don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 22 Settembre 2025 13:19

26a Domenica T.O. (anno C)

XXVI Domenica Tempo Ordinario (anno C)  [28 Settembre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Prosegue l’insegnamento sulla ricchezza e il rapporto con i poveri, campo quanto mai utile per la nostra riflessione di fronte alle grandi e piccole ingiustizie che la cronaca quotidianamente ci mostra.

 

Prima Lettura dal libro del profeta Amos (6, 1a. 4-7)

Nella Bibbia, Amos è il primo profeta “scrittore”, cioè il primo di cui ci è rimasto un libro. Altri grandi profeti anteriori sono rimasti molto celebri: Elia, ad esempio, o Eliseo, o Natan… ma non possediamo le loro predicazioni scritte, bensì soltanto ricordi tramandati dal loro ambiente. Amos ha predicato verso il 780-750 a.C. e di certo ha dovuto dire cose che non sono piaciute a tutti, visto che alla fine fu espulso per denuncia al re.  Originario del Sud, ha predicato nel Nord in un periodo di grande prosperità economica. La settimana scorsa avevamo già letto un suo testo, in cui rimproverava alcuni ricchi di costruire la loro ricchezza a spese dei poveri il passo di oggi lascia immaginare il lusso che regnava a Samaria: “Distesi su letti d’avorio… mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla…canterellano al suono dell’arpa come Davide e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano”. I governanti non sanno o non vogliono sapere che una terribile minaccia pesa su di loro: “della rovina di Giuseppe non si preoccupano”. Saranno poi deportati, anzi saranno i primi dei deportati e la banda dei gaudenti non esisterà più. Non si è ascoltato questo profeta di sventura che cercava di avvertire il potere e la classe dirigente, anzi lo si è fatto tacere liberandosi di lui. Ma ciò che temeva, si è avverato. Amos dunque si rivolge qui ai ricchi e ai potenti, ai responsabili. Che cosa rimprovera loro precisamente? È la prima frase a darci la chiave: “Guai a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria”. In altre parole: siete comodi, soddisfatti del vostro benessere e persino del vostro lusso… ebbene, io vi compiango perché non avete capito nulla: siete come gente che si infila sotto le coperte per non vedere arrivare il ciclone e  crollerà tutta questa società, pochi anni più tardi schiacciata dagli Assiri, con molti morti mentre i superstiti saranno deportati. Guai a quelli che si credono sicuri sulla montagna di Samaria”… Ma che fanno di male? Il male è fondare la propria sicurezza su ciò che passa: qualche successo militare effimero, la prosperità economica e le apparenze della pietà… per non dispiacere a Dio e al suo profeta. Si vantano persino dei loro successi, credono di averne qualche merito, mentre tutto viene da Dio. Ora, l’unica sicurezza d’Israele è la fedeltà all’Alleanza. Questa è la grande insistenza di tutti i profeti come farà Michea predicando qualche anno più tardi a Gerusalemme. A Samaria regnava l’ipocrisia: quando offrono sacrifici, trasformano il banchetto che segue in gozzoviglia… perché i pasti che Amos descrive sono probabilmente pasti sacri, come quelli che seguivano certi sacrifici. Pasti sacrileghi dunque che nulla hanno a che fare con l’Alleanza. La difficoltà di questo passo sta nella sua concisione: infatti, per comprenderlo, bisogna avere in mente l’insieme della predicazione profetica; la logica di Amos, come quella di tutti i profeti, è la seguente: la felicità degli uomini e dei popoli passa inevitabilmente attraverso la fedeltà all’Alleanza con Dio; e fedeltà all’Alleanza significa giustizia sociale e fiducia in Dio e se ci si distacca da questi due punti ci si perde. Di questo Amos sta parlando e basta rileggere il testo della scorsa domenica, in cui rimproverava ai ricchi di arricchirsi sulle spalle dei poveri. Nel testo di oggi, i banchetti di lusso descritti non giovano ovviamente a tutti e non si sente più il bisogno di Dio. Dirà anche Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13). Samaria si copriva di palazzi lussuosi, costruiti da alcuni a spese degli altri; una volta arricchitisi, grazie al commercio fiorente si faceva presto a espropriare un piccolo proprietario riducendo alcuni più poveri in schiavitù come nel testo di domenica scorsa. L’archeologia porta inoltre su questo punto precisazioni interessanti: mentre nel decimo secolo le case erano tutte sullo stesso modello e rappresentavano livelli di vita del tutto identici, nell’ottavo secolo, al contrario, si distinguono chiaramente quartieri ricchi e quartieri poveri.

 

*Salmo responsoriale (145/146, 6c.7, 8.9a, 9bc-10)

Questa splendida litania è solo una parte del Salmo 145/146 e la liturgia oggi non propone gli Alleluia che lo incorniciano nel testo ebraico essendo un Salmo alleluiatico. Questo significa che ci troviamo, come domenica scorsa, davanti a un salmo di lode. A parlare in questo salmo sono gli oppressi, gli affamati, i ciechi, i piegati, gli stranieri, le vedove, gli orfani che riconoscono la sollecitudine di Dio per loro. In realtà, è il popolo d’Israele che parla di se stesso: è la propria storia che racconta e ringrazia per la protezione di Dio avendo conosciuto tutte queste situazioni: l’oppressione in Egitto, dalla quale Dio lo ha liberato con mano potente e braccio teso e l’oppressione a Babilonia dove ancora una volta Dio è intervenuto. Ha conosciuto la fame nel deserto e Dio ha mandato la manna e le quaglie. A questi ciechi Dio apre gli occhi rivelandosi progressivamente attraverso i suoi profeti. Sono questi piegati che Dio rialza instancabilmente e fa stare in piedi; sono il popolo in cerca di giustizia che Dio guida. È dunque un canto di riconoscenza: Il Signore rende giustizia agli oppressi,  agli affamati dà il pane, libera i prigionieri, apre gli occhi ai ciechi, rialza chi è caduto, ama i giusti, protegge lo straniero e sostiene la vedova e l’orfano. Il Signore, che ritorna in maniera litanica è la traduzione del Nome di Dio in 4 lettere, Il Tetragramma: YHVH, che dice la sua presenza operante e liberatrice. Il versetto che precede quelli di oggi li riassume tutti: “Felice chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe, chi ripone la sua speranza nel Signore (YHVH) suo Dio”: il segreto della felicità è appoggiarsi a Dio e attendere tutto da Lui. Questo salmo è scelto per questa domenica come risposta al testo di Amos che avvertiva la gente di Samaria a ben sapere su chi porre la fiducia, fuggendo le false sicurezze perché solo Dio è degno di fiducia. Riconoscere la nostra dipendenza da Dio e viverla con piena fiducia, perché Egli è totale benevolenza: ecco la definizione della fede e il segreto della felicità, come predicano i profeti.  Non bisogna dimenticare l’esperienza unica di cui i figli d’Israele hanno avuto il privilegio: lungo tutto il loro cammino verso la libertà, hanno sperimentato accanto a sé la presenza di Colui che hanno riconosciuto come il Signore che li ha condotti alla ricerca della libertà e della giustizia per tutti, anzi a più grande giustizia, rispetto e difesa dei piccoli e dei deboli. Se si guarda più da vicino, si constata che la legge d’Israele non ha altro obiettivo: fare di Israele un popolo libero, rispettoso della libertà altrui. Su questo lungo cammino di liberazione Dio conduce il suo popolo. E’ bene per noi rileggere questo salmo non solo per riconoscere ciò che Dio compie a favore del suo popolo, ma anche per darci una linea di condotta: se Dio ha agito così verso Israele, a nostra volta, noi che siamo eredi di questo lungo cammino di Alleanza, siamo tenuti a fare altrettanto per gli altri.

 

*Seconda Lettura dalla prima lettera di san paolo Apostolo a Timoteo (6,11-16)

Non si potrebbe immaginare una sintesi più completa di tutto ciò che costituisce la fede e la vita del cristiano. Allo stesso tempo, sorprende le formule solenni di Paolo: “Davanti a Dio e… a Cristo Gesù, ti ordino”.  A una prima lettura, sembra di percepire gli echi di difficoltà nella comunità di Efeso, dove Timoteo aveva delle responsabilità: “Combatti la buona battaglia della fede”. Poco più sopra, nella stessa lettera, Paolo aveva già parlato del combattimento per la fede nel primo capitolo (1 Tm 1,18-19). C’è dunque un combattimento da affrontare per affermare la propria fede. Il momento è grave, il che spiega il tono solenne: è in gioco la fedeltà della giovane comunità cristiana al proprio Battesimo. Il passo che leggiamo oggi è incorniciato da due testi molto simili che precisano ancora meglio i due pericoli da evitare: le false dottrine e la ricerca delle ricchezze. Bisogna credere che ci fossero problemi reali sulle false dottrine: Timoteo, custodisci il deposito, evita chiacchiere empie e obiezioni di una pseudo-scienza. Per averla professata (sottinteso questa pseudo-scienza), alcuni si sono allontanati dalla fede (cf.1 Tm 6,20-21). E nello stesso senso, pochi versetti più su: Se qualcuno insegna un’altra dottrina, se non si attiene alle parole del Signore Gesù Cristo e alla dottrina conforme alla pietà, è accecato dall’orgoglio. È ignorante, malato, in cerca di controversie e di dispute verbali (1 Tm 6,3-4). Questo problema era già apparso all’inizio della lettera e Paolo aveva raccomandato a Timoteo di rimanere a Efeso (cf.1 Tm 1,3-4) e poi insiste con la stessa forza sul rischio della ricerca delle ricchezze perché la radice di tutti i mali è l’amore del denaro (cf.1 Tm 6,10). Ecco dunque i due peggiori pericoli per la fede agli occhi di Paolo che invita Timoteo a restare aggrappato al suo battesimo. All’epoca di Paolo, i battesimi erano amministrati davanti all’intera comunità e nel rito stesso battesimale la professione di fede era un momento molto importante perché il “sì” del nostro battesimo è radicato nel “sì” di Cristo al Padre e questo “sì”, bisognerà essere capaci di ripeterlo giorno per giorno. Timoteo avrà bisogno di tutte le sue forze ed è per questo che Paolo moltiplica le raccomandazioni perché perseveri nel combattere per la fede per ottenere la vita eterna. Le armi del combattimento sono la fede, l’amore, la perseveranza e la dolcezza che è l’arma principale. Il vero combattimento non ha nulla a che fare con guerre di religione e la storia mostra che le guerre di religione non hanno mai convertito nessuno. L’obiettivo su cui dobbiamo sempre tenere gli occhi fissi è la vita eterna che è anche la manifestazione («epifania») di Cristo. Paolo conclude con una sorta di professione di fede, che è precisamente ciò che Timoteo deve continuare ad affermare contro ogni avversità: “Dio è il beato e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile, nessuno fra gli uomini l’ha mai visto né può vederlo”. Dio è il Tutto-Altro, tema che ritroviamo nell’Antico Testamento: è la trascendenza di Dio, il Tutto Altro che si rende però vicino a noi e al tempo stabilito renderà manifesto il Signore Gesù Cristo.

 

Dal Vangelo secondo Luca (16, 19-31)

L’ultima frase è doppiamente terribile: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”.  Un’affermazione che sembra disperata, come se nulla possa cambiare un cuore di pietra, ed è ancora più terribile sulla bocca di Gesù. Quando infatti Luca scrive il vangelo sapeva bene che la Risurrezione di Cristo non aveva convertito tutti, anzi, aveva indurito ancor più il cuore di alcuni. Passiamo alla storia del ricco epulone e del povero Lazzaro: del ricco non sappiamo molto, nemmeno il nome; non è detto che sia malvagio, anzi, più tardi penserà a salvare i suoi fratelli dalla sventura nell’aldilà. Vive però nel suo mondo così immerso nel suo comfort, come i Samaritani di cui parla Amos nella prima lettura, da non vedere nemmeno il mendicante che muore di fame sulla sua porta e che si accontenterebbe dei suoi avanzi. Il nome del povero è Lazzaro, che significa Dio aiuta, e questo già dice molto: Dio lo aiuta, non perché sia virtuoso, ma semplicemente perché è povero. Questa forse è la prima sorpresa che Gesù riserva ai suoi ascoltatori: questa storia era un noto racconto proveniente dall’Egitto, parla di due personaggi un ricco pieno di peccati e un povero pieno di virtù: giunti nell’aldilà, pesati sulla bilancia, vengono valutate le azioni buone e cattive sia dei ricchi che dei poveri . I buoni, sia ricchi che poveri, erano premiati, mentre i cattivi, ricchi o poveri, puniti.  Anche i rabbini, prima di Gesù, raccontavano storie simili : il ricco era figlio di un pubblicano peccatore mentre il povero un uomo molto devoto; anche loro pesati sulla bilancia e  valutati accuratamente i meriti degli uni e degli altri, il devoto risultava più meritevole del figlio del pubblicano. Gesù sconvolge un po’ questa logica: non calcola i meriti e le buone azioni perché non si dice che Lazzaro sia virtuoso e il ricco cattivo ma constata semplicemente che il ricco è rimasto ricco tutta la vita, mentre il povero è rimasto povero, alla sua porta: ciò significa l’abisso di indifferenza che si è creato tra ricco e povero, semplicemente perché il ricco non ha mai aperto il portone. Altro dettaglio importante nel racconto di Gesù: non è del tutto vero che non sappiamo nulla del ricco, perché ci dice come era vestito: di porpora e lino, chiara allusione ai vestiti dei sacerdoti.Il colore porpora, originariamente colore dei vestiti reali, era diventato dei sommi sacerdoti perché servivano il re del mondo; il lino era il tessuto della tunica del sommo sacerdote. Gesù vuol dire che puoi essere anche il Sommo Sacerdote ma se disprezzi i tuoi fratelli, non meriti il titolo di figli di Abramo. Infatti, Abramo è citato sette volte ed  è certamente una chiave del testo. La domanda di Gesù è: “Chi è veramente figlio di Abramo?” e risponde che se non si ascolta la Legge e i Profeti, se si è indifferenti alla sofferenza dei fratelli, nonsi è figli di Abramo. E va oltre: il povero avrebbe voluto mangiare le briciole del ricco, ma erano piuttosto i cani a leccare le sue piaghe. I cani erano animali impuri… quindi anche se il ricco pio si fosse preso la briga di aprire il portone, sarebbe stato comunque scandalizzato e avrebbe fuggito quell’uomo impuro leccato dai cani… La lezione di Gesù è dunque: Vi preoccupate dei meriti, cercate di rimanere puri, siete orgogliosi di essere discendenti di Abramo… ma dimenticate l’essenziale.. Non servono segni straordinari per convertirsi: basta la Legge con i Profeti e per noi basta il Vangelo: ma occorre viverli!

+ Giovanni D’Ercole

Lunedì, 22 Settembre 2025 05:16

Nostalgie e Desiderio: convulsioni a muso duro

(Lc 9,51-56)

 

Gesù intende operare un bel graffio controcorrente - e per farlo deve battersi: non gli bastava fare carriera “pettinando” le pecore.

Comprende che sono i tornanti e le crisi senza stabilità che producono il Risultato di Dio - quando scende in campo la tenacia della Fede.

Il giovane Rabbi lascia la sua regione per confrontarsi severamente e senza compromessi con la realtà consolidata della città santa - eterno intreccio d’interessi.

Sarà una lotta all’ultimo sangue, perché la posta in gioco è la felicità della gente.

Indurisce il volto senza buonismi [v.51 cf. testo greco] e va, ben sapendo quale crudele impegno si accollava.

Nessuno con la “testa sulle spalle” avrebbe avuto il fegato di esporsi a quel mortale pericolo.

L’opposizione del potere che vuole perpetuarsi è feroce, ma il Figlio di Dio non si lascia schiacciare dalle prudenze.

Il clima con cui inizia il suo Esodo è già pesante, ma non desiste.

Il Signore ancora manda messaggeri [Angeli] «davanti al suo volto» (v.52). Non rinuncia a diffondere l’onda vitale della sua proposta.

Infatti Egli valutava le relazioni spirituali “stabili” del suo tempo assai ambigue: esse accendevano i conflitti interiori - sebbene come oggi spegnessero quelli esterni, smussandoli (solo per un po’).

E nella Persona del Cristo, ‘Apostolo’ è chi tira la situazione in direzione opposta a quella consuetudinaria o fascinosa, disincarnata, sofisticata; comunque esterna.

Creando lo scompiglio che risolve i veri problemi, il Maestro in primis si distacca dal qualunquismo.

Non perché il conflitto si potrà poi “ricondurre”, “gestire”, “aggiustare” - con un diverso vincitore (vv.54-55).

A viso aperto, proprio i bisticci che esplodono serviranno a diradare le nebbie, accendere le anime, generare differenti sentieri (v.56).

Quindi - anche d’improvviso - si creerà la possibilità di mettere insieme forze nuove, risorse inedite e consapevolezze antiche.

 

Il Padre si serve di vie traverse, che s’intersecano e sovrappongono. Per una Genesi di Felicità a tutti i costi, anche a muso duro.

Lasciando uscir fuori il nostro carattere grintoso - non solo nei casi estremi - il Timoniere dell’anima, l’Amico irriducibile, potrà guidare la rotta personale e il viaggio di tutti. Favorendo il raggiungimento di obbiettivi caparbi e liberanti.

Se viceversa la storia fosse già stata scritta e in tal guisa la via permanesse esteriore, le esperienze sarebbero sempre quelle.

La vita non partorirebbe altre forme; solo riduzioni.

E le domesticazioni forzate possono sottrarci la ricchezza celata, rubando il destino personale: questo il vero errore da evitare!

Altrimenti, smarrita l’energia-Persona che porta a destinazione, l’Unicità impallidirebbe nelle mediazioni che ci tengono in ostaggio.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è lo stile della tua testimonianza? Sei indignato, irascibile e furente, o semplicemente deciso?

 

 

[Martedì 26.a sett. T.O.  30 settembre 2025]

Lunedì, 22 Settembre 2025 05:09

Nostalgie e Desiderio: convulsioni a muso duro

Lc 9,51-56 (51-62)

 

Gesù intende operare un bel graffio controcorrente - e per farlo deve battersi: non gli bastava fare carriera “pettinando” le pecore.

Comprende che sono i tornanti e le crisi senza stabilità che producono il Risultato di Dio - quando scende in campo la tenacia della Fede.

Il giovane Rabbi lascia la sua regione per confrontarsi severamente e senza compromessi con la realtà consolidata della città santa - eterno intreccio d’interessi.

Sarà una lotta all’ultimo sangue, perché la posta in gioco è la felicità della gente.

Indurisce il volto senza buonismi [v.51 cf. testo greco] e va, ben sapendo quale crudele impegno si accollava.

Nessuno con la “testa sulle spalle” avrebbe avuto il fegato di esporsi a quel mortale pericolo.

 

L’opposizione del potere religioso e culturale che vuole perpetuare il mondo antico è feroce, ma il Figlio di Dio non si lascia schiacciare dal modo di concepire dominante e corrivo, né dalle prudenze.

Il clima con cui inizia il suo Esodo è già pesante, ma non desiste.

Ciò significa che anche noi dobbiamo amare i nostri lati spigolosi e irremovibili. Essi scenderanno in campo a momento opportuno, quando sarà necessario de-cidere.

Nella franchezza, non ci mancherà occasione di fare tagli seri - ad es. col malcostume “bancario” (o qualunquista) coperto di ostentazioni; con le buone maniere della devozione ufficiale [organiche a perpetuarne il sistema ambiguo], così via.

Il Signore ancora manda messaggeri [Angeli] «davanti al suo volto» (v.52). Non rinuncia a diffondere l’onda vitale della sua proposta.

Divino Volto, eccolo in parte ostile; più che risoluto, per uno scontro con quell’istituzione che degradava l'umanità.

Infatti Egli valutava le relazioni spirituali “stabili” del suo tempo assai ambigue: esse accendevano i conflitti interiori - sebbene (come oggi) spegnessero quelli esterni, smussandoli (solo per un po’).

 

Nella Persona del Cristo, Apostolo è chi tira la situazione in direzione opposta a quella consuetudinaria o fascinosa, disincarnata, sofisticata; comunque esterna.

Creando lo scompiglio che risolve i veri problemi, il Maestro in primis si distacca dal qualunquismo.

Non perché il conflitto si potrà poi “ricondurre”, “gestire”, “aggiustare” - con un diverso vincitore (vv.54-55).

Dio non ha bisogno di riaffermarsi, neppure attraverso un leader che faccia sfumare lo stile del vecchio Tempio, sostituendo un metodo di governo con un altro - più o meno purificato e convincente.

Gesù non si presenta al mondo e al cuore di ciascuno come semplice Profeta.

Non vuole rabberciare il ritorno al culto, né la pratica dell’antica religione. Neppure intende tenersi a distanza di sicurezza, lanciando narrazioni a effetto, ammodernate, futuribili, “à la page”.

Sa che solo a viso aperto, proprio i bisticci che esplodono serviranno a diradare le nebbie: accendere le anime, generare differenti sentieri (v.56).

Quindi - anche d’improvviso - si creerà la possibilità di mettere insieme forze nuove, risorse inedite, e - perché no - perfino consapevolezze antiche.

 

Insomma, le mistiche soporifere, da ignavia non militante (distaccate dal perdere e perdersi che ci rigenera) sono false.

Non corrispondono ai Vangeli e non preparano la Venuta del Signore, ossia altri territori da esplorare.

Chi continua a venerare sicurezze, punti di riferimento o nuovi manierismi [in sé pur plausibili (vv.57-62)] non fa che gestire un mondo di morti.

Chi accoglie Cristo deve aprirsi a una Novità che non sa, interna ed esterna; in grado di far emergere aspetti cui ancora non si è dato spazio.

Passando, Gesù viene rifiutato (v.53) proprio perché falsamente annunciato dai suoi. Ancora intimi senza respiro.

Il nuovo Maestro ha una Visione pratica che non riflette uno qualsiasi dei culti arcaici, ma li soppianta.

In tal guisa, Egli sconvolge tutta una impostazione falsamente identitaria: commemorativa e nostalgica, o senza spina dorsale.

 

È l’unico episodio di Lc in cui i samaritani (sinonimo di «eretici») dribblano il Figlio di Dio. Un fallimento completo.

Ciò proprio perché i “messaggeri” che aveva inviato a disporre i cuori lo avevano predicato come Messia nazionalista e trionfatore, non servitore.

Inoltre, in Lui c’è qualcosa di radicalmente insolito - che non si può discutere o combattere in modo ordinario, dottrinale, consueto.

Il Maestro non va in qualche cittadella “santa” a sterilizzare o perpetuare l’antica ideologia settaria e intollerante. Ma a rifiutarla.

Egli incenerisce (vv.54-55) e annienta le configurazioni acclamate, non i popoli allontanati dai recinti (venerandi, fondamentalisti, o ipocriti e scapicollo solo fantasiosi).

Il Signore non procede verso il grande Tempio per scansare le ostilità con una sua proposta perbene, che poi avrebbe fatto ingoiare tutto a tutti.

Il giovane Rabbi non ha mai amato quel tipo di elucubrazioni o attendismo e rimpianto di pii desideri e buone intenzioni che fa deperire l’anima (generazione dopo generazione).

Chi arando un terreno si volge indietro non traccia un solco diritto (v.62).

In modo assai deciso il Maestro si mette nei guai per denunciare quel mondo di schiavitù, deviante e ideologico; incapace di sviluppo.

 

Le nostre alternative al suo atteggiamento spericolato hanno portato ulteriore scollamento tra segni e vita.

Non facciamoci illusione di tappe o domicili intermedi, nidi accalorati e tranquilli (v.58) di pallida consolazione.

La Fede interpella il coraggio, sino alla violenza verso il proprio spontaneo lasciar correre i fastidi e le cose grandi, che tormenterebbero l’irenismo sociale [del posto fisso] con disagi e appelli contromano.

Seccature che però sorprendono e guidano la vita Altrove.

Sollecitazioni per l’Esodo; un nuovo inizio colmo di Desiderio; un differente sapere interno che accende l’esterno; una tolleranza nella diversità vitale dei caratteri.

Invece del solletico di besciamelle, maritozzi con panna, morbide caramelle e manufatti di pasticceria zucchero-e-miele, tutti piacevoli, Dio agisce attraverso convulsioni.

Il Padre si serve di vie traverse, che s’intersecano e sovrappongono. Per una Genesi di Felicità a tutti i costi, anche a muso duro.

Lasciando uscir fuori il nostro carattere grintoso - non solo nei casi estremi - il Timoniere dell’anima, l’Amico irriducibile, potrà guidare la rotta personale e il viaggio di tutti.

Favorendo il raggiungimento di obbiettivi caparbi e liberanti.

 

Per quanto si possa venire condizionati da aspettative circostanti, prima o poi ci si rende conto che il proprio cuore batte altrove, rispetto alle convenzioni.

Non vuole più sottostare; inizia a deviare dall’idea trasmessa d’integrità o cinismo sociale (ed ecclesiale) - che fa rima col perbenismo locale.

Questo capita ad es. anche ai preti, quando si accorgono di essere entrati in un ingranaggio che sacralizza le abitudini e non le fa crescere. O quando avvertono di essere divenuti il perno di pratiche effimere, e ansiogene, invece che liberanti.

Impiegato stagnante e non pastore, situazionalista opportuno e silente invece che missionario; corifeo d’una situazione ereditata col compito di tenere buono il campanile…

In provincia, collocato anche in trincea, ma solo per fare da filtro - a tutela di seccature e affari “centrali”, rispetto a esigenze o pressioni di periferia.

Coglie allora che sta smarrendo se stesso, la propria identità di carattere - il motivo per cui è al mondo.

 

Malgrado le sicurezze materiali, in coscienza sente giungere angosce e frustrazioni (crisi del “personaggio” a modo: segno inequivocabile che non è quella la strada).

Il tedio o l’avversione si affacciano nel suo cuore affinché riazzeri gli stessi malesseri, e si affidi a una solidità ben differente dall’eredità; dallo stallo e retorica delle forze in campo.

C’è un modo diverso di sentirsi vicino alle persone, come Gesù: essere se stessi, affinché anche gli altri siano; avviando tutti su sentieri di libertà interiore.

Libertà che sostiene l’essenza particolare, facendo argine alle modalità costituite, e alla realtà pressante - solo da confermare, anzi benedire (al massimo, riconfezionare).

La Comunione sarà qui una convivialità delle differenze, resa autentica da forze innate.

È lo spazio concesso al Mistero che ci rende indipendenti e fraterni - perché ora deriviamo la nostra attrazione dalla Fonte comune, nascosta ma abbondante.

E quanto avviene ci muove, ma non opprime più, né distrugge la Visione vivente dinanzi agli occhi di ciascuno.

L’obbedienza dell’anima sposa non manca, però diventa relazione immediata col Signore che chiama e guida alla vita piena. Aiutando a riconoscere ciò che istintivamente corrisponde, e distinguendo ciò che non è importante e va lasciato cadere.

Lo sguardo interiore e il Cristo dentro sosterrà, affinché diventiamo autonomi ed elaboriamo un cielo nuovo - i cui lineamenti abbiamo percepito sin dall’inizio. Essi che ci hanno portato a non agire per conservare il mondo antico.

La nostra Eco innata costituirà un tale Richiamo da assumere un potere decisivo su calcoli, timori, angherie, amarezze, persecuzioni.

Il risultato sarà felicemente educativo, anche in favore degli avversari, i quali inizieranno almeno a presumere il senso del nostro andare nel mondo.

A mani aperte - non piene.

 

«Guai a voi, pettinatori di pecore» - direbbe il Pontefice, che volentieri ha aggiunto nei confronti di alcuni responsabili: «Siate padri, non padroni, né prìncipi». E neppure «amministratori di cordate»!

Calcolo e buonsenso porterebbero verso la direzione più sicura e sperimentata, ma il Fuoco vocazionale dentro incessantemente potrà recuperare le istanze del Nucleo ideale. 

Troppo disordine? Come ha ribadito Papa Francesco: «per lo Spirito, il disordine è un bel segno».

L’anima lacerata, che non si riconosce più, se troppo mortificata da banalità accomodanti e mezze scelte, poi ci attacca. Ed essa stessa estremizza le sofferenze.

Lo squilibrio che ne consegue è indizio del riemergere inconscio della voglia di recuperare l’autentica Chiamata; opposta al quietismo programmato.

In tale palude di sommarietà ci siamo forse lasciati trascinare per convenienza - e quest’ultima ci ha spostati da noi stessi, nonché dallo stupore della nostra Opera personale.

La somiglianza a moduli e costumi - anche di banale miglioramento concordato - diventa la prigione del disegno Creatore. Egli voleva condurci verso Lui, in noi stessi.

Viceversa, il ruolo ci ha addomesticati secondo matrici da assorbire acriticamente, sino a far ammalare la nostra essenza.

 

Lo sgomento allora è un allarme: siamo entrati nel “ruolo”. Il batticuore ci provoca; l’affanno viene per riaverci; il panico attacca affinché destiamo.

L’anima vuole così realizzare il nostro Sogno sopito e soffocato. Desiderio che ci cambierebbe la vita.

Esso in noi pretende che scardiniamo le porte serrate della “mansione” - la quale preclude l’unica Felicità: sentirsi stabiliti nel proprio Centro.

Ogni schema (acquisito o alla moda) infastidisce i mondi da scoprire, deforma l’immagine della nostra destinazione; violenta il viaggio verso la dimora ch’è nostra, per farla diventare “uguale”, quindi fittizia.

Allora un carattere squilibrato, introverso, irascibile e pauroso incontra forse meglio di altri i sogni che non sapeva, le immagini-guida che nascondono un compito altrove configurato, e il meglio di sé, del Mistero stesso.

Risanare, “mettere le cose a posto” e “ottimizzare” sono i tipici luoghi comuni di un mondo stagnante. Così il non confrontarsi; riparare ed equilibrare.

Bisogna invece Rinascere, non tornare come prima, nella comune resilienza.

L’attenzione deve andare sull’energia che ci partorisce di nuovo, sulla strada sconosciuta che si spalanca e non avevamo pensato.

 

Nessuno ci rovina, sebbene ne avesse l’intenzione.

Piuttosto, siamo sollecitati a tirar fuori le risorse celate, scoperchiando il mondo ancora nascosto.

Aprendo una storia tutta singolare, che cambierà l’esistenza abitudinaria.

Una mente tranquilla non proietta oltre, perché ama la ripetizione e le finte sicurezze d’un tempo.

L’idea non duale non ci lascia scoprire le forze interiori. L’anima invece vuol dare origine, esprimere la sua potenza creativa.

Le situazioni inaudite e le relazioni impreviste la pongono sotto assedio, ma in uno stato di gestazione - non prima “segnata”.

Chi non abbandona la strada già battuta, chi non se la mette alle spalle (anche cogliendo l’occasione di condizioni avverse come la crisi globale) si costringe in una catena causa-effetto la quale non fa balzi esponenziali.

Se la storia è già stata scritta e la via permane esteriore, le esperienze sono sempre quelle.

 

La vita non partorisce altre forme; solo riduzioni.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è lo stile della tua testimonianza?

Sei indignato, irascibile e furente, o semplicemente deciso?

Lunedì, 22 Settembre 2025 05:05

Libertà

Le Letture bibliche […] ci invitano a meditare su un tema affascinante, che si può riassumere così: libertà e sequela di Cristo. L'evangelista Luca narra che Gesù, "mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme" (Lc 9, 51). Nell'espressione "decisamente" possiamo intravedere la libertà di Cristo. Egli infatti sa che a Gerusalemme lo attende la morte di croce, ma in obbedienza alla volontà del Padre offre se stesso per amore. È in questa sua obbedienza al Padre che Gesù realizza la propria libertà come consapevole scelta motivata dall'amore. Chi è libero più di Lui che è l'Onnipotente? Egli però non ha vissuto la sua libertà come arbitrio o come dominio. L'ha vissuta come servizio. In questo modo ha "riempito" di contenuto la libertà, che altrimenti rimarrebbe "vuota" possibilità di fare o di non fare qualcosa. Come la vita stessa dell'uomo, la libertà trae senso dall'amore. Chi infatti è più libero? Chi si riserva tutte le possibilità per paura di perderle, oppure chi si spende "decisamente" nel servizio e così si ritrova pieno di vita per l'amore che ha donato e ricevuto?

L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani della Galazia, nell’attuale Turchia, dice: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri" (Gal 5,13). Vivere secondo la carne significa seguire la tendenza egoistica della natura umana. Vivere secondo lo Spirito invece è lasciarsi guidare nelle intenzioni e nelle opere dall’amore di Dio, che Cristo ci ha donato. La libertà cristiana è dunque tutt’altro che arbitrarietà; è sequela di Cristo nel dono di sé sino al sacrificio della Croce. Può sembrare un paradosso, ma il culmine della sua libertà il Signore l’ha vissuto sulla croce, come vertice dell’amore. Quando sul Calvario gli gridavano: "Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce!", egli dimostrò la sua libertà di Figlio proprio rimanendo su quel patibolo per compiere fino in fondo la volontà misericordiosa del Padre. Questa esperienza l’hanno condivisa tanti altri testimoni della verità: uomini e donne che hanno dimostrato di rimanere liberi anche in una cella di prigione e sotto le minacce della tortura. "La verità vi farà liberi". Chi appartiene alla verità, non sarà mai schiavo di nessun potere, ma saprà sempre liberamente farsi servo dei fratelli.

Guardiamo a Maria Santissima. Umile ancella del Signore, la Vergine è modello di persona spirituale, pienamente libera perché immacolata, immune dal peccato e tutta santa, dedita al servizio di Dio e del prossimo. Con la sua materna premura ci aiuti a seguire Gesù, per conoscere la verità e vivere la libertà nell’amore.

[Papa Benedetto, Angelus 1 luglio 2007]

La rivelazione cristiana parla di un compimento che l'uomo è chiamato a realizzare nel corso di un'unica esistenza sulla terra. Questo compimento del proprio destino l'uomo lo raggiunge nel dono sincero di sé, un dono che è reso possibile soltanto nell'incontro con Dio. È in Dio, pertanto, che l'uomo trova la piena realizzazione di sé: questa è la verità rivelata da Cristo. L'uomo compie se stesso in Dio, che gli è venuto incontro mediante l'eterno suo Figlio. Grazie alla venuta di Dio sulla terra, il tempo umano, iniziato nella creazione, ha raggiunto la sua pienezza. « La pienezza del tempo », infatti, è soltanto l'eternità, anzi Colui che è eterno, cioè Dio. Entrare nella « pienezza del tempo » significa dunque raggiungere il termine del tempo ed uscire dai suoi confini, per trovarne il compimento nell'eternità di Dio.

[Papa Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente n.9]

Nel Vangelo di oggi (cfr Lc 9,51-62), San Luca dà inizio al racconto dell’ultimo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che si chiuderà al capitolo 19. È una lunga marcia non solo geografica e spaziale, ma spirituale e teologica verso il compimento della missione del Messia. La decisione di Gesù è radicale e totale, e quanti lo seguono sono chiamati a misurarsi con essa. L’Evangelista ci presenta oggi tre personaggi – tre casi di vocazione, potremmo dire – che mettono in luce quanto è richiesto a chi vuole seguire Gesù fino in fondo, totalmente.

Il primo personaggio Gli promette: «Ti seguirò dovunque tu vada» (v. 57). Generoso! Ma Gesù risponde che il Figlio dell’uomo, a differenza delle volpi che hanno le tane e degli uccelli che hanno i nidi, «non ha dove posare il capo» (v. 58). La povertà assoluta di Gesù. Gesù, infatti, ha lasciato la casa paterna e ha rinunciato ad ogni sicurezza per annunciare il Regno di Dio alle pecore perdute del suo popolo. Così Gesù ha indicato a noi suoi discepoli che la nostra missione nel mondo non può essere statica, ma è itinerante. Il cristiano è un itinerante. La Chiesa per sua natura è in movimento, non se ne sta sedentaria e tranquilla nel proprio recinto. È aperta ai più vasti orizzonti, inviata - la Chiesa è inviata! -  a portare il Vangelo per le strade e raggiungere le periferie umane ed esistenziali. Questo è il primo personaggio.

Il secondo personaggio che Gesù incontra riceve direttamente da Lui la chiamata, però risponde: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre» (v. 59). È una richiesta legittima, fondata sul comandamento di onorare il padre e la madre (cfr Es 20,12). Tuttavia Gesù replica: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (v. 60). Con queste parole, volutamente provocatorie, Egli intende affermare il primato della sequela e dell’annuncio del Regno di Dio, anche sulle realtà più importanti, come la famiglia. L’urgenza di comunicare il Vangelo, che spezza la catena della morte e inaugura la vita eterna, non ammette ritardi, ma richiede prontezza e disponibilità. Dunque, la Chiesa è itinerante, e qui la Chiesa è decisa, agisce in fretta, sul momento, senza aspettare.

Il terzo personaggio vuole anch’egli seguire Gesù ma a una condizione: lo farà dopo essere andato a congedarsi dai parenti. E questo si sente dire dal Maestro: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (v. 62). La sequela di Gesù esclude rimpianti e sguardi all’indietro, ma richiede la virtù della decisione.

La Chiesa, per seguire Gesù, è itinerante, agisce subito, in fretta, e decisa. Il valore di queste condizioni poste da Gesù – itineranza, prontezza e decisione – non sta in una serie di “no” detti a cose buone e importanti della vita. L’accento, piuttosto, va posto sull’obiettivo principale: diventare discepolo di Cristo! Una scelta libera e consapevole, fatta per amore, per ricambiare la grazia inestimabile di Dio, e non fatta come un modo per promuovere sé stessi. È triste questo! Guai a coloro che pensano di seguire Gesù per promuoversi, cioè per fare carriera, per sentirsi importanti o acquisire un posto di prestigio. Gesù ci vuole appassionati di Lui e del Vangelo. Una passione del cuore che si traduce in gesti concreti di prossimità, di vicinanza ai fratelli più bisognosi di accoglienza e di cura. Proprio come Lui stesso ha vissuto.

La Vergine Maria, icona della Chiesa in cammino, ci aiuti a seguire con gioia il Signore Gesù e ad annunciare ai fratelli, con rinnovato amore, la Buona Notizia della salvezza.

[Papa Francesco, Angelus 30 giugno 2019]

Domenica, 21 Settembre 2025 06:16

Dall’antico sogno alla relazione incarnata

Scetticismo, Fede, carattere

(Gv 1,47-51)

 

Le persone si convincono con l’incontro, il vedere e sperimentare, non imponendo. Però il progetto dell’Eterno ci spiazza.

Testimonianza e condivisione conducono a Cristo, ma non bastano - perché il suo disegno non è come la gente immagina o si propone, come attende e desidera che sia.

All’Annuncio entusiasta, Natanaele risponde con uno scetticismo preconcetto che ci rappresenta: cosa può uscire di buono dalle periferie più insignificanti (v.46)?

Come mai la soluzione alle nostre aspettative non viene da luoghi deputati [Giudea]?

L’incontro personale con Gesù e l’ascolto della sua Parola vincono ogni ostacolo, sino a una esplicita e convinta professione di Fede.

E come Natanaele, chi consacra la vita allo studio delle Scritture trova in esse Cristo stesso (vv.45.48-49).

In un primo tempo forse ci siamo accostati anche noi al Figlio di Dio immaginando che avesse gli attributi di Re d’un popolo eletto (v.49).

Poi la consuetudine con la Persona e l’esperienza vitale [«Vieni a vedere»: senso dell’espressione semitica base del v.46] ci ha mostrato una Relazione col Cielo assai più ampia (vv.50-51).

Nel percorrere la Via che il Messia inatteso propone, si coglie la convergenza del movimento di Dio verso gli uomini e il nostro anelito a Lui.

È la realizzazione (e il superamento) dell’antico sogno di Giacobbe.

 

Chi insegue preconcetti resta a prendere il fresco sotto l’albero di fichi (cf.v.48), ossia rimane legato all’antica religione [i rabbini insegnavano le Scritture antiche sedendo sotto gli alberi; il fico era simbolo d’Israele].

«Israelita senza inganno» (v.47): ciascuno lo è quando avendo vagliato, sa disfarsi delle opinioni e degli insegnamenti comuni; quando si accorge che non concordano con il progetto del Padre.

La storia della salvezza mira a «cose più grandi» (v.50) rispetto a quelle già volute; normali, previste, invocate, calcolate, sospirate.

Dalla religiosità passeremo alla Fede: il meglio del Sogno di Dio in noi deve venire. «Cose più grandi» dei luoghi comuni.

Gesù è l’autentico Sogno di Giacobbe, che preludeva a una vasta discendenza; ulteriormente dispiegata (Gen 28,10-22) e divenuto realtà.

Ma nessuno si sarebbe atteso che il Messia potesse identificarsi col «Figlio dell’uomo» (v.51), Colui che crea abbondanza dov’essa non c’è e prima non sembrava lecito potesse espandersi.

Il nuovo legame fra Dio e gli esseri umani è nel Fratello che si fa ‘parente prossimo’, che crea un’atmosfera di umanizzazione dai contorni ampi - affatto discriminanti.

‘Figlio riuscito’ è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo come ci si aspettava.

È crescita e umanizzazione del popolo: lo sviluppo tranquillo, vero e pieno del progetto divino sull’umanità.

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo riposto, cauto, controllato e riservato, ma un’occasione per tutti coloro che danno adesione alla proposta del Signore, e reinterpretano la vita in modo creativo personale.

Essi superano i fermi confini, facendo spazio al Dono; accogliendo dalla Grazia pienezza di essere, nei suoi nuovi irripetibili binari.

 

Su questa Via, ogni giorno percepiamo il medesimo impulso che ha portato Natanaele da Gesù: un istinto di Presenza impareggiabile [Michele: Chi come Dio?], una liberazione della coscienza rattrappita [Raffaele: Dio ha guarito - Soccorritore], uno svelamento da stupore [Gabriele: Forza di Dio].

Insomma, sulle nuove avventure da intraprendere, il mondo invisibile ha uno speciale rapporto con l'umanità e il creato.

Nell’anima e nelle cose, siamo come guidati sulla strada giusta (in modo incessante, crescente, inatteso) anche attraverso le nostre ansie, ribellioni, crisi e dubbi.

 

 

[Ss. Michele, Gabriele e Raffaele, Arcangeli.  29 settembre]

Domenica, 21 Settembre 2025 06:12

Scetticismo, Fede, carattere

Dall’antico sogno alla relazione incarnata

(Gv 1,47-51)

 

La liturgia odierna propone il primo incontro col Signore di Natanaele, che alcune tradizioni identificano nell’apostolo Bartolomeo.

Lo scopo della Chiamata è seguire Gesù; vediamone la concatenazione di eventi. Anzitutto: le persone si convincono con l’incontro, il vedere e sperimentare, non imponendo.

Però il progetto dell’Eterno ci spiazza. Testimonianza e condivisione conducono a Cristo, ma non bastano - perché il suo disegno non è come la gente immagina o si propone, come attende e desidera che sia.

All’Annuncio entusiasta di Filippo [nome di origine greca], Natanaele [dall’ebraico Netan’El: «Dio ha dato»] risponde con uno scetticismo preconcetto che ci rappresenta: cosa può uscire di buono dalle periferie più insignificanti (v.46)?

Come mai la soluzione alle nostre aspettative non viene dai palazzi del potere, dall’eccezionale magnificenza della Città Santa, o dal prestigio dottrinale appurato e selettivo del territorio osservante (Giudea)?

Nazaret era un villaggio trascurabile di teste calde e Galilei trogloditi; Gesù un falegname-carpentiere, quindi non aveva neppure una terra.

L’attesa del Messia era ancorata a ben altre manifestazioni di prestigio, ricchezza, fasto e potenza (sostitutive dell’esperienza autentica di relazione e pienezza di essere).

L’incontro personale con Gesù e l’ascolto della sua Parola vincono ogni ostacolo, sino a una esplicita e convinta professione di Fede.

E come Natanaele, chi consacra la vita allo studio delle Scritture trova in esse Cristo (vv.45.48-49).

 

In un primo tempo forse ci siamo accostati anche noi al Figlio di Dio immaginando che avesse gli attributi di Re d’un popolo eletto (v.49).

Poi la consuetudine con la Persona e l’esperienza vitale [«Vieni a vedere»: senso dell’espressione semitica base del v.46] ci ha mostrato una Relazione col Cielo assai più ampia (vv.50-51).

Nel percorrere la Via che il Messia inatteso propone, si coglie la convergenza del movimento di Dio verso gli uomini e il nostro anelito a Lui. È la realizzazione (e il superamento) dell’antico sogno di Giacobbe.

Chi insegue preconcetti resta a prendere il fresco sotto l’albero di fichi (cf.v.48), ossia rimane legato all’antica religione [i rabbini insegnavano le Scritture antiche sedendo sotto gli alberi; il fico era simbolo d’Israele].

Permanendo in aspettative di magnificenza e lasciandoci trascinare da propositi standard di gloria attesa, non si entra nel movimento che lega la nostra terra all’Amore: ci ritroveremo sempre più vecchi, impantanati e sterili - incapaci di generare creature nuove e rinascere.

 

«Israelita senza inganno» (v.47): ciascuno lo è quando - avendo vagliato - sa disfarsi delle opinioni e degli insegnamenti comuni; quando si accorge che non concordano con il progetto del Padre su di noi.

La storia della salvezza mira a «cose più grandi» (v.50) rispetto a quelle già volute; normali, previste, invocate, calcolate e sospirate (trasmesse dalle dottrine e dai “maestri” tali e quali).

Anche il Disegno della Provvidenza non è come la gente immagina o desidera che sia. Ci attendono situazioni che nessuno ha mai visto.

«Dio ha dato» [significato del nome proprio Natanaele], ma ciascuno deve rinascere.

Da Natanaele ciascun credente fa Esodo per trasmigrare al senso del nome Bartolomeo: «Figlio del campo ben arato e della terra dai solchi abbondanti».

Dalla religiosità passeremo alla Fede: il meglio del Sogno di Dio in noi deve venire. «Cose più grandi» dei luoghi comuni.

 

Gesù è l’autentico Sogno di Giacobbe, che preludeva a una vasta discendenza; ulteriormente dispiegata (Gen 28,10-22) e divenuto realtà.

Ma nessuno si sarebbe atteso che il Messia potesse identificarsi col «Figlio dell’uomo» (v.51), Colui che crea abbondanza dov’essa non c’è - e prima non sembrava lecito potesse espandersi.

Il nuovo legame fra Dio e gli esseri umani è nel Fratello che si fa ‘parente prossimo’, che crea un’atmosfera di umanizzazione dai contorni ampi - affatto discriminanti.

«Figlio dell’uomo» è colui che avendo raggiunto il massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina e la irradia in modo diffuso - non selettivo come ci si aspettava.

‘Figlio riuscito’: la Persona dal passo definitivo, che in noi aspira alla pienezza più dilatata nelle vicende e relazioni, a una caratura indistruttibile dentro ciascuno che accosta [e incontra contrassegni divini].

È crescita e umanizzazione del popolo: lo sviluppo tranquillo, vero e pieno del progetto divino sull’umanità.

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo religioso, riposto, cauto, controllato e riservato, ma un’occasione per tutti coloro che danno adesione alla proposta del Signore, e reinterpretano la vita in modo creativo personale.

Essi superano i fermi e propri confini sommari, facendo spazio al Dono; accogliendo dalla Grazia pienezza di essere e di carattere, nei suoi nuovi irripetibili binari.

 

Sentendoci totalmente e immeritatamente amati, scopriamo altre sfaccettature... cambiamo il modo di stare con noi stessi, e di leggere la storia.

Insomma, possiamo crescere, realizzarci, fiorire, irradiare la completezza ricevuta - senza più chiusure.

Su questa Via, ogni giorno percepiamo il medesimo impulso che ha portato Natanaele da Gesù: un istinto di Presenza impareggiabile [Michele: Chi come Dio?], una liberazione della coscienza rattrappita [Raffaele: Dio ha guarito - Soccorritore], uno svelamento da stupore [Gabriele: Forza di Dio].

Insomma, sulle nuove avventure da intraprendere, il mondo invisibile ha uno speciale rapporto con l'umanità e il creato.

Nell’anima e nelle cose, siamo come guidati sulla strada giusta (in modo incessante, crescente, inatteso) anche attraverso le nostre ansie, ribellioni, crisi e dubbi.

 

 

Da Figlio di Davide a Figlio dell’uomo

 

La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, allocuzione al Concistoro 24 novembre 2012]

Celebriamo questa Ordinazione episcopale nella festa dei tre Arcangeli che nella Scrittura sono menzionati per nome: Michele, Gabriele e Raffaele. Questo ci richiama alla mente che nell’antica Chiesa – già nell’Apocalisse – i Vescovi venivano qualificati "angeli" della loro Chiesa, esprimendo in questo modo un’intima corrispondenza tra il ministero del Vescovo e la missione dell’Angelo. A partire dal compito dell’Angelo si può comprendere il servizio del Vescovo. Ma che cosa è un Angelo? La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa ci lasciano scorgere due aspetti. Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, orientata con l’intero suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola "El", che significa "Dio". Dio è iscritto nei loro nomi, nella loro natura. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Proprio così si spiega anche il secondo aspetto che caratterizza gli Angeli: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e così aprono la terra. Proprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini all’uomo. Dio, infatti, è più intimo a ciascuno di noi di quanto non lo siamo noi stessi. Gli Angeli parlano all’uomo di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella sua vita tanto spesso è coperto e sepolto. Essi lo chiamano a rientrare in se stesso, toccandolo da parte di Dio. In questo senso anche noi esseri umani dovremmo sempre di nuovo diventare angeli gli uni per gli altri – angeli che ci distolgono da vie sbagliate e ci orientano sempre di nuovo verso Dio. Se la Chiesa antica chiama i Vescovi "angeli" della loro Chiesa, intende dire proprio questo: i Vescovi stessi devono essere uomini di Dio, devono vivere orientati verso Dio. "Multum orat pro populo" – "Prega molto per il popolo", dice il Breviario della Chiesa a proposito dei santi Vescovi. Il Vescovo deve essere un orante, uno che intercede per gli uomini presso Dio. Più lo fa, più comprende anche le persone che gli sono affidate e può diventare per loro un angelo – un messaggero di Dio, che le aiuta a trovare la loro vera natura, se stesse, e a vivere l’idea che Dio ha di loro.

Tutto ciò diventa ancora più chiaro se ora guardiamo le figure dei tre Arcangeli la cui festa la Chiesa celebra oggi. C’è innanzitutto Michele. Lo incontriamo nella Sacra Scrittura soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Gouda Taddeo e nell’Apocalisse. Di questo Arcangelo si rendono evidenti in questi testi due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del "serpente antico", come dice Giovanni. È il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui. Ma il drago non accusa solo Dio. L’Apocalisse lo chiama anche "l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti a Dio giorno e notte" (12, 10). Chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione. Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo. È compito del Vescovo, in quanto uomo di Dio, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. E che cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo? L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cfr Dn 10, 21; 12, 1). Cari amici, siate veramente "angeli custodi" delle Chiese che vi saranno affidate! Aiutate il Popolo di Dio, che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, a trovare la gioia nella fede e ad imparare il discernimento degli spiriti: ad accogliere il bene e rifiutare il male, a rimanere e diventare sempre di più, in virtù della speranza della fede, persone che amano in comunione col Dio-Amore.

Incontriamo l’Arcangelo Gabriele soprattutto nel prezioso racconto dell’annuncio a Maria dell’incarnazione di Dio, come ce lo riferisce san Luca (1, 26 – 38). Gabriele è il messaggero dell’incarnazione di Dio. Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo "sì" alla proposta di diventare la Madre del Redentore: di dare la sua carne umana al Verbo eterno di Dio, al Figlio di Dio. Ripetutamente il Signore bussa alle porte del cuore umano. Nell’Apocalisse dice all’"angelo" della Chiesa di Laodicea e, attraverso di lui, agli uomini di tutti i tempi: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (3, 20). Il Signore sta alla porta – alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore. Egli bussa per essere fatto entrare: l’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare sino alla fine dei tempi. Tutti devono essere riuniti in Cristo in un solo corpo: questo ci dicono i grandi inni su Cristo nella Lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. Cristo bussa. Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, che gli donano la materia del mondo e della loro vita, servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, alla riconciliazione dell’universo. Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. Entrando voi stessi in unione con Cristo, potrete anche assumere la funzione di Gabriele: portare la chiamata di Cristo agli uomini.

San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere "l’angelo" risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso. In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti.

[Papa Benedetto, omelia per l’ordinazione episcopale 29 settembre 2007]

Domenica, 21 Settembre 2025 06:06

Angeli e Arcangeli

1. Le nostre catechesi su Dio, creatore del mondo, non possono concludersi senza dedicare adeguata attenzione a un preciso contenuto della rivelazione divina: la creazione degli esseri puramente spirituali, che la Sacra Scrittura chiama “angeli”. Tale creazione appare chiaramente nei Simboli della fede, particolarmente nel Simbolo niceno-costantinopolitano: “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose (cioè enti o esseri) visibili e invisibili”. Sappiamo che l’uomo gode, all’interno della creazione, di una posizione singolare: grazie al suo corpo appartiene al mondo visibile, mentre per l’anima spirituale, che vivifica il corpo, egli si trova quasi al confine tra la creazione visibile e quella invisibile. A quest’ultima, secondo il Credo che la Chiesa professa alla luce della rivelazione, appartengono altri esseri, puramente spirituali, non dunque propri del mondo visibile, anche se in esso presenti e operanti. Essi costituiscono un mondo specifico.

2. Oggi, come nei tempi passati, si discute con maggiore o minore sapienza su questi esseri spirituali. Bisogna riconoscere che la confusione a volte è grande, con il conseguente rischio di far passare come fede della Chiesa sugli angeli ciò che alla fede non appartiene, o, viceversa, di tralasciare qualche aspetto importante della verità rivelata. L’esistenza degli esseri spirituali, che la Sacra Scrittura chiama di solito “angeli”, veniva già negata ai tempi di Cristo dai sadducei (cf. At 23, 8). La negano anche i materialisti e i razionalisti di tutti i tempi. Eppure, come acutamente osserva un teologo moderno, “se si volesse sbarazzarsi degli angeli, si dovrebbe rivedere radicalmente la Sacra Scrittura stessa, e con essa tutta la storia della salvezza” (A. Winklhofer, Die Welt der Engel, Ettal 1961, p. 144, nota 2; in Mysterium Salutis, II, 2, p. 726). Tutta la Tradizione è unanime su questa questione. Il Credo della Chiesa è in fondo un’eco di quanto Paolo scrive ai Colossesi: “poiché per mezzo di lui (Cristo) sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati, Potestà, tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). Ossia il Cristo che, come Figlio-Verbo eterno e consostanziale al Padre è “generato prima di ogni creatura” (Col 1, 15) è al centro dell’universo, come ragione e cardine di tutta quanta la creazione, come abbiamo già visto nelle catechesi precedenti e come vedremo ancora quando parleremo più direttamente di lui.

3. Il riferimento al “primato” di Cristo ci aiuta a comprendere che la verità circa l’esistenza e l’opera degli angeli (buoni e cattivi) non costituisce il contenuto centrale della parola di Dio. Nella rivelazione Dio parla prima di tutto “agli uomini . . . e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé”, come leggiamo nella costituzione Dei Verbum (Dei Verbum, 2) del Concilio Vaticano II. Così “la profonda verità . . . sia di Dio sia della salvezza degli uomini” è il contenuto centrale della rivelazione che “risplende” più pienamente nella persona di Cristo. La verità sugli angeli è in certo senso “collaterale”, eppure inseparabile dalla rivelazione centrale, che è l’esistenza, la maestà e la gloria del Creatore che rifulgono in tutta la creazione “visibile” e “invisibile” e nell’azione salvifica di Dio nella storia dell’uomo. Gli angeli non sono dunque creature di primo piano nella realtà della rivelazione, eppure vi appartengono pienamente, tanto che in alcuni momenti le vediamo adempiere compiti fondamentali a nome di Dio stesso.

4. Tutto ciò che appartiene alla creazione rientra, secondo la rivelazione, nel mistero della divina Provvidenza. Lo afferma in modo esemplarmente conciso il Vaticano I che abbiamo già più volte citato: “Tutto ciò che ha creato, Dio lo conserva e lo dirige con la sua provvidenza «estendendosi da un confine all’altro con forza e governando con bontà ogni cosa» (cf. Sap 8, 1). «Tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi» (cf. Eb 4, 13), «anche ciò che avrà luogo per libera iniziativa delle creature»” (DS 3003). La Provvidenza abbraccia dunque anche il mondo dei puri spiriti, che ancor più pienamente degli uomini sono esseri razionali e liberi. Nella Sacra Scrittura troviamo preziose indicazioni che li riguardano. Vi è pure la rivelazione di un dramma misterioso, eppure reale, che toccò queste creature angeliche, senza che nulla sfuggisse all’eterna Sapienza, la quale con forza (“fortiter”) e al tempo stesso con bontà (“suaviter”) tutto porta a compimento nel regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

5. Riconosciamo anzitutto che la Provvidenza, come amorevole Sapienza di Dio, si è manifestata proprio nel creare esseri puramente spirituali, per cui meglio si esprimesse la somiglianza di Dio in loro che di tanto superano tutto ciò che è creato nel mondo visibile insieme con l’uomo, anch’esso incancellabile immagine di Dio. Dio, che è Spirito assolutamente perfetto, si rispecchia soprattutto negli esseri spirituali che per natura, cioè a motivo della loro spiritualità, gli sono molto più vicini delle creature materiali, e che costituiscono quasi l’“ambiente” più vicino al Creatore. La Sacra Scrittura offre una testimonianza abbastanza esplicita di questa massima vicinanza a Dio degli angeli, dei quali parla, con linguaggio figurato, come del “trono” di Dio, delle sue “schiere”, del suo “cielo”. Essa ha ispirato la poesia e l’arte dei secoli cristiani che ci presentano gli angeli come la “corte di Dio”. 

(Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 9 luglio 1986)

 

8. È infine opportuno notare che la Chiesa onora con culto liturgico tre figure di angeli, che nella Sacra Scrittura sono chiamati per nome. Il primo è Michele arcangelo (cf. Dn 10, 13. 20; Ap 12, 7; Gd 9). Il suo nome esprime sinteticamente l’atteggiamento essenziale degli spiriti buoni. “Mica-El” significa infatti: “Chi come Dio?”. In questo nome si trova dunque espressa la scelta salvifica grazie alla quale gli angeli “vedono la faccia del Padre” che è nei cieli. Il secondo è Gabriele: figura legata soprattutto al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio. (cf. Lc 1, 19-26) Il suo nome significa: “la mia potenza è Dio” oppure “potenza di Dio”, quasi a dire che, al culmine della creazione, l’incarnazione è il segno supremo del Padre onnipotente. Infine il terzo arcangelo si chiama Raffaele. “Rafa-El” significa: “Dio guarisce”. Egli ci è fatto conoscere dalla storia di Tobia nell’Antico Testamento (cf. Tb 12, 15 ss), così significativa circa l’affidamento agli angeli dei piccoli figli di Dio, sempre bisognosi di custodia, di cura e di protezione.

A ben riflettere si vede che ciascuna di queste tre figure - Mica-El, Gabri-El, Rafa-El - riflette in modo particolare la verità contenuta nella domanda sollevata dall’autore della Lettera agli Ebrei: “Non sono forse essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza?” (Eb 1, 14).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 agosto 1986]

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The present-day mentality, more perhaps than that of people in the past, seems opposed to a God of mercy, and in fact tends to exclude from life and to remove from the human heart the very idea of mercy (Pope John Paul II)
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia (Papa Giovanni Paolo II)
«Religion of appearance» or «road of humility»? (Pope Francis)
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? (Papa Francesco)
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore. Occorre saper contemplare. L’uomo d’oggi sente molto il bisogno di non limitarsi alle pure preoccupazioni materiali, e di integrare invece la propria cultura tecnica con superiori e disintossicanti apporti provenienti dal mondo dello spirito [Giovanni Paolo II]
This can only take place on the basis of an intimate encounter with God, an encounter which has become a communion of will, even affecting my feelings (Pope Benedict)
Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento (Papa Benedetto)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)

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