o meno, in orario o fuori dei tempi giusti (e forse già inappagati per l’insuccesso: v.5) quel Logos rimane il cardine della comunione tra differenti realtà - e farà succedere ciò che afferma.
Ecco infatti manifestarsi la forza e l’azione della Fede in avanti, col suo differente portato rispetto alla logica comune - quando nelle scelte diventa determinante il cedere all’Appello di Dio, e lanciarsi.
Richiamo che irrompe nel caos, con una carica umanizzante, di totale novità: consente di far entrare nel mondo un’altra potenza, discreta ma che infine realizza quel che dice.
Essa non appartiene alla sfera dei programmi o dei successivi “rimedi”! Capiremo allora per quale motivo il Signore non disdegna le stravaganze dei trasgressivi.
Se anche per noi tutti i giorni sembrano uguali, inserendo nelle frustrazioni e nella fatica questa Novità di Luce non conformista, daremo respiro e renderemo nitido, marcato e fecondo qualsiasi lavoro.
Comprenderemo la Vocazione di Gesù, che insegna in qualsiasi luogo e a ciascuno - operando recuperi inspiegabili.
Egli continua a rivolgersi non solo al “suo” pubblico di eletti, predestinati al sacro; apparentemente tutti d’un pezzo, imperterriti e scelti. Ma che talora covano di ripescare e innalzare solo se stessi.
Lasciamo dunque scivolar via le opinioni condizionanti la nostra natura e vocazione, da parte di false sirene: è stato ben altro l'impulso che ci ha incalzati, allargando le prospettive sul mondo - e dato frutto.
Senza sforzo, riusciremo a far scivolar via le opinioni condizionanti la natura e la stessa Chiamata.
Sulla Tua Parola, e i sintomi
(Mt 5,5)
L’uomo comune si compiace dei suoi traguardi, il religioso dei suoi meriti, ma la persona di Fede della sua debolezza redenta.
Proprio quando ci si percepisce insufficienti, l’esperienza del Gratis risulta impareggiabile fonte di Felicità.
Se dobbiamo affrontare una sconfitta, lo sguardo della Fede ricupera l’umiliazione in occasione di fioritura e migliore Ricchezza.
Una spiritualità cresciuta lontano dall’equilibrio della Parola di Dio faceva leva sulle virtù attive e sul volontarismo personale.
Il Sogno del Padre è viceversa quello di uno sviluppo armonioso dei suoi figli, creature insufficienti per natura, non per colpa.
Non dobbiamo annientarci per superare continuamente i limiti, distruggendo le linee portanti della nostra personalità - con lo sforzo di valicare continuamente gli steccati.
A volte non riusciamo a capire le situazioni, talora non siamo in grado di comprendere fini e mezzi adeguati a conseguire un buon risultato.
Spesso, quand’anche capissimo il da farsi, proprio non ce la facciamo a imporci una disciplina; e siamo tutti qui (non geni forzuti).
San Tommaso affermava: «Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu». Ciascuna creatura ha bisogno di aiuto - non siamo onnipotenti nel bene.
Comprendere e attuare tutte le correlazioni e gli equilibri valutativi è fuori dalla nostra portata: scampare da voragini e incertezze è puro Dono.
«Tirare su gli uomini alla vita» [Lc 5,10: «catturare vivi», testo greco] - persone sommerse da flutti soffocanti in acque velenose - verso la luce e il respiro: palesa il Progetto e l’Azione liberante di Dio sull’intera umanità.
Per affacciarsi all’essere proprio e altrui con piglio battesimale, conviene allora trascurare il dolorismo e la mistica del patire, che nel passato ha soppiantato il senso dell’accoglienza di sé, del prossimo e degli eventi, contenuto nella Parola.
Jacopone da Todi poteva esprimersi in modo paradossale nella lauda «O Segnor, per cortesia, manname la malsania» [Signore per cortesia mandami la malattia].
Nel suo poema il rigorista elenca decine d’infermità comuni, e (malgrado ciò) non le considera una espiazione sufficiente, per la nostra stolta irriconoscenza - come se fossimo noi a dover consolare l’Eterno almeno con uno zuccherino:
«Signor mio, non è vendetta/ tutta la pena c’ho ditta:/ ché me creasti en tua diletta/ e io t’ho morto a villanìa».
Termini come ingratitudine nostra, penitenza, mortificazione… sono sconosciuti ai Vangeli; hanno costituito viceversa la trama della religiosità che ancora stordisce alcune folle praticanti.
Purtroppo parliamo della più diffusa piattaforma di spiritualità popolare.
Noi preti sentiamo spesso persone di preghiera chiedersi per quale motivo sono state punite con un tonfo particolare della vita, che altri non subiscono in tal guisa.
I farisei avrebbero sottolineato (proprio così): «Benedetto il Giudice Giusto!». Come dire: «imprudenti e peccatori hanno avuto la punizione spettante».
«Lasciamoli al loro destino, intanto si purifichino. Non solo gli fa bene, evitiamo pure di contaminarci!».
Solo con Gesù tutto questo è finito.
Di fronte agli smacchi, Egli non ha mai sottolineato la volontà di Dio, né ha detto: «È la tua croce...».
Non si è neppure immaginato che qualcuno in un tempo futuro potesse giungere a mettergli in bocca il consiglio devoto di “offrire” al Cielo le proprie umiliazioni (divagazione incredibile!).
È il Creatore stesso che negli accadimenti e nell’aiuto dei fratelli si porge a noi per dare senso alla crescita, persino su territori ardui; anche nei momenti dello sconforto, dell’indifferenza, dell’insuccesso.
Il Disegno del Padre non è quello di cristallizzare eroi indifferenti ai traumi; irriducibili i quali perfezionano se stessi esercitando resilienza.
Tutto nelle difficoltà, giungendo a una santità sterilizzata - e sconfortante, che distacca questi “fenomeni” dalla famiglia terrena cui siamo accomunati in carne e sangue.
Il Progetto di redenzione è che diventiamo Figli attraverso una pratica gratuita di Amore simile al suo; unico che non scarta nulla del nostro essere, anzi lo ricupera e dilata.
Non c’è religiosità o tattica paragonabili all’Incarnazione; affinché si soccorra e trasmetta respiro vitale - prossimo e famigliare - a chi è sommerso da onde di morte.
Col carico della sua straordinaria esperienza, Annalena Tonelli designava gli emarginati e disagiati con l’epiteto eccentrico di «Mozart assassinati».
Qui la soluzione dei problemi non rinnega il portato umano, bensì tenta di farlo parlare; negli squilibri di tutti, nell’ascoltarne i sintomi, nel dargli piena voce - perché sono spie che già sanno in se stesse cosa non va (v.8).
Solo sulla Parola di Gesù riusciremo ad attuare recuperi inspiegabili - sperimentando noi stessi autenticamente.
E faremo sbocciare futuro, «tirando su» quelle scorze (e i lati cui non abbiamo dato spazio) che nascondono Perle.
Da «Maestro» (v.5) a «Signore» (v.8): l’Amico interiore si fa presenza, relazione intima, sistema di riconoscimento e autostima; appoggio non esterno, e trampolino.
Principio e Motore di Pace, pienezza d’essere, temerarietà e sequela (vv.10-11) - quindi Annuncio, fantasia, incisività e conciliazione.
Come sottolineato da papa Benedetto (Angelus 10 febbraio 2013):
«Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo “Maestro” (v. 5), mentre dopo lo chiama “Signore” (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: “Sulla tua parola getterò le reti” (v. 5)».
«Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quali opinioni condizionanti la tua natura e vocazione devi ancora far scivolare via?
Qual è stato invece l’impulso che ti ha incalzato, e dato frutto?
Qual è stata la tua esperienza di prospettive allargate sul mondo, e di recupero inspiegabile?
Credi che tutto ciò possa avvenire anche nel tempo della crisi globale?
‘Pescare’: portare alla vita. Attrazione e attenzione feriali
(Lc 5,1-11)
L’episodio della Chiamata dei discepoli in Lc indica l’attrazione della Parola di Gesù - che agisce in noi, come una sorta di Sé eminente.
Nella relazione di Fede, l’Amicizia e il fidarsi sponsale diventa più determinante di ciò che la mentalità comune e i convincimenti normali suggeriscono all’io inferiore.
Pertanto chi guida la Chiesa deve scostarsi dalla “riva” che sa, e ha l’obbligo di condurre «nel profondo» [v.4 testo greco] anche dei marosi.
Nella cultura semitica il mare è simbolo del caos, della morte, del demoniaco, delle forze contrarie alla vita. È il contesto in cui si affoga.
La Missione è «tirar fuori vivi» [v.10 testo greco] gli uomini sopraffatti da liquami putridi, sommersi da onde impetuose, trascinati sul fondo, a profondità abissali, dalla violenza di forze inumane.
Il verbo greco non indica un “pescare” bensì un «catturare vivi», il «prendere per mantenere in vita», dunque «portare alla vita»: recuperare alla luce, al respiro; essere tirati fuori da abissi inquinati e soffocanti.
Portare avanti l’opera del Maestro significa aiutare le persone coinvolte in contesti mortiferi, travolte da gorghi e onde che trascinano in basso, affinché possano tuffarsi in un’acqua non più torbida, ma sana.
Opera che si configura nella sinergia plurale delle chiese, perché nessuna di esse riesce a farsi completa da sola (v.7).
Malgrado le incertezze e l’ora forse inadatta, credere che la Parola di Cristo possa realizzare l’impossibile vale più dell’abilità e delle opinioni.
Pronti o meno, quel Logos farà succedere ciò che afferma.
Ecco manifestarsi la forza e l’azione della Fede, rispetto alla logica comune - quando nelle scelte diventa determinante l’Appello di Dio.
Richiamo che irrompe nel caos, con una carica umanizzante e di totale novità: consente di far entrare nel mondo un’altra potenza; discreta, ma che fa quel che dice.
Qui la soluzione dei problemi non rinnega il portato umano, bensì tenta di farlo parlare - nei disagi di tutti, nell’ascoltarne i sintomi, nel dargli piena voce: sono spie che già sanno in se stesse cosa non va (v.8).
Così coinvolti, capiremo per quale motivo il Signore non disdegna le stravaganze dei trasgressivi.
Se anche per noi tutti i giorni sembrano uguali, inserendo nelle frustrazioni e nella fatica questa Novità di Luce non conformista, daremo respiro e renderemo nitido, marcato e fecondo qualsiasi lavoro.
Comprenderemo la Vocazione di Gesù, che insegna in ogni luogo e a ciascuno - operando recuperi inspiegabili.
Da «Maestro» (v.5) a «Signore» (v.8): l’Amico interiore si fa presenza, relazione intima, sistema di riconoscimento e autostima; appoggio non esterno, e trampolino.
Principio e Motore di Pace, pienezza d’essere, temerarietà e sequela (vv.10-11) - quindi Annuncio, fantasia, incisività e conciliazione.
Senza sforzo, riusciremo a far scivolar via le opinioni condizionanti la ‘natura’ e la stessa Chiamata.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Qual è stato l’impulso che ti ha incalzato, e dato frutto?
Qual è stata la tua esperienza di prospettive allargate sul mondo, e di recupero inspiegabile?
Credi che tutto ciò possa avvenire anche nel tempo della crisi globale?
[5.a Domenica T.O. (anno C), 9 febbraio 2025]
Cari fratelli e sorelle!
Nella liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca presenta il racconto della chiamata dei primi discepoli, con una versione originale rispetto agli altri due Sinottici, Matteo e Marco (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; ). La chiamata, infatti, è preceduta dall’insegnamento di Gesù alla folla e da una pesca miracolosa, compiuta per volontà del Signore (Lc 5,1-6). Mentre infatti la folla si accalca sulla riva del lago di Gennèsaret per ascoltare Gesù, Egli vede Simone sfiduciato per non aver pescato nulla tutta la notte. Dapprima gli chiede di poter salire sulla sua barca per predicare alla gente stando a poca distanza dalla riva; poi, finita la predicazione, gli comanda di uscire al largo con i suoi compagni e di gettare le reti (cfr v. 5). Simone obbedisce, ed essi pescano una quantità incredibile di pesci. In questo modo, l’evangelista fa vedere come i primi discepoli seguirono Gesù fidandosi di Lui, fondandosi sulla sua Parola, accompagnata anche da segni prodigiosi. Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo «Maestro» (v. 5), mentre dopo lo chiama «Signore» (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (v. 5).
L’immagine della pesca rimanda alla missione della Chiesa. Commenta al riguardo sant’Agostino: «Due volte i discepoli si misero a pescare dietro comando del Signore: una volta prima della passione e un’altra dopo la risurrezione. Nelle due pesche è raffigurata l’intera Chiesa: la Chiesa come è adesso e come sarà dopo la risurrezione dei morti. Adesso accoglie una moltitudine impossibile a enumerarsi, comprendente i buoni e i cattivi; dopo la risurrezione comprenderà solo i buoni» (Discorso 248,1). L’esperienza di Pietro, certamente singolare, è anche rappresentativa della chiamata di ogni apostolo del Vangelo, che non deve mai scoraggiarsi nell’annunciare Cristo a tutti gli uomini, fino ai confini del mondo. Tuttavia, il testo odierno fa riflettere sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Essa è opera di Dio. L’uomo non è autore della propria vocazione, ma dà risposta alla proposta divina; e la debolezza umana non deve far paura se Dio chiama. Bisogna avere fiducia nella sua forza che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova.
Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto. Confidiamo anche nell’intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli. Alla chiamata del Signore, Ella, ben consapevole della sua piccolezza, rispose con totale affidamento: «Eccomi». Col suo materno aiuto, rinnoviamo la nostra disponibilità a seguire Gesù, Maestro e Signore.
[Papa Benedetto, Angelus 10 febbraio 2013]
Because of this unique understanding, Jesus can present himself as the One who reveals the Father with a knowledge that is the fruit of an intimate and mysterious reciprocity (John Paul II)
In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità (Giovanni Paolo II)
Yes, all the "miracles, wonders and signs" of Christ are in function of the revelation of him as Messiah, of him as the Son of God: of him who alone has the power to free man from sin and death. Of him who is truly the Savior of the world (John Paul II)
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo (Giovanni Paolo II)
It is known that faith is man's response to the word of divine revelation. The miracle takes place in organic connection with this revealing word of God. It is a "sign" of his presence and of his work, a particularly intense sign (John Paul II)
È noto che la fede è una risposta dell’uomo alla parola della rivelazione divina. Il miracolo avviene in legame organico con questa parola di Dio rivelante. È un “segno” della sua presenza e del suo operare, un segno, si può dire, particolarmente intenso (Giovanni Paolo II)
That was not the only time the father ran. His joy would not be complete without the presence of his other son. He then sets out to find him and invites him to join in the festivities (cf. v. 28). But the older son appeared upset by the homecoming celebration. He found his father’s joy hard to take; he did not acknowledge the return of his brother: “that son of yours”, he calls him (v. 30). For him, his brother was still lost, because he had already lost him in his heart (Pope Francis)
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore (Papa Francesco)
Doing a good deed almost instinctively gives rise to the desire to be esteemed and admired for the good action, in other words to gain a reward. And on the one hand this closes us in on ourselves and on the other, it brings us out of ourselves because we live oriented to what others think of us or admire in us (Pope Benedict)
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi (Papa Benedetto)
Since God has first loved us (cf. 1 Jn 4:10), love is now no longer a mere “command”; it is the response to the gift of love with which God draws near to us [Pope Benedict]
Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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