don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mondo astratto e incarnazione

(Mt 11,25-30)

 

I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.

Ciò che rimane vincolato a costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.

Il Maestro si rallegra della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto, e capace di comprendere le profondità del Regno, nelle cose comuni.

Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.

Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.

 

In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto e non attendeva più nulla che potesse destare le abitudini.

Poi comprende, loda e benedice il disegno del Padre: la persona autentica nasce dai bassifondi, e possiede «lo spirito del vicinato» (FT n.152).

Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.

L’Eterno non è il padrone del creato: è Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca, si fa attento al linguaggio del cuore.

Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.25) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.

Così il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: coloro che sono dotati di un’attitudine da famigliari (v.27).

Insignificanti e invisibili privi di grandi doti, ma che si abbandonano alle proposte della vita provvidente che viene, come bimbi in braccio a dei genitori.

In tal guisa, con Spirito di pietas che favorisce chi si lascia colmare di saggezza innata.

Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.

Sapienza che trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere accogliere ritemprare personalmente la Verità come Dono, e l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.

Una preghiera di benedizione semplice, per i semplici - questa di Gesù (v.25) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi.

 

I nuovi, le nullità, i senza voce e invisibili non ragionano in termini di dottrina e leggi [vv.29-30: «giogo» insopportabile che schiaccia le persone e vocazioni concrete, particolari] ma di vita e di umanità.

Così arricchiscono l’esperienza fondamentale e spontanea della Fede-Amore, appagante senza manierismi né intime forzature.

Mentre l’esteriorità del mondo piramidale, la diffidenza di chi vuol “contare”, l’ansia della società competitiva, impoveriscono lo sguardo e contaminano l’onda vitale.

Anche noi, non apprezziamo troppo l’energia dei ‘modelli’, né la potenza aggressiva dei “pezzi grossi”.

Invece che solo con il “grande” ed esterno, desideriamo vivere di Comunione - pur con il ‘piccolo’ di sé, o non ci sarà amabilità, né autentica Vita.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»?

Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?

 

 

[s. Francesco d’Assisi, 4 ottobre]

(Mt 11,25-30)

 

Mondo astratto e incarnazione

(Mt 11,25-27)

 

«Il mondo dà credito ai “sapienti” e ai “dotti”, mentre Dio predilige i “piccoli”. L’insegnamento generale che ne deriva è che vi sono due dimensioni del reale: una più profonda, vera ed eterna, l’altra segnata dalla finitezza, dalla provvisorietà e dall’apparenza» [Papa Benedetto].

 

La Ragione larga di Dio non è secondo “fortuna”, o “misura”

 

A commento del Tao Tê Ching (iv) il maestro Ho-shang Kung scrive:

«I desideri umani sono acuminati e sottili, si sforzano di appropriarsi di merito e gloria. Quando sono smussati, l’uomo li padroneggia, e a imitazione della Via, non si riempie».

 

I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.

Gesù si trova contro persino i suoi famigliari. Sotto la cappa e il ricatto delle convenzioni sociali abitudinarie, anch’essi subivano il preconcetto del parere dei “grandi” e della evasiva tradizione orale, che non trasmetteva alimento al tessuto concreto del tempo umano.

Il Signore constata: persino gli Apostoli non sono persone libere; per questo non emancipano nessuno e addirittura impediscono qualsiasi svolta (cf. Lc 9).

Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.

La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire e valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.

 

Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze [o astrazioni] e soliti protagonisti [o pseudo maestri sofisticati] non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.

Il Maestro si rallegra della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto, e capace di comprendere le profondità del Regno, nelle cose comuni.

[A un certo punto del cammino spirituale, in Cristo ci si accorge di doversi distaccare dall’idolatria delle deferenze: soffocano e deridono la vita.

La Fede procede sul binario della Felicità della donna e dell’uomo concreti, resi viceversa fantoccio da una falsa pietà tutta esibizionista o disincarnata].

Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.

Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.

 

A conclusione dell’enciclica Fratelli Tutti, Papa Francesco cita la figura e l’esperienza di Charles de Foucauld, il quale - sovvertendo tutto - «solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti» (n.287).

In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto della struttura religiosa ufficiale e non attendeva più nulla che potesse spodestare la pista battuta, destando abitudini (o fantasie) e tornaconto.

Poi supera la sorpresa iniziale: coglie pienamente, loda e benedice il disegno del Padre, facendolo proprio, stringendolo a sé.

Porta a piena e propria contezza il suo Segreto: che Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è il nascondimento, la “tapineria” [(tapeínōsis, “abbassamento”), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29; Lc 1,48].

Qui il Figlio conosce e intende il nucleo delle Attese e delle Promesse dell’Alleanza, e i suoi protagonisti - a contrario: la Persona affidabile nasce appunto dai bassifondi, non dal ceto delle élites.

Insomma, Cristo intuisce  l’autenticità a tutto tondo proprio dei malfermi - impulso profondo, motivo, motore, quintessenza e unica energia della storia della salvezza.

Trasparenza dell’Eterno, che viene da un’altra elaborazione.

Genesi stessa che sconvolge il rapporto religioso consolidato, talora divenuto inerte e “rassicurante” - mai profondo né decisivo per le sorti umane.

 

Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.

L’Eterno non è più il padrone del creato [Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura].

Tutto il contrario. In tal guisa, di riflesso, e anche nel cammino spirituale, il Padre non ci porta all’alienazione, all’isterismo delle forzature che non vogliamo, alle dissociazioni interiori.

È Amico e Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca per Nome, si fa attento al linguaggio del cuore.

Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.25) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.

Già così come sono, “perfetti” in ordine alla loro missione nel mondo. Non bicchieri vuoti, solo da rieducare in funzione istituzionale.

Non più anime da cesellare secondo modelli.

Semmai, cuori da guidare a consapevolezza totale; anime da completare nel senso della scoperta completa di se stesse, negli opposti dell’essenza caratteriale, e vocazionale.

 

In tal guisa, il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: i dotati di un’attitudine da famigliari (v.27).

Capaci di convivenza, eppure più autonomi degli identificati e ben inseriti… totalmente impegnati a ricalcare, per farsi riconoscere.

I poveri restano genuini: ciò che sono; non esterni.

Insignificanti e invisibili, privi di grandi doti, ma stranamente sempre colmi di un’Altra “potenza”.

È la “virtù” dei malfermi, i quali si abbandonano alle proposte della vita provvidente che Viene, come bimbi in braccio a genitori.

Con Spirito di ‘pietas’ - che favorisce chi si lascia colmare di saggezza innata.

Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.

 

Sapienza che trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere, accogliere, ritemprare personalmente la Verità come Dono - e l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.

 

Una preghiera di benedizione semplice, per i semplici - questa di Gesù (v.25) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi; a partire dall’intimo.

Ma che stranamente i dotti sul territorio i quali non vivono «lo spirito del vicinato» (FT n.152) però sul territorio rivendicano posizioni e giocano sempre d’astuzia, non ci hanno mai voluto trasmettere.

I nuovi, le nullità, i senza voce e invisibili non ragionano in termini di dottrina e leggi - vv.29-30: «giogo» insopportabile che schiaccia le persone e vocazioni concrete, particolari - ma di vita e umanità.

Così arricchiscono l’esperienza fondamentale e spontanea della Fede-Amore, appagante senza manierismi né intime forzature che poi ci tirano fuori di noi stessi.

Perché l’esteriorità del mondo piramidale, la diffidenza di chi vuol “contare”, l’ansia della società competitiva ed epidermica, impoveriscono lo sguardo; contaminano l’onda vitale.

 

Per Dio, meglio “contare” poco.

Egli non ci forza nell’energia dei modelli, né prospetta come ideale la potenza aggressiva dei “pezzi grossi”.

In tal guisa, i suoi intimi, invece che solo con il “grande” ed esterno, vivranno di Comunione pur con il ‘piccolo’ di sé; o non godranno amabilità, né autentica vita.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»?

Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?

 

 

Il Giogo sui Piccoli

 

Religione trasformata in ossessione (per “trattenuti”)

(Mt 11,28-30)

 

I rabbini sceglievano i discepoli fra coloro che avevano maggiori capacità intellettive e ascetiche. Gesù invece va a cercare i fuori del giro, gli «infanti» (v.25) che neppure avevano stima di sé.

Anche per la rinascita che oggi si prospetta, Cristo non ha bisogno di finti fenomeni, anzi è Lui che libera da costrizioni esterne; sprigiona la forza interiore (e sana pure il cervello). 

Nell’intimità del Mistero della vita divina entra chi sa ricevere tutto e molla la presa - ma rimane se stesso.

Dio non è lontanissimo, bensì vicinissimo; non è grande, ma piccolo: l’itinerario efficace per diventare intimi col Padre non è farsi subalterni con sforzo, ma sapersi famigliari disciolti.

Solo qui possiamo coglierlo nel centro del suo svelamento: potenza sapiente, soccorrevole, unita; per noi, come siamo.

 

Gli esperti della religione ufficiale - stracolmi di amor proprio e senso d’elezione - predicavano un Dio da convincere con atteggiamenti sicuri e fare artificioso, tagliente, imperioso.

Non lasciavano essere né diventare. L’intransigenza era segno che non conoscevano il Padre.

L’Eterno trasformato in Controllore era divenuto fonte di discriminazione e ossessione per la vita intima delle persone minute, vessate dall’insicurezza del distinguere-evitare-osservare, e dai dubbi di coscienza.

Scomodati dal vivere in prima persona (e come ceto) la conversione che predicavano agli altri, i professori non s’accorgevano di doversi svuotare di assurde presunzioni e diventare - loro - alunni della gente normale.

 

Insomma, come figli siamo incessantemente invitati a edificare Famiglia poliedrica, dove non si sta sempre in allerta.

Non siamo i sottoposti d’un Signore accigliato e tutto distante - però manipolatore.

Piuttosto, i chiamati a una scelta paradossale, personale e di ceto: senza forzature, riconoscersi e mettersi a fianco degli umiliati e vessati.

Ciò mentre la falsa pietà di provincia continua a far trascinare fardelli - proprio quelli dei contrastati e stancati, dall’esistenza resa più esitante anziché libera; ossessionata e greve, anziché leggera.

Perché? Senza giri di parole, l’Enciclica Fratelli Tutti risponderebbe:

«Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori» (n.15).

Come dire: quando le autorità e i primi della classe sono poco credibili, unicamente la seminagione della paura produce significativi condizionamenti nel popolo, e lo mette a guinzaglio.

 

Nella Chiesa diffusa, solo da pochi decenni abbiamo superato il cliché delle predicazioni moralistiche e terroristiche, (p.es. anche in tempo di Avvento) disgiunte da un meridiano senso di umanizzazione.

Gli esclusi, abbattuti e sfiancati da adempimenti senza senso hanno tuttavia continuato a incontrare il Salvatore francamente, trovando riposo dell’anima, convinzione, pace, equilibrio, speranza.

D’istinto, sono riusciti a ritagliarsi ciò che nessuna religione piramidale aveva mai saputo porgere e dispiegare.

Infatti, i nuovi, le nullità, i senza voce inadeguati e invisibili non sanno calcolare in termini di dottrina e leggi, norma e codice - «giogo» antico (vv.29-30) insopportabile, che schiaccia persone e vocazioni concrete; autonomie o comunionalità particolari.

Insomma, nessun “patriarca” è abilitato da Dio a impacchettare la nostra anima, forzare le direzioni e tenerci d’occhio in modo maniacale, perfezionista e meticoloso.

Esasperando i fallimenti, a tutto campo.

 

Ciascuno ha un modo di stare al mondo connaturato, tutto suo - perfino se abitudinario. È opportunità d’impulso e ricchezza per tutti.

Noi stessi non vogliamo esacerbare gli eventi regolando ogni dettaglio anche “spirituale” a partire da schemi irritanti di vigilanza che non ci appartengono.

Preferiamo lasciar fluire i modi personali di affrontare la realtà; così rintracciandone le energie essenziali e spontanee.

Ragioniamo secondo codici di vita e umanizzazione: indole, storia irripetibile, influssi culturali, amicizie di carattere largo. Non viviamo per prevenire.

Solo così possiamo arricchire l’esperienza fondamentale: l’Amore - che non viene da giudizi, tagli e separazioni, ma dalla relazione Padre-Figlio. Unica che non stizzisce.

Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è appunto il nascondimento, la “tapineria” [(tapeínōsis, “abbassamento”), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29 testo greco; Lc 1,48].

 

Solo chi ama la forza inizia dal troppo distante da sé.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In comunità ti cogli più o meno libero e sereno?

La tua Chiamata ottiene respiro o senti l’aggravio altrui di dubbi, giudizi, divieti e prescrizioni?

Subisci da qualche guida o da te stesso una sorta di complesso del controllore?

Cari fratelli e sorelle,

le parole del Signore, che abbiamo ascoltato poc’anzi nel brano evangelico, sono un sfida per noi teologi, o forse, per meglio dire, un invito a un esame di coscienza: che cosa è la teologia? che cosa siamo noi teologi? come fare bene teologia? Abbiamo sentito che il Signore loda il Padre perché ha nascosto il grande mistero del Figlio, il mistero trinitario, il mistero cristologico, davanti ai sapienti, ai dotti – essi non l’hanno conosciuto -, ma lo ha rivelato ai piccoli, ai nèpioi, a quelli che non sono dotti, che non hanno una grande cultura. A loro è stato rivelato questo grande mistero.

Con queste parole il Signore descrive semplicemente un fatto della sua vita; un fatto che inizia già ai tempi della sua nascita, quando i Magi dell’Oriente chiedono ai competenti, agli scribi, agli esegeti il luogo della nascita del Salvatore, del Re d’Israele. Gli scribi lo sanno perché sono grandi specialisti; possono dire subito dove nasce il Messia: a Betlemme! Ma non si sentono invitati ad andare: per loro rimane una conoscenza accademica, che non tocca la loro vita; rimangono fuori. Possono dare informazioni, ma l’informazione non diventa formazione della propria vita.

Poi, durante tutta la vita pubblica del Signore troviamo la stessa cosa. È inaccessibile per i dotti comprendere che questo uomo non dotto, galileo, possa essere realmente il Figlio di Dio. Rimane inaccettabile per loro che Dio, il grande, l’unico, il Dio del cielo e della terra, possa essere presente in questo uomo. Sanno tutto, conoscono anche Isaia 53, tutte le grandi profezie, ma il mistero rimane nascosto. Viene invece rivelato ai piccoli, iniziando dalla Madonna fino ai pescatori del lago di Galilea. Essi conoscono, come pure il capitano romano sotto la croce conosce: questi è il Figlio di Dio.

I fatti essenziali della vita di Gesù non appartengono solo al passato, ma sono presenti, in modi diversi, in tutte le generazioni. E così anche nel nostro tempo, negli ultimi duecento anni, osserviamo la stessa cosa. Ci sono grandi dotti, grandi specialisti, grandi teologi, maestri della fede, che ci hanno insegnato molte cose. Sono penetrati nei dettagli della Sacra Scrittura, della storia della salvezza, ma non hanno potuto vedere il mistero stesso, il vero nucleo: che Gesù era realmente Figlio di Dio, che il Dio trinitario entra nella nostra storia, in un determinato momento storico, in un uomo come noi. L’essenziale è rimasto nascosto! Si potrebbero facilmente citare grandi nomi della storia della teologia di questi duecento anni, dai quali abbiamo imparato molto, ma non è stato aperto agli occhi del loro cuore il mistero.

Invece, ci sono anche nel nostro tempo i piccoli che hanno conosciuto tale mistero. Pensiamo a santa Bernardette Soubirous; a santa Teresa di Lisieux, con la sua nuova lettura della Bibbia “non scientifica”, ma che entra nel cuore della Sacra Scrittura; fino ai santi e beati del nostro tempo: santa Giuseppina Bakhita, la beata Teresa di Calcutta, san Damiano de Veuster. Potremmo elencarne tanti!

Ma da tutto ciò nasce la questione: perché è così? È il cristianesimo la religione degli stolti, delle persone senza cultura, non formate? Si spegne la fede dove si risveglia la ragione? Come si spiega questo? Forse dobbiamo ancora una volta guardare alla storia. Rimane vero quanto Gesù ha detto, quanto si può osservare in tutti i secoli. E tuttavia c’è una “specie” di piccoli che sono anche dotti. Sotto la croce sta la Madonna, l’umile ancella di Dio e la grande donna illuminata da Dio. E sta anche Giovanni, pescatore del lago di Galilea, ma è quel Giovanni che sarà chiamato giustamente dalla Chiesa “il teologo”, perché realmente ha saputo vedere il mistero di Dio e annunciarlo: con l’occhio dell’aquila è entrato nella luce inaccessibile del mistero divino. Così, anche dopo la sua risurrezione, il Signore, sulla strada verso Damasco, tocca il cuore di Saulo, che è uno dei dotti che non vedono. Egli stesso, nella prima Lettera a Timoteo, si definisce “ignorante” in quel tempo, nonostante la sua scienza. Ma il Risorto lo tocca: diventa cieco e, al tempo stesso, diventa realmente vedente, comincia a vedere. Il grande dotto diviene un piccolo, e proprio per questo vede la stoltezza di Dio che è saggezza, sapienza più grande di tutte le saggezze umane.

Potremmo continuare a leggere tutta la storia in questo modo. Solo un’osservazione ancora. Questi dotti sapienti, sofòi e sinetòi, nella prima lettura, appaiono in un altro modo. Qui sofia e sínesis sono doni dello Spirito Santo che riposano sul Messia, su Cristo. Che cosa significa? Emerge che c’è un duplice uso della ragione e un duplice modo di essere sapienti o piccoli. C’è un modo di usare la ragione che è autonomo, che si pone sopra Dio, in tutta la gamma delle scienze, cominciando da quelle naturali, dove un metodo adatto per la ricerca della materia viene universalizzato: in questo metodo Dio non entra, quindi Dio non c’è. E così, infine, anche in teologia: si pesca nelle acque della Sacra Scrittura con una rete che permette di prendere solo pesci di una certa misura e quanto va oltre questa misura non entra nella rete e quindi non può esistere. Così il grande mistero di Gesù, del Figlio fattosi uomo, si riduce a un Gesù storico: una figura tragica, un fantasma senza carne e ossa, un uomo che è rimasto nel sepolcro, si è corrotto ed è realmente un morto. Il metodo sa “captare” certi pesci, ma esclude il grande mistero, perché l’uomo si fa egli stesso la misura: ha questa superbia, che nello stesso tempo è una grande stoltezza perché assolutizza certi metodi non adatti alle realtà grandi; entra in questo spirito accademico che abbiamo visto negli scribi, i quali rispondono ai Re magi: non mi tocca; rimango chiuso nella mia esistenza, che non viene toccata. È la specializzazione che vede tutti i dettagli, ma non vede più la totalità.

E c’è l’altro modo di usare la ragione, di essere sapienti, quello dell’uomo che riconosce chi è; riconosce la propria misura e la grandezza di Dio, aprendosi nell’umiltà alla novità dell’agire di Dio. Così, proprio accettando la propria piccolezza, facendosi piccolo come realmente è, arriva alla verità. In questo modo, anche la ragione può esprimere tutte le sue possibilità, non viene spenta, ma si allarga, diviene più grande. Si tratta di un’altra sofìa e sìnesis, che non esclude dal mistero, ma è proprio comunione con il Signore nel quale riposano sapienza e saggezza, e la loro verità.

In questo momento vogliamo pregare perché il Signore ci dia la vera umiltà. Ci dia la grazia di essere piccoli per poter essere realmente saggi; ci illumini, ci faccia vedere il suo mistero della gioia dello Spirito Santo, ci aiuti a essere veri teologi, che possono annunciare il suo mistero perché toccati nella profondità del proprio cuore, della propria esistenza. Amen.

[Papa Benedetto, omelia ai membri della Commissione Teologica internazionale, 1 dicembre 2009]

Venerdì, 26 Settembre 2025 05:19

Ripara il Tempio, fortifica il Santuario

1. “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25).

Veniamo qui, cari fratelli, per ripetere con Cristo Signore queste parole, per “benedire il Padre”.

– veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi;

– le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”;

– le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”;

– queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco.

Mediante Francesco di Pietro di Bernardone, figlio cioè di un ricco commerciante d’Assisi, che abbandonò tutta l’eredità del padre terreno e sposò “Madonna Povertà”, l’eredità del Padre celeste offertagli in Cristo crocifisso e risorto.

Il primo scopo del nostro pellegrinaggio di quest’anno ad Assisi è di rendere gloria a Dio.

In spirito di venerazione, celebriamo pure insieme l’Eucaristia, noi tutti, Pastori della Chiesa che è in Italia con il Vescovo di Roma, successore di Pietro.

2. “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te” (Mt 11, 26).

Dopo otto secoli sono rimaste le reliquie e i ricordi. Tutta Assisi è una viva reliquia e una testimonianza dell’uomo. Dell’uomo soltanto? Dell’uomo insolito soltanto?

– Essa è la testimonianza di un particolare compiacimento che il Padre Celeste, per opera del suo Figlio Unigenito, ebbe in questo uomo, in questo “piccolino”, nel “Poverello”, in Francesco che – come pochissimi nel corso della storia della Chiesa e dell’umanità – ha imparato da Cristo ad essere mite e umile di cuore.

Sì, Padre, tale fu il tuo compiacimento. Tanti uomini vengono qui per seguire le orme del tuo compiacimento. Oggi veniamo noi, Vescovi d’Italia.

Siamo venuti per chiudere e, al tempo stesso, coronare in questo anno giubilare di san Francesco d’Assisi l’opera svoltasi durante l’anno intero della visita “ad limina Apostolorum” alla quale la tradizione e la legge della Chiesa hanno invitato il nostro episcopato proprio in questo tempo.

3. Ci troviamo in presenza del Santo, che contemporaneamente è il patrono d’Italia, quindi Colui che tra i numerosi figli e figlie di questa terra, canonizzati e beatificati, unisce in modo particolare l’Italia con la Chiesa. Infatti, compito della Chiesa è di proclamare e realizzare in ogni nazione quella vocazione alla santità che abbiamo dal Padre nello Spirito Santo per opera di Cristo crocifisso e risorto; di questo Cristo, le cui ferite san Francesco d’Assisi portò nel suo corpo: “Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo” (Gal 6, 17).

Ci troviamo quindi alla sua presenza e meditiamo sulle parole del Vangelo, frase dopo frase:

“Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).

Ecco, ci troviamo davanti ad un uomo, al quale il Figlio di Dio ha voluto rivelare, in misura particolare e con particolare abbondanza, ciò che gli è stato dato dal Padre per tutti gli uomini, per tutti i tempi. Certo, Francesco fu mandato col Vangelo di Cristo specialmente ai suoi tempi, a trapasso dal XII al XIII secolo, in pieno medioevo italiano, che fu periodo splendido e insieme difficile: ma ogni epoca ne ha conservato in sé qualche cosa. Tuttavia, la missione francescana non si è conclusa allora; essa dura tuttora.

Ed ecco noi, Vescovi e Pastori della Chiesa, ai quali sono affidati il Vangelo e la Chiesa dei nostri tempi – quanto apparentemente splendidi, quanto lontani dal medioevo secondo la misura del progresso terreno! e insieme quanto, quanto difficili! – noi Vescovi e Pastori della Chiesa in questa medesima Italia, preghiamo soprattutto per una cosa. Preghiamo che si compiano su di noi le stesse parole del nostro Maestro, che si sono compiute su san Francesco; che siamo i depositari sicuri della Rivelazione del Figlio! che siamo i fedeli amministratori di ciò che il Padre stesso ha tramandato al Figlio Unigenito, nato dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo. Che siamo amministratori di questa verità e di quest’amore, di questa parola e di questa salvezza, che l’umanità intera e ogni uomo e ogni nazione hanno in lui e da lui; perché “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 27).

Tale è lo scopo pastorale e apostolico del nostro odierno pellegrinaggio.

4. Ed ecco, Francesco sembra rivolgersi a noi e parlarci con gli accenti di Paolo apostolo: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia col vostro spirito, fratelli” (Gal 6, 18)!

Grazie, santo Poverello, per questi auguri con i quali ci stai ricevendo!

Guardando con gli occhi dello spirito

la tua figura 

e meditando sulle parole della lettera ai Galati, 

con le quali ci parla l’odierna liturgia, 

desideriamo imparare da te 

questa “appartenenza a Gesù”, 

di cui tutta la tua vita costituisce 

un così perfetto esempio e modello. 

“Quanto a me... 

non ci sia altro vanto che nella croce 

del Signore nostro Gesù Cristo, 

per mezzo della quale il mondo per me 

è stato crocifisso come io per il mondo” (Gal 6, 14).

Sentiamo le parole di Paolo, 

che pure sono, Francesco, 

le tue parole. 

Il tuo spirito si esprime in esse. 

Gesù Cristo ti ha consentito, 

così come un tempo 

aveva consentito a quell’Apostolo, 

che divenne “strumento eletto” (At 9, 15), 

di “vantarsi”, soltanto ed esclusivamente, 

nella Croce della nostra Redenzione.

In questo modo sei arrivato al cuore stesso 

della conoscenza della verità su Dio, 

sul mondo e sull’uomo; 

verità che si può vedere 

soltanto con gli occhi dell’amore.

Ora che ci troviamo davanti a te, 

come successori degli Apostoli, 

mandati agli uomini dei nostri tempi 

con lo stesso Vangelo della Croce di Cristo, 

chiediamo: insegnaci, così come l’apostolo Paolo 

ha insegnato a te, 

a non avere “altro vanto che 

nella Croce del Signore nostro Gesù Cristo”.

Che ciascuno di noi, 

con tutta la perspicacia del dono del timore, 

della sapienza e della fortezza, 

sappia penetrare nella verità 

di queste parole circa la Croce 

in cui inizia la “nuova creatura”, 

circa la Croce che porta costantemente 

all’umanità “la pace e la misericordia”.

Mediante la Croce Dio si è espresso fino alla fine nella storia dell’uomo; Dio che è “ricco di misericordia” (Ef 2, 4). Nella Croce è rivelata la gloria dell’Amore disposto a tutto. Soltanto con la Croce nella mano – come un libro aperto – l’uomo può imparare fino in fondo se stesso e la sua dignità.

Egli deve infine, fissando gli occhi sulla Croce, chiedersi: “chi sono” io, uomo, agli occhi di Dio, se egli paga per me e per il mio amore un tale prezzo!

“La Croce sul Calvario – ho scritto nell’enciclica "Redemptor Hominis" – per mezzo della quale Gesù Cristo – uomo, figlio di Maria Vergine, figlio putativo di Giuseppe di Nazaret – "lascia" questo mondo, è al tempo stesso una nuova manifestazione dell’eterna paternità di Dio, il quale in lui si avvicina di nuovo all’umanità, ad ogni uomo, donandogli il tre volte santo "Spirito di Verità" (cf. Gv 16, 13)... Il suo è amore che non indietreggia davanti a nulla di ciò che in lui stesso esige la giustizia.

E per questo il Figlio 

"che non aveva conosciuto peccato, 

Dio lo trattò da peccato in nostro favore" (2 Cor 5, 21; cf. Gal 3, 13). 

Se "trattò da peccato" 

Colui che era assolutamente 

senza alcun peccato, 

lo fece per rivelare l’amore 

che è sempre più grande 

di tutto il creato, 

l’amore che è lui stesso, 

perché "Dio è amore" (1 Gv 4, 8.16)” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 9).

Proprio così hai guardato le cose 

tu, Francesco. 

Ti hanno chiamato “Poverello d’Assisi”, 

e tu eri e sei rimasto 

uno degli uomini che hanno donato 

più generosamente agli altri. 

Avevi quindi un’enorme ricchezza, 

un grande tesoro. 

E il segreto della tua ricchezza 

si nascondeva nella Croce di Cristo.

Insegna a noi, 

Vescovi e Pastori del XX secolo 

che si sta avviando verso la fine, 

a vantarci similmente nella Croce, 

insegnaci questa ricchezza nella povertà 

e questo donare nell’abbondanza.

5. Nella prima lettura del libro del Siracide sono ricordate le parole sul sommo sacerdote Simone, figlio di Onia, che “nella sua vita riparò il tempio e nei suoi giorni fortificò il santuario” (Sir 50, 1).

La liturgia riferisce queste parole a Francesco d’Assisi. Egli rimase nella tradizione, nella letteratura e nell’arte come colui che “riparò il tempio... e fortificò il santuario”. Come colui che “premuroso di impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città contro un assedio (Sir 50, 4).

La lettura continua a parlare ancora di Simone, figlio di Onia, e noi riferiamo tali parole a Francesco, figlio di Pietro di Bernardone. A lui applichiamo anche questi paragoni:

“Come un astro mattutino fra le nubi, / come la luna nei giorni in cui è piena, / come il sole sfolgorante sul tempio dell’Altissimo, / come l’arcobaleno splendente fra nubi di gloria” (Sir 50, 6-7).

6. Volentieri prendiamo queste parole in prestito dal libro del Siracide per venerare, dopo ottocento anni, Francesco d’Assisi, patrono d’Italia.

Per questo siamo venuti qui noi tutti, Vescovi e Pastori della Chiesa che è in tutta l’Italia insieme col Vescovo di Roma, successore di Pietro.

Tuttavia lo scopo del nostro pellegrinaggio è particolarmente apostolico e pastorale.

Quando sentiamo le parole di Cristo sul giogo che è dolce e sul carico che è leggero, (cf. Mt 11, 30) pensiamo alla nostra missione di Vescovi e al servizio pastorale.

E ripetiamo con fiducia e con gioia le parole del Salmo responsoriale: “Ho detto a Dio: "Sei tu il mio Signore, /senza di te non ho alcun bene". / Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita. / Benedico il Signore che mi ha dato consiglio... / Io pongo sempre innanzi a me il Signore, / sta alla mia destra, non posso vacillare” (Sal 15 [16]).

Con gioia abbiamo accettato l’invito di venire qui ad Assisi, sentito in certo modo nelle parole del nostro Signore e Maestro: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Speriamo che esse si attuino su di noi tutti, così come anche quelle ulteriori: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11, 29).

Così vogliamo, Cristo! Così desideriamo! Con un tale pensiero siamo venuti oggi ad Assisi. Ti ringraziamo per il santo “carico” del sacerdozio e dell’episcopato. Ti ringraziamo per san Francesco, che non si è sentito degno di accettare l’ordinazione sacerdotale. Eppure a lui hai affidato, in modo così eccezionale, la tua Chiesa.

7. Ed ecco, guardando verso Francesco che “povero e umile, entra ricco nel cielo, onorato con inni celesti” (Cant. ad Evang.), vorremmo ancora applicare a lui le parole del libro del Siracide, che tanto bene riassumono la sua celebre visione: “Francesco, abbi premura di impedire la caduta del tuo popolo”!

Francesco! come nella tua vita, così anche adesso, ripara il tempio! Fortifica il santuario!

Per questo preghiamo noi, Pastori della Chiesa, che alla scuola del Concilio Vaticano II abbiamo imparato nuovamente a circondare con una comune sollecitudine la Chiesa, l’Italia e il mondo contemporaneo.

E con le nostre amatissime popolazioni ripetiamo:

“Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: / nelle tue mani è la mia vita. / Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;... / Io pongo sempre innanzi a me il Signore”.

Si, fratelli e sorelle, sempre! E così sia.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Assisi 12 marzo 1982]

«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). 

Pace e bene a tutti! Con questo saluto francescano vi ringrazio per essere venuti qui, in questa Piazza, carica di storia e di fede, a pregare insieme.

Oggi anch’io, come tanti pellegrini, sono venuto per rendere lode al Padre di tutto ciò che ha voluto rivelare a uno di questi “piccoli” di cui ci parla il Vangelo: Francesco, figlio di un ricco commerciante di Assisi. L’incontro con Gesù lo portò a spogliarsi di una vita agiata e spensierata, per sposare “Madonna Povertà” e vivere da vero figlio del Padre che è nei cieli. Questa scelta, da parte di san Francesco, rappresentava un modo radicale di imitare Cristo, di rivestirsi di Colui che, da ricco che era, si è fatto povero per arricchire noi per mezzo della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9). In tutta la vita di Francesco l’amore per i poveri e l’imitazione di Cristo povero sono due elementi uniti in modo inscindibile, le due facce di una stessa medaglia.        

Che cosa testimonia san Francesco a noi, oggi? Che cosa ci dice, non con le parole – questo è facile – ma con la vita?

1. La prima cosa che ci dice, la realtà fondamentale che ci testimonia è questa: essere cristiani è un rapporto vitale con la Persona di Gesù, è rivestirsi di Lui, è assimilazione a Lui.

Da dove parte il cammino di Francesco verso Cristo? Parte dallo sguardo di Gesù sulla croce. Lasciarsi guardare da Lui nel momento in cui dona la vita per noi e ci attira a Lui. Francesco ha fatto questa esperienza in modo particolare nella chiesetta di san Damiano, pregando davanti al crocifisso, che anch’io oggi potrò venerare. In quel crocifisso Gesù non appare morto, ma vivo! Il sangue scende dalle ferite delle mani, dei piedi e del costato, ma quel sangue esprime vita. Gesù non ha gli occhi chiusi, ma aperti, spalancati: uno sguardo che parla al cuore. E il Crocifisso non ci parla di sconfitta, di fallimento; paradossalmente ci parla di una morte che è vita, che genera vita, perché ci parla di amore, perché è l’Amore di Dio incarnato, e l’Amore non muore, anzi, sconfigge il male e la morte. Chi si lascia guardare da Gesù crocifisso viene ri-creato, diventa una «nuova creatura». Da qui parte tutto: è l’esperienza della Grazia che trasforma, l’essere amati senza merito, pur essendo peccatori. Per questo Francesco può dire, come san Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14).

Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: insegnaci a rimanere davanti al Crocifisso, a lasciarci guardare da Lui, a lasciarci perdonare, ricreare dal suo amore.

2. Nel Vangelo abbiamo ascoltato queste parole: «Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,28-29).

Questa è la seconda cosa che Francesco ci testimonia: chi segue Cristo, riceve la vera pace, quella che solo Lui, e non il mondo, ci può dare. San Francesco viene associato da molti alla pace, ed è giusto, ma pochi vanno in profondità. Qual è la pace che Francesco ha accolto e vissuto e ci trasmette?  Quella di Cristo, passata attraverso l’amore più grande, quello della Croce. E’ la pace che Gesù Risorto donò ai discepoli quando apparve in mezzo a loro (cfr Gv 20,19.20).

La pace francescana non è un sentimento sdolcinato. Per favore: questo san Francesco non esiste! E neppure è una specie di armonia panteistica con le energie del cosmo… Anche questo non è francescano! Anche questo non è francescano, ma è un’idea che alcuni hanno costruito! La pace di san Francesco è quella di Cristo, e la trova chi “prende su di sé” il suo “giogo”, cioè il suo comandamento: Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato (cfr Gv 13,34; 15,12). E questo giogo non si può portare con arroganza, con presunzione, con superbia, ma solo si può portare con mitezza e umiltà di cuore.

Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: insegnaci ad essere “strumenti della pace”, della pace che ha la sua sorgente in Dio, la pace che ci ha portato il Signore Gesù. 

3. Francesco inizia il Cantico così: “Altissimo, onnipotente, bon Signore… Laudato sie… cun tutte le tue creature” (FF, 1820). L’amore per tutta la creazione, per la sua armonia! Il Santo d’Assisi testimonia il rispetto per tutto ciò che Dio ha creato e come Lui lo ha creato, senza sperimentare sul creato per distruggerlo; aiutarlo a crescere, a essere più bello e più simile a quello che Dio ha creato. E soprattutto san Francesco testimonia il rispetto per tutto, testimonia che l’uomo è chiamato a custodire l’uomo, che l’uomo sia al centro della creazione, al posto dove Dio - il Creatore - lo ha voluto. Non strumento degli idoli che noi creiamo! L’armonia e la pace! Francesco è stato uomo di armonia, uomo di pace. Da questa Città della Pace, ripeto con la forza e la mitezza dell’amore: rispettiamo la creazione, non siamo strumenti di distruzione! Rispettiamo ogni essere umano: cessino i conflitti armati che insanguinano la terra, tacciano le armi e dovunque l’odio ceda il posto all’amore, l’offesa al perdono e la discordia all’unione. Sentiamo il grido di coloro che piangono, soffrono e muoiono a causa della violenza, del terrorismo o della guerra, in Terra Santa, tanto amata da san Francesco, in Siria, nell’intero Medio Oriente, in tutto il mondo. 

Ci rivolgiamo a te, Francesco, e ti chiediamo: ottienici da Dio il dono che in questo nostro mondo ci sia armonia, pace e rispetto per il Creato!  

Non posso dimenticare, infine, che oggi l’Italia celebra san Francesco quale suo Patrono. […] Preghiamo per la Nazione italiana, perché ciascuno lavori sempre per il bene comune, guardando a ciò che unisce più che a ciò che divide. 

Faccio mia la preghiera di san Francesco per Assisi, per l’Italia, per il mondo: «Ti prego dunque, o Signore Gesù Cristo, padre delle misericordie, di non voler guardare alla nostra ingratitudine, ma di ricordarti sempre della sovrabbondante pietà che in [questa città] hai mostrato, affinché sia sempre il luogo e la dimora di quelli che veramente ti conoscono e glorificano il tuo nome benedetto e gloriosissimo nei secoli dei secoli. Amen» (Specchio di perfezione, 124: FF, 1824).

[Papa Francesco, omelia Assisi 4 ottobre 2013]

Perché l’Annuncio, senza nodi alla gola

(Lc 10,13-16)

 

La differenza tra religiosità e Fede è nel Soggetto, della Vita nello Spirito: non siamo noi a disporre, allestire, cieli e terra nuovi - bensì la Grazia che silenziosamente dissoda e precede.

Ecco perché nell’Annuncio non siamo orfani, e con tanti nodi alla gola.

Il Maestro stesso non è solo. La testimonianza anche dei non discepoli si inserisce nella Via del Cristo verso il Padre.

Strada che Viene. Non è l’impegno “interno” assodato che edifica un mondo più autentico, dai tratti divini.

È piuttosto il Regno - effusivo in se stesso - che dà origine al cammino verso i “lontani”, e attiva scenari impensabili.

Essi giungono a noi come proposta di Pace: apertura a un Disegno più vasto, e giustizia interumana.

L’esperienza variegata, l’ambiente pieno di sorprese dei non seguaci, genera fioriture, di ciascuno - nella scoperta del limite, dei propri stati profondi - per la comunione.

Nessuna riserva elettiva; nessun diritto di prelazione. Salvezza secondo il Padre, non “a modo nostro”.

 

Il Vangelo supera le barriere di popoli e se necessario lascia indietro la sua culla di culture attenuanti, chiuse in una mentalità ingessata, forse intollerante; seccata di tutto.

Chi in piena avvertenza e deliberato consenso rigetta la Parola perché il mondo non sarà più “come prima”, si ritrova d’improvviso senza speranza, senza figli, senza possibilità di vita e d’espandersi.

Senza Presenza, senza la Spiritualità del Patto - che concatena ogni testimone al Figlio e al Padre. E solo Dio può superare la forza degli ostacoli; potenze interne ed esterne.

Unicamente nella fiaccola della condizione divina [autentica Sorgente, misura che Cristo vive e ci stupisce] si apprende il senso del nostro essere, comunicare, andare.

L’inaccessibile interroga, e diventa vicinissimo. Annienta le zavorre esclusive, che permangono invano.

Così l’Annuncio scatena lo Spirito, spalanca porte inusitate: anche una finestra sul mondo interiore. Dove gli opposti hanno già diritto di esistere. Anzi, chiamano all’Alleanza nuova, che insegna a stare coi lati che non piacciono.

 

In tal guisa indagheremo e scopriremo: la lotta dei blocchi, delle paure di ciò che non vogliamo vedere all’esterno e dentro di noi, deve cessare.

Le tendenze che pensavamo dovessero essere negate diventano fonte imprevedibile di altre luci e virtù, intime e nei rapporti.

Anche e soprattutto le ombre chiamano l’Esodo, un nuovo Patto - dove non siamo assolutamente soli e unilaterali, bensì più completi.

Insomma, il Mistero che ci abita oltrepassa i lacci delle convinzioni, ci rende meno divisi. A partire dalla scaturigine dell’essere.

Si fa trascendenza-immanenza reale, stringente; per tutti. Consapevolezza di Vita Nuova.

«Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me ma chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato» (v.16).

«Il Padre infatti non giudica nessuno ma ha dato ogni giudizio al Figlio affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato» (Gv 5,22-23).

 

 

[Venerdì 26.a sett. T.O.  3 ottobre 2025]

Giovedì, 25 Settembre 2025 02:56

Il Soggetto. Chi disprezza voi, disprezza me.

Silenzio e contemplazione servono per poter trovare nella dispersione di ogni giorno questa profonda, continua, unione con Dio. Silenzio e contemplazione: la bella vocazione del teologo è parlare. Questa è la sua missione: nella loquacità del nostro tempo, e di altri tempi, nell’inflazione delle parole, rendere presenti le parole essenziali. Nelle parole rendere presente la Parola, la Parola che viene da Dio, la Parola che è Dio.

Ma come potremmo, essendo parte di questo mondo con tutte le sue parole, rendere presente la Parola nelle parole, se non mediante un processo di purificazione del nostro pensare, che soprattutto deve essere anche un processo di purificazione delle nostre parole? Come potremmo aprire il mondo, e prima noi stessi, alla Parola senza entrare nel silenzio di Dio, dal quale procede la sua Parola? Per la purificazione delle nostre parole, e quindi per la purificazione delle parole del mondo, abbiamo bisogno di quel silenzio che diventa contemplazione, che ci fa entrare nel silenzio di Dio e così arrivare al punto dove nasce la Parola, la Parola redentrice.

San Tommaso d'Aquino, con una lunga tradizione, dice che nella teologia Dio non è l'oggetto del quale parliamo. Questa è la nostra concezione normale. In realtà, Dio non è l'oggetto; Dio è il soggetto della teologia. Chi parla nella teologia, il soggetto parlante, dovrebbe essere Dio stesso. E il nostro parlare e pensare dovrebbe solo servire perché possa essere ascoltato, possa trovare spazio nel mondo, il parlare di Dio, la Parola di Dio. E così, di nuovo, ci troviamo invitati a questo cammino della rinuncia a parole nostre; a questo cammino della purificazione, perché le nostre parole siano solo strumento mediante il quale Dio possa parlare, e così Dio sia realmente non oggetto, ma soggetto della teologia.

[Papa Benedetto, omelia 6 ottobre 2006]

Giovedì, 25 Settembre 2025 02:49

In Cristo

“Chi accoglie Cristo accoglie colui che lo ha mandato, il Padre” (cf. Mt 10, 40).

Cari fratelli e sorelle,

1. Esprimiamo la gioia di accogliere Cristo. Rallegriamoci del fatto che dai tempi apostolici Roma, la capitale dell’antico Impero, ha accettato Cristo. Cantiamo la nostra gioia perché i nomi degli apostoli Pietro e Paolo sono indelebilmente legati a questa città. Essi vennero qui mandati dal Signore. Dopo la risurrezione, Cristo disse agli apostoli: “Come il Padre ha mandato me... ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 21-22). E così noi crediamo che fu lo Spirito Santo a dirigere i passi di Pietro, il pescatore di Galilea, e di Paolo, il discepolo di Tarso, verso questa Città di Roma. Attraverso il loro ministero apostolico e, infine, attraverso il loro martirio essi hanno confermato le parole del loro Signore e Maestro.

Cristo ha detto: “Chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me” (Mt 10, 38). E qui a Roma Pietro prese la sua croce su cui offrì la sua vita. Cristo ha detto anche: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la ritroverà” (Mt 10, 39). E così Paolo – come Pietro – qui a Roma perse la sua vita per la salvezza di Cristo, “Sanguis martyrum semen christianorum” (cf. Tertulliano, Apologeticus, 50): la Chiesa cresce saldamente sull’esempio dei martiri. Così le parole di Cristo si adempirono negli apostoli: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10, 40).

7. “Chi accoglie un Apostolo accoglie Cristo” (cf. Mt 10, 40). Gli Apostoli, e in particolare Pietro e Paolo, hanno trasmesso il Vangelo nella forma di una consapevolezza di Vita Nuova. Questa è la Vita Nuova che scaturisce dalla morte redentrice di Cristo: “noi crediamo che essendo morti con Cristo risorgeremo con lui: Cristo, come sappiamo, essendo risorto dalla morte non morrà mai più. La morte non ha più alcun potere su di lui... la sua vita ora è la vita con Dio; e in questo modo, anche noi dobbiamo considerarci morti al peccato ma vivi per Dio in Cristo Gesù” (cf. Rm 6, 8-11).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 27 giugno 1993]

L’uomo vive «dentro di sé il dramma di non accettare la salvezza di Dio», perché vorrebbe «essere salvato a modo suo». E Gesù arriva persino a piangere per questa «resistenza» dell’uomo, riproponendo sempre la sua misericordia e il suo perdono. Insomma, non possiamo proprio dire «Salvaci, Signore, ma a modo nostro!» ha fatto presente Papa Francesco nella messa celebrata venerdì 3 ottobre nella cappella della Casa Santa Marta.

Nel passo del Vangelo proposto dalla liturgia, Luca (10, 13-16) presenta Gesù che «sembra un po’ arrabbiato». E «parla a questa gente per farla ragionare» dicendo: «Se nelle città pagane fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e comparse di cenere, si sarebbero convertite. E voi, no». Così Gesù traccia «proprio un riassunto di tutta la storia di salvezza: è il dramma di non volere essere salvati; è il dramma di non accettare la salvezza di Dio». È come se dicessimo: «Salvaci, Signore, ma a modo nostro!».

Gesù stesso ricorda tante volte «come questo popolo abbia respinto i profeti, abbia lapidato quelli che sono stati loro inviati perché risultavano scomodi». Il pensiero è sempre lo stesso: «Vogliamo la salvezza, ma come noi la vogliamo! Non come la vuole il Signore».

Siamo davanti, ha precisato il Pontefice, al «dramma della resistenza a essere salvati». Si tratta di «una eredità che tutti noi abbiamo ricevuto», perché «anche nel nostro cuore c’è questo seme di resistenza a essere salvati come il Signore vuole salvarci».

Il contesto del brano evangelico di Luca vede Gesù che «parla ai suoi discepoli tornati da una missione». E anche a loro dice: «Chi vi ascolta, ascolta me; chi vi disprezza, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza colui che mi ha inviato. Lo stesso hanno fatto i vostri padri con i profeti». Di nuovo è il pensiero di voler «essere salvati» a modo nostro. Certo «il Signore ci salva nella nostra libertà» ha precisato il Papa, aggiungendo però che «noi vogliamo essere salvati non con la libertà, ma con l’autonomia nostra: le regole le facciamo noi».

Proprio «questo — ha fatto notare Francesco — è il dramma delle storie della salvezza, dal primo momento». È anzitutto «un dramma del popolo», perché «il popolo si ribella tante volte, nel deserto per esempio». Comunque, ha aggiunto, «con le prove il popolo matura: è più maturo». E così «riconosce in Gesù un grande profeta e dice anche: Dio ha visitato il suo popolo».

Invece, ha proseguito, «è proprio la classe dirigente quella che chiude le porte al modo col quale Dio vuole salvarci». In questo senso «si capiscono i dialoghi forti di Gesù con la classe dirigente del suo tempo: litigano, lo mettono alla prova, gli fanno trappole per vedere se cade», perché in loro c’è appunto «la resistenza a essere salvati».

Di fronte a questo atteggiamento Gesù dice loro: «Ma io non vi capisco! Voi siete come quei bambini: vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. Ma cosa volete?». La risposta è ancora: «Vogliamo fare la salvezza a modo nostro». Ritorna, dunque, «sempre questa chiusura» al modo di operare di Dio.

Poi «quando il Signore va avanti — ha ricordato il Papa — anche nel gruppo vicino a loro incominciano i dubbi». Lo riferisce Giovanni nel sesto capitolo del suo Vangelo, dando voce a quanti dicono di Gesù: «Ma quest’uomo è un po’ strano, come può darci da mangiare il suo corpo? Ma forse è un po’ strano». Probabilmente qualcuno diceva queste cose, ha affermato Francesco, e persino «i suoi discepoli incominciarono a tornare indietro». Così «Gesù guarda i dodici» e dice loro: «Se anche voi volete andare...».

Non c’è dubbio, ha spiegato il Pontefice, che «questa parola è dura: la parola della croce sempre è dura». Ma è anche «l’unica porta di salvezza». E «il popolo credente la accetta: cercava Gesù per guarire» e «per sentire la sua parola». Infatti diceva: «Questo parla con autorità. Non come la nostra classe, i farisei, i dottori della legge, i sadducei che parlavano un linguaggio che nessuno capiva». Per questi tutta la salvezza era nel compimento dei numerosissimi comandamenti «che la loro febbre intellettuale e teologica aveva creato». Ma «il povero popolo non trovava un’uscita di salvezza». La trova invece in Gesù.

Tuttavia alla fine, ha affermato il Papa, «hanno fatto lo stesso dei loro padri: hanno deciso di uccidere Gesù». Il Signore rimprovera questo modo di fare: «I vostri padri hanno ucciso i profeti, ma voi per pulirvi la coscienza, fate loro un monumento bello». Ecco, dunque, che «prendono la decisione di uccidere Gesù, cioè di farlo fuori», perché, dicono, «quest’uomo ci porterà problemi: questa salvezza noi non la vogliamo! Vogliamo una salvezza ben disciplinata, sicura. Questa noi non la vogliamo!». Di conseguenza «decidono anche di uccidere Lazzaro, perché è il testimone di quello che porta Gesù: la vita», in quanto è «risorto dai morti».

«Con questa decisione quella classe dirigente cancella l’onnipotenza di Dio» ha commentato il vescovo di Roma, ricordando che «oggi nella preghiera, all’inizio della messa, abbiamo lodato tanto bene l’onnipotenza di Dio: “Signore che riveli la tua onnipotenza, principalmente nella misericordia e nel perdono”». Il «dramma della resistenza alla salvezza» porta a non credere «nella misericordia e nel perdono» ma nei sacrifici. E spinge a volere «tutto ben sistemato, tutto chiaro».

È «un dramma», ha ricordato Francesco, che «ha dentro anche ognuno di noi». Per questo ha suggerito alcune domande per un esame di coscienza: «Come voglio io essere salvato? A modo mio? Al modo di una spiritualità, che è buona, che mi fa bene, ma che è fissa, ha tutto chiaro e non c’è rischio? O al modo divino, cioè sulla strada di Gesù, che sempre ci sorprende, che sempre ci apre le porte a quel mistero dell’onnipotenza di Dio, che è la misericordia e il perdono?».

Gesù, ha assicurato il Pontefice, «quando vede questo dramma della resistenza, anche quando vede la nostra, piange». Egli «ha pianto davanti alla tomba di Lazzaro; ha pianto guardando Gerusalemme» e dicendo: «Ma tu che uccidi i profeti e lapidi tutti quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali!». E piange anche «davanti a questo dramma di non accettare la sua salvezza, come il Padre la vuole».

Papa Francesco ha invitato perciò a «pensare che questo dramma è nel nostro cuore», insistendo perché ciascuno di noi domandi a se stesso: «Come penso che sia la strada della mia salvezza: quella di Gesù o un’altra? Io sono libero per accettare la salvezza o confondo libertà con autonomia e voglio la mia salvezza, quella che io credo che sia la giusta? Credo che Gesù sia il maestro che ci insegna la salvezza o vado dappertutto ad affittare guru che me ne insegnino un’altra? Un cammino più sicuro o mi rifugio sotto il tetto delle prescrizioni e dei tanti comandamenti fatti da uomini? E così mi sento sicuro e con questa — è un po’ duro dire questo — sicurezza compro la mia salvezza che Gesù dà gratuitamente, con la gratuità di Dio?».

Tutte queste domande, che «ci farà bene oggi farci», culminano nell’ultima proposta del Papa: «Io resisto alla salvezza di Gesù?».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 04/10/2014]

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The present-day mentality, more perhaps than that of people in the past, seems opposed to a God of mercy, and in fact tends to exclude from life and to remove from the human heart the very idea of mercy (Pope John Paul II)
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia (Papa Giovanni Paolo II)
«Religion of appearance» or «road of humility»? (Pope Francis)
«Religione dell’apparire» o «strada dell’umiltà»? (Papa Francesco)
Those living beside us, who may be scorned and sidelined because they are foreigners, can instead teach us how to walk on the path that the Lord wishes (Pope Francis)
Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole (Papa Francesco)
Many saints experienced the night of faith and God’s silence — when we knock and God does not respond — and these saints were persevering (Pope Francis)
Tanti santi e sante hanno sperimentato la notte della fede e il silenzio di Dio – quando noi bussiamo e Dio non risponde – e questi santi sono stati perseveranti (Papa Francesco)
In some passages of Scripture it seems to be first and foremost Jesus’ prayer, his intimacy with the Father, that governs everything (Pope Francis)
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto (Papa Francesco)
It is necessary to know how to be silent, to create spaces of solitude or, better still, of meeting reserved for intimacy with the Lord. It is necessary to know how to contemplate. Today's man feels a great need not to limit himself to pure material concerns, and instead to supplement his technical culture with superior and detoxifying inputs from the world of the spirit [John Paul II]
Occorre saper fare silenzio, creare spazi di solitudine o, meglio, di incontro riservato ad un’intimità col Signore. Occorre saper contemplare. L’uomo d’oggi sente molto il bisogno di non limitarsi alle pure preoccupazioni materiali, e di integrare invece la propria cultura tecnica con superiori e disintossicanti apporti provenienti dal mondo dello spirito [Giovanni Paolo II]
This can only take place on the basis of an intimate encounter with God, an encounter which has become a communion of will, even affecting my feelings (Pope Benedict)
Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento (Papa Benedetto)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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