don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XXIV Domenica del Tempo Ordinario  B  (15 settembre 2024)

1. La liturgia di questa domenica ben si collega con la festa dell’esaltazione della Croce che ieri abbiamo celebrato e che ci ha portati a meditare sulla morte gloriosa di Cristo. Dall’alto della Croce è lui stesso a rivolgerci la domanda che, come leggiamo nell’odierno vangelo, pose un giorno ai suoi discepoli: Chi sono io per voi? Chi è Gesù, il Cristo? Questa è la questione fondamentale della nostra fede e provoca tutti, mentre attende una risposta personale: o lo accetti o lo rifiuti perché non sono ammessi compromessi e mezze misure. Gesù di Nazaret, che i cristiani adorano come vero Dio e vero uomo, continua a far discutere e inquieta la coscienza di molti. Come infatti restare indifferenti dinanzi a Cristo, vero Dio e vero, che si svuota della sua divinità non solo fino a farsi uomo, ma addirittura a morire abbandonato e disprezzato su una croce come uno schiavo? E come se non bastasse, si rende pane spezzato per nutrire i fedeli della sua vita immortale nel sacramento dell’eucarestia? San Marco, che dopo aver lasciato san Paolo segue e vive per lungo tempo accanto all’apostolo Pietro, trasmette di quest’apostolo la certezza della fede in Gesù il Cristo; una fede passata però attraverso un lungo travaglio spirituale che tiene in conto anche il suo triplice rinnegamento durante la passione del suo Maestro. L’evangelista si fa nostro “pedagogo” per insegnarci come incontrare Cristo e conoscerlo facendoci comprendere che non è necessario capire per seguirlo, ma al contrario occorre seguirlo per conoscerlo. Nel brano evangelico di questa domenica il nostro sguardo si focalizza su san Pietro che dopo aver appena fatto per la prima volta una bella professione di fede: ”Tu sei il Cristo” riceve un duro rimprovero : “va dietro di me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.  Perché una reazione così decisa e persino violenta al punto da apostrofarlo come “satana”? Cominciamo a meglio capirlo leggendo l’episodio di cui parla oggi il brano evangelico, avvenuto mentre il Maestro con i discepoli vanno a Cesarea di Filippo, terra di confine tra il popolo eletto e i pagani. Se finora i discepoli e tutta la gente si sono posti la domanda: Chi è costui che fa miracoli, che parla in maniera coinvolgente, che è capace di calmare il mare in tempesta e scaccia i demoni? Non è forse il Messia atteso? Qui, dopo la prima professione di Pietro “Tu sei il Cristo” Gesù comincia  sa svelare gradualmente il mistero della sua identità. 

2. Si usa spesso dire che il Vangelo di Marco si snoda in una dinamica che parte proprio dall’oscurità dell’inizio e giunge allo splendore luminoso finale della risurrezione. Occorrerà ancora percorrere della strada e soltanto alla fine, mentre Gesù muore, le parole della confessione del centurione sotto la croce: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio” (15,39) mostreranno chi Egli è veramente e la luce della resurrezione, cioè la vittoria della vita sulla morte, distruggerà l’oscurità mostrando in pienezza la vera identità di Cristo, il Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Dopo, il messaggio evangelico comincerà a diffondersi in tutte le regioni del mondo, anche se occorrerà coraggio, pazienza e soprattutto fede perché diventi vita vissuta, come testimoniano le comunità cristiane grazie ai numerosi martiri e ai santi del cristianesimo.  Il rapporto tra l’oscurità e la luce è connesso al cosiddetto “segreto messianico”, che caratterizza la graduale rivelazione dell'identità di Gesù e della sua missione nel vangelo di Marco. Inizia proprio dal primo capitolo: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (1,1), Gesù è Cristo e Signore (1,3); mentre viene battezzato una voce dal cielo lo dichiara “Figlio amato” (1,11). La sua identità viene confermata dagli spiriti impuri con il titolo di “Santo di Dio” o “Figlio di Dio” (cf. 1,24; 3,11; 5,7), mentre le folle che lo incontrano chiedono: “chi è questo Gesù di Nazaret? sino al capitolo settimo quando la donna siro-fenicia lo chiama Gesù “Signore” (7,28). 

3. Siamo così giunti al capitolo ottavo, alla pagina odierna del vangelo. Se sinora possiamo tutto riassumere nella domanda: “Ma tu chi sei? Sei il Messia?”, oggi Gesù risponde a Pietro e conferma che egli è il Messia, ma precisa di non esserlo secondo le aspettative umane, e preannuncia la sua passione e morte.  Nel cuore dei discepoli si fa più vivo il contrasto oscurità/luce e guidati dalla pazienza del divino Maestro dall’incomprensione iniziale giungeranno gradualmente alla scoperta della sua vera identità. Annunciando il vangelo e compiendo miracoli invitava sempre a tacere e non voleva che se ne facesse propaganda perché era facile fraintenderlo. Messia era in effetti un titolo che si prestava a varie interpretazioni e pur confermando di esserlo, come fece con Pietro, Gesù si presenta non un Messia trionfante ma sofferente e anche per i discepoli, che conoscevano la storia del loro popolo, si tratta di qualcosa di paradossale e inconcepibile. La loro fragile fede aveva bisogno di essere purificata e illuminata ed è per questo che Gesù chiede loro “di non parlare di lui a nessuno” e li sgrida come prima aveva fatto con i demoni.  Insieme ai discepoli lasciamoci anche noi prendere per mano dall’evangelista e seguiamolo nel lungo cammino che porterà a incontrare chi è in verità il Messia. Da questo momento in poi la domanda sarà infatti: “Chi sono io per te”? E’ il Maestro a interpellarci e ci aiuta ad entrare nell’intimità del suo amore parlando della  sua passione e morte in croce. Siamo di fronte a una novità assoluta che manifesta il suo pieno vigore nell’estrema fragilità della croce. Se vogliamo incontrare Gesù non superficialmente dobbiamo accettare di seguirlo dovunque egli ci conduce, ed essere suoi discepoli significa continuare a camminare dietro di lui. Indica pure le tre condizioni di questa sequela: anzitutto “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso”; in secondo luogo “prenda la sua croce e mi segua” ovunque, se necessario sino ad essere con lui crocifissi e finalmente “chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. Il messaggio è duro e chiaro, ma liberante e felice: se perdi la vita per Cristo la salvi perché non la fondi su te stesso ma su lui, il Cristo. E questa è la vera saggezza dei santi.

Buona domenica!

+Giovanni D’Ercole

Sabato, 14 Settembre 2024 10:19

Figlio dell’uomo

Creare abbondanza dov’essa non c’è

(Lc 9,43b-45)

 

«Figlio dell’uomo» (v.44) è colui che essendosi spinto al massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina - e la irradia, senza prospettive anguste.

‘Figlio dell’uomo’ è il Figlio riuscito: la Persona dal passo definitivo; Verbo fattosi «fratello», che in noi aspira alla pienezza diffusa nella storia.

Sembrerebbe non all’altezza; invece è caratura indistruttibile, dentro ciascuno che accosta - incontrando i contrassegni divini che fanno emergere ciò che siamo [e rinascere].

Nel passo di Vangelo, è il Messia che diventa servo (!) e si fa «parente prossimo»: colui che nella cultura semitica era tenuto al riscatto e liberazione dei famigliari fatti schiavi.

Si nota però un netto contrasto fra ciò che la gente sogna e spera, e l’opinione delle autorità, messe in discussione da questa atmosfera di umanizzazione dai contorni troppo ampi.

 

Da sempre, per bloccare la ricerca del Tu-per-tu, del faccia a faccia con Dio [e indirizzare le coscienze] le guide interessate avevano riempito le menti di cose del passato, o tutte conformiste, e la vita della gente di problemi che incagliavano il cammino.

Lo schiavo della religione antica usuale, alleata col potere, viveva sotto condanna perché fuori Casa propria, quindi in una realtà che ristagnava, accentuando zavorre e sottolineando limiti e sensi di sudditanza.

Disturbando l’onda vitale di ciascuno.

In tal guisa, l’anima spenta si sottometteva alla cappa esteriore, bloccando l’energia spontanea. Ammantando di cose morte tutte le proposte che arrivavano dalla Provvidenza, e le sue stesse risorse.

 

«Figlio dell’uomo» non è un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo.

Essi superano i fermi e propri confini naturali facendo spazio al Dono, accogliendo da Dio pienezza di essere, nei suoi nuovi, irripetibili binari.

Sentendosi totalmente e immeritatamente amati, scoprono altre sfaccettature, cambiano il modo di stare con se stessi, e possono crescere, si realizzano, fioriscono, irradiando la completezza ricevuta.

Emanando una differente atmosfera, la persona integrata nei suoi lati anche opposti, sente nascere consapevolezze, crea progetti, emette e attrae altre energie; le fa attivare.

Così Dio vuole estendere l’ambito in cui “regna” - rapportandosi a tutta l’umanità, Chiesa senza confini visibili.

 

Insomma, nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti vogliono indicare il trionfo dell’umano sul disumano, e la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione dell’onda vitale.

Il Popolo che riluce in modo divino non si trova più impigliato, anzi porta al massimo tutta la sua variegata potenzialità d’amore, di effusione di vita.

«Figlio dell’uomo» - realtà possibile - è chiunque raggiunga pienezza, fioritura della capacità di essere, nell’estensione dei rapporti… entrando in sintonia con la sfera di Dio Creatore, Amante della vita.

Lo fa nelle sue variegate sfaccettature, e si fonde con Lui - diventando Uno. Creando abbondanza.

«Figlio dell’uomo» è l’uomo che si comporta sulla terra come farebbe Dio stesso, che rende presente il divino e la sua forza nella storia.

Quindi può permettersi di sostituire sia la cupa seriosità che la superficialità, con una sapiente ‘spensieratezza’ che rende tutto lieve.

 

«Figlio dell’uomo» raffigura il massimo dell’umano, la Persona per eccellenza, che diventa liberante invece che opprimente.

Le conseguenze sono inimmaginabili, perché ciascuno di noi in Cristo e per i fratelli non ha più percorsi morti, astratti, o altrui, da rifare.

 

 

[Sabato 25.a sett. T.O.  28 settembre 2024]

Sabato, 14 Settembre 2024 10:15

Figlio dell’uomo

Creare abbondanza dov’essa non c’è

(Lc 9,43b-45)

 

‘Figlio di Dio’ è Cristo che manifesta Dio nella condizione umana. ‘Figlio dell’uomo’ è Gesù che manifesta l’uomo nella condizione divina.

«Figlio dell’uomo» (v.44) è colui che essendosi spinto al massimo della pienezza umana, giunge a riflettere la condizione divina - e la irradia, senza prospettive anguste.

Insomma, ‘Figlio dell’uomo’ è la persona affidabile, autentica; anche “piccola” - senza neppure un retaggio d’idee giuste e invariabili, o forze d’identico livello, e sempre performanti.

«Figlio dell’uomo» è qui il Figlio riuscito: la Persona dal passo definitivo. Verbo fattosi «fratello», che in noi aspira alla pienezza diffusa nella storia.

Sembrerebbe non all’altezza; invece è caratura indistruttibile, dentro ciascuno che accosta tale ‘misura’ - incontrando i contrassegni divini che fanno emergere ciò che siamo [e rinascere].

Nel passo di Vangelo, è il Messia che diventa servo (!) e si fa «parente prossimo»: colui che nella cultura semitica era tenuto al riscatto e liberazione dei famigliari fatti schiavi.

Si nota però un netto contrasto fra ciò che la gente sogna e spera, e l’opinione delle autorità, messe in discussione da questa atmosfera di umanizzazione dai contorni troppo ampi.

 

I maestri di spirito affermati e ufficiali si trovavano a loro agio in ambito stretto: accentuando sensi di colpa, sfigurando le persone; rendendole bisognose, infantili - invece che adulte, sicure, emancipate.

Anche l’istituzione religiosa tremava: la condizione divina diffusa nella vita delle donne e degli uomini resi autonomi e in grado di camminare sulle proprie gambe avrebbe reso superflua ogni struttura di mediazione.

Da sempre, per bloccare la ricerca del Tu-per-tu, del faccia a faccia con Dio [e indirizzare le coscienze] le guide interessate avevano riempito le menti di cose del passato, o tutte conformiste, e la vita della gente di problemi che incagliavano il cammino.

Lo schiavo della religione antica usuale, alleata col potere, viveva sotto condanna, perché fuori Casa propria. In una realtà che ristagnava, o avanzava in modo severamente moralistico.

Tale confusione arenava le anime - ancor più accentuando zavorre, sottolineando limiti, e sensi di sudditanza. Disturbando l’onda vitale di ciascuno.

 

La logica dei vecchi maestri era inaccettabile, sia in un’ottica di realizzazione personale, che per la convivenza.

In qualsiasi ambito vigeva il criterio dei parrucconi che amano solo se stessi.

Tutto era in accordo al principio che chi si ferma è meglio controllabile, sta dove lo collochi, e non può avere passioni; quindi non mette in moto nulla. 

Sotto l’enorme condizionamento sociale, l’anima ormai spenta si vedeva costretta a sottomettersi alla cappa esteriore, la quale volentieri bloccava l’energia spontanea delle anime, e del mondo.

Ancora oggi, forse, sussistono agenzie di plagio che ammantano di cose già morte o astratte [di maniera, altrui, comunque esterne] tutte le proposte della Provvidenza, e le stesse risorse di donne e uomini, o di carisma.

Il Figlio vero invece conquista spazi di libertà non tanto dagli errori, quanto ad es. dall’egoismo che annienta la comunione, dall’amor proprio che rifiuta l’ascolto, dall’omologazione che cancella l’unicità, dal conformismo che fa impallidire l’eccezionalità, dall’invidia che separa e blocca lo scambio dei doni, dalla competizione anche spirituale che ci droga; dall’accidia di chi crede di non valere abbastanza, che sconforta e paralizza.

 

«Figlio dell’uomo» non è dunque un titolo “religioso” o selettivo, ma una possibilità per tutti coloro che danno adesione alla proposta di vita del Signore, e la reinterpretano in modo creativo.

Essi superano i fermi e propri confini naturali, facendo spazio al Dono; accogliendo da Dio pienezza di essere, nei suoi nuovi, irripetibili binari.

Sentendosi totalmente e immeritatamente amati, scoprono altre sfaccettature, cambiano il modo di stare con se stessi, e possono crescere: si realizzano, fioriscono; irradiano la completezza ricevuta.

 

Uscendo dall’idea scarsa o statica che abbiamo di noi - problema grave in molte anime sensibili e dedite - anche la personalità relazionale può iniziare a immaginare.

E sognare, scoprendo di poter non dare più peso a coloro che vogliono condizionare il cammino di persona, in pienezza di essere, carattere, vocazione.

Chi attiva l’idea di potercela fare, trasmette poi la forza dello Spirito che ha ricevuto e accolto, e l’universo attorno fiorisce.

Emanando una differente atmosfera, la persona integrata nei suoi lati anche opposti, sente nascere consapevolezze, crea progetti, emette e attrae altre energie; le fa attivare.

Rapportandosi in modo interpersonale, Dio vuole estendere l’ambito in cui “regna” - a tutta l’umanità.

Chiesa senza confini visibili, che inizierà con il «Figlio dell’uomo». Figura non esclusiva di Gesù.

 

 

Figlio di Davide e Figlio dell’uomo

 

Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33). Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.

[Papa Benedetto, Concistoro 24 novembre 2012]

 

Con l’immagine del Figlio d’uomo, già il profeta Daniele voleva indicare un ribaltamento dei criteri di autenticità umana e divina: un uomo o un popolo, leader, finalmente dal cuore di carne invece che di belva.

Nell’icona del «Figlio dell’uomo» gli evangelisti desiderano far trapelare e innescare il trionfo dell’umano sul disumano; la progressiva scomparsa di tutto ciò che blocca la comunicazione di esistenza piena, di totalità di energia profonda.

Il Popolo che riluce in modo divino non si trova più impigliato da paure, da manipolazioni, o isterismi, anzi porta al massimo tutta la sua variegata potenzialità d’amore, di effusione di vita.

‘Figlio dell’uomo’ - realtà possibile - è chiunque raggiunga completezza, fioritura della capacità di essere, nell’estensione dei rapporti. Con ciò entrando in sintonia con la sfera di Dio Creatore, Amante della vita.

Lo fa nelle sue variegate sfaccettature, e si fonde con Lui - diventando Uno. Creando abbondanza; non una finta identità.

«Figlio dell’uomo» è l’uomo che si comporta sulla terra come farebbe Dio stesso; insomma, che rende presente il divino e la sua forza dispiegata nella storia.

Quindi può permettersi di sostituire la cupa seriosità dell’essere pio e sottoposto, o la superficialità del sofisticato e disincarnato, con la sapiente ‘spensieratezza’ che rende tutto lieve [perché fa rima con naturalezza].

 

‘Figlio dell’uomo’ raffigura il massimo dell’umano, la Persona per eccellenza - nel suo Sé eminente, che diventa liberante invece che opprimente.

Le conseguenze sono inimmaginabili, perché ciascuno di noi in Cristo e per i fratelli e sorelle, non ha più percorsi morti, astratti, o altrui, da rifare.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo la figura di «Figlio dell’uomo» ti parla dei tuoi stessi pensieri e speranze personali, e qual è la differenza o il contrasto coi pensieri e le speranze dei manipolatori?

Sabato, 14 Settembre 2024 10:11

Preghiera del Figlio e dei figli, umanizzanti

La preghiera di Gesù nell'imminenza della morte - Lc

Cari fratelli e sorelle,

nella nostra scuola di preghiera, mercoledì scorso, ho parlato sulla preghiera di Gesù sulla Croce presa dal Salmo 22: “Dio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” adesso vorrei continuare a meditare sulla preghiera di Gesù in croce, nell’imminenza della morte, vorrei soffermarmi oggi sulla narrazione che incontriamo nel Vangelo di san Luca. L'Evangelista ci ha tramandato tre parole di Gesù sulla croce, due delle quali – la prima e la terza – sono preghiere rivolte esplicitamente al Padre. La seconda, invece, è costituita dalla promessa fatta al cosiddetto buon ladrone, crocifisso con Lui; rispondendo, infatti, alla preghiera del ladrone, Gesù lo rassicura: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Nel racconto di Luca sono così intrecciate suggestivamente le due preghiere che Gesù morente indirizza al Padre e l'accoglienza della supplica che a Lui è rivolta dal peccatore pentito. Gesù invoca il Padre e insieme ascolta la preghiera di quest’uomo che spesso è chiamato latro poenitens, «il ladrone pentito».

Soffermiamoci su queste tre preghiere di Gesù. La prima la pronuncia subito dopo essere stato inchiodato sulla croce, mentre i soldati si stanno dividendo le sue vesti come triste ricompensa del loro servizio. In un certo senso è con questo gesto che si chiude il processo della crocifissione. Scrive san Luca: «Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte» (23,33-34). La prima preghiera che Gesù rivolge al Padre è di intercessione: chiede il perdono per i propri carnefici. Con questo, Gesù compie in prima persona quanto aveva insegnato nel discorso della montagna quando aveva detto: «A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27) e aveva anche promesso a quanti sanno perdonare: «la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo» (v. 35). Adesso, dalla croce, Egli non solo perdona i suoi carnefici, ma si rivolge direttamente al Padre intercedendo a loro favore.

Questo atteggiamento di Gesù trova un’«imitazione» commovente nel racconto della lapidazione di santo Stefano, primo martire. Stefano, infatti, ormai prossimo alla fine, «piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Detto questo, morì» (At 7,60): questa è stata la sua ultima parola. Il confronto tra la preghiera di perdono di Gesù e quella del protomartire è significativo. Santo Stefano si rivolge al Signore Risorto e chiede che la sua uccisione – un gesto definito chiaramente con l’espressione «questo peccato» – non sia imputata ai suoi lapidatori. Gesù sulla croce si rivolge al Padre e non solo chiede il perdono per i suoi crocifissori, ma offre anche una lettura di quanto sta accadendo. Secondo le sue parole, infatti, gli uomini che lo crocifiggono «non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Egli pone cioè l’ignoranza, il «non sapere», come motivo della richiesta di perdono al Padre, perché questa ignoranza lascia aperta la via verso la conversione, come del resto avviene nelle parole che pronuncerà il centurione alla morte di Gesù: «Veramente, quest’uomo era giusto» (v. 47), era il Figlio di Dio. «Rimane una consolazione per tutti i tempi e per tutti gli uomini il fatto che il Signore, sia a riguardo di coloro che veramente non sapevano – i carnefici – sia di coloro che sapevano e lo avevano condannato, pone l'ignoranza quale motivo della richiesta di perdono – la vede come porta che può aprirci alla conversione» (Gesù di Nazaret, II, 233).

Cari fratelli e sorelle, le parole di Gesù sulla croce negli ultimi istanti della sua vita terrena offrono indicazioni impegnative alla nostra preghiera, ma la aprono anche ad una serena fiducia e ad una ferma speranza. Gesù che chiede al Padre di perdonare coloro che lo stanno crocifiggendo, ci invita al difficile gesto di pregare anche per coloro che ci fanno torto, ci hanno danneggiato, sapendo perdonare sempre, affinché la luce di Dio possa illuminare il loro cuore; e ci invita a vivere, nella nostra preghiera, lo stesso atteggiamento di misericordia e di amore che Dio ha nei nostri confronti: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», diciamo quotidianamente nel «Padre nostro». Allo stesso tempo, Gesù, che nel momento estremo della morte si affida totalmente nelle mani di Dio Padre, ci comunica la certezza che, per quanto dure siano le prove, difficili i problemi, pesante la sofferenza, non cadremo mai fuori delle mani di Dio, quelle mani che ci hanno creato, ci sostengono e ci accompagnano nel cammino dell’esistenza, perché guidate da un amore infinito e fedele. Grazie.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 15 febbraio 2012]

Sabato, 14 Settembre 2024 10:07

Figlio dell’uomo

1. Gesù Cristo, Figlio dell’uomo e di Dio: è il tema culminante delle nostre catechesi sull’identità del Messia. È la verità fondamentale della rivelazione cristiana e della fede: l’umanità e la divinità di Cristo sulla quale dovremo riflettere in seguito in modo più completo. Per ora ci preme completare l’analisi dei titoli messianici già in qualche modo presenti nell’Antico Testamento e vedere in quale senso Gesù li attribuisce a sè.

Quanto al titolo di “Figlio dell’uomo”, è significativo che Gesù ne abbia fatto un uso frequente parlando di se stesso, mentre sono gli altri che lo chiamano “Figlio di Dio”, come vedremo nella prossima catechesi. Invece egli si autodefinisce “Figlio dell’uomo”, mentre nessun altro lo chiamava così, se si eccettuano il diacono Stefano prima della lapidazione (At 7, 56) e l’autore dell’Apocalisse in due testi (At 1, 13; 14, 14).

2. Il titolo “Figlio dell’uomo” proviene dall’Antico Testamento dal Libro del profeta Daniele. Ecco il testo che descrive una visione notturna del profeta: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”(Dn 7, 13-14).

E quando il profeta chiede la spiegazione di questa visione, riceve la risposta seguente: “I santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli . . . allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo, saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo” (Dn 7, 18.27). Il testo di Daniele riguarda una persona singola e il popolo. Notiamo subito che ciò che si riferisce alla persona del Figlio dell’uomo si ritrova nelle parole dell’angelo nell’annunciazione a Maria: “regnerà per sempre . . . e il suo regno non avrà fine” (Lc 1, 33).

3. Quando Gesù chiama se stesso “Figlio dell’uomo” usa un’espressione proveniente dalla tradizione canonica dell’Antico Testamento e presente anche negli apocrifi giudaici. Occorre però notare che l’espressione “Figlio dell’uomo” (ben-adam) era diventata nell’aramaico dei tempi di Gesù un’espressione indicante semplicemente “uomo” (“bar-enas”). Gesù, perciò, chiamando se stesso “figlio dell’uomo”, riuscì quasi a nascondere dietro il velo del significato comune il significato messianico che la parola aveva nell’insegnamento profetico. Non a caso, tuttavia, se enunciazioni sul “Figlio dell’uomo” appaiono specialmente nel contesto della vita terrena e della passione di Cristo, non ne mancano anche in riferimento alla sua elevazione escatologica.

4. Nel contesto della vita terrena di Gesù di Nazaret troviamo testi quali: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8, 20); o anche: “È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11, 19). Altre volte la parola di Gesù assume un valore più fortemente indicativo del suo potere. Così quando dice: “Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc 2, 28). In occasione della guarigione del paralitico calato attraverso un’apertura praticata nel tetto egli afferma in tono quasi di sfida: “Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua” (Mc 2, 10-11). Altrove Gesù dichiara: “Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione” (Lc 11, 30). In altra occasione si tratta di una visione avvolta nel mistero: “Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete” (Lc 17, 22).

5. Alcuni teologi notano un parallelismo interessante tra la profezia di Ezechiele e le enunciazioni di Gesù. Scrive il profeta: “(Dio) Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti . . . che si sono rivoltati contro di me . . . Tu dirai loro: Dice il Signore Dio”” (Ez 2, 3-4). “Figlio dell’uomo, tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli, che hanno occhi per vedere e non vedono, hanno orecchi per udire e non odono . . .” (Ez 12, 2) “Tu, figlio dell’uomo . . . tieni fisso lo sguardo su di essa (Gerusalemme) che sarà assediata . . . e profeterai contro di essa” (Ez 4, 1-7). “Figlio dell’uomo, proponi un enigma che racconta una parabola agli Israeliti” (Ez 17, 2).

Facendo eco alle parole del profeta, Gesù insegna: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19, 10). “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45; cf. anche Mt 20, 28). Il “Figlio dell’uomo” . . . “quando verrà nella gloria del Padre”, si vergognerà di chi si vergognava di lui e delle sue parole davanti agli uomini (cf. Mc 8, 38).

6. L’identità del Figlio dell’uomo appare nel duplice aspetto di rappresentante di Dio, annunciatore del regno di Dio, profeta che richiama alla conversione. Dall’altra egli è “rappresentantedegli uomini, dei quali condivide la condizione terrena e le sofferenze per riscattarli e salvarli secondo il disegno del Padre. Come dice egli stesso nel colloquio con Nicodemo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14-15).

È un chiaro annuncio della passione, che Gesù ripete: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8, 31). Per ben tre volte proviamo a fare preannuncio nel Vangelo di Marco (cf. Mc 9, 31; 10, 33-34) e in ciascuna di esse Gesù parla di se stesso come “Figlio dell’uomo”.

7. Con lo stesso appellativo Gesù si autodefinisce dinanzi al tribunale di Caifa, quando alla domanda: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”, risponde: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Mc 14, 62). In queste poche parole risuona l’eco della profezia di Daniele sul “Figlio dell’uomo che viene sulle nubi del cielo” (Dn 7, 13) e del salmo 110 che vede il Signore assiso alla destra di Dio (cf. Sal 110, 1).

8. Ripetutamente Gesù parla della elevazione del “Figlio dell’uomo”, ma non nasconde ai suoi ascoltatori che essa include l’umiliazione della croce. Alle obiezioni e alla incredulità della gente e dei discepoli, che ben comprendevano la magicità delle sue allusioni e che pure gli chiedevano: “Come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?” (Gv 12, 34), Gesù asserisce: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che io sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre” (Gv 8, 28). Gesù afferma che la sua “elevazione” per mezzo della croce costituirà la sua glorificazione. Poco dopo aggiungerà: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (Gv 12, 23). È significativo che alla partenza di Giuda dal Cenacolo, Gesù dica “ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui”(Gv 13, 31).

9. Ciò costituisce il contenuto di vita, di passione, di morte e di gloria di cui il profeta Daniele aveva offerto un pallido abbozzo. Gesù non esita ad applicare a sé anche il carattere di regno eterno e intramontabile che Daniele aveva assegnato all’opera del Figlio dell’uomo, quando nel mondo proclama: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (Mc 13,26; cf. Mt 24, 30). In questa prospettiva escatologica deve svolgersi l’opera di evangelizzazione della Chiesa. Egli avverte: “Non avrete finito di percorrere la città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt 10, 23). E si chiede: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8).

10. Se come “Figlio dell’uomo” Gesù ha realizzato con la sua vita, passione, morte e resurrezione, il piano messianico, delineato nell’Antico Testamento, nello stesso tempo egli assume con quello stesso nome il suo posto tra gli uomini come uomo vero, come figlio di una donna, Maria di Nazaret. Per mezzo di questa donna, sua Madre, lui, il “Figlio di Dio”, è contemporaneamente “Figlio dell’uomo”, uomo vero, come attesta la Lettera agli Ebrei: “Si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (Eb 4, 5; cf. Gaudium et Spes, 22).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 29 aprile 1987]

Sabato, 14 Settembre 2024 09:56

Dove fa male il segno della croce

Farsi «il segno della croce» distrattamente e ostentare «il simbolo dei cristiani» come fosse «il distintivo di una squadra» o «un ornamento», magari con «pietre preziose, gioielli e oro», non ha nulla a che vedere con «il mistero» di Cristo. Tanto che Papa Francesco ha suggerito un esame di coscienza proprio sulla croce, per verificare come ciascuno di noi porta nella quotidianità l’unico vero «strumento di salvezza». Ecco le linee di riflessione che il Pontefice ha proposto nella messa celebrata martedì mattina, 4 aprile, a Santa Marta.

«Attira l’attenzione — ha fatto notare subito, riferendosi al passo dell’evangelista Giovanni (8, 21-30) — che in questo breve passo del Vangelo per tre volte Gesù dice ai dottori della legge, agli scribi, ad alcuni farisei: “Morirete nei vostri peccati”». Lo ripete «tre volte». E «lo dice — ha aggiunto — perché non capivano il mistero di Gesù, perché avevano il cuore chiuso e non erano capaci di aprire un po’, di cercare di capire quel mistero che era il Signore». Infatti, ha spiegato il Papa, «morire nel proprio peccato è una cosa brutta: significa che tutto finisce lì, nella sporcizia del peccato».

Ma poi «questo dialogo — nel quale per tre volte Gesù ripete “morirete nei vostri peccati” — continua e, alla fine, Gesù guarda indietro alla storia della salvezza e fa ricordare loro qualcosa: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono e che non faccio nulla da me stesso”». Il Signore dice proprio: «quando avrete innalzato il figlio dell’uomo».

Con queste parole — ha affermato il Pontefice, riferendosi al brano tratto dal libro dei Numeri (21, 4-9) — «Gesù fa ricordare quello che è accaduto nel deserto e abbiamo sentito nella prima lettura». È il momento in cui «il popolo annoiato, il popolo che non può sopportare il cammino, si allontana dal Signore, sparla di Mosè e del Signore, e trova quei serpenti che mordono e fanno morire». Allora «il Signore dice a Mosè di fare un serpente di bronzo e innalzarlo, e la persona che subisce una ferita del serpente, e che guarda quello di bronzo, sarà guarita».

«Il serpente — ha proseguito il Papa — è il simbolo del cattivo, è il simbolo del diavolo: era il più astuto degli animali nel paradiso terrestre». Perché «il serpente è quello che è capace di sedurre con le bugie», è «il padre della menzogna: questo è il mistero». Ma allora «dobbiamo guardare il diavolo per salvarci? Il serpente è il padre del peccato, quello che ha fatto peccare l’umanità». In realtà «Gesù dice: “Quando io sarò innalzato in alto, tutti verranno a me”. Ovviamente questo è il mistero della croce».

«Il serpente di bronzo guariva — ha detto Francesco — ma il serpente di bronzo era segno di due cose: del peccato fatto dal serpente, della seduzione del serpente, dell’astuzia del serpente; e anche era segnale della croce di Cristo, era una profezia». E «per questo il Signore dice loro: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete che io sono”». Così possiamo dire, ha affermato il Papa, che «Gesù si è “fatto serpente”, Gesù si “è fatto peccato” e ha preso su di sé le sporcizie tutte dell’umanità, le sporcizie tutte del peccato. E si è “fatto peccato”, si è fatto innalzare perché tutta la gente lo guardasse, la gente ferita dal peccato, noi. Questo è il mistero della croce e lo dice Paolo: “Si è fatto peccato” e ha preso l’apparenza del padre del peccato, del serpente astuto».

«Chi non guardava il serpente di bronzo dopo essere ferito da un serpente nel deserto — ha spiegato il Pontefice — moriva nel peccato, il peccato di mormorazione contro Dio e contro Mosè». Allo stesso modo, «chi non riconosce in quell’uomo innalzato, come il serpente, la forza di Dio che si è fatto peccato per guarirci, morirà nel proprio peccato». Perché «la salvezza viene soltanto dalla croce, ma da questa croce che è Dio fatto carne: non c’è salvezza nelle idee, non c’è salvezza nella buona volontà, nella voglia di essere buoni». In realtà, ha insistito il Papa, «l’unica salvezza è in Cristo crocifisso, perché soltanto lui, come il serpente di bronzo significava, è stato capace di prendere tutto il veleno del peccato e ci ha guarito lì».

«Ma cosa è la croce per noi?» è la questione posta da Francesco. «Sì, è il segno dei cristiani, è il simbolo dei cristiani, e noi facciamo il segno della croce ma non sempre lo facciamo bene, alle volte lo facciamo così... perché non abbiamo questa fede alla croce» ha evidenziato il Papa. La croce, poi, ha affermato, «per alcune persone è un distintivo di appartenenza: “Sì, io porto la croce per far vedere che sono cristiano”». E «sta bene», però «non solo come distintivo, come se fosse una squadra, il distintivo di una squadra»; ma, ha detto Francesco, «come memoria di colui che si è fatto peccato, che si è fatto diavolo, serpente, per noi; si è abbassato fino ad annientarsi totalmente».

Inoltre, è vero, «altri portano la croce come un ornamento, portano croci con pietre preziose, per farsi vedere». Ma, ha fatto presente il Pontefice, «Dio disse a Mosè: “Chi guarda il serpente sarà guarito”; Gesù dice ai suoi nemici: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora conoscerete”». In sostanza, ha spiegato, «chi non guarda la croce, così, con fede, morirà nei propri peccati, non riceverà quella salvezza».

«Oggi — ha rilanciato il Papa — la Chiesa ci propone un dialogo con questo mistero della croce, con questo Dio che si è fatto peccato, per amore a me». E «ognuno di noi può dire: “per amore a me”». Così, ha proseguito, è opportuno domandarci: «Come porto io la croce: come un ricordo? Quando faccio il segno della croce, sono consapevole di quello che faccio? Come porto io la croce: soltanto come un simbolo di appartenenza a un gruppo religioso? Come porto io la croce: come ornamento, come un gioiello con tante pietre preziose d’oro?». Oppure «ho imparato a portarla sulle spalle, dove fa male?».

«Ognuno di noi oggi — ha suggerito il Pontefice a conclusione della sua meditazione — guardi il crocifisso, guardi questo Dio che si è fatto peccato perché noi non moriamo nei nostri peccati e risponda a queste domande che io vi ho suggerito».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 4 aprile 2017]

Sabato, 14 Settembre 2024 06:51

Domanda che giudica

Dove e quale Messia? Nel dilemma, la soluzione

(Lc 9,18-22)

 

Il popolo di Dio non si trova più nel chiuso di un grembo che protegge e garantisce il credente, e talora ci sentiamo come incapaci di mettere in campo il Risorto nel nostro limite.

Invero il sogno di una persona che risolva i problemi dal di fuori (come una scorciatoia) è ancora radicata.

Chimera alimentata dallo smarrimento e dall’angoscia che proviamo di fronte a un mondo segnato da contraddizioni - oggi persino dalle amare conseguenze della crisi globale.

L’auspicio di un Messia è tenuto vivo dal nostro trepidare... nell’attesa dell’intervento di Qualcuno in grado di stare [invece] dentro noi stessi e le cose.

Per questo Dio si rivolge non a un valoroso capitano, non a un sovrano potente, non a un eroe, bensì a chi offre amore. E ciascuno di noi potrebbe esserlo, sebbene le nostre opere paiano sciatte in loro stesse, o molto inferiori ai desideri.

Ma è Cristo stesso che si riversa in esse.

Egli è il Figlio dimesso, eppure non gioca in difesa: Liberatore autentico.

 

La Gloria divina ha una figura inattesa. L’Eterno non è un controllore, né un promotore di modelli che difendano l’ordine, o le convinzioni [antiche o alla moda che siano], né le belle maniere.

Il luogo appartato (v.18) è parafrasi del nostro rischio di equivocare.

Anche a quel tempo tutti aspettavano la venuta dell’Unto del Signore, ma ciascuna setta o scuola di pensiero a modo suo.

Alcuni attendevano un sovrano, altri un sacerdote, o comandante guerriero; un giudice, un vate...

Tutti “maestri”, afferrati a qualche privilegio sociale. Nessun servitore, intimo a noi stessi: sfuggiva la comprensione piena.

Gesù impone esplicitamente il silenzio messianico (v.21) perché non ricalca le attese, le speranze, i propositi nella norma - tutti esteriori.

Infatti sostituisce la prospettiva de «”il” Messia» [“quel” Messia atteso] con «il Figlio dell’uomo» (vv.20-22): lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità.

«”Il” Cristo» secondo mentalità comune era una figura prevedibile, dura, troppo normale, fissa nel tempo - che non aveva rispetto dei processi personali - e stracolma di rivendicazioni.

Il «Figlio dell’uomo» è Persona senza esagerazioni: più intima, vera e profonda; senza troppo metodo, né tipologie. Persona che per questo non cessa di crescere.

 

In Lc tutti gli eventi importanti della vicenda di Gesù sono inseriti in un momento di preghiera.

Non era facile neppure per Lui essere in sintonia con l’idea che la Gloria divina si potesse manifestare in situazione del tutto sfavorevole - solo qua e là pulsante luce.

E tu cosa dici (cf. v.20)? Al grande enigma, solo Dio-uomo Crocifisso [il Differente, e senza reputazione] è Giudizio, e Risposta che libera dalle insicurezze.

Col nostro Amico interiore che abbraccia, ci nutre e fa come da calamita, daremo tutto al Presente - lato migliore. Vicinanza d’Infinito e nostro versante eterno.

 

 

[Venerdì 25.a sett. T.O.  27 settembre 2024]

Sabato, 14 Settembre 2024 06:47

Dove e quale Messia?

Lc 9,18-22 (18-25)

 

Domanda che giudica. Nel dilemma, la soluzione

(Lc 9,18-22)

 

Il popolo di Dio non si trova più nel chiuso di un grembo che protegge e garantisce il credente, e talora ci sentiamo come incapaci di mettere in campo il Risorto nel nostro limite.

Invero il sogno di una persona che risolva i problemi dal di fuori (come una scorciatoia) è ancora radicata.

Chimera alimentata dallo smarrimento e dall’angoscia che proviamo di fronte a un mondo segnato da contraddizioni - oggi persino dalle amare conseguenze della crisi globale.

L’auspicio di un Messia è tenuto vivo dal nostro trepidare... nell’attesa dell’intervento di Qualcuno in grado di stare (invece) dentro noi stessi e le cose.

Cerchiamo Chi possa donare un colpo d’ala alla vita, cambiandola immediatamente e radicalmente. Solo così dandole consistenza - non dall’esterno.

Continuiamo ad attendere un Salvatore anche oggi, sebbene l’ambiente convenzionalista non offra che scelte sempre meno significative [anche inutili caroselli] mentre l’impazienza provoca rassegnazione o insulsi fanatismi.

Per questo Dio si rivolge non a un valoroso capitano, non a un sovrano potente, non a un eroe, bensì a chi offre amore. E ciascuno di noi potrebbe esserlo, sebbene le nostre opere paiano sciatte in loro stesse, o molto inferiori ai desideri.

Ma è Cristo stesso che si riversa in esse.

Egli è il Figlio dimesso, eppure non gioca in difesa: Liberatore autentico.

 

La Gloria divina ha una figura inattesa. L’Eterno non è un controllore, né un promotore di modelli che difendano l’ordine, o le convinzioni [antiche o alla moda che siano], né le belle maniere.

Il luogo appartato (v.18) è parafrasi del nostro rischio di equivocare.

Anche a quel tempo tutti aspettavano la venuta dell’Unto del Signore, ma ciascuna setta o scuola di pensiero a modo suo.

Alcuni attendevano un sovrano, altri un sacerdote, o comandante guerriero; un giudice, un vate...

Tutti “maestri”, afferrati a qualche privilegio sociale. Nessun servitore, intimo a noi stessi: sfuggiva la comprensione piena.

Nessuno aveva inteso il disegno del Padre.

Non l’avevano capito neppure i re o i profeti.

Ciascuno aveva contrapposto al disegno di Dio i propri sogni di fama. Nel migliore dei casi, avendo giusti propositi di purificazione, ma pure di rabberciamento delle pratiche antiche; nonché grandezza. Per taluni, sommaria, provvisoria, sgradevolmente esibizionista.

Dall’Altissimo volevano solo un aiutino per giungere ai loro obbiettivi, non al Sogno di Dio.

 

In tal guisa Gesù impone esplicitamente il silenzio messianico (v.21) proprio perché non ricalca (davvero nulla da spartire) con le attese, le speranze, le mète, i propositi nella norma - tutti esteriori.

Infatti sostituisce la prospettiva de «”il” Messia» [“quel” Messia atteso] con «il Figlio dell’uomo» (vv.20-22): lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità.

«”Il” Cristo» secondo mentalità comune era una figura prevedibile, dura, troppo normale, fissa nel tempo - che non aveva rispetto dei processi personali - e stracolma di rivendicazioni.

«Il Figlio dell’uomo» è Persona senza esagerazioni: più intima, vera e profonda; senza troppo metodo, né tipologie. Persona che per questo non cessa di crescere.

 

In Lc tutti gli eventi importanti della vicenda di Gesù sono inseriti in un momento di preghiera.

Non era facile neppure per Lui essere in sintonia con l’idea che la Gloria divina si potesse manifestare in situazione del tutto sfavorevole - solo qua e là pulsante luce.

Ebbene, la risposta al nostro vissuto malfermo, affinché possa balzare dalle ceneri, è legata non all’essere riconosciuti e piacere a tutti, bensì a stati di persecuzione, o disturbo e disagio.

Difatti l’anima parla con saggezza: quindi, lega la crescita a un differente spirito mentale - non indotto da altrui o convenzionali modi di stare al mondo.

Essi impongono cesure agli scopi - se tutti formali, domati, socialmente accondiscendenti: vere e proprie fratture coi traguardi non rispettosi delle istanze vocazionali. Dove siamo noi stessi, nella Chiamata per Nome e nel carattere.

Per il Maestro e Signore le uniche mortificazioni opportune riguardano i dolorosi tagli e separazioni dal conformismo dei ruoli: distacchi che rendono liberi e pronti nell’attimo corrente.

Essi introducono all’interno d’una Visone imprevedibile e feconda, opposta all’aspettativa di ripresa conformisticamente sognata. Comunque arcaica (anche se à la page), perché perderebbe la natura di attivazione propria dello sviluppo della vita.

 

I problemi spesso sono come concrete figure, e contatti, che ci costringono ad altra soluzione, impedendoci di rientrare nel mondo del passato abitudinario o degli schemi anche alla moda - quelli che non realizzano gli obbiettivi più intimi.

Insomma: non è possibile “credere” senza pronunciarsi di persona, adesso.

E tu cosa dici (cf. v.20)? Al grande enigma, solo Dio-uomo Crocifisso [il differente, e senza reputazione] è Giudizio, e risposta che libera dalle insicurezze.

Col nostro Amico interiore che abbraccia, ci nutre e fa come da calamita, daremo tutto al Presente - lato migliore - vicinanza d’Infinito e nostro versante eterno.

 

 

 

 

Reputazione: crocevia della Verità di Fede

(Lc 9,22-25)

 

Ieri abbiamo sottolineato come il tarlo della vanità nella ricerca della stima altrui spinga all’ipocrisia e all’ostentazione.

Anche oggi la Parola - appello solenne e pressante a una scelta decisiva - invita alla totalità; a vivere la Quaresima con rettitudine, non esibendo troppi cerimoniali esteriori.

Ci chiediamo: Cosa rende intimi al Padre? Portare la Croce (nel senso di essere figlio devoto e obbediente)? Bisogna rinunciare a vivere, accettando i vari mali?

No, la comunione con Dio consegue a un impegno liberamente assunto. Quel patibolo non è esigenza del Padre che vorrebbe essere risarcito almeno da qualcuno.

E nessun fatalismo: non si tratta di sopportare le inevitabili contrarietà della vita. Non è questo che unisce, non è il fronteggiare che fa da collante al popolo di Dio che si riconosce nel Crocifisso.

Le vie tra cui scegliere non sono tante, ma solo due: vittoria e rivalsa, o percezione e dono - ogni istante è tempo di decisione. I modelli non servono più.

L'autenticità dell’uomo non è la sua grandezza, ma la fedeltà nell’amore che si accorge - e può collocarci su sentieri di persecuzione e derisione, invece di risultati accomodanti o plateali (sul sicuro e immediato).

L'umanità vera non ha più bisogno di salire di quota per trascendere i limiti della materia (mistica dualista).

Neppure dobbiamo identificarci - quasi sacramentalmente - con le forze dei processi cosmici sorgivi, profondi ma spersonalizzanti (religioni misteriche).

Non siamo chiamati a perfezionarci attraverso l’osservanza d’una legge o tradizioni sino alle minuzie (fariseismo).

La nostra vocazione non è neppure quella di sottrarci religiosamente all’abisso della miseria del mondo, nella speranza di una mèta che si avvicini per risolvere tutto (apocalittica).

 

 

L’Unto del Signore era atteso come sovrano, sacerdote, taumaturgo, guerriero, giudice, profeta... Gesù che sale al Calvario è ben altro paradigma: diverso modo di essere e tutt’altra Via.

Al titolo di Messia Lc preferisce quello di «Figlio dell’uomo» (v.22): espressione con cui il Maestro effettivamente designava se stesso.

Il Figlio dell’uomo - lo sviluppo vero e pieno del progetto divino sull’umanità - non si sente ostacolato da frequentatori dei luoghi di malaffare, ma dagli habitué dei recinti sacri.

Nei Vangeli la crescita e umanizzazione del popolo non è contrastata da peccatori, ma proprio da coloro che avrebbero il ministero di far conoscere a tutti il Volto di Dio.

Pertanto, il carattere dell’apostolo non è identificato con celebrità e personaggi di rilievo sociale, ma con la vita di Gesù di Nazaret - il pubblico ribelle alle autorità ufficiali, e condannato.

Qui, spingendoci in basso, incontriamo Dio.

Quello della croce era infatti il supplizio imposto ai criminali emarginati. In ciò sta la “negazione di sé” (v.23) che purtroppo nella storia della spiritualità ha subìto pessime interpretazioni.

Il credente non è riconosciuto da gesti eroici e magnificenti, o ascetici; né per eccellenza e visibilità d’incarico, carisma e credito, peso e prestigio - bensì a motivo di scelta sociale, che porta discredito alla propria fama.

Il missionario non è individuato per qualità straordinarie, bensì a motivo di piccolezza.

Chi apprezza solo cose grandi - anche sbalorditive e plateali sotto il profilo “spirituale” - ama la forza e non edifica il nuovo Regno.

Un confronto fra i testi paralleli in lingua greca (ad es.) di Mc 8,34; Mt 10,38; Lc 9,23 e 14,27 (Gv 12,26) fa comprendere il significato di «prendere» o «sollevare la croce» per un discepolo che rivive Cristo e lo dilata nella storia degli uomini.

Dio non dà croce alcuna, né i figli sono chiamati a “sopportarla” (o addirittura “offrirla”)! La Croce va presa attivamente, perché l’amico di Gesù si gioca l’onore.

La Fonte eminente e cristallina di vita intima consente di raggiungere il dono totale anche sotto il profilo della pubblica considerazione.

 

Dopo la sentenza di tribunale, il condannato al supplizio doveva caricarsi sulle spalle il braccio orizzontale del patibolo.

Era il momento più straziante, perché di massima solitudine e percezione di fallimento.

Lo sventurato e già svergognato procedeva al luogo dell’esecuzione passando fra due ali di folla che per dovere religioso deridevano e malmenavano il disgraziato (ritenuto maledetto da Dio).

Gesù non propone la Croce nel senso corrivo d’una necessaria sopportazione delle inevitabili contrarietà della vita, che poi attraverso l’ascesi cesella animi più capaci di abbozzare... (oggi si dice: resilienti).

Rispetto alle solite manfrine sulla sana disciplina - esteriore e interiore - uguali per tutti (e utili solo per tenere buona la situazione, di privilegio) Lc sta viceversa suggerendo un comportamento assai più radicale.

Il Signore propone un’ascetica totalmente differente da quella delle religioni - addirittura capovolta.

Il credente rinuncia alla reputazione. È lo spunto essenziale, dirimente, del carattere della Fede.

Chi è legato alla sua buona fama, ai ruoli, al personaggio (da recitare), alla mansione, al livello acquisito, non somiglierà mai al Signore - e neppure chi non dilata la dimensione tribale dell’interesse di “famiglia”.

 

Sin dai primi tempi, l’annuncio dell’autentico Messia ha creato divisioni: la spada della sua Persona separava la vicenda di ciascuno dal mondo di valori del clan di appartenenza o dall’idea di rispettabilità, anche nazionale.

Oggi capita la stessa cosa dove qualcuno annuncia il Vangelo com’è, e tenta di rinnovare i meccanismi inceppati dell’istituzione abitudinaria, attempata e di finto sangue blu sul territorio. Caricandosi della Croce di beffe conseguenti.

Una separazione e taglio nettissimo coi criteri di grandezza e successo, per l'unità nuova: quella che fa da crocevia della Verità senza doppiezze. Provare per credere.

Sembra un sogno privo di senso, ma questo è ciò che unisce la Chiesa al suo Signore: un cammino crocifiggente, dove si guadagna quello che si perde - anzitutto in considerazione.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali mutamenti senti come tua Chiamata? La reputazione e l’opinione in comunità, favorisce o ti blocca? Per quale motivo? La tua “famiglia” è rinchiusa in se stessa o agevola l’apertura d’orizzonte?

In questa domenica nella quale il Vangelo ci interroga sulla vera identità di Gesù, eccoci trasportati, insieme con i discepoli, sulla strada che conduce verso i villaggi della regione di Cesarea di Filippo. «E voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29), chiede loro Gesù. Il momento scelto per porre loro questa domanda non è senza significato. Gesù si trova ad una svolta decisiva della propria esistenza. Sale verso Gerusalemme, verso il luogo dove si compirà, mediante la croce e la resurrezione, l’evento centrale della nostra salvezza. E’ ancora a Gerusalemme che, allo sfociare di tutti questi eventi, la Chiesa nascerà. E quando, in questo momento decisivo, Gesù chiede dapprima ai discepoli: «La gente, chi dice che io sia?» (Mc 8,27), le risposte che essi gli riferiscono sono diverse: Giovanni il Battista, Elia, un profeta! Ancora oggi, come lungo i secoli, quanti, nei modi più disparati, hanno trovato Gesù sulla loro strada danno le proprie risposte. Sono approcci che possono permettere di trovare la via della verità. Ma, senza essere necessariamente falsi, rimangono insufficienti, poiché non raggiungono il cuore dell’identità di Gesù. Soltanto chi accetta di seguirlo sulla sua via, di vivere in comunione con lui nella comunità dei discepoli, può averne una conoscenza autentica. E’ allora che Pietro, il quale da un certo tempo è vissuto con Gesù, offre la propria risposta: «Tu sei il Messia» (Mc 8,29). Risposta giusta, senza alcun dubbio, ma ancora insufficiente, poiché Gesù sente il bisogno di precisarla. Egli intravede che la gente potrebbe servirsi di questa risposta per dei disegni che non sono i suoi, per suscitare false speranze temporali su di lui. Non si lascia intrappolare nei soli attributi del liberatore umano che molti attendono.

Annunciando ai suoi discepoli che dovrà soffrire, essere messo a morte prima di risuscitare, Gesù vuol far loro comprendere chi Egli è in verità. Un Messia sofferente, un Messia servo, e non un liberatore politico onnipotente. E’ il Servo obbediente alla volontà del Padre suo fino a perdere la propria vita. E’ ciò che annunciava già il profeta Isaia nella prima lettura. Così Gesù va contro quanto molti si aspettavano da lui. La sua affermazione è shoccante e sconcertante. E si sente la contestazione di Pietro, che lo rimprovera, rifiutando per il suo Maestro la sofferenza e la morte! Gesù è severo verso di lui, e fa capire che chi vuol essere suo discepolo deve accettare di essere servo, come Lui si è fatto Servo.

Porsi alla sequela di Gesù significa prendere la propria croce per accompagnarlo nel suo cammino, un cammino scomodo che non è quello del potere o della gloria terrena, ma quello che conduce necessariamente a rinunciare a se stessi, a perdere la propria vita per Cristo e il Vangelo, al fine di salvarla. Poiché siamo certi che questa via conduce alla risurrezione, alla vita vera e definitiva con Dio. Decidere di accompagnare Gesù Cristo che si è fatto il Servo di tutti esige un’intimità sempre più grande con Lui, ponendosi all’ascolto attento della sua Parola per attingervi l’ispirazione del nostro agire.

[Papa Benedetto, omelia a Beirut, 16 settembre 2012]

 

Sabato, 14 Settembre 2024 06:40

Non si fida di frettolose risposte

E voi chi dite che io sia?” (Mt 16, 15).

1. Nell’iniziare il ciclo di catechesi su Gesù Cristo, di fondamentale importanza per la fede e la vita cristiana, ci sentiamo interpellati dalla stessa domanda che quasi duemila anni fa il Maestro rivolse a Pietro e ai discepoli che erano con lui. In quel momento decisivo della sua vita, come nel suo Vangelo narra Matteo, che ne fu testimone, “essendo Gesù giunto nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”” (Mt 16, 13-15).

Conosciamo la risposta schietta e impetuosa di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Per poterla anche noi formulare, non tanto in termini astratti, ma come espressione di una esperienza vitale, frutto del dono del Padre (cf. Mt 16, 17), ciascuno di noi deve lasciarsi toccare personalmente dalla domanda: “E tu, che dici: chi sono io? Tu che senti parlare di me, rispondi: cosa sono io veramente per te?”. A Pietro l’illuminazione divina e la risposta della fede vennero dopo un lungo periodo di vicinanza a Gesù, di ascolto della sua parola e di osservazione della sua vita e del suo ministero (cf. Mt 16, 21-24).

Anche noi per giungere a una più consapevole confessione di Gesù Cristo dobbiamo percorrere, come Pietro, un cammino fatto di ascolto attento, premuroso. Dobbiamo metterci alla scuola dei primi discepoli, diventati suoi testimoni e nostri maestri, e insieme recepire l’esperienza e la testimonianza di ben venti secoli di storia solcati dalla domanda del Maestro e impreziositi dall’immenso coro delle risposte dei fedeli di tutti i tempi e luoghi. Oggi, mentre lo Spirito “Signore e Vivificante” ci spinge verso la soglia del terzo millennio cristiano, siamo chiamati a dare con gioia rinnovata la risposta che Dio ci ispira e attende da noi, quasi come per un nuovo natale di Gesù Cristo nella nostra storia.

2. La domanda di Gesù circa la sua identità mostra la finezza pedagogica di chi non si fida di frettolose risposte, ma vuole una risposta maturata attraverso un tempo, a volte lungo, di riflessione e di preghiera, nell’ascolto attento e intenso della verità della fede cristiana professata e predicata dalla Chiesa.

Riconosciamo infatti che di fronte a Gesù non ci si può accontentare di una simpatia semplicemente umana per quanto legittima e preziosa, né è sufficiente considerarlo solo come un personaggio degno di interesse storico, teologico, spirituale, sociale o come fonte di ispirazione artistica. Intorno a Cristo vediamo spesso ondeggiare, anche tra i cristiani, le ombre dell’ignoranza, o quelle ancora più penose del fraintendimento quando non addirittura della infedeltà. È sempre presente il rischio di appellarsi al “Vangelo di Gesù”, senza veramente conoscerne la grandezza e la radicalità e senza vivere ciò che a parole si afferma. Quanti sono coloro che riducono il Vangelo a loro misura e si fanno un Gesù più comodo, negandone la trascendente divinità, o vanificandone la reale, storica umanità, oppure manipolando l’integrità del suo messaggio, in particolare non tenendo conto del sacrificio della croce che domina la sua vita e la sua dottrina, né della Chiesa che egli ha istituito come suo “sacramento” nella storia.

Anche queste ombre ci stimolano alla ricerca della verità piena su Gesù, traendo vantaggio dalle molte luci che, come una volta con Pietro, il Padre ha acceso lungo i secoli intorno a Gesù nel cuore di tanti uomini con la potenza dello Spirito Santo: le luci dei testimoni fedeli fino al martirio; le luci di tanti studiosi appassionati, impegnati a scandagliare il mistero di Gesù con lo strumento dell’intelligenza sostenuta dalla fede; le luci che soprattutto il magistero della Chiesa, guidato dal carisma dello Spirito Santo, ha acceso nelle definizioni dogmatiche su Gesù Cristo.

Riconosciamo che uno stimolo a scoprire chi è veramente Gesù è presente nella ricerca incerta e trepidante di molti nostri contemporanei così somiglianti a Nicodemo che andò “di notte a trovare Gesù” (Gv 3, 2) o a Zaccheo che si arrampicò su un albero per “vedere Gesù” (Lc 19, 4). Il desiderio di aiutare ogni uomo a scoprire Gesù, che è venuto come medico per i malati e come salvatore per i peccatori (cf. Mc 2, 17), mi spinge ad assolvere il compito impegnativo e appassionante di presentare la figura di Gesù ai figli della Chiesa e a ogni uomo di buona volontà.

Forse ricorderete che, all’inizio del mio pontificato, rivolsi agli uomini di oggi l’invito a “spalancare le porte a Cristo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, I [1978] 38). In seguito, nell’esortazione Catechesi Tradendae (Ioannis Pauli PP. II, Catechesi Tradendae, 5), dedicata alla catechesi, facendomi portavoce del pensiero dei vescovi riuniti nel IV Sinodo, ho affermato che “l’oggetto essenziale e primordiale della catechesi è . . . il “mistero di Cristo”. Catechizzare è in un certo modo condurre qualcuno a scrutare questo mistero in tutte le sue dimensioni . . .; svelare nella persona di Cristo l’intero disegno eterno di Dio, che in essa si compie . . . Egli solo può condurre all’amore del Padre nello Spirito Santo e può farci partecipare alla vita della Santa Trinità” (Eiusdem, Catechesi Tradendae, 5).

Percorreremo insieme questo itinerario catechistico ordinando le nostre considerazioni intorno a quattro centri focali: 1) Gesù nella sua realtà storica e nella sua qualità messianica trascendente, figlio di Abramo, figlio dell’uomo e figlio di Dio; 2) Gesù nella sua identità di vero Dio e vero uomo, in profonda comunione con il Padre e animato dalla potenza della Spirito Santo, come ci viene presentato nel Vangelo; 3) Gesù agli occhi della Chiesa che con l’assistenza dello Spirito Santo ha chiarito e approfondito i dati rivelati dandoci, specialmente con i Concili ecumenici, precise formulazioni della fede cristologica; 4) infine, Gesù nella sua vita e nelle sue opere, Gesù nella sua passione redentrice e nella sua glorificazione, Gesù in mezzo a noi e in noi, nella storia e nella sua Chiesa fino alla fine del mondo (cf. Mt 28, 20).

3. È ben vero che nella Chiesa vi sono molti modi di catechizzare il popolo di Dio su Gesù. Ciascuno di essi, tuttavia, per essere autentico deve attingere il suo contenuto alla fonte perenne della santa Tradizione e della sacra Scrittura, interpretata alla luce degli insegnamenti dei Padri e Dottori della Chiesa, della liturgia, della fede e pietà popolare, in una parola, della Tradizione vivente e operante nella Chiesa sotto l’azione dello Spirito Santo, che - secondo la promessa del Maestro - “vi condurrà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16, 13). Tale Tradizione la riconosciamo espressa e sintetizzata particolarmente nella dottrina dei sacrosanti Concili, raccolta nei simboli della fede e approfondita dalla riflessione teologica fedele alla Rivelazione e al magistero della Chiesa.

Che cosa varrebbe una catechesi su Gesù se non avesse la genuinità e la completezza dello sguardo con cui la Chiesa contempla, prega e annuncia il suo mistero? D’altra parte si richiede una saggezza pedagogica che, nel rivolgersi ai destinatari della catechesi, sappia tener conto delle loro condizioni e dei loro bisogni. Come scrivevo nell’esortazione ora citata, Catechesi Tradendae: “La costante preoccupazione di ogni catechista - quale che sia il livello delle sue responsabilità nella Chiesa - deve essere quella di far passare attraverso il proprio insegnamento e il proprio comportamento, la dottrina e la vita di Gesù” (Giovanni Paolo II, Catechesi Tradendae, 6).

4. Concludiamo questa catechesi introduttiva, ricordando che Gesù in un momento particolarmente difficile della vita dei primi discepoli, quando cioè la croce si profilava vicina e molti lo abbandonavano, rivolse a coloro che erano rimasti con lui un’altra di quelle sue domande così forti, così penetranti e ineludibili: “Forse volete andarvene anche voi?”. Fu ancora Pietro che come interprete dei suoi fratelli rispose: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 66-69). Possano questi nostri appuntamenti catechistici renderci sempre più disponibili a lasciarci interrogare da Gesù, capaci ad avere la giusta risposta alle sue domande, pronti a condividere fino in fondo la sua vita.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 7 gennaio 1987]

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"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]
Who is freer than the One who is the Almighty? He did not, however, live his freedom as an arbitrary power or as domination (Pope Benedict)
Chi è libero più di Lui che è l'Onnipotente? Egli però non ha vissuto la sua libertà come arbitrio o come dominio (Papa Benedetto)
The Church with her permanent contradiction: between the ideal and reality, the more annoying contradiction, the more the ideal is affirmed sublime, evangelical, sacred, divine, and the reality is often petty, narrow, defective, sometimes even selfish (Pope Paul VI)
La Chiesa con la sua permanente contraddizione: tra l’ideale e la realtà, tanto più fastidiosa contraddizione, quanto più l’ideale è affermato sublime, evangelico, sacro, divino, e la realtà si presenta spesso meschina, angusta, difettosa, alcune volte perfino egoista (Papa Paolo VI)
St Augustine wrote in this regard: “as, therefore, there is in the Catholic — meaning the Church — something which is not Catholic, so there may be something which is Catholic outside the Catholic Church” [Pope Benedict]
Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» [Papa Benedetto]

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