Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Ecco il commento alle letture e testi biblici della Solennità dell’Immacolata Concezione [Domenica 8 Dicembre 2024]
*Prima Lettura Genesi 3.9-15.20
L’albero della vita fu piantato da Dio al centro dell’Eden e da qualche parte, nello stesso giardino, l’albero della conoscenza del bene e del male, cioè l’albero di ciò che ci rende felici o infelici. La consegna fu semplice: «Potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire” Gn 2,16-17). Dio ordina di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma non è specificato dove quest’albero si trova perché il racconto ha un alto significato allegorico e simbolico e invita a concentrarsi piuttosto che sulla sua localizzazione geografica, sul messaggio etico e teologico. Per molti teologi e santi quest’albero simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. Sant’Agostino l’interpreta come un test di obbedienza e libero arbitrio: “Il frutto dell’albero era buono non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio “(dal De Genesi ad litteram, sulla Genesi alla lettera). Il serpente chiede alla donna se è vero che Dio ha ordinato di non mangiare di alcuno albero del giardino e lei, molto onesta, lo corregge rispondendo che si possono mangiare i frutti degli alberi del giardino, eccetto del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino perché Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” (Gn3,1-3). Pensa di rettificare, ma, senza saperlo, ha già deformato la verità: il semplice fatto di essere entrata in conversazione con il serpente ha falsato il suo sguardo e si potrebbe dire che ora è l’albero a nascondere la foresta perché vede al centro del giardino l’albero proibito e non invece l’albero della vita. Ormai il tranello è fatto e il serpente prosegue l’opera di seduzione dicendo che non moriranno affatto, e Dio sa che il giorno in cui ne mangereranno gli occhi si apriranno e saranno come Dio, conoscendo ciò che rende felici o infelici. Diventare come Dio con un semplice gesto magico è irresistibile e la donna si lascia tentare. Lapidaria la conclusione: “Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anche egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutte e due entrambi e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”(6-7). Fino a quel momento la loro nudità (cioè la loro fragilità) non sembra li ponesse a grande disagio, mentre ora si vergognano l’uno “di fronte” all’altra. E’ qui che è entrata in crisi anche la relazione – l’uno di fronte all’altra - con tutte le conseguenze che segnano le difficoltà dei rapporti tra noi esseri umani. Prima si fidavano di Dio, ma il serpente ha sussurrato che non solo Dio era per loro un antagonista ma aveva persino paura perché voi – dice loro - “sareste come Dio”. In realtà, i loro occhi si sono aperti, ma il loro sguardo è completamente falsato: d’ora in poi vivranno nella paura di Dio e per questo si nascondono. Ma Dio non li abbandona, anzi li cerca nonostante che il progetto originario è stato contraddetto: ormai l’uomo ha rotto la sua relazione di creatura felice con Dio ed è soggetto alla paura, al disagio nella ricerca d’una propria autonomia. Alle domande del Creatore, l’uomo e la donna rispondono la pura verità senza aggiungere né togliere nulla: entrambi si sono lasciati sedurre e hanno disobbedito. L’uomo dice che la donna gli ha dato il frutto e la donna aggiunge di essere stata ingannata dal serpente: tutto insomma viene dal serpente. A questo punto il Signore aggredisce il serpente: “poiché hai fatto questo, maledetto fra tutti gli animali selvatici. La conclusione che da questo racconto fortemente simbolico possiamo trarre è che il male non è nell’uomo e questa è un’affermazione fondamentale della Bibbia. Di fronte a civiltà pessimiste, che considerano l’umanità intrinsecamente cattiva, la rivelazione biblica afferma che il male è esterno all’uomo: quando ci si lascia attrarre su strade sbagliate, è perché siamo ingannati e sedotti e la lotta di tutti profeti nel corso dei secoli ha teso a contrastare le innumerevoli seduzioni che minacciano l’uomo, in primo luogo l’idolatria. Il male è completamente estraneo a Dio e la sua collera è sempre contro ciò che distrugge l’uomo. Da dove viene il male se non è Dio a volerlo? Come già detto, nella Bibbia è chiaro che il male non fa parte della natura dell’uomo e non viene nemmeno da Dio. Legittimo era il desiderio dei progenitori di essere come dèi e Dio non li rimprovera per questo avendoli creati a sua somiglianza e proprio il suo respiro (ruah) è il respiro dell’uomo. Il problema è che essi hanno ceduto alla menzogna di satana, certi di poter soddisfare quest’aspirazione da soli, con una sorta di gesto magico e il risultato è che si scoprono nudi, infelici. Tutto però non è perso ed è qui la notizia più bella che leggiamo in questa pagina biblica: Dio intima al serpente “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa, e tu le insidierai (in ebraico shuph significa schiacciare, ferire, insidiare, tendere un agguato) il calcagno”. Si annuncia un duro combattimento tra il serpente e la stirpe della donna, ma di cui è già certo l’esito finale: il serpente sarà colpito alla testa, che è la sua parte più vulnerabile e il punto da cui provengono il morso e il veleno. A schiacciarlo sarà la stirpe della donna e il serpente ne insidierà e ferirà il calcagno. La ferita al calcagno è simbolo delle sofferenze d’ogni tipo dell’umanità e dei patimenti volontari di Cristo crocifisso, una ferita questa non definitiva perché il Risorto uscendo dal sepolcro sconfigge per sempre satana. In definitiva queste parole di Dio al serpente costituiscono una promessa di speranza di redenzione realizzata pienamente in Cristo. La tradizione cristiana ha intravisto in questo racconto della Genesi un lontano annuncio della vittoria della Nuova Eva, Maria, al punto da definirlo “protoevangelo”, cioè un “pre-evangelo”. Maria è considerata elemento chiave nel piano di redenzione di Dio, in quanto madre di Cristo, il Salvatore che ha sconfitto il peccato e la morte. La sua partecipazione al divino progetto di salvezza è illuminata dai testi biblici, mentre la riflessione teologica successiva ne ha arricchito la comprensione e ha meglio focalizzato il ruolo di Maria in tutta la storia. Uno dei titoli a lei attribuiti nella tradizione cristiana è proprio quello di Nuova Eva perché se Eva fu la donna che, con la sua disobbedienza, introdusse il peccato nel mondo, Maria è colei che, con la sua docile e totale obbedienza a Dio, ha reso possibile l’incarnazione di Cristo. Così come il peccato è entrato nel mondo attraverso una donna, la salvezza entra attraverso un’altra donna, Maria, per mezzo della quale Dio ha dato al mondo il Salvatore. La Madre di Cristo è vista come cooperatrice nella vittoria di Dio sul peccato e sulla morte e la sua obbedienza, il suo sacrificio e la sua intercessione fanno di lei una figura centrale dell’intero piano salvifico. Infine tre annotazioni per meglio comprendere questo testo:
1.Secondo il testo ebraico (Gen 2,9), si dovrebbe parlare di “albero della conoscenza del bene e del male”, ma tale traduzione, pur corretta dal punto di vista grammaticale e spesso ripresa nelle nostre traduzioni, potrebbe portare a un serio fraintendimento: i termini “bene” e “male” in italiano, come in altre lingue, hanno un senso astratto che non corrisponde alla sensibilità concreta ed esistenziale del pensiero ebraico. Per questo è preferibile l’espressione “albero della conoscenza di ciò che rende felici o infelici”.
2. La conoscenza del bene e del male fa pensare al re Salomone tradizionalmente considerato il simbolo della sapienza e del giudizio illuminato. Egli chiese a Dio non ricchezze o potere, ma un cuore saggio e intelligente per governare il popolo con giustizia (1 Re 3,9). Dio lo esaudì rendendolo il re più saggio della sua epoca. Secondo la visione biblica, la saggezza non è pura intelligenza umana, ma dono di Dio per discernere il bene dal male; è capacità di governare con giustizia e prendere decisioni giuste; è ricerca di conoscenza universale, della natura, delle leggi del cosmo e della vita umana, come testimoniano i libri attribuiti a Salomone, tra cui i Proverbi, il Qoelet e il Cantico dei Cantici. E’ infine saggezza pratica e morale che integra conoscenza intellettuale, giustizia morale e prudenza nelle relazioni umane. La fama di saggio attirò a Salomone sovrani e studiosi da terre lontane, come la regina di Saba, che lo visitò per verificare la sua saggezza (1 Re 10,1-13). Alla sua corte si ricercava la saggezza perché è il vero modo di vivere.
3.Il racconto biblico del peccato dei progenitori invita all’umiltà perché solo a Dio appartiene il possesso dell’albero della conoscenza del bene e del male, di ciò che rende felici o infelici: esso è pertanto inaccessibile all’uomo. Che fare allora? La Bibbia invita a nutrirsi ogni giorno dell’albero della vita, che è la Legge di Dio, la Torah. Purtroppo a tentare l’uomo è sempre la sete di una conoscenza sedotta dalla sete di potere in ogni sua forma. Dio c’introduce in un’altra conoscenza in senso biblico, l’unica che valga davvero, cioè l’amore.
*Salmo responsoriale 97/98:
“Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio” (v.3).
A parlare è Israele, che definisce Dio “il nostro Dio”, mettendo in evidenza la relazione privilegiata che esiste tra questo piccolo popolo e il Dio dell’universo. Un popolo che ha compreso a poco a poco che la sua missione nel mondo è quella di non custodire gelosamente per sé questa intima relazione, ma di annunciare che l’amore di Dio è per tutti gli uomini integrando gradualmente nell’Alleanza l’intera umanità. In questo salmo percepiamo i “due amori di Dio”: Dio ama il popolo che si è scelto e ama tutti gli altri popoli della terra che il salmista definisce con il termine: “le genti”. “Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia” (v.2). E subito dopo, al versetto 3, troviamo: «si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele». La casa d’Israele richiama ciò che definiamo “l’elezione d’Israele”. Dietro questa breve frase si percepisce tutto il peso della storia e del passato: le semplici parole « il suo amore » e « la sua fedeltà » evocano con forza l’Alleanza. Se l’elezione di Israele è centrale, Israele non deve dimenticare che la sua testimonianza deve risplendere davanti a tutta l’umanità. In effetti, anche ora nei giorni della festa delle Capanne o dei Tabernacoli (sukkot o “festa del raccolto” Chag HaAsif), che commemora i 40 anni vissuti nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto, a Gerusalemme il popolo acclama Dio già come re a nome di tutta l’umanità. Questo salmo dunque anticipa il giorno in cui Dio sarà riconosciuto come re di tutta la terra. Una delle grandi certezze che gli uomini della Bibbia hanno acquisito progressivamente è che Dio ama tutta l’umanità, non solo Israele e in questo salmo, questa certezza si riflette anche nella stessa struttura del testo. Quando si canta la vittoria di Dio, si celebra la sua vittoria definitiva pure contro tutte le forze del male. Come cristiani possiamo acclamano Dio con ancora più forza, perché i nostri occhi hanno conosciuto Cristo, il Re del mondo: con la sua Incarnazione, il Regno di Dio, che è Regno dell’amore, è già cominciato.
*Seconda Lettura Ef. 1,3-6.11-12
In soli dodici versetti san Paolo presenta il progetto di Dio e ci invita a unirci alla sua contemplazione, progetto che consiste nel radunare l’umanità per formare un solo Uomo in Gesù Cristo, capo di tutta la creazione: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose quelle nei cieli e quelle sulla terra” (vv. 9-10). Fermiamoci a sottolineare semplicemente qualche bella buona notizia.
Prima notizia: Dio ha un progetto su ciascuno di noi e su tutta la creazione. La storia ha un senso, una direzione e un significato. Per i credenti, gli anni non si susseguono in modo uniforme e la storia avanza verso il suo compimento avvicinandoci, come scrive san Paolo“alla pienezza dei tempi” (v. 10). Mai avremmo potuto scoprire tale disegno da soli perché è un mistero che ci supera infinitamente e nel linguaggio di Paolo, mistero non è un segreto che Dio custodisce gelosamente, bensì la sua intimità alla quale ci invita.
Seconda notizia: la volontà di Dio è tutto e solo amore. Le parole “benedizione, amore, grazia, benevolenza” costellano il testo che poi prorompe “a lode dello splendore della sua grazia ( della sua gloria v.12,14) di cui ci ha gratificati nel Figlio amato” (v. 6). A lode della sua grazia perché Dio va riconosciuto come il Dio della grazia, cioè il Dio il cui amore è gratuito. Gesù ci ha rivelato che il Padre celeste è amore, vuole farci entrare nella sua intimità e desidera che in ogni circostanza si compia la sua volontà, perché è sempre buona.
Terza sottolineatura: il progetto di Dio si realizza attraverso Cristo, citato molte volte in questi versetti: tutto avviene “per lui, con lui e in lui”, come dice la liturgia. Dio ci ha predestinati “a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo” (v. 5). Cristo è il centro del mondo e della storia umana (l’alfa e l’omega); Figlio diletto nel quale ci ha “gratificati” il Padre (v. 6) e in lui saremo tutti riuniti al compimento dei tempi. Il “mistero” della volontà di Dio è infatti ricapitolare in Cristo l’universo intero.
*Vangelo Luca 1, 26-38
A Nazareth, villaggio in quel momento sconosciuto e insignificante, in una provincia poco considerata dalle autorità di Gerusalemme, l’angelo Gabriele ha parlato a una ragazza di nome Maria, facendole il complimento più sublime mai ricevuto da una donna: “piena di grazia” (Kecharitomene) che significa immersa totalmente nella grazia di Dio, colma del favore divino senza alcuna ombra. Questa vergine, Maria, poco più che adolescente, al termine dell’incontro e in perfetta sintonia, risponde al progetto di Dio con piena adesione: ”Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Tra le parole dell’angelo e la risposta della Vergine, la storia ha conosciuto la svolta decisiva che è l’ora dell’Incarnazione del Verbo. Da quel momento in poi nulla sarà più come prima perché tutte le promesse dell’Antico Testamento trovano ora il loro compimento. Anzi ogni parola dell’angelo le evoca e svela il “compimento” dell’attesa del Messia che ha segnato per sempre il corso dei secoli. Si attendeva un re discendente di Davide e qui riecheggia la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (2 Sam 7) dalla quale si è sviluppata tutta l’attesa messianica e costituisce proprio il cuore dell’annuncio dell’angelo Gabriele: «Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (vv. 32-33). Un altro titolo attribuito al Messia è “sarà chiamato Figlio di Dio (dell’Altissimo)” che nel linguaggio biblico significa «re», in riferimento alla promessa fatta da Dio a Davide: ogni nuovo re, nel giorno della sua consacrazione, riceveva il titolo di Figlio di Dio. Maria comprende e ricorda all’angelo di essere vergine e quindi non può concepire un figlio in modo naturale. Ben nota è la risposta dell’angelo che richiama altre promesse messianiche, superandole infinitamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Si attendeva il Messia investito della potenza dello Spirito Santo per compiere la sua missione di salvezza come Isaia aveva predetto: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore» (Is 11, 1-2), tuttavia l’annuncio dell’angelo Gabriele va ben oltre perché il bambino concepito sarà realmente Figlio di Dio. Evidente è l’insistenza di Luca su questo punto: il bambino non ha un padre umano, ma è «Figlio di Dio». Il testo offre due prove/segni: innanzitutto Maria dichiara: “Non conosco uomo” (nel testo originale: non ho relazioni con uomo). Inoltre l’angelo affida il compito di dare il nome al bambino alla madre e questo risulta una procedura del tutto insolita, che si spiega solo in assenza di un padre umano perché era sempre il padre a decidere il nome del figlio come si vede nella nascita di Giovanni Battista. I parenti si rivolsero a Zaccaria, anche se muto, e non a Elisabetta, per decidere come chiamare il bambino. Inoltre, quando l’angelo rassicura Maria: “la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” è naturale pensare a una nuova creazione richiamando alla mente quanto leggiamo nel libro della Genesi: «In principio Dio creò il cielo e la terra… Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1, 2). Questa stessa immagine è presente nel salmo 104: “Manda il tuo spirito, sono creati” (v. 30). La “nuvola”, “l’ombra” del Dio Altissimo evoca la presenza divina sulla Tenda del Convegno durante l’Esodo, e nel giorno della Trasfigurazione designa Gesù come Figlio di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”(Lc 9,35).
Commuove e sorprende, anzi diventa scuola di fede, la risposta di Maria a così grandi rivelazioni. E’ d’una disarmante semplicità, esempio perfetto di “obbedienza della fede” come dice Paolo (Rm1,5; 16,26), abbandono con fiducia totale alla volontà divina. Rispondendo “sì, eccomi”, Maria si unisce ai veri credenti della storia. Samuele rispose: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3, 10) e Maria semplicemente: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Il termine “serva” proclama la piena disponibilità al progetto di Dio e mostra che per le opere di Dio basta un semplice “sì” perché “nulla è impossibile a Dio”. Grazie al sì di Maria sconosciuta ragazza in Nazaret, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi “(Gv1,14). Torna in mente la promessa del profeta Sofonia al popolo di Dio che si era macchiato di tanti crimini e infedeltà per cui era ridotto a un piccolo resto: “Rallegrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme… Il re d’Israele, il Signore, è in mezzo a te” (Sof 3, 14-15). L’odierna solennità esalta un evento che supera ogni possibile umana immaginazione e anche Maria avrà bisogno di tutta la vita per “custodire tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2.19; 51). L’attitudine di meditazione e di totale apertura alla volontà di Dio è un aspetto centrale della vita di Maria, e diventa il modello di ogni vero credente, di ogni autentico discepolo di Cristo.
*L’albero della conoscenza del bene e del male. Mi permetto aggiungere qualche riflessione sul valore simbolico di quest’albero spesso confuso con quello della vita. Non è specificato dove si trovi esattamente e già questo ci dice che la sua posizione è irrilevante rispetto al suo ruolo simbolico e allegorico. Il racconto si concentra sulla relazione tra Dio e Adamo ed Eva e tra loro per cui quest’albero funge da test per verificare l’obbedienza degli esseri umani a Dio e invita a capire il perché delle difficoltà esistenti di relazione tra noi esseri umani “uno di fronte all’altro”. Specificare la posizione geografica avrebbe spostato l’attenzione dal tema principale, che è la caduta e il peccato. Molti studiosi e teologi ritengono che l’albero della conoscenza del bene e del male simboleggia la consapevolezza morale, la maturità e la responsabilità umana. L’assenza di una descrizione geografica suggerisce anche che l’albero non è un oggetto fisico, ma un simbolo di una conoscenza che è riservata a Dio e non accessibile direttamente all’uomo. In molte tradizioni ebraiche e cristiane, l’albero è visto come un simbolo di un confine tra il divino e l’umano. Dio non vieta all’uomo l’albero per crudeltà, ma perché il tipo di conoscenza rappresentato da quell’albero — una conoscenza assoluta del bene e del male — prerogativa divina e la sua collocazione indefinita potrebbe suggerire che non si tratta di un luogo fisico raggiungibile dall’essere umano, ma rappresenta una dimensione spirituale che può essere compresa solo attraverso l’esperienza del rapporto con Dio. Ogni persona, in un certo senso, deve affrontare nella propria vita la scelta rappresentata simbolicamente dall’albero della conoscenza del bene e del male. Nella Genesi, accanto all’albero della conoscenza del bene e del male, c’è anche l’albero della vita, anch’esso non descritto geograficamente. Questo suggerisce che entrambi gli alberi rappresentano aspetti della vita spirituale che trascendono la realtà materiale. La loro localizzazione non è importante perché sono archetipi di esperienze spirituali, non oggetti fisici. Tutto qui invita a riflettere non su dove si trovi l’albero, ma su cosa rappresenti nel cammino di crescita spirituale e di confronto con la libertà e la responsabilità umana.
Le interpretazioni che vedono l’albero della conoscenza come simbolo di una realtà trascendente o di un confine tra il divino e l’umano hanno radici profonde nella tradizione esegetica sia antica che moderna. Ecco alcuni esempi di autori e teologi, sia tra i Padri della Chiesa che tra i teologi moderni, che hanno esplorato questo tema:
1. Sant’Agostino di Ippona (354-430 d.C.) interpreta l’albero della conoscenza del bene e del male in modo simbolico, vedendolo non come un semplice albero fisico, ma come un test di obbedienza e libero arbitrio. Nel suo capolavoro “La Città di Dio”, sottolinea che l’albero non aveva un potere intrinseco, ma rappresentava il limite morale imposto da Dio per educare l’uomo alla dipendenza da Lui. Egli vede l’albero come simbolo di una conoscenza che solo Dio può possedere pienamente, in quanto l’uomo non è creato per decidere autonomamente il bene e il male. Opera: De Genesi ad Litteram (Sulla Genesi alla lettera)
“Il frutto dell’albero era buono, non per sua natura, ma come segno di un bene più grande: la sottomissione dell’uomo a Dio.”
2. Tommaso d’Aquino (1225-1274) nella Summa Theologiae, affronta il tema dell’albero della conoscenza e lo interpreta come il simbolo della capacità di discernimento morale che Dio voleva riservare all’uomo nel momento opportuno, dopo aver raggiunto una piena maturità. Secondo Tommaso mangiare il frutto rappresenta una ribellione contro l’ordine divino, cercando di appropriarsi di una conoscenza che l’uomo, da solo, non era pronto a gestire.
Opera: Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 2 “L’albero non era proibito per il suo frutto, ma per il significato morale: l’uomo doveva attendere il tempo di Dio per partecipare alla piena conoscenza.”
3. Gregorio di Nissa (IV secolo d.C.) Padre della Chiesa orientale, interpreta l’albero come simbolo della crescita spirituale e del progresso dell’anima verso la perfezione. Egli vede l’albero della conoscenza come una tappa che l’uomo doveva raggiungere solo in un secondo momento, attraverso un cammino di purificazione e conoscenza progressiva di Dio. Opera: De Hominis Opificio (Sulla creazione dell’uomo) “L’albero della conoscenza non è male di per sé, ma diventa tale quando l’uomo lo approccia con arroganza e disobbedienza, fuori dal tempo stabilito da Dio.”
4. Tra i teologi moderni, l’interpretazione simbolica e trascendente dell’albero è ripresa da autori come: Claus Westermann (1909-2000), esegeta tedesco, nel suo commentario sulla Genesi, sottolinea che l’albero rappresenta l’autonomia morale che l’uomo cerca di conquistare senza Dio. Opera: Genesis (Commentary) “L’albero non è un semplice albero fisico, ma una realtà che rappresenta la scelta fondamentale dell’uomo tra fidarsi di Dio o cercare la propria indipendenza morale.” Henri Blocher (1942), teologo evangelico francese, interpreta l’albero come il simbolo del mistero della sovranità di Dio, una conoscenza che appartiene esclusivamente al Creatore. Opera: In the Beginning: The Opening Chapters of Genesis: “L’albero rappresenta ciò che appartiene esclusivamente a Dio: il diritto di definire ciò che è bene e ciò che è male.”
*Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza del bene e del male (Etz HaDa’at Tov va-Ra’) ha un significato complesso e ricco di interpretazioni, che spesso differiscono da quelle cristiane. Mentre il cristianesimo si concentra sulla caduta e sul peccato originale, l’ebraismo non considera il peccato di Adamo ed Eva come una colpa ereditaria, ma piuttosto come un evento che offre importanti insegnamenti sull’essere umano, la libertà e la responsabilità morale. Ecco alcune delle principali interpretazioni ebraiche dell’albero della conoscenza:
1. L’Albero come simbolo di maturità e discernimento. Molti rabbini e studiosi ebrei vedono l’albero come simbolo della capacità di discernere tra bene e male, una qualità che Adamo ed Eva acquisiscono mangiandone il frutto. Prima di mangiare dall’albero, essi vivevano in una condizione di innocenza, priva di consapevolezza morale e responsabilità.
Rabbi Samson Raphael Hirsch (1808-1888), uno dei fondatori del moderno ebraismo ortodosso, interpreta l’albero come la capacità di fare scelte morali autonome, una tappa necessaria per l’umanità affinché potesse evolversi da una condizione infantile a una vita di responsabilità. “Il frutto proibito rappresenta la transizione dall’obbedienza infantile a una consapevolezza etica autonoma.”
2. Non il peccato, ma la consapevolezza della mortalità. Alcuni rabbini, tra cui il filosofo Maimonide (Rambam, 1138-1204), sostengono che mangiare dall’albero non ha portato il peccato nel mondo, ma ha dato agli esseri umani la consapevolezza della loro mortalità e della loro condizione imperfetta. Per Maimonide, l’albero rappresenta la conoscenza sensibile e materiale, che contrasta con la conoscenza intellettuale e divina. Opera: Guida dei Perplessi (Moreh Nevukhim): “Prima di mangiare dall’albero, Adamo ed Eva vivevano secondo la verità pura e intellettuale; dopo, iniziarono a percepire il mondo attraverso la lente del desiderio e del piacere sensibile.” In questa visione, l’albero non è necessariamente negativo: rappresenta l’ingresso dell’umanità in una condizione complessa, in cui si mescolano bene e male, vita e morte, piacere e dolore.
3. La conoscenza come responsabilità morale. Nel Midrash (racconti esegetici rabbinici), l’albero è spesso interpretato come una prova attraverso la quale Dio voleva insegnare all’uomo la responsabilità morale. Adamo ed Eva non erano destinati a rimanere per sempre nel Giardino dell’Eden, ma dovevano dimostrare la loro capacità di rispettare i confini stabiliti da Dio. Secondo il Midrash Rabbah sulla Genesi, Dio voleva che l’uomo imparasse a rispettare i limiti e che comprendesse che non tutto gli è accessibile o utile. Il divieto di mangiare dall’albero simboleggia il fatto che la libertà umana è sempre accompagnata da limiti etici. “Non tutto ciò che è desiderabile è buono, e non tutto ciò che è permesso è necessario.”
4. Il frutto dell’albero: simbolismo e interpretazioni. La tradizione ebraica non identifica esplicitamente quale fosse il frutto dell’albero. Tuttavia, esistono diverse interpretazioni rabbiniche sul tipo di frutto: Fico: Alcuni commentatori suggeriscono che fosse un fico, poiché Adamo ed Eva si coprono immediatamente con foglie di fico dopo aver mangiato il frutto (Genesi 3:7). Uva: Secondo un’altra tradizione midrashica, il frutto potrebbe essere stato l’uva, simbolo del desiderio e del vino, che porta sia gioia che sventura. Grano: Alcuni rabbini interpretano il frutto come chicchi di grano, simbolo della conoscenza e della capacità di distinguere tra bene e male, poiché nella cultura ebraica il grano è legato alla saggezza.
5. Il ruolo di Dio e la libertà umana. Nella tradizione ebraica, l’albero della conoscenza è spesso interpretato come un dono che Dio concede agli esseri umani per permettere loro di diventare co-creatori del loro destino. A differenza della tradizione cristiana, che sottolinea il concetto di caduta e peccato, l’ebraismo mette in evidenza l’importanza della libertà di scelta e la possibilità di rettificare le proprie azioni attraverso il pentimento (teshuvah); è quindi considerato come una sfida educativa che porta l’essere umano a crescere in consapevolezza e responsabilità. Autori come Maimonide, Hirsch e il Midrash Rabbah sottolineano che l’essenza del racconto è il tema della libertà morale, della necessità di accettare i limiti imposti da Dio e della possibilità di evoluzione spirituale.
+ Giovanni D’Ercole
L’Immacolata Concezione. Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Domenica prossima celebreremo la solennità dell’’Immacolata Concezione. Oggi invio solo alcune testimonianze sul dogma dell’Immacolata Concezione, mentre dopodomani invierò come d’abitudine, il commento ai testi biblici della liturgia della Solennità. Trovate qui oggi alcune testimonianze sul dogma dell’Immacolata Concezione di teologi cattolici latini, orientali, ortodossi e anche di convertiti. Unisco in coda, semplicemente per informazione, la testimonianza di un teologo sufi musulmano per capire quale ruolo abbia Maria per l’islam. Aggiungo in conclusione quanti sono e quali sono i dogmi della Chiesa cattolica su Maria.
1. Testimonianze di teologi, santi e convertiti.
*San Bonaventura, uno dei teologi francescani più importanti, scrisse che Maria è stata preservata dal peccato per essere la “degna dimora” di Cristo. Pur non avendo vissuto quando il dogma fu formalizzato (1854), la sua visione anticipa la logica del dogma dell’Immacolata Concezione. Egli dice che, essendo Maria scelta per essere Madre di Dio, Dio l’ha preservata dal peccato originale fin dal primo istante della sua esistenza.
*Il Beato Giovanni Duns Scoto, un altro teologo francescano del XIII secolo, è uno dei più noti difensori della dottrina dell’Immacolata Concezione, che poi sarebbe stata proclamata dogma da Pio IX nel 1854. Scoto introdusse il concetto di “redenzione preventiva”. Secondo Duns Scoto, Maria è stata preservata dal peccato originale in previsione dei meriti di Cristo sulla croce. In altre parole, anche se Maria è stata salvata come tutti gli altri esseri umani, è stata salvata prima ancora di cadere nel peccato, proprio per il ruolo unico che avrebbe avuto come Madre di Dio. Questo è spesso riassunto nella frase: “Potuit, decuit, ergo fecit” (“Dio poteva farlo, era conveniente farlo, dunque lo fece”).
*San Massimiliano Kolbe è uno dei santi che ha reso il dogma dell’Immacolata Concezione accessibile e comprensibile attraverso la sua profonda devozione mariana. Egli collegava Maria allo Spirito Santo, definendola:“L’Immacolata è la Sposa dello Spirito Santo.”
Kolbe vedeva Maria come il riflesso perfetto della purezza e dell’amore di Dio. La sua immacolatezza era necessaria affinché potesse accogliere Cristo senza alcuna ombra di peccato. Secondo Kolbe, Maria, nella sua purezza assoluta, è il modello di santità per l’intera Chiesa.
*San Giovanni Paolo II ha spiegato il dogma dell’Immacolata Concezione in modo pastorale e accessibile, mettendo in relazione Maria con l’umanità redenta. Durante un’omelia per l’Immacolata Concezione (8 dicembre 1982), disse: “In Maria Immacolata vediamo il compimento della redenzione di Cristo, che non solo ha liberato l’umanità dal peccato, ma ha anche preservato Maria dal peccato fin dall’inizio.” Per Giovanni Paolo II, il dogma non è solo un mistero teologico, ma anche un messaggio di speranza: Maria è la prova che la grazia di Dio può trasformare completamente la vita umana.
In conclusione: Tra i teologi, il Beato Duns Scoto ha fornito una delle spiegazioni più eleganti e fondamentali del dogma dell’Immacolata Concezione con la teoria della redenzione preventiva. Tuttavia, per una visione più spirituale e pastorale, san Massimiliano Kolbe e san Giovanni Paolo II offrono riflessioni comprensibili e ricche di devozione, rendendo accessibile a tutti il significato profondo di Maria come “l’Immacolata”.
*Fra i teologi orientali chi ha scritto in modo particolarmente bello e profondo sull’Immacolata Concezione di Maria è San Giovanni Damasceno (675-749), uno dei più grandi Padri della Chiesa orientale. Anche se il dogma dell’Immacolata Concezione sarebbe stato definito ufficialmente dalla Chiesa cattolica solo nel 1854, San Giovanni Damasceno ha anticipato con il suo pensiero molti elementi che sarebbero stati fondamentali per la comprensione di questo mistero. San Giovanni Damasceno, nel suo “Discorso sulla Natività di Maria”, celebra la purezza e la santità unica di Maria fin dal momento della sua concezione. Egli descrive Maria come la “Tutta Santa” (Panaghía), il tempio vivente di Dio, il tabernacolo incontaminato scelto per accogliere il Verbo incarnato. Secondo il Damasceno, Maria è stata preservata da ogni macchia di peccato per essere degna Madre di Dio (Theotókos). Ecco un passaggio particolarmente significativo del suo pensiero: “Oggi la natura umana riceve i primi frutti della sua glorificazione. La Vergine, la dimora pura e immacolata del Dio d’ogni purezza, è condotta alla luce.” Anche quindi se non sviluppa esplicitamente la dottrina dell’Immacolata Concezione come sarà definita più tardi, Giovanni Damasceno mette in evidenza la santità originaria e straordinaria di Maria, che è al centro della riflessione orientale sulla Madre di Dio.
*La Chiesa Ortodossa non accetta la dottrina dell’Immacolata Concezione di Maria, così come è intesa e formulata dalla Chiesa cattolica (ossia che Maria è stata preservata dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento), ma vale la pena conoscere come molti teologi ortodossi hanno riflettuto profondamente sulla santità di Maria e sulla sua purezza unica, sebbene con un accento diverso rispetto alla teologia cattolica. C’è sicuramente una differenza di prospettiva tra cattolici e ortodossi perché per la Chiesa cattolica, l’Immacolata Concezione riguarda la preservazione dal peccato originale, mentre
per la Chiesa Ortodossa, Maria è venerata come Panaghía (Tutta Santa), ma senza la necessità di postulare una preservazione dal peccato originale come definito in Occidente. Gli ortodossi sottolineano piuttosto la progressiva divinizzazione (theosis) di Maria attraverso la sua libera cooperazione con la grazia di Dio.
Ecco qualche testo di ortodossi sulla purezza di Maria. Uno dei più profondi teologi ortodossi che hanno scritto sulla santità e la purezza di Maria è San Nicola Cabasilas (XIV secolo). Nel suo commento sulla vita della Vergine Maria, egli afferma: “La Vergine, fin dal primo momento della sua esistenza, ha iniziato a partecipare in modo unico alla santità di Dio, crescendo sempre più in essa fino a diventare il Tempio vivente del Verbo.”
Anche San Gregorio Palamas (1296-1359), grande teologo esicasta, ha scritto in modo significativo sulla purezza di Maria. Egli sottolinea la sua progressiva santificazione e l’azione speciale dello Spirito Santo su di lei: “La Madre di Dio è stata purificata e santificata più di ogni altra creatura, non solo prima della sua nascita, ma anche nel corso della sua esistenza, fino a divenire il trono vivente di Dio.”In conclusione, anche se la dottrina dell’Immacolata Concezione non sia accettata nella teologia ortodossa, molti Padri e teologi ortodossi hanno scritto testi profondi sulla purezza, la santità, e il ruolo unico di Maria nel piano della salvezza. La differenza non sta nel negare la purezza di Maria, ma piuttosto nella comprensione diversa del peccato originale e della santificazione.
*Presento pure qualche scrittore e teologo convertiti al cattolicesimo che hanno scritto pagine profonde e ispirate sull’Immacolata Concezione di Maria, cogliendo la bellezza teologica e spirituale di questo dogma. Tra questi, spiccano nomi di grande rilievo per il loro contributo letterario e teologico. In primo luogo, John Henry Newman (1801-1890), convertito dall’anglicanesimo e diventato poi cardinale e canonizzato da papa Francesco nel 2019. Egli ha dedicato riflessioni intense a Maria, anche se inizialmente trovò difficile accettare il dogma dell’Immacolata Concezione. Col tempo, Newman comprese che questa verità era perfettamente coerente con la dottrina dell’incarnazione e della redenzione e scrisse: “Maria è stata preservata dal peccato originale non per sé, ma per Cristo, affinché potesse essere un tabernacolo puro e degno per il Figlio di Dio.” Nel suo famoso saggio “Lettera a Pusey”, Newman difende con chiarezza la devozione mariana e il dogma dell’Immacolata Concezione. G.K. Chesterton (1874-1936) scrittore e apologeta inglese, convertito al cattolicesimo dall’anglicanesimo, non ha scritto direttamente trattati sull’Immacolata Concezione, ma nelle sue opere traspare un profondo amore e rispetto per la figura di Maria. In particolare, Chesterton la descrive come il modello di umiltà e purezza, essenziale per comprendere l’incarnazione. In “L’Uomo Eterno”, scrive: “Il cristianesimo ha reso l’universo più piccolo per rendere un cuore più grande, e il mondo ha trovato una Regina nell’umiltà della Vergine.” Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce, 1891-1942), nata ebrea, poi filosofa e discepola di Husserl, si convertì al cattolicesimo e divenne suora carmelitana. Nei suoi scritti spirituali e filosofici, ha trattato la figura di Maria come esempio di purezza, umiltà e totale apertura alla volontà di Dio. Riferendosi all’Immacolata Concezione, scrisse: “Maria è l’immagine della creatura perfettamente redenta: non solo non ha mai peccato, ma è stata preservata fin dall’inizio, per essere totalmente di Dio e Madre del suo Figlio.” Nel suo libro “La donna e la sua vocazione”, esalta la maternità spirituale di Maria come frutto della sua immacolata purezza. Louis Bouyer (1913-2004), pastore luterano e successivamente teologo cattolico, Bouyer ha approfondito la dottrina mariana nei suoi studi teologici. Nel suo libro “Il Trono della Sapienza”, esplora il ruolo di Maria nel piano salvifico di Dio, sottolineando come l’Immacolata Concezione sia il primo passo della nuova creazione: “Maria è stata pensata da Dio come il compimento dell’antico Israele e l’alba della nuova umanità, senza macchia, per accogliere il Verbo che si fa carne.”
Jacques Maritain (1882-1973), filosofo francese convertito dall’agnosticismo al cattolicesimo, ha scritto sull’Immacolata Concezione sottolineando il suo significato metafisico e spirituale. Nel suo libro “La Vie de la Grâce”, Maritain definisce Maria come il capolavoro della grazia preveniente di Dio: “Maria è la donna redenta in anticipo, l’immagine perfetta dell’uomo come Dio l’aveva pensato prima della caduta.”
*Maria è venerata e amata anche nella religione islamica con tutte le differenze di natura teologica che occorre mai dimenticare. Vale la pena però conoscere, anche se non collegato al dogma dell’Immacolata Concezione ma comunque concernente Maria, un testo particolarmente significativo sulla figura di Maria (Maryam) nell’ambito della mistica islamica (tasawwuf), quello di Ibn ’Arabi (1165-1240), uno dei più grandi sufi della storia islamica. Nel suo capolavoro Futuhat al-Makkiyya (Le Rivelazioni della Mecca), Ibn ‘Arabi dedica riflessioni profonde a Maria, riconosciuta nell’Islam come un modello di purezza, obbedienza e vicinanza a Dio. Ibn ‘Arabi descrive Maria come una delle più alte manifestazioni della wilaya (santità) femminile e la vede come un simbolo dell’anima perfettamente purificata che accoglie il Verbo divino. Egli la paragona ai profeti, attribuendole un ruolo spirituale unico: “Maria è il simbolo della Vergine dell’Anima che, purificata da ogni contaminazione del mondo, diventa il luogo in cui il Verbo divino si incarna. Come Gesù (ʿĪsā) è nato da Maria per il mondo, così la conoscenza divina nasce nell’anima che si è resa pura.” Secondo Ibn ’Arabi, la maternità di Maria non è solo fisica, ma anche spirituale. In lei si compie il mistero dell’unione tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano: “Maria rappresenta l’essere umano che, pur restando creatura, diventa il ricettacolo della Parola di Dio (Kalimatullah), accogliendo nel suo cuore il soffio dello Spirito Santo (Ruh al-Qudus).” Ibn ’Arabi sottolinea che la verginità di Maria non è solo un fatto fisico, ma un simbolo della purezza interiore necessaria per ricevere la conoscenza di Dio. Maria diventa quindi il prototipo dell’essere umano che raggiunge la perfezione spirituale attraverso la completa sottomissione alla volontà divina: “Quando l’anima umana è libera da ogni attaccamento, essa diventa come Maria: pronta a concepire, nel suo cuore verginale, il Verbo che proviene da Dio.”
Per i sufi, Maria è la manifestazione di una delle qualità divine fondamentali: la taharah (purezza). La sua figura è venerata non solo per la sua maternità fisica, ma per il suo ruolo spirituale come esempio di serva perfetta di Dio (abd Allah), che si abbandona completamente alla volontà divina: “Dio ha scelto Maria, l’ha purificata e l’ha eletta su tutte le donne del mondo” (Corano 3,42). In questo senso, Maria non è solo la madre di Gesù, ma anche una guida per i mistici sufi che cercano l’unione con Dio attraverso la purezza, l’umiltà e l’amore divino. In definitiva, per Ibn ’Arabi e altri mistici sufi, Maria non è solo una figura storica, ma un simbolo eterno della possibilità di ogni anima di divenire il luogo in cui Dio si manifesta. La sua vita rappresenta il viaggio interiore verso la conoscenza, la purezza e l’unione con il divino.
2. Infine, per completezza d’informazione, riassumo i quattro dogmi della Chiesa cattolica che concernono Maria
1.Dogma della Maternità divina (Theotókos), Maria è Madre di Dio. Fu proclamato con il concilio di Efeso nel 431 e questa è la frase centrale del Concilio di Efeso: “Se qualcuno non confessa che l’Emmanuele è Dio e che perciò la Santa Vergine è Madre di Dio (Theotókos), sia anatema.”;
2.Dogma della perpetua verginità di Maria. Maria è sempre vergine: prima, durante e dopo il parto di Gesù e il dogma fu proclamato e definito ufficialmente dal Concilio Lateranense del 649, ma creduto fin dai primi secoli. La frase centrale del dogma: “Maria ha concepito verginalmente, partorito senza corruzione, ed è rimasta vergine perpetua.”
3.Dogma dell’Immacolata Concezione (Maria è senza peccato originale). Il dogma dell’Immacolata Concezione fu definito l’8 dicembre 1854 dal beato papa Pio IX con la bolla pontificia “Ineffabilis Deus”. Il dogma proclama che Maria, fin dal primo istante della sua concezione, è stata preservata immune dal peccato originale, grazie ai meriti di Gesù Cristo. La definizione dogmatica si trova nella parte finale della bolla, e recita: “Dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina la quale sostiene che la beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, fu preservata immune da ogni macchia di colpa originale, è stata rivelata da Dio e, perciò, deve essere fermamente e costantemente creduta da tutti i fedeli.”
*“Primo istante della sua concezione”: Indica che Maria è stata preservata dal peccato originale fin dal momento in cui è stata concepita nel grembo di sua madre, Sant’Anna.
*“Per singolare grazia e privilegio”: Questo stato speciale di Maria non è per merito proprio, ma un dono gratuito di Dio.
*“In previsione dei meriti di Gesù Cristo”: Maria è stata salvata dal peccato non indipendentemente da Cristo, ma grazie alla redenzione operata da suo Figlio. È una redenzione preventiva, unica nel suo genere.
*“Rivelata da Dio”: Il dogma si basa su una verità rivelata, che è stata creduta dalla Chiesa lungo i secoli, anche se formalizzata solo nel 1854. La fede nell’Immacolata Concezione di Maria era già radicata nella tradizione della Chiesa, specialmente nella teologia medievale e nella devozione popolare. Nel 1854, Papa Pio IX volle proclamare ufficialmente questa dottrina per rafforzare la fede cattolica, in un’epoca segnata da crescenti sfide al cristianesimo. Il dogma fu mirabilmente confermato pochi anni dopo, nel 1858, quando la Vergine apparve a Santa Bernadette Soubirous a Lourdes, presentandosi con le parole: “Io sono l’Immacolata Concezione.” Questo evento rafforzò ulteriormente la devozione e la comprensione del dogma da parte dei fedeli.
4 Dogma dell’Assunzione di Maria. Maria è stata assunta in anima e corpo alla gloria del cielo. E’ stato proclamato da papa Pio XII nella costituzione apostolica Munificentissimus Deus il 1° novembre 1950. Questa la frase centrale del dogma: “La Vergine Maria, terminato il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo.” Alla fine della sua vita terrena, Maria non ha subito la corruzione del corpo, ma è stata glorificata in cielo. Non viene specificato se sia morta oppure direttamente assunta alla vita eterna.
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Ecco un breve commento alle letture della prossima domenica [1° Dicembre 2024]
Prima Lettura: Geremia 33, 14 – 16.
*Il linguaggio della speranza
“Ecco, verranno giorni in cui realizzerò la promessa di felicità che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda”. Troviamo queste parole nella prima lettura tratta dal libro di Geremia (33, 14-16); sono però considerate posteriori rispetto all’epoca del profeta e ritenute un’aggiunta alla versione dei Settanta che risale a circa il 250 a.C.; l’autore sarebbe probabilmente un discepolo, figlio spirituale di Geremia. Chi parla non è dunque Geremia, ma questo suo figlio spirituale che, in un periodo in cui regna disperazione per il futuro del popolo di Dio, ricorda le parole del profeta Geremia, vissuto alcuni secoli prima. Geremia aveva allora così profetizzato: “Farò nascere per Davide un Germoglio di giustizia”(23,5; 33,15). In questa profezia ci sono due simboli: il germoglio e il nome del nuovo re legato a ”giustizia”. Il germoglio è un simbolo che suggerisce un inizio del tutto gratuito da parte di Dio e si riferisce alla nascita di un nuovo re, discendente di Davide a Gerusalemme. In quel tempo era difficile credere a questa promessa annunciata da Geremia perché, dopo la morte di Davide, la sua dinastia si era praticamente estinta. C’era poi stata la deportazione babilonese, Gerusalemme occupata, il Tempio distrutto, il paese devastato e la popolazione decimata. Tra i superstiti quasi tutti furono fatti prigionieri ed esiliati a Babilonia, così che la piccola colonia giudaica sembrava destinata a morire lontano dalla propria terra. Sorgevano tante inquietudini: Israele scomparirà dalla carta geografica e dove finiranno le promesse dei profeti? Non aveva il profeta Natan annunciato a Davide e alla sua discendenza un regno eterno con un re che avrebbe instaurato sicurezza, pace e giustizia per tutti? Molti erano i problemi legati alla distruzione della monarchia davidica, ed erano nate divisioni e contrasti per cui poca gente era rimasta fedele alla Torah. Dinanzi a così tante angustie occorreva infondere speranza e questa è la ragione per cui s’insisteva nel sottolineare la fedeltà di Dio alle sue promesse, che è il fondamento della speranza. Alle tante persone scoraggiate che temevano che Israele non avanzasse verso il Regno di Dio, il profeta rispondeva: Abbiate fede, credete, perché è proprio nei momenti di oscurità che la fede deve restare salda. Ed è così nella nostra vita. Mai cedere allo scoraggiamento perché quando Dio promette, realizza sempre i suoi disegni di salvezza. Non sappiamo né quando né come, ma Dio interviene sempre. Il linguaggio della speranza è una sfida alla ragione e un atto di fede, una grande lezione di fiducia e un bell’esempio di parola profetica, che annuncia la luce anche e soprattutto nei giorni più bui. Tutti siamo a rischio quando ci lasciamo dominare dall’ansia dello scoramento di fronte alle difficoltà e in queste situazioni ci lasciamo assalire da pensieri del tipo: se Dio esiste perché non interviene per portare la pace, l’armonia e la fraternità nel mondo? Perché il Regno di Dio tarda a realizzarsi? Allora, come in ogni tempo, occorre continuare a sperare e poggiare Il linguaggio della speranza su due verità invincibili: anzitutto la certezza che Dio non viene mai meno alle promesse e in secondo luogo che Dio sempre porta a compimento i suoi progetti malgrado tutti gli ostacoli. L’altro simbolo è il nome che è nella frase a chiusura del brano: “Il Signore è la nostra giustizia” (Sedeq Yah), che è il nome del re Sedecìa “giustizia di Dio”. Quest’ultimo re di Giuda fu deportato in Babilonia, gli uccisero i suoi figli e lo accecarono con crudeltà e si pensava che tutto questo avvenne perché non aveva onorato la sua missione e non aveva ascoltato il profeta Geremia. Il testo profetico ribalta qui il significato del nome Sedecia che significa Giustizia di Dio espresso con la frase “Il Signore è la nostra giustizia”, per indicare che invece sorgerà il vero Re che incarnerà la giustizia biblica concernente la salvezza integrale dell’uomo e dell’umanità e la offrirà al popolo deluso, sofferente e stanco: sarà fedele, grande e duratura.
Salmo Responsoriale 24 (25), 4-5, 8-9, 10. 14
*Ritrovare la propria strada
“Il Signore indica ai peccatori la via giusta” (v.8). Questo versetto ci introduce nel contesto del salmo 24/25: si è in una celebrazione penitenziale al Tempio di Gerusalemme e il linguaggio del cammino è tipico dei salmi penitenziali, perché il peccato è una strada sbagliata e la conversione richiede un autentico dietrofront. Nel libro del Deuteronomio Mosè invitava a camminare in tutto e per tutto per la via che il Signore ha prescritto (5, 32-33). Chi si pente riconosce di aver preso strade sbagliate e supplica Dio di ricondurlo sulla giusta via. Ma cos’è la via giusta? E’ l’osservanza della Legge di Dio e per rimarcarlo questo salmo è stato composto in un modo molto particolare. E’ infatti un salmo alfabetico, intenzionalmente strutturato come un acrostico e, controllando la colonna delle lettere, forma l’intero alfabeto ebraico dall’alto in basso. Questo modo di comporre i salmi, detti alfabetici, è in pratica una professione di fede e ruota sempre attorno allo stesso tema: l’amore di Israele per la Torah, l’amore di e per Dio è l’unica strada verso la felicità: l’amore per la Torah è “l’alfabeto della felicità”. Per l’ebreo credente la Legge non è un comando ma un dono di Dio, segno della sua tenerezza verso l’intera umanità. Il termine Legge (Torah) non deriva infatti da una radice che significa “prescrivere”, ma dal verbo “insegnare” e il tema “insegnami le tue vie” è molto presente in questo salmo. Se Dio ci ha dato la Legge è per la nostra felicità. La legge è il manuale di istruzioni della nostra libertà per essere felici, il codice della strada che ci porta alla felicità: “Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti” (v.10). “Signore insegnami i tuoi sentieri” (v.4). Il metodo alfabetico è un modo per confermare l’attaccamento alla Legge e il vero desiderio di seguirla; una professione di fede e nel contempo una risoluzione. Soprattutto dopo il ritorno da Babilonia, nella celebrazione penitenziale il popolo riconosceva la sua infedeltà all’Alleanza; era consapevole che le disgrazie sopravvenute ne erano la conseguenza e chiedeva perdono. Allo stesso tempo, aveva la certezza che la fedeltà è possibile in futuro solo con l’aiuto di Dio ed esprimeva quasi angoscia di non riuscirci chiedendo per questo aiuto, come leggiamo nell’ultimo versetto del salmo: “O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce”.(v.22). Non si dimentichi che per gli ebrei il peccato più grande è l’idolatria e la prima conversione consiste nel rinnegare gli idoli per tornare all’unico Dio vivente. Sollecitati dal salmo 24/25 anche noi, all’inizio dell’Avvento, decidiamo di percorrere un cammino penitenziale che sia propedeutico alla vera gioia; gioia che la celebrazione del Natale ci farà pregustare.
Seconda Lettura: dalla Prima Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi 3,12-4,2
*L’Avvento è un’occasione per rimettere la nostra vita nella giusta prospettiva
Quando circa vent’anni dopo la risurrezione di Cristo, Paolo arrivò a Tessalonica, porto commerciale e capitale della provincia di Macedonia sotto il dominio romano, vi erano molti stranieri e una nutrita comunità ebraica. La sua predicazione ottenne successo come leggiamo negli Atti degli Apostoli (At 17, 3-4) con gli ebrei e con i pagani che invitò a rigettare gli idoli. Quest’ultimo successo suscitò però l’ira dei Giudei ostili a Gesù, al punto da costringere Paolo a fuggire. Prevedendo che sarebbe sopravvenuta una persecuzione da parte dei Giudei, qualche tempo dopo Paolo inviò Timoteo alla comunità cristiana nascente di Tessalonica per sostenerne la fede perché nessuno vacillasse e Timoteo tornò con la “buona notizia” della loro perseveranza nella fede e del loro amore. I versetti dell’odierno brano della lettera parlano della commozione di Paolo quando apprese le notizie riportategli, dopo di che invita i tessalonicesi a continuare sulla strada giusta fino al giorno del ritorno di Cristo e precisa: “Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù” (3,12-4,2,), come dire: sapete come camminare e quindi camminate così. Ieri come oggi la sfida cristiana consiste nell’orientare l’intera esistenza nella prospettiva dell’attesa del ritorno di Cristo, il giorno in cui il Signore Gesù verrà con tutti i suoi santi. Quest’esortazione di Paolo risulta attuale in una società come la nostra, che sembra aver smarrito la direzione della sua marcia. Il cristiano, secondo l’insegnamento dell’apostolo, non resta a fissare il passato, ma guarda a Colui che è il nostro avvenire e che da senso al presente: “Il Signore vi faccia crescere nell’amore per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità davanti a Dio Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo con tutti i suoi santi” (3,13). E questo perché conoscere Dio significa in verità amare. Come scrive san Giovanni, Dio è amore e lui solo è capace di renderci santi nell’amore (1 Gv 4, 8).
Vangelo secondo Luca ( 21, 25-28, 34-36)
*Lo stile apocalittico
L’anno liturgico B si è chiuso domenica scorsa con il genere letterario apocalittico e si apre il nuovo anno C con il medesimo stile. Il discorso apocalittico spaventa e il termine “apocalisse” ha una pessima reputazione essendo sinonimo di orrore, mentre in verità, nel contesto biblico, esprime il contrario. Occorre allora tener conto di quest’osservazione previa ricordando che il racconto non va mai preso alla lettera. Il verbo greco apocaluptô vuol dire “sollevare il velo” e in latino si traduce con “revelare” cioè rivelare. Può essere utile una breve riflessione su questo genere letterario di cui evidenziamo almeno quattro caratteristiche particolari:
1.Il genere apocalittico tratta di scritti di angoscia, guerre, occupazione da parte di stranieri, di persecuzione come nel libro di Daniele (II secolo a.C.). Presenta nemici e persecutori come mostri terribili ed è naturale che, per tale ragione, “apocalisse” diventa sinonimo di eventi spaventosi.
2.L’Apocalisse presenta pure parole e scritti di consolazione per rafforzare la fedeltà dei credenti e incoraggiarli a sperare e resistere di fronte al martirio poiché siamo in tempi di dure persecuzioni.
3.Apocalisse assume inoltre un significato diverso nei testi biblici perché rivelano il lato nascosto della storia annunciando la vittoria finale di Dio e in questa luce invitano a guardare al futuro con fiducia. Le descrizioni di cambiamenti cosmici sono infatti immagini simboliche del capovolgimento delle situazioni con un unico messaggio: in ogni situazione Dio ha sempre l’ultima parola.
4.Infine, lo stile apocalittico riveste in ogni testo un invito alla vigilanza attiva rigettando l’attesa passiva e inerte, per cui occorre vivere ogni giorno alla luce della speranza.
Queste quattro tipologie sono tutte presenti nel vangelo di oggi.
1. Vediamo descritti tempi di angoscia con segni spaventosi per indicare che il mondo presente sta passando (vv. 25-26);
2. emerge una parola di consolazione, che invita a resistere: “La vostra liberazione è vicina (v.28)
3. La parola di Cristo rivela il senso occulto della storia annunciando la venuta del Figlio dell’uomo (v.27). L’espressione “Figlio dell’uomo” indica ciò che Daniele chiama “il popolo dei santi di Dio” (Dn 7,12). Dopo la risurrezione i discepoli compresero che il titolo di Figlio dell’uomo che Gesù si attribuisce è perché lui è insieme uomo e Dio, il primogenito della nuova umanità, il Capo che fa di noi un unico Corpo. Alla fine della storia, saremo tutti come “un solo uomo, innestati in lui e quindi “il popolo dei santi dell’Altissimo”.
4. Apocalisse infine vuol dire anche che è indispensabile una vigilanza attiva: “Risollevatevi e alzate il capo … state attenti a voi stessi …vegliate in ogni momento pregando”(v.36).
Nel vangelo sono evidenziati due modi di vivere: chi non crede si rassegna a un destino inevitabile e purtroppo alcuni vivono praticamente così; il credente/fedele invece non si lascia sorprendere perché conosce il senso ultimo della storia, ed è certo che è ormai vicina la liberazione e il male sarà sconfitto per sempre. E questa è la sfida cristiana, testimonianza/martirio richiesta a chi vuole essere discepolo di Cristo crocifisso e risorto. All’inizio dell’Avvento questi testi biblici ci spronano a iniziare con vigile attesa un nuovo anno liturgico e ad accompagnarci sarà san Luca, l’evangelista della misericordia, della gioia, dell’universalità della salvezza, con un’attenzione peculiare alla figura di Maria, alla preghiera e all’azione dello Spirito Santo.
Buon avvio dell’Avvento!
+Giovanni D’Ercole
La forza del mondo interiore, anche nei suoi abissi
(Mt 7,21.24-27)
Papa Francesco ha affermato: «Dio per donarsi a noi sceglie spesso delle strade impensabili, magari quelle dei nostri limiti, delle nostre lacrime, delle nostre sconfitte».
I costruttori frettolosi si accontentano di edificare direttamente sul terreno; badando solo a quanto si vede e sperimentano (su due piedi). Non scavano la casa sino al sodo - nel profondo, nell’oro di sé.
Nel mondo interiore tutto si rovescia: il primato è della Grazia, che spiazza, perché tiene conto solo della realtà essenziale, inspiegabile - e della nostra dignitosa autonomia.
«L’acqua troppo pura non ha pesci» [Ts’ai Ken T’an]. Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda.
Con l’intero Discorso della Montagna - qui agli sgoccioli - Gesù punta a suscitare nelle persone una coscienza critica riguardo a soluzioni banali ed esterne, cosa comune fra i leaders della religiosità antica.
Per edificare un nuovo Regno non bastano le pubbliche liturgie sovrabbondanti di bei segni, e ossequi sociali clamorosi - neppure i doni più appariscenti.
Falsa sicurezza è quella di chi si sente a posto. Non vi è malato o recluso peggiore di colui che si ritiene sano, arrivato e non contagiato: solo qui non c’è terapia, né rilancio.
Lo si vedrà nel momento della tormenta, quando sarà evidente la necessità di tradurre in vita il rapporto personale col Signore, a partire dalla capacità di accogliere l’azzardo.
I meriti non radicati nelle convinzioni intimamente salde non reggeranno il turbine della prova.
«Praticanti di cose vane» ossia inconsistenti [è il senso del testo greco che introduce il passo di Vangelo (v.23)].
Sono gli alfieri d’una spiritualità vuota, che malgrado la vernice - con lati anche spettacolari - nulla hanno a che fare con Dio.
Ci sono fondamenta dietro una facciata di farfalle? Lo si capisce nella bufera, e se si diventa «roccia» anche per gl’invisibili - non turisti dello “spirito” che lodano lodano e non rischiano.
La sicurezza non viene dall’adeguarsi a costumanze e adempimenti, né da quel farsi ammirare (almeno) al pari di altri, che rende insana la Casa comune.
Nostro specifico e cifra della Fede non è un’identità tratta dai protocolli o dalle maniere - che gioca sulle apparenze e non sull’unico punto forte: l’attitudine dei pellegrini in Cristo.
Siamo saldi solo nella dignità sacerdotale profetica regale, che ci è data in Dono irripetibile e mai sarà frutto del derivare dal consenso.
Viviamo per seguire una Vocazione profonda: Radice, Molla e Motore delle nostre fibre più intime; apparentata ai sogni e alla naturalezza di ciascuno.
Solo affidarsi all’anima è piattaforma autentica, vera salvezza e medicina.
La Missione giungerà alle periferie esistenziali, partendo dal Nucleo.
Sembra insensato, paradossale, incredibile, ma per ogni Chiamato la Roccia sulla quale può e deve edificare il suo modo di scendere in campo… è la Libertà.
[Giovedì 1.a sett. Avvento, 5 dicembre 2024]
Casa sulla Roccia o praticanti di cose vane
(Mt 7,21.24-27)
Papa Francesco ha affermato: «Dio per donarsi a noi sceglie spesso delle strade impensabili, magari quelle dei nostri limiti, delle nostre lacrime, delle nostre sconfitte».
Il Richiamo del Signore non è manicheo, bensì profondo.
Il nostro comportamento ha radici affascinanti. Luci e ombre del nostro essere permangono in relazione dinamica.
Talora però i nostri disagi o storture sono il frutto di un eccesso di “luce” - disancorato dal suo opposto.
Tale eccesso si associa volentieri alla pretesa di esorcizzare l’aspetto buio in noi, che vorremmo celare per motivi sociali.
Ci sembra che il biglietto da visita debba essere riflesso solo del nostro aspetto brillante, sciolto, serio, e performante.
Magari, uno stile morale tutto d’un pezzo - almeno a prima vista.
Chi si affeziona al suo lato luminoso e addirittura tenta di promuoverlo per motivi di look (anche ecclesiale), di cultura affermata, di abitudine (anche religiosa) , rischia però di potenziare la controparte.
Attenzione: in ciascun uomo c’è sempre un versante che fa cilecca, che non ce la fa; e non unilaterale.
Forse proprio in chi predica il bene esiste il pericolo più accentuato di trascurare il suo opposto compresente - che prima o poi irromperà, troverà il suo spazio.
Facendo saltare tutto il castello di carte. Ma per realizzare qualcosa di alternativo e assolutamente non artificioso.
Per chi intraprende un cammino di “perfezione”, la sua stessa controparte sembra solo un pericolo.
E condizionati dai modelli, continuiamo a recitare [la “nostra” parte già identificata].
Eppure nel lato oscuro si celano risorse che il lato in sola luce non ha.
Nel lato oscuro leggiamo il nostro seme caratteriale.
Qui c’è la terapia e la guarigione dai disagi che ci affrettiamo a celare (in famiglia, con gli amici, in comunità, sul lavoro).
Gli aspetti oscuri [egoismo, freddezza, chiusura, introversione, tristezza] si annidano dentro; inutile negarlo.
Vale la pena piuttosto considerarli fonte di energie primordiali caratterizzanti.
È infatti il nascondimento - talora la depressione stessa - che ci fa pescare soluzioni inimmaginabili.
Come fossimo un grano piantato in terra, che vuole la sua esistenza. E vuole infine vita naturale, che sviluppi le sue capacità.
Proprio le emozioni che non piacciono e noi stessi detestiamo - come la terra infangata e buia - ci riconnettono con la nostra essenza profonda.
Insomma, gli stati emotivi poco simpatici saranno il pozzo dal quale giungono a noi altre idee, altre “immagini” guida, nuove intuizioni; diversa linfa. E i cambiamenti.
La luce non possiede tutte le possibilità, tutte le dinamicità. Anzi, non di rado sembra declinata [dalle stesse tradizioni] in modo fittizio, riduttivo.
Nel chiaroscuro, viceversa, non fingiamo più. Perché è il fondamento della casa dell’anima.
Tutto ciò consideriamo, per un’armonia solida, che nasca dal di dentro.
Paradossi della Vocazione personale: se non la seguissimo a tutto tondo, continueremmo a ricalcare idee sbagliate, o stili altrui.
E ci ammaleremmo. Il male prenderà il sopravvento.
Se strutturati su una identità astratta, locale, o fasulla, qui sì che la bufera potrebbe distruggere tutto.
Nei nostri tentativi ed errori, accanto dobbiamo tenere tutti gli aspetti - che nel corso del tempo abbiamo imparato a conoscere, e ci siamo resi conto che sono parte di noi.
Questo cambierà la solidità di rapporto con noi stessi, gli altri, la natura, la storia, e il mondo.
La sintonia tra condotta e intenzione del cuore supera l'ipocrisia, ma la conformità tra Parola e vita non si allestisce esercitandosi negli automatismi, né consegnandosi a convinzioni altrui.
Nel post-lockdown ce ne stiamo accorgendo nitidamente.
Un tempo si pensava che la formazione (in specie dei giovani) cesellasse anche l’anima, e tutto sfociasse naturalmente nelle scelte; nei mezzi, nei risultati, nelle opere esterne, e persino nei sogni: “Dimmi ciò che fai e ti dirò chi sei”.
Invece la sintonia qualitativa con il Mistero e la Parola del Cristo non la si ottiene allestendo, bensì la si trova dentro (ciascuno di noi) enigmaticamente, e a partire dagli abissi - come puro Dono segreto, per l’indipendenza creativa.
Fretta, timore di fallire, cultura della concatenazione e stabilità, propositi (anche “spirituali”) o viceversa lusinghe di tranquillità; mire, smanie di essere riconosciuti, mancanza di distacco, ambizione, paura di essere esclusi, difficoltà a spostare lo sguardo... portano all’ignoranza del Mistero.
Privi di spessore, saremo condannati a non scavare sino in fondo neppure dentro noi stessi; in balia perenne dei ruoli particolari, di ambiti e dei suoi eventi; delle relazioni occasionali o locali.
I costruttori frettolosi si accontentano di edificare direttamente sul terreno; badando solo a quanto si vede e sperimentano (su due piedi). Non scavano la casa sino al sodo - nel profondo, nell’oro di sé.
Nel mondo interiore e nella sua potenza nascosta tutto si rovescia: il primato è della Grazia, che spiazza, perché tiene conto solo della realtà essenziale, inspiegabile - e della nostra dignitosa autonomia.
Il resto sarà purtroppo destinato a crollare rovinosamente, perché non rimane fondato sulla Parola, sul carattere [pur magmatico, ma fortemente potenziale]… né sul rapporto vocazionale con Dio e le cose, o sulla più genuina comunione [convivialità e ricchezza condivisa delle differenze].
Viviamo una lacerazione, anche nel tempo dell’emergenza: il mondo interiore è più forte e convincente, eppure l’esteriorità non vuole cedere il passo dei traguardi immediati. Infatti ne siamo ancora attratti.
Ma questi ultimi sappiamo bene che non riattivano alcuna tappa di peso specifico, come invece spontaneamente fa il nostro giovane essere interiore - quasi un Bimbo che portiamo in gestazione.
In genere, anche nel cammino spirituale subito precipitiamo nel personaggio ambìto che vorremmo essere: qui non si cresce, non ci si accende che per delle futilità, né ci s’accorge che non sono esse le nostre “proprietarie”.
Certo, il traguardo esteriore immediato non soffre l’attesa della lunga necessaria evoluzione del dover partorire se stessi (perfino nell’angoscia e solitudine) tappa dopo tappa; che si attiva e riattiva senza comfort e sicurezze.
Eppure siamo nati per spiccare il volo, non per ricalcare e diventare fotocopie nell’anima.
Così tutto ciò che vale sarà nell’oscillazione, perché un percorso di peso specifico personale si configura secondo il dono della nostra eccezionalità.
E l’Unicità si potrà ottenere nel processo di ogni nostro lato, d’ogni versante della personalità - anche apparentemente meschina o sommaria. Anche poco lusinghiera dal punto di vista della tranquillità religiosa; che pure avrà avuto il suo valore.
Gesù non intende distinguere i buoni dai cattivi [cf. vv.15-20 e passo parallelo di Lc 6,43-45] in modo banale: vuole che viviamo appieno, nell’unicità integrale, e percepiamo bene.
Il Signore non propone un destino imprigionato; piuttosto, un ribaltamento di senso.
Il suo è un monito ad acuire lo sguardo, e posarlo dentro - non lasciarlo fuori, a osservare risultati effimeri, quelli da ovvietà e clamore; e poi basta, non vivere troppi scossoni… come fossimo in una zona relax.
L'Unità di misura in Cristo non è l’immediatamente percepibile all’occhio, e non è in sé neppure il “progredire”, bensì: «il valore di ogni parte».
Proprio la consapevolezza di limite diventa in noi principio trasformativo. E ogni imperfezione chiama all’Esodo.
Rinnegare i propri confini significa lasciarsi sequestrare da opinioni comuni, prive di Mistero - con orizzonti ridotti a una “parola” sola.
È ad es. la forte crisi che stimola il rivolgimento d’un sistema anche economico appariscente ma competitivo e disumanizzante, dai principi intimi corrotti - sebbene un tempo ci apparissero come degli assoluti.
Perché non accontentarsi, se grosso modo ce la caviamo? Perché l’identificazione forzata ha tolto Libertà, anche quella di ammettere che siamo fatti di luci e ombre.
Non è il disturbo che priva donne e uomini di emancipazione vocazionale eloquente.
Anche ciascuno che si batte il petto, lo fa in modo particolare; e si riconosce in simbiosi col proprio Nome.
Poi ad ogni età della vita - come a ciascuna era - tocca il suo “peccato”, che non è un mostro bensì un sintomo che parla proprio della Chiamata personale, morale, culturale, sociale.
Anche se non piacesse, l’oscillazione va compresa, non criticata e accusata.
Direi addirittura accolta e rielaborata - non semplicisticamente rifiutata, con atteggiamenti di artificiosa lontananza o gesti di ambigua virtù, che rendono esterni e fanno tornare al punto di partenza.
Oggi la mancanza di vita completa e relazioni belle, il rivolgimento generale, l’inquietudine dell'anima - il nervosismo, l’insoddisfazione - costringono ad abbandonare sia le antiche e fascinose sicurezze devote, che le sofisticazioni disincarnate “à la page”.
Tutto in favore delle situazioni concrete e personali, nell’orizzonte della vocazione irripetibile e del balzo di Fede che apre alla convivenza.
«L’acqua troppo pura non ha pesci» [Ts’ai Ken T’an].
Accettarsi senza riserve c’introdurrà in un’esperienza vertiginosa, da stupore: con lo sbalordimento prodotto dal recupero dei lati compresenti, opposti e in ombra. Tanti quanti i fratelli e sorelle.
Forse constateremo che sono essi i più attivanti e fecondi.
Non l'etica della perfezione e delle distinzioni omologate, bensì il vituperato caos e i nostri demoni interiori diventeranno paradossalmente i migliori compagni di cammino, e gli unici veri; corifei di una stupefacente Missione.
Del resto, le opere stesse sono frutto dei nostri pensieri e desideri. Questi ultimi scaturiscono certo anche da una buona, variegata formazione, ma non in senso meccanico.
È fondamentale anche qui non essere sventati. Un cattivo discernimento annienta l’autentica Roccia, che coincide con la propria Guida spontanea alla completezza.
Fondamento stabile del nostro itinerario è la Libertà di accogliere e la Libertà di corrispondere all’irripetibile carattere - proprio - dell’istinto a realizzarci.
Infatti Gesù si distacca non solo dalla religione antica, ma persino dai filoni messianici - piuttosto crudi - dei primi tempi (es. Gc 3,11-12).
Non per questo il Maestro rinnega lo spirito profondo delle Sacre Scritture antiche, anzi ne coglie il cuore: Qo 3,14; 7,13-18; Sir 37,13-15 [e tanti altri passi (incredibili per la mentalità in cui siamo stati educati)].
Quindi non basta dire: «Signore, Signore» (vv.21-22). Non è sufficiente riconoscere formalmente il Figlio di Dio.
Bisogna vagliare il suo Richiamo nell’essere, farlo proprio e comprenderlo appieno, affinché non venga corrotto e deturpato in forme inessenziali, di puerile conformismo esterno.
Nell’insicurezza, molta gente domanda espressioni di potenza, cerca la forza palese; si accontenta dei paradigmi morali, guarda forme di assicurazione immediata, o brama guide rinomate [che perpetuino e confortino il loro sentiero difensivo].
Illusioni paralizzanti… anche nel cammino di Fede.
Su questa strada non si costruisce la felicità prevista, né solidità alcuna, bensì giorno dopo giorno la propria tristezza - com’è palese da troppe vicende, infine dalle più occulte forme di compensazione (oggi smascherate).
Non c’è guru che possa rimettere le cose a posto in radice.
Il nostro Seme è ciò che è: bisogna scoprirne le virtù, anche e soprattutto quelle inattese - che derivano dall’essenza e da forme magmatiche e plastiche di energie persino contrapposte.
Inutile “curarsi” secondo una omologazione conforme che non appartiene al Nucleo personale.
L’anima ha una vita autonoma, sospensiva dei contesti, delle distanze; esiste dentro e anche fuori dello scandire del tempo - come l’Amore.
Ognuno è una molteplicità di volti coesistenti - cui dare spazio per una maggiore completezza.
Questo conta, e allearsi coi propri limiti: abbracciare ciò che l’ambiente circostante o il paradigma culturale convenzionalista - il quale difende il suo territorio - ritiene magari inconcludente (così via).
Presidiamo altri confini.
Ciò che non piace è forse la nostra parte migliore.
In ogni caso, dar voce alle tensioni significa poter finalmente denominarle, ospitarle degnamente - affinché dispongano gioie più complete.
E lascino varcare la soglia della letizia di vivere, quindi dell’autentica affidabilità.
Spazzando via l’ansia dell’imperfezione, troveremo una più armonica fermezza, energetica.
Accogliendo le fragilità insieme alle ribellioni, non vivremo a metà; anzi, faremo esperienza di pienezza di essere (vitale e scattante).
Non sentendoci sempre intrappolati, potremo volar via.
Ma che certe situazioni tranquille siano ristrettezze contraffatte e tagliole dell’anima, possiamo accorgercene subito: nei disagi radicali, che affiorano.
Molti continuano invano a cercare futili conferme: nella ricerca di doni straordinari o nella meticolosità delle osservanze, ovvero nelle mode di pensiero. Tutte realtà esterne.
Tuttavia non è questa la pedagogia che educa e lancia la vita nello Spirito fuori da meccanismi appunto estrinseci.
Né per vincere davvero le tormente basta “fare la volontà di Dio” in modo disciplinato ma senza consapevolezze amicali con noi stessi.
Nessuna forma di esteriorità inculcata potrà convincerci.
Tantomeno, farci diventare «roccia» - o piccolo baluardo - per persuadere, capacitare, rafforzare altri.
La differenza tra religiosità comune e Fede personale?
La Vita nella condizione umanizzante e divina di preziosità apre percorsi variegati - di abisso perfino, ma colmi di esperienze interiori; di ricerca e scoperte inimmaginabili, ove possiamo essere noi stessi.
Nella sfera di Fede non esistono più sacri tempi, luoghi, saperi, modelli - tutti epidermici, se ingessati - che non siano anche inediti e personali.
L’unione col Signore, Roccia da cui siamo stati come tagliati ed estratti, non è binario né solco, bensì un’opzione fondamentale.
Essa lascia briglie sciolte sull’inclinazione e colore particolari di ciascuno.
Con l’intero Discorso della Montagna - qui agli sgoccioli - Gesù punta a suscitare nelle persone una coscienza critica riguardo a soluzioni banali ed esterne. Cosa comune fra i leaders della religiosità popolare e ufficiale antica.
Per edificare un nuovo Regno non bastano le pubbliche liturgie sovrabbondanti di bei segni col giusto credo, e ossequi sociali clamorosi - neppure i doni più appariscenti.
Falsa sicurezza è quella di chi professa… ma compie atti solo conformi e riflette idee allineate - quindi si sente a posto.
Non c’è malato o recluso peggiore di colui che si ritiene sano, arrivato e non contagiato: solo qui non c’è terapia, né rilancio.
Lo si vedrà nel momento della tormenta, quando sarà evidente la necessità di tradurre in vita il rapporto personale col Signore, a partire da se stessi e dalla capacità di accogliere l’azzardo dell’Amore.
I meriti non radicati nelle convinzioni intimamente salde - gesti prodotti d’intrigo, calcolo e atteggiamenti artificiosi - non reggeranno il turbine della prova.
«Praticanti di cose vane» ossia inconsistenti [è il senso del testo greco che introduce il passo di Vangelo (v.23)] sono gli alfieri d’una spiritualità vuota, che malgrado la vernice, con lati anche spettacolari, nulla hanno a che fare con Dio.
Secondo convenienza, i “maestri” che si frappongono al percorso dei risvolti personali sembrano disposti a rimangiarsi qualsiasi adesione, tramando il rovescio dei loro stessi proclami - perché prigionieri in merito [invece di come appaiono: condottieri].
Non rivelano ancora il Volto divino, bensì un contrario qualunquista e calcolante.
Campano per tirare avanti - insieme al club cui sono iscritti - e ottenere solo riconoscimenti immediati, ossequi, elemosine di consenso attorno.
E ciò malgrado le grandi discipline di censura che propugnano:
Non correggono la separazione fra insegnare e impegno personale: magari predicano tutti i giorni il Dio vero e (sempre) grandi cose - ma come per mestiere.
Gl’intriganti moltiplicano formule e gesti altisonanti o simbolici, al pari di droghe soporifere ovvero eccitanti… ma sono i primi a non credere a ciò che dicono e a più riprese impongono agli altri.
Pieni di ottuse pretese sulla gente, non comprendono il Padre, Dio dei disperati, esiliati e derisi, che risuscita i non eletti - i privati di futuro; non gli assicurati a vita, comandati dal tornaconto e dall’apparire.
Ci sono fondamenta dietro una facciata di farfalle? Lo si capisce nella bufera, e se si diventa «roccia» anche per gli invisibili - non turisti dello “spirito” che lodano lodano (v.21) e non rischiano.
Pertanto la sicurezza non viene dall’adeguarsi a costumanze e adempimenti, né da quel farsi ammirare (almeno) al pari di altri. Fiction che rende insana la Casa comune.
Nostro specifico e cifra della Fede non è un’identità “culturale” tratta da protocolli o maniere mainstream - trama che gioca sulle apparenze e non sull’unico punto forte: l’attitudine dei pellegrini in Cristo.
Siamo saldi solo nella dignità sacerdotale profetica regale, ch’è data in Dono irripetibile e mai sarà frutto del derivare dal consenso.
Né dell’apparire, del dire e non dire, del costruirsi; dell’adeguarsi alle forze in campo, dell’arrabattarsi per galleggiare.
Viviamo per seguire una Vocazione profonda: Radice, Molla e Motore delle nostre fibre intime; apparentata ai sogni e alla naturalezza di ciascuno.
Solo affidarsi all’anima è piattaforma autentica, vera salvezza e medicina.
La Missione giungerà alle periferie esistenziali, partendo dal Nucleo.
Sembra insensato, paradossale, incredibile, ma per ogni Chiamato la Roccia sulla quale può e deve edificare il suo modo di scendere in campo… è la Libertà.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando la tormenta urterà la tua casa, immagini una caduta grande? Qual è la roccia su cui è costruita la tua comunità? È interessata alla tua naturalezza o vuole omologarti?
Conosci persone dalla forte attività profetica, apostolica o taumaturgica, che danno la sensazione d’una famigliarità con Dio solo straordinaria o di circostanza, forse apparente?
Qual è il motivo, secondo te? Pensi che si siano davvero mai arresi a se stessi e alla quintessenza della propria Chiamata per Nome?
Il desiderio di una Casa
Cari giovani amici,
vi porgo il mio cordiale benvenuto! La vostra presenza mi rallegra. Sono grato al Signore per questo incontro con il calore della vostra cordialità. Sappiamo che "dove due o tre sono uniti nel nome di Gesù, Egli è in mezzo a loro" (cfr Mt 18, 20). Ma voi siete qui oggi ben più numerosi! Ringrazio per questo ciascuno e ciascuna di voi. Gesù dunque è qui con noi. Egli è presente tra i giovani della terra polacca, per parlare loro di una casa, che non crollerà mai, perché edificata sulla roccia. È la parola evangelica che abbiamo poc'anzi ascoltato (cfr Mt 7, 24-27).
Nel cuore di ogni uomo c'è, amici miei, il desiderio di una casa. Tanto più in un cuore giovane c'è il grande anelito ad una casa propria, che sia solida, nella quale non soltanto si possa tornare con gioia, ma anche con gioia si possa accogliere ogni ospite che viene. È la nostalgia di una casa nella quale il pane quotidiano sia l'amore, il perdono, la necessità di comprensione, nella quale la verità sia la sorgente da cui sgorga la pace del cuore. È la nostalgia di una casa di cui si possa essere orgogliosi, di cui non ci si debba vergognare e della quale non si debba mai piangere il crollo. Questa nostalgia non è che il desiderio di una vita piena, felice, riuscita. Non abbiate paura di questo desiderio! Non lo sfuggite! Non vi scoraggiate alla vista delle case crollate, dei desideri vanificati, delle nostalgie svanite. Dio Creatore, che infonde in un giovane cuore l'immenso desiderio della felicità, non lo abbandona poi nella faticosa costruzione di quella casa che si chiama vita.
Amici miei, una domanda si impone: "Come costruire questa casa?". È una domanda che sicuramente si è già affacciata molte volte al vostro cuore e che ancora tante volte ritornerà. È una domanda che è doveroso porre a se stessi non una volta soltanto. Ogni giorno deve stare davanti agli occhi del cuore: come costruire quella casa chiamata vita? Gesù, le cui parole abbiamo ascoltato nella redazione dell'evangelista Matteo, ci esorta a costruire sulla roccia. Soltanto così infatti la casa non crollerà. Ma che cosa vuol dire costruire la casa sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire prima di tutto: costruire su Cristo e con Cristo. Gesù dice: "Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia" (Mt 7, 24). Non si tratta qui di parole vuote dette da una persona qualsiasi, ma delle parole di Gesù. Non si tratta di ascoltare una persona qualunque, ma di ascoltare Gesù. Non si tratta di compiere una cosa qualsiasi, ma di compiere le parole di Gesù.
Costruire su Cristo e con Cristo significa costruire su un fondamento che si chiama amore crocifisso. Vuol dire costruire con Qualcuno che, conoscendoci meglio di noi stessi, ci dice: "Tu sei prezioso ai miei occhi, ...sei degno di stima e io ti amo" (Is 43, 4). Vuol dire costruire con Qualcuno che è sempre fedele, anche se noi manchiamo di fedeltà, perché egli non può rinnegare se stesso (cfr 2 Tm 2, 13). Vuol dire costruire con Qualcuno che si china costantemente sul cuore ferito dell'uomo e dice: "Non ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più" (cfr Gv 8, 11). Vuol dire costruire con Qualcuno, che dall'alto della croce stende le sue braccia, per ripetere per tutta l'eternità: "Io do la mia vita per te, uomo, perché ti amo". Costruire su Cristo vuol dire infine fondare sulla sua volontà tutti i propri desideri, le attese, i sogni, le ambizioni e tutti i propri progetti. Significa dire a se stessi, alla propria famiglia, ai propri amici e al mondo intero e soprattutto a Cristo: "Signore, nella vita non voglio fare nulla contro di Te, perché Tu sai che cosa è il meglio per me. Solo Tu hai parole di vita eterna" (cfr Gv 6, 68). Amici miei, non abbiate paura di puntare su Cristo! Abbiate nostalgia di Cristo, come fondamento della vita! Accendete in voi il desiderio di costruire la vostra vita con Lui e per Lui! Perché non può perdere colui che punta tutto sull'amore crocifisso del Verbo incarnato.
Costruire sulla roccia significa costruire su Cristo e con Cristo, che è la roccia. Nella Prima Lettera ai Corinzi san Paolo, parlando del cammino del popolo eletto attraverso il deserto, spiega che tutti "bevvero ... da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo" (1 Cor 10, 4). I padri del popolo eletto certamente non sapevano che quella roccia era Cristo. Non erano consapevoli di essere accompagnati da Colui il quale, quando sarebbe venuta la pienezza dei tempi, si sarebbe incarnato, assumendo un corpo umano. Non avevano bisogno di comprendere che la loro sete sarebbe stata soddisfatta dalla Sorgente stessa della vita, capace di offrire l'acqua viva per dissetare ogni cuore. Bevvero tuttavia a questa roccia spirituale che è Cristo, perché avevano nostalgia dell'acqua della vita, ne avevano bisogno. In cammino sulle strade della vita, forse a volte non siamo consapevoli della presenza di Gesù. Ma proprio questa presenza, viva e fedele, la presenza nell'opera della creazione, la presenza nella Parola di Dio e nell'Eucaristia, nella comunità dei credenti e in ogni uomo redento dal prezioso Sangue di Cristo, questa presenza è la fonte inesauribile della forza umana. Gesù di Nazaret, Dio che si è fatto Uomo, sta accanto a noi nella buona e nella cattiva sorte e ha sete di questo legame, che è in realtà il fondamento dell'autentica umanità. Leggiamo nell'Apocalisse queste significative parole: "Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3, 20).
Amici miei, che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia significa anche costruire su Qualcuno che è stato rifiutato. San Pietro parla ai suoi fedeli di Cristo come di una "pietra viva rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio" (1 Pt 2, 4). Il fatto innegabile dell'elezione di Gesù da parte di Dio non nasconde il mistero del male, a causa del quale l'uomo è capace di rigettare Colui che lo ha amato sino alla fine. Questo rifiuto di Gesù da parte degli uomini, menzionato da san Pietro, si protrae nella storia dell'umanità e giunge anche ai nostri tempi. Non occorre una grande acutezza di mente per scorgere le molteplici manifestazioni del rigetto di Gesù, anche lì dove Dio ci ha concesso di crescere. Più volte Gesù è ignorato, è deriso, è proclamato re del passato, ma non dell'oggi e tanto meno del domani, viene accantonato nel ripostiglio di questioni e di persone di cui non si dovrebbe parlare ad alta voce e in pubblico. Se nella costruzione della casa della vostra vita incontrate coloro che disprezzano il fondamento su cui voi state costruendo, non vi scoraggiate! Una fede forte deve attraversare delle prove. Una fede viva deve sempre crescere. La nostra fede in Gesù Cristo, per rimanere tale, deve spesso confrontarsi con la mancanza di fede degli altri.
Cari amici, che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire essere consapevoli che si avranno delle contrarietà. Cristo dice: "Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono sulla casa..." (Mt 7, 25). Questi fenomeni naturali non sono soltanto l'immagine delle molteplici contrarietà della sorte umana, ma ne indicano anche la normale prevedibilità. Cristo non promette che su una casa in costruzione non cadrà mai un acquazzone, non promette che un'onda rovinosa non travolgerà ciò che per noi è più caro, non promette che venti impetuosi non porteranno via ciò che abbiamo costruito a volte a prezzo di enormi sacrifici. Cristo comprende non solo l'aspirazione dell'uomo ad una casa duratura, ma è pienamente consapevole anche di tutto ciò che può ridurre in rovina la felicità dell'uomo. Non vi meravigliate dunque delle contrarietà, qualunque esse siano! Non vi scoraggiate a motivo di esse! Un edificio costruito sulla roccia non equivale ad una costruzione sottratta al gioco delle forze naturali, iscritte nel mistero dell'uomo. Aver costruito sulla roccia significa poter contare sulla consapevolezza che nei momenti difficili c'è una forza sicura su cui fare affidamento.
Amici miei, consentitemi di insistere: che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Vuol dire costruire con saggezza. Non senza un motivo Gesù paragona coloro che ascoltano le sue parole e le mettono in pratica a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. È stoltezza, infatti, costruire sulla sabbia, quando si può farlo sulla roccia, avendo così una casa in grado di resistere ad ogni bufera. È stoltezza costruire la casa su un terreno che non offre le garanzie di reggere nei momenti più difficili. Chissà, forse è anche più facile fondare la propria vita sulle sabbie mobili della propria visione del mondo, costruire il proprio futuro lontano dalla parola di Gesù, e a volte perfino contro di essa. Resta tuttavia che chi costruisce in questo modo non è prudente, perché vuol persuadere se stesso e gli altri che nella sua vita non si scatenerà alcuna tempesta, che nessuna onda colpirà la sua casa. Essere saggio significa sapere che la solidità della casa dipende dalla scelta del fondamento. Non abbiate paura di essere saggi, cioè non abbiate paura di costruire sulla roccia!
Amici miei, ancora una volta: che cosa vuol dire costruire sulla roccia? Costruire sulla roccia vuol dire anche costruire su Pietro e con Pietro. A lui infatti il Signore disse: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa" (Mt 16, 16). Se Cristo, la Roccia, la pietra viva e preziosa, chiama il suo Apostolo pietra, significa che egli vuole che Pietro, e insieme a lui la Chiesa intera, siano segno visibile dell'unico Salvatore e Signore. Qui, a Cracovia, la città prediletta del mio Predecessore Giovanni Paolo II, le parole sul costruire con Pietro e su Pietro non stupiscono certo nessuno. Perciò vi dico: non abbiate paura a costruire la vostra vita nella Chiesa e con la Chiesa! Siate fieri dell'amore per Pietro e per la Chiesa a lui affidata. Non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa! C'è un'unica roccia sulla quale vale la pena di costruire la casa. Questa roccia è Cristo. C'è solo una pietra su cui vale la pena di poggiare tutto. Questa pietra è colui a cui Cristo ha detto: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa" (Mt 16, 18). Voi giovani avete conosciuto bene il Pietro dei nostri tempi. Perciò non dimenticate che né quel Pietro che sta osservando il nostro incontro dalla finestra di Dio Padre, né questo Pietro che ora sta dinanzi a voi, né nessun Pietro successivo sarà mai contro di voi, né contro la costruzione di una casa durevole sulla roccia. Anzi, impegnerà il suo cuore ed entrambe le mani nell'aiutarvi a costruire la vita su Cristo e con Cristo.
Cari amici, meditando le parole di Cristo sulla roccia come fondamento adeguato per la casa, non possiamo non rilevare che l'ultima parola è una parola di speranza. Gesù dice che, nonostante lo scatenarsi degli elementi, la casa non è crollata, perché era fondata sulla roccia. In questa sua parola c'è una straordinaria fiducia nella forza del fondamento, la fede che non teme smentite perché confermata dalla morte e risurrezione di Cristo. Questa è la fede che, dopo anni, verrà confessata da san Pietro nella sua lettera: "Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso" (1 Pt 2, 6). Certamente "Non resterà confuso...". Cari giovani amici, la paura dell'insuccesso può a volte frenare perfino i sogni più belli. Può paralizzare la volontà e rendere incapaci di credere che possa esistere una casa costruita sulla roccia. Può persuadere che la nostalgia della casa è soltanto un desiderio giovanile e non un progetto per la vita. Insieme a Gesù dite a questa paura: "Non può cadere una casa fondata sulla roccia"! Insieme con san Pietro dite alla tentazione del dubbio: "Chi crede in Cristo non resterà confuso!". Siate testimoni della speranza, di quella speranza che non teme di costruire la casa della propria vita, perché sa bene di poter contare sul fondamento che non crollerà mai: Gesù Cristo nostro Signore.
(Papa Benedetto, Discorso ai giovani Cracovia 27 maggio 2006)
Come le radici dell’albero lo tengono saldamente piantato nel terreno, così le fondamenta danno alla casa una stabilità duratura. Mediante la fede, noi siamo fondati in Cristo (cfr Col 2,7), come una casa è costruita sulle fondamenta. Nella storia sacra abbiamo numerosi esempi di santi che hanno edificato la loro vita sulla Parola di Dio. Il primo è Abramo. Il nostro padre nella fede obbedì a Dio che gli chiedeva di lasciare la casa paterna per incamminarsi verso un Paese sconosciuto. “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio” (Gc 2,23). Essere fondati in Cristo significa rispondere concretamente alla chiamata di Dio, fidandosi di Lui e mettendo in pratica la sua Parola. Gesù stesso ammonisce i suoi discepoli: “Perché mi invocate: «Signore, Signore!» e non fate quello che dico?” (Lc 6,46). E, ricorrendo all’immagine della costruzione della casa, aggiunge: “Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica… è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene” (Lc 6,47-48).
Cari amici, costruite la vostra casa sulla roccia, come l’uomo che “ha scavato molto profondo”. Cercate anche voi, tutti i giorni, di seguire la Parola di Cristo. Sentitelo come il vero Amico con cui condividere il cammino della vostra vita. Con Lui accanto sarete capaci di affrontare con coraggio e speranza le difficoltà, i problemi, anche le delusioni e le sconfitte. Vi vengono presentate continuamente proposte più facili, ma voi stessi vi accorgete che si rivelano ingannevoli, non vi danno serenità e gioia. Solo la Parola di Dio ci indica la via autentica, solo la fede che ci è stata trasmessa è la luce che illumina il cammino. Accogliete con gratitudine questo dono spirituale che avete ricevuto dalle vostre famiglie e impegnatevi a rispondere con responsabilità alla chiamata di Dio, diventando adulti nella fede. Non credete a coloro che vi dicono che non avete bisogno degli altri per costruire la vostra vita! Appoggiatevi, invece, alla fede dei vostri cari, alla fede della Chiesa, e ringraziate il Signore di averla ricevuta e di averla fatta vostra!
[Papa Benedetto, Messaggio GMG 2011]
3. Che cosa Cristo, dice in proposito, nella pagina dell’odierno Vangelo? Terminando il discorso della montagna, disse: “chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7, 24-25). L’opposto di colui che costruì sulla roccia è l'uomo che costruì sulla sabbia. La sua costruzione si dimostrò poco resistente. Di fronte alle prove e alle difficoltà crollò. Cristo ci insegna questo.
Una casa costruita sulla roccia. L'edificio della vita. Come costruirlo affinché non crolli sotto la pressione degli avvenimenti di questo mondo? Come costruire questo edificio perché da ”abitazione sulla terra” diventi un’”abitazione ricevuta da Dio?, una dimora eterna nei cieli non costruita da mani di uomo” (cfr. 2 Cor 5, 1)? Oggi udiamo la risposta a questi interrogativi essenziali della fede: alla base della costruzione cristiana c’è l’ascolto e il compimento della parola di Cristo. E dicendo “la parola di Cristo” abbiamo in mente non soltanto il suo insegnamento, le parabole, le promesse, ma anche le sue opere, i segni, i miracoli. E soprattutto la sua morte, la risurrezione e la discesa dello Spirito Santo. Più ancora: abbiamo in mente il Figlio di Dio stesso, l’eterno Verbo del Padre, nel mistero dell’incarnazione. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14).
[Papa Giovanni Paolo II, Biskupia Góra (Pelplin), 6 giugno 1999]
Fondare la propria vita «sulla roccia di Dio» e sulla «concretezza» dell’agire e del donarsi, piuttosto che «sulle apparenze o sulla vanità» o sulla cultura corrotta delle «raccomandazioni». È l’indicazione che Papa Francesco ha suggerito — durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 6 dicembre — per vivere coerentemente il cammino dell’Avvento.
Linee guida semplici e impegnative al tempo stesso, che il Pontefice ha ricavato dalle letture del giorno, nelle quali s’incontrano tre significativi gruppi di parole contrapposte: «dire e fare», «sabbia e roccia», «alto e basso».
Riguardo al primo gruppo — «dire e fare» — il Pontefice ha richiamato immediatamente le parole del Vangelo di Matteo (7, 21): «Non chiunque mi dica “Signore, Signore” entrerà nel regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre». E ha spiegato: «Si entra nel regno dei cieli, si matura spiritualmente, si va avanti nella vita cristiana con il fare, non con il dire». Infatti «il dire è un modo di credere, ma a volte molto superficiale, a metà cammino»: come quando «io dico che sono cristiano ma non faccio le cose del cristiano». È una sorta di «truccarsi», perché «dire soltanto, è un trucco», è «dire senza fare».
Invece «la proposta di Gesù è concretezza». E così, «quando qualcuno si avvicinava e chiedeva consiglio», lui proponeva «sempre cose concrete». Del resto, ha aggiunto il Papa, «le opere di misericordia sono concrete». E ancora: «Gesù non ha detto: “Ma vai a casa tua e pensa ai poveri, pensa ai carcerati, pensa agli ammalati”: no. Vai: visitali».
Ecco la contrapposizione tra il fare e il dire. Necessaria da evidenziare perché «tante volte noi scivoliamo, non solo personalmente ma socialmente, sulla cultura del dire». A tale riguardo Francesco ha indicato una pratica purtroppo diffusa, quella legata alla «cultura delle raccomandazioni». Accade, per esempio, che per un concorso all’università venga scelto «uno che non ha quasi meriti» rispetto a tanti bravi professori; «e se si domanda: “Ma perché questo? E questi altri bravi..?” – “Perché questo è stato raccomandato da un cardinale, lei sa... i pesci grossi...”». Questo il commento del Papa: «Io non voglio pensare male, ma sotto il tavolo di una raccomandazione sempre c’è una busta». Si tratta solo di un esempio del prevalere del “dire”: «non sono i meriti, non è il fare quello che ti fa andare avanti, no: è il dire. Truccarsi la vita». Ed è proprio «una delle contraddizioni che la liturgia di oggi ci insegna: fare, non dire». Addirittura, ha spiegato il Papa chiudendo questa prima parte della riflessione, «Gesù consiglia» di «fare senza dire: quando dai l’elemosina, quando preghi... di nascosto, senza dirlo. Fare, non dire».
Il secondo confronto rimanda a un’immagine usata da Gesù nel Vangelo: «un uomo saggio costruisce la sua casa sulla roccia, non sulla sabbia». La parabola ha una sua evidenza: «La sabbia non è solida. E una tempesta, i venti, i fiumi, tante cose, la pioggia fanno cadere una casa costruita sulla sabbia. La sabbia è una concretezza debole». Ha spiegato il Pontefice: «La sabbia è conseguenza del dire: io mi trucco, come cristiano, mi costruisco una vita ma senza fondamenti. La vanità, la vanità è dire tante cose, o farmi vedere senza fondamento, sulla sabbia». Bisogna invece «costruire sulla roccia». A tale riguardo il Papa ha invitato a cogliere la bellezza della prima lettura del giorno, tratta da Isaia (26, 1-6), dove si legge: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna».
È una contrapposizione strettamente legata a quella tra il dire e il fare, perché «tante volte, chi confida nel Signore non appare, non ha successo, è nascosto... ma è saldo. Non ha la sua speranza nel dire, nella vanità, nell’orgoglio, negli effimeri poteri della vita», ma si affida al Signore, «la roccia». Ha spiegato Francesco: «La concretezza della vita cristiana ci fa andare avanti e costruire su quella roccia che è Dio, che è Gesù; sul solido della divinità. Non sulle apparenze o sulla vanità, l’orgoglio, le raccomandazioni... No. La verità».
Infine il «terzo gruppo», dove si fronteggiano i concetti di «alto e basso». È ancora il brano di Isaia a guidare la meditazione: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto, ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo. I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri». È un passo, ha fatto notare il Pontefice, che ricorda il «canto della Madonna, del Magnificat: il Signore alza gli umili, quelli che sono nella concretezza di ogni giorno, e abbatte i superbi, quelli che hanno costruito la loro vita sulla vanità, l’orgoglio... questi non durano». E l’espressione, ha sottolineato Francesco, «è molto forte, anche nel Magnificat si usa “ha rovesciato”, e anche più forte: quella grande città bella è calpestata. Da chi? Dai piedi degli oppressi e dai passi dei poveri». Cioè, il Signore «esalta i poveri, esalta gli umili».
La categoria di «alto e basso», ha aggiunto il Papa a commento, viene usata anche da Gesù, ad esempio, quando «parla di satana: “Io ho visto satana cadere dall’alto del cielo». Ed è l’espressione di un «giudizio definitivo sugli orgogliosi, sui vanitosi, su quelli che si vantano di essere qualcosa ma sono pura aria».
Concludendo l’omelia, Francesco ha invitato ad accompagnare il tempo di Avvento con la riflessione su «questi tre gruppi di parole che contrastano una con l’altra. Dire o fare? Io sono cristiano del dire o del fare? Sabbia e roccia: io costruisco la mia vita sulla roccia di Dio o sulla sabbia della mondanità, della vanità? Alto e basso: io sono umile, cerco di andare sempre dal basso, senza orgoglio, e così servire il Signore?». Sarà di aiuto rispondere a tali domande; e, ha aggiunto, anche prendere il Vangelo di Luca e pregare «con il canto della Madonna, con il Magnificat, che è un riassunto di questo messaggio di oggi».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 6 dicembre 2018]
Moltiplicazione per Divisione, nell’itineranza
(Mt 15,29-37)
«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150).
Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto (v.32).
Tuttavia la sua soluzione non ci sorvola - semplicemente asciugando lacrime o cancellando le umiliazioni.
Invita a utilizzare ciò che abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna che spostando le energie si creano risultati prodigiosi.
Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo ‘viator’ - essere di passaggio, sua impronta essenziale - e condividendo i beni.
La nostra reale nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza, «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione (FT n.152).
Non solo quel poco che rechiamo con noi basterà a saziarci, ma avanzerà per altri e con identica pienezza di verità, umana, epocale (vv.34.37).
In Mt Gesù è il nuovo Mosè che sale su ‘il Monte’, ma per inaugurare un Tempo alternativo, che contrassegna la storia vera; dei rapporti autentici.
La gente non rimane più a fondovalle ad aspettare: si riunisce intorno a Lui, giungendo così com’è, col carico dei tanti bisogni differenti.
Il nuovo popolo di Dio non è una folla stanziale, di eletti, scelti, puri.
Ognuno reca con sé il suo percorso, i suoi affanni e problemi, che il Signore guarisce - curando non con una soluzione dal di sopra o dal di fuori.
Insomma: un altro mondo è possibile, però attraverso lo spezzare il proprio [anche misero] ‘pane’.
Soluzione sapiente, ininterrotta, efficace… se la si fa emergere da ‘dentro’, e in cammino - e stando «in mezzo» - non davanti, non a capo, non “in alto” (v.36).
Il luogo della Rivelazione di Dio doveva essere quello dei fulmini, su un ‘monte’ fumante come di fornace (Es 19,18)... ma infine persino lo zelo violento di Elia aveva dovuto ricredersi (1Re 19,12).
Anche ai pagani, il Figlio rivela un Padre il quale non semplicemente cancella le infermità, ma le fa capire come luogo che sta preparando uno sviluppo personale, e quello della Comunità.
S’immaginava che nei tempi del Messia, zoppi, sordi e ciechi sarebbero scomparsi (Is 35,5ss.). «Età dell’oro»: tutto al vertice, nessun abisso.
In Gesù - Pane distribuito - si manifesta una pienezza dei tempi inconsueta, apparentemente nebulosa e fragile, ma reale e in grado di riavviare persone e relazioni.
L’Incarnazione ci ritessere il cuore, in dignità e promozione; e si dispiega realmente, perché non solo trascina via gli ostacoli, ma poggia su di essi.
E non li cancella affatto: così li surclassa, ma trasmutando - ponendo nuova vita.
Linfa che trae succo e germoglia Fiori dall’unico terreno melmoso e fecondo, e li comunica.
Solidarietà cui sono invitati tutti, non solo quelli ritenuti in condizione di perfezione e compattezza.
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte, poste nelle mani del Figlio e dinamizzate (v.36).
Le stesse cadute possono essere un segnale prezioso: in Cristo, non sono più umiliazioni riduttive, bensì indicatori di percorso.
Forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse.
Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite [differenti, non confezionate].
[Mercoledì 1.a sett. Avvento, 4 dicembre 2024]
«Too pure water has no fish». Accepting ourselves will complete us: it will make us recover the co-present, opposite and shadowed sides. It’s the leap of profound Faith. And seems incredible, but the Rock on which we build the way of being believers is Freedom
«L’acqua troppo pura non ha pesci». Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda. Sembra incredibile, ma la Roccia sulla quale edifichiamo il modo di essere credenti è la Libertà
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
Starting from his simple experience, the centurion understands the "remote" value of the Word and the magnet effect of personal Faith. The divine Face is already within things, and the Beatitudes do not create exclusions: they advocate a deeper adhesion, and (at the same time) a less strong manifestation
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della Fede personale. Il Cospetto divino è già dentro le cose, e le Beatitudini non creano esclusioni: caldeggiano un’adesione più profonda, e (insieme) una manifestazione meno forte
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that "roar of the sea and the waves" Coming, where no wave resembles the others.
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «fragore del mare e dei flutti» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre.
The words of his call are entrusted to our apostolic ministry and we must make them heard, like the other words of the Gospel, "to the end of the earth" (Acts 1:8). It is Christ's will that we would make them heard. The People of God have a right to hear them from us [Pope John Paul II]
Queste parole di chiamata sono affidate al nostro ministero apostolico e noi dobbiamo farle ascoltare, come le altre parole del Vangelo, «fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). E' volontà di Cristo che le facciamo ascoltare. Il Popolo di Dio ha diritto di ascoltarle da noi [Papa Giovanni Paolo II]
don Giuseppe Nespeca
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