Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Chiama i lontani e piccoli, per smuovere vicini e grandi
Lc 10,21-24 (17-24)
E io e Te
«La Verità non è affatto ciò che ho. Non è affatto ciò che hai. Essa è ciò che ci unisce nella sofferenza, nella gioia. Essa è figlia della nostra Unione, nel dolore e nel piacere partoriti. Né io né Te. E io e Te. La nostra opera comune, stupore permanente. Il suo nome è Saggezza».
[Irénée Guilane Dioh]
Gesù constata che gli Apostoli non sono persone libere, per questo non emancipano nessuno e addirittura impediscono qualsiasi svolta (cf. Lc 9).
Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.
La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire e valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Signore si vede costretto a chiamare i samaritani (gli eretici della religione) raccolti altrove, non provenienti da osservanze “corrette” - ma in grado di camminare, comprendere e non fare gli schizzinosi.
Almeno loro non smentiscono la Parola che proclamano con una vita dietro le quinte: quello che vedi, sono.
È praticamente indotto a sorvolare i Dodici, con «72» insicuri ma trasparenti, nell’incertezza dei (molti) lupi che si sentono destabilizzati.
I nuovi inviati vanno sulla strada indifesi. Non potendo contare sulle consuete astuzie, vengono sicuramente danneggiati, defraudati e - se toccano tutti i nervi scoperti - sbranati.
Ma il loro essere dimesso e poco saccente fa pensare, suscita nuovi saperi e consapevolezze. Così la loro amicizia spontanea e innocente.
Poi, in situazioni bloccate sarà questo “disordine” di nuovi stupefatti a introdurre rinnovato fascino; evocare potenzialità, allargare le possibili inclinazioni espressive, e il campo d’azione di tutti.
Sono i testimoni critici a trasmutare il mondo e guidare le persone alla lode (perché magari si sono semplicemente riappropriati di risorse che neanche sapevano di possedere o avevano perso di vista).
Coloro che non cessano di sorprendere devono stare attenti ai falsi e profittatori che si sentono disturbati dal sorriso dei nuovi ingenui - e molto attenti. Solo qui bisogna fare i difficili: non ci siano altri scrupoli!
Giunti in un territorio, sarà bene non passare di casa in casa: da una sistemazione di fortuna all’appartamento, alla villa, poi al palazzo, perché la ricerca di migliori agi fa sparire la Novità di Dio.
La cura dei malati e delle devianze è punto fermo della Missione, perché è proprio dalle insicurezze o eccentricità che germoglia un regno diverso, quello che si accorge e si fa carico - nell’amore di chi non abbandona.
E non si perda tempo a pettinare l’ambiente seduto sulla falsa ideologia tronetto-altare: anche un volontario allontanamento educa alla gratuità. Anzi fa sbalordire e riflettere proprio i capi religiosi [all’antica e non] e i loro devoti di cerchia, che restano legati a posizioni di visibilità sociale, all’idolo del posto, alla malattia del titolo (senza il quale non si sentono personaggi).
Sono manipolatori, e ci riempiono la testa di venticelli.
Lo spione del sovrano - il «satana» [i suoi accoliti sono molti e insospettabili] nemico del progresso dell’umanità - non avrà più rilievo.
Lo slancio della vita desterà le coscienze e prevarrà sul negativo: nel cammino che ci appartiene le accuse dei sorveglianti interessati conteranno sempre meno.
A differenza dell’azione scrupolosa ma triste e deviante degli Apostoli [Lc 9 passim] il ritorno dei nuovi evangelizzatori aggregati per Chiamata diretta e senza ritualità intermedie è pieno di brio e risultati (vv.17-20).
Sono gli ultimi e diversi - non i più noti e autoreferenziali aggregati - a far cadere dal “cielo” e sostituire i satana-funzionari, nemici dell’umanità e della Gioia inclusiva (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalôm] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci compiono e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza che fiorisce [vita da salvati, conclusiva] è per tutti a portata di mano (v.9), non più un privilegio.
I lati giudicati malaticci, squilibrati, sofferenti, invalidi, pazzeschi o materialmente inconcludenti stanno apprestando i nostri nuovi percorsi.
Nella dinamica vocazionale il punto fermo non risiede in una soddisfacente adesione a criteri di ragione, né in qualche geniale elaborazione di novità.
Neppure si colloca nella eroicità o fissità di comportamenti conformi, pur convinti.
La nostra certezza stupisce d’una sorpresa che Viene.
Essa ci desta, ma risiede unicamente in una percezione dell’occhio interiore: nella leggera immagine ricorrente che c’inabita e misteriosamente si affaccia, trascina e guida.
E cura le paure.
Unica sicurezza sarà quella lieve visione che - corrispondendo e ribadendo le sue venute - volge ciascuno al suo desiderio personale inespresso, tessendo un dialogo ineffabile con l’anima e la sua Via.
Il Dono s’impone allo scenario intimo, per volgere ogni Nome a destinazione.
Per attirare e attualizzare Futuro. Beninteso: non il ritorno alla situazione precedente che molti propugnano; oggi, anche in tempo di crisi globale.
Non esiste altro punto fermo che la nostra Chiamata.
Essa giunge per allacciare una relazione sponsale con l’opera imprevedibile e inedita della personale Fede-calamita.
Attrazione che seduce l'anima, la libera dalle insicurezze infondendole passione, e chiede di farsi rispettare.
Solo in senso vocazionale e intimamente forte, l’appello del Sogno che affiora alla percezione del cuore, ci fa tenaci.
E rianima un’esistenza vagante tra le bufere - come quella d’un pianeta alla deriva - intrecciando la vita al Cristo.
È la nostra Pace nel caos, che pure invita all’introspezione.
“Magnete-contro” nell’artificio esterno del farsi condurre da obbiettivi altrui.
Non basta neppure trovare un antidoto moderno alla frenesia che ci punge, ancora peggiorando il nostro vagabondare.
Né imponendosi uno stile conflittuale con l’indipendenza dello spirito personale.
Non è sufficiente una parentesi per annientare la tensione della vita contemporanea.
Tutto sommato non ci manca un’oasi per riflettere sul mondo, comprendere se stessi, e gli amici o i lontani.
«Non ho pace» - ci sentiamo ripetere da persone che si sentono alla deriva. E questo sentimento è contagioso; oggi dilagante.
Come proclamare armonia e conciliazione nelle case (v.5), in un mondo assediato da provocazioni, da malanni e competizioni globali, che se considerate in modo responsabile fanno subito tremare i polsi?
In un discorso di auguri d’inizio anno al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Giovanni Paolo II sintetizzò quattro emergenze epocali per il nuovo millennio:
«Vita, pane, pace e libertà: ecco le grandi sfide dell’umanità di oggi».
Un fuori scala per la nostra natura.
Come può l’uomo di Fede annunciare equilibrio e prosperità, se la debolezza non è protetta, se il criterio di natura sembra oggi volatile, se il nutrimento non è abbondante e vario per tutti, se la fraternità non si scorge neppure in ambienti protetti [al massimo viene scambiata per generica simpatia a scopo pubblicitario, in una chiesa degli eventi - come dice Papa Francesco], o se il belligerare può avere motivazioni teologiche (pur di non accettare le esigenze vitali altrui)… se non si riconosce a ciascuno di potersi realizzare «in maniera rispondente alla sua natura»?
Quest’ultimo a mio parere il punto cardine: prerogativa della Vocazione e dell’immaginario interiore che suscita; della nostra risposta di fiducia sponsale personale e creativa.
Diceva Giovanni Paolo: la libertà è luce «perché permette di scegliere responsabilmente le proprie mete e la via per raggiungerle».
Non un lume che abbaglia, bensì che si posa, e tesse trame.
Una luce redenta, che diviene rapporto, possibilità di condivisione; Presenza che trasmette senso.
Il libero arbitrio impallidisce, a braccetto col nostro volontarismo, e non ci basta neppure la capacità di autodeterminarci per il bene. Lo sappiamo da sempre.
Nella sua seconda Satira, Giovenale scrive:
«Le pratiche t’han dato questa tigna/
E a molti la daran, come di pecore/
O di porci in un branco un sol comunica/
A tutti gli altri la scabbia e la forfora/
E basta un chicco per guastare un grappolo/
Da questa moda a più brutte faccende/
Adagio adagio passerai: la scala/
Dei vizi non discendesi d’un salto/
In breve ti faranno uno dei loro/
Quelli che in casa cingonsi la fronte».
Bisogna vivere di Comunione, anche con se stessi, o non c’è autentica vita.
Nel grande Mistero di percepirsi come un “essere nel Dono” - «due a due» (v.1) - per godere pienezza, il sé comprende le opposte polarità della sua essenza.
Solo così dilatati diventiamo un essere “con” e “per” l'altro.
Non di rado la proposta sacrale ci isola o colloca in compartimenti stagni unilaterali, che troncano i sogni [non le fantasie disincarnate, che ne sono corollario].
I bei costumi antichi, o gli schemi di sociologia astratta, e stilemi o costumi locali, determinano i binari della nostra corsa: i soliti totem di costume. O le mode altrui; i manierismi esterni.
Gesù (appunto) nota l’insuccesso dei suoi, che non riescono a liberare le persone - e addirittura pretendono d’impedirlo [Lc 9].
Così chiama anche i samaritani (v.1), ossia i male indottrinati, meticci e bastardi.
Insomma, allarga l’orizzonte delle tribù designate, facendo appello a nazioni pagane, per un compito universale.
Il Signore sa che la Fede “laicale” non è di cerchia.
Essa non si adegua volentieri a modelli senza forza intima; quindi non blocca l’evoluzione, perché fa vivere di Relazione e carattere.
Ciò, in mezzo a tutte le sfaccettature dell’essere e della storia: appunto con e per gli altri, ma non all’esterno - bensì saldi in se stessi.
In tal guisa, nell’amicizia di sé e del prossimo, diventiamo per Grazia e genuinamente assai più affidabili di coloro che sono animati da articolate convinzioni o forti volontarismi di club.
Queste i ultimi spesso illusioni pericolosissime, se non riconoscono come valore assoluto il bene concreto dell’uomo reale, il diritto alla sua Felicità.
Totalità o integrazione derivante dal benessere d’un completamento nell’essere, non più ridotto.
Presenza Messianica [Annuncio dello Shalôm] che non svaluta; non permane unilaterale.
Lo spione che cade, e i piccoli cervelli
Lo spione del “sovrano” - il «satana» [i suoi accoliti sono molti e insospettabili], nemico del progresso dell’umanità - non avrà più rilievo.
Detronizzato dalla condizione di potere sugli uomini, esso precipita nel baratro (v.18).
Significa che grazie alla missione in Cristo, lo slancio della vita prevarrà sul negativo.
Nel cammino che ci appartiene, le accuse dei sorveglianti interessati conteranno zero.
I vecchi Re e Profeti avevano solo sospirato la pienezza del Messia. Si sentivano dei grandi, ma non avevano incontrato l’Eterno in sovrabbondanza di Persona.
Erano ancora schiavi di elementi cosmici, talora sottomessi al potere irrazionale del male; spesso vinti dal pensiero comune, dalla miseria propria e altrui, dalle attrattive della realtà mondana circostante.
I «piccoli» invece anche oggi restano aperti al Mistero e ricevono un essere rinnovato.
I sapientoni suppongono che l’unica vita si trovi dalla loro parte; si pensano potenti e convincenti. Non hanno bisogno di luce, né di un Amico.
Su questo piano viene formulata una delle rivelazioni definitive sull’Uomo autentico che manifesta la condizione divina.
Il Figlio benedice il Padre per il dono concesso agli insignificanti della società, e scopre il punto nodale del Mistero della nostra comunicazione con l’Altissimo: lo spirito di sapersi in Famiglia, a pieno titolo.
La santità religiosa antica poggiava sulla separazione [Qadosh-Santo: è attributo del Dio che dimora in luoghi distinti, remoti, inaccessibili] non sull’essenza.
Il nuovo nome della santità (domestica) riflessa nella Persona del Cristo e in quella dei suoi fratelli non è più sinonimo di “tagliato dagli altri e messo a parte”, bensì «Unito».
Malgrado le stampelle che porta, resta in sé “dignitoso” e addirittura “chiamato”; quindi abilitato a essere promosso, senza ulteriori condizioni di purità ideologica o cultuale.
Padre e Figlio costituiscono un Mistero di reciprocità e dedizione nel quale penetrano solo coloro che vogliono ricevere e accogliersi nella scaturigine - in Dio, per lasciarsi avvolgere da una Amicizia che raggranella tutto l’essere.
Dialogo ch’espande le pur minime qualità, sublima in Perle i lati ignoti e oscuri della personalità; per dilatare l’onda dell’esistere, senza inseguire le voci del mondo esterno [solo apparentemente vitale].
Così l’Invio e Missione hanno come nucleo il dispiegamento della qualità intensa, della stessa realtà intima e indistruttibile divina: l’Amore.
Unico Fuoco che annienta le potenze logoranti, nelle persone, nelle nazioni, nella storia.
Appunto, a differenza dell’opera scrupolosa ma triste e deviante degli Apostoli [Lc 9 passim], il ritorno dei nuovi evangelizzatori aggregati per Chiamata diretta e senza ritualità intermedie è pieno di gioia e risultati (vv.17-20).
Ricordiamo Tagore: «Se i cristiani fossero come il loro Maestro, avrebbero tutta l’India ai loro piedi».
Sono gli ultimi e diversi - i nuovi protagonisti dell’Annuncio.
Non i più noti e autoreferenziali cooptati riescono a far cadere dal cielo e sostituire i satana-funzionari, nemici dell’umanità e della nostra Gioia democratica (vv.5-6).
Nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalôm] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci completano, includono e realizzano anche spiritualmente.
Ora la Salvezza [vita da salvati] che fiorisce è a portata di mano di tutti coloro che hanno spirito attento e virtù da famigliari. Non più privilegio di cerchie che si sentono sicure [ma perdono l’unicità].
Ancora Tagore: «Benignamente, volutamente fattoti piccolo, vieni in questa piccola dimora [...] Come amico, come padre, come madre fattoti piccolo, vieni nel mio cuore. Io pure con le mie mani mi farò piccolo davanti al padrone dell’universo; con la mia piccola intelligenza ti conoscerò e ti farò conoscere».
Il Mistero resiste ai «dotti» che fanno professione di alta saggezza (v.21).
Viceversa il Regno si apre ai non imprigionati da idee conformi e interposte - schiavi di pensieri e convenzioni.
Ecco l’Inno di Giubilo (vv.21-24) che introduce il Comandamento dell’Amore (vv.25ss).
Ricordo il mio professore agostiniano di Patristica: insisteva nel ripeterci che uno dei nomignoli conquistati dai primi cristiani era quello di «piccoli cervelli».
Erano persone semplici ma ricolme di attitudini alla pienezza, e di sapienti nuove consapevolezze, che sbalordivano i professori e i filosofi del mondo antico.
Anche noi ci chiediamo: cosa fa tornare vicini a ciò che siamo chiamati a fare?
Ebbene, forse ne abbiamo già contezza: la sufficienza di coloro che fanno professione di dottrina cerebrale - in realtà - conduce solo a precipitare dal cielo.
Annienta l’umile percezione di sé, fa impallidire la capacità di accorgersi; chiude al perdono, all’accoglienza benevolente, all’ascolto dell’anima e degli altri, alla disponibilità. Perfino all’acume dei saperi innati, quelli che ci appartengono e risolverebbero i veri problemi.
Proprio i lati giudicati pazzeschi o materialmente inconcludenti - anche nella trama di piccole cose - farebbero affrontare gli eventi esterni che attanagliano… come occasioni di crescita.
Stanno infatti preparando i nostri nuovi percorsi, e un germe di società alternativa.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa è successo in te quando hai accettato la modesta (e piena) condizione di figlio?
Quali nuove consapevolezze di te stesso e del mondo hai acquisito?
Hai scoperto anche slanci di gratuità, oltre che di gratitudine?
Scienziati e Piccoli
(Lc 10,21-24)
A differenza dell’azione infruttuosa degli Apostoli [Lc 9 passim], il ritorno dei nuovi evangelizzatori è pieno di gioia e risultati (vv.17-20). Perché?
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.
I nuovi inviati vanno sulla strada indifesi.
Il Maestro si rallegra della loro e della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto a comprendere le profondità del Regno nelle cose comuni.
Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.
Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.
A conclusione dell’enciclica Fratelli Tutti, Papa Francesco cita la figura e l’esperienza di Charles de Foucauld, il quale - sovvertendo i conformismi - «solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti» (n.287).
In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto della struttura religiosa ufficiale e non attendeva più nulla che potesse destare abitudini e tornaconto.
Poi comprende, loda e benedice il disegno del Padre.
Comprende che la persona autentica nasce dai bassifondi, comunque da un’altra elaborazione e genesi, che sconvolgono il rapporto religioso consolidato, inerte e rassicurante - mai profondo né decisivo per le sorti umane.
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.
L’Eterno non è il padrone del creato che si manifesta attraverso le potenze incontenibili della natura.
È Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca, si fa attento al linguaggio del cuore.
Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.21) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.
Il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: coloro che sono dotati di un’attitudine da famigliari (v.22).
Insignificanti e invisibili privi di grandi doti, ma che si abbandonano alle proposte della vita provvidente che viene, come bimbi in braccio a dei genitori.
Spirito di pietas che favorisce chi si lascia colmare, e non procede sulle vie del pensiero o dell’iniziativa calcolante, bensì della Sapienza innata.
Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.
Essa trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere - accogliere e ritemprare personalmente - sia la Verità come Dono... che l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.
Una preghiera di benedizione semplice e per i semplici - questa di Gesù (v.21) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi.
Ma che stranamente i «dotti» i quali non vivono «lo spirito del vicinato» (FT n.152) però rivendicano posizioni e giocano sempre d’astuzia, non ci hanno voluto trasmettere così volentieri.
Perché tale Berakah non presuppone l’energia dei ‘modelli’, né la potenza aggressiva dei “pezzi grossi”.
Appunto, nella prospettiva della Pace-Felicità [Shalom] da annunciare, quelli che erano sempre sembrati imperfezioni e difetti diventano energie preparatorie, che ci completano e realizzano anche spiritualmente.
E invece che solo con il “grande” ed esterno, bisogna in tal guisa vivere di Comunione pur con il ‘piccolo’ di sé, o non c’è amabilità, né autentica vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»? Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?
Anche san Luca presenta l’Inno di giubilo in connessione con un momento di sviluppo dell’annuncio del Vangelo. Gesù ha inviato i «settantadue discepoli» (Lc 10,1) ed essi sono partiti con un senso di paura per il possibile insuccesso della loro missione. Anche Luca sottolinea il rifiuto incontrato nelle città in cui il Signore ha predicato e ha compiuto segni prodigiosi. Ma i settantadue discepoli tornano pieni di gioia, perché la loro missione ha avuto successo; essi hanno constatato che, con la potenza della parola di Gesù, i mali dell’uomo vengono vinti. E Gesù condivide la loro soddisfazione: «in quella stessa ora», in quel momento, Egli esultò di gioia.
Ci sono ancora due elementi che vorrei sottolineare. L’evangelista Luca introduce la preghiera con l’annotazione: «Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Gesù gioisce partendo dall’intimo di se stesso, in ciò che ha di più profondo: la comunione unica di conoscenza e di amore con il Padre, la pienezza dello Spirito Santo. Coinvolgendoci nella sua figliolanza, Gesù invita anche noi ad aprirci alla luce dello Spirito Santo, perché – come afferma l’apostolo Paolo - «(Noi) non sappiamo … come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili … secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27) e ci rivela l’amore del Padre. Nel Vangelo di Matteo, dopo l’Inno di Giubilo, troviamo uno degli appelli più accorati di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Gesù chiede di andare a Lui che è la vera sapienza, a Lui che è «mite e umile di cuore»; propone «il suo giogo», la strada della sapienza del Vangelo che non è una dottrina da imparare o una proposta etica, ma una Persona da seguire: Egli stesso, il Figlio Unigenito in perfetta comunione con il Padre.
Cari fratelli e sorelle, abbiamo gustato per un momento la ricchezza di questa preghiera di Gesù. Anche noi, con il dono del suo Spirito, possiamo rivolgerci a Dio, nella preghiera, con confidenza di figli, invocandolo con il nome di Padre, «Abbà». Ma dobbiamo avere il cuore dei piccoli, dei «poveri in spirito» (Mt 5,3), per riconoscere che non siamo autosufficienti, che non possiamo costruire la nostra vita da soli, ma abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno di incontrarlo, di ascoltarlo, di parlargli. La preghiera ci apre a ricevere il dono di Dio, la sua sapienza, che è Gesù stesso, per compiere la volontà del Padre sulla nostra vita e trovare così ristoro nelle fatiche del nostro cammino. Grazie.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 7 dicembre 2011]
1. Nella catechesi precedente abbiamo scorso, seppur velocemente, delle testimonianze dell’Antico Testamento che preparavano ad accogliere la piena rivelazione, annunciata da Gesù Cristo, della verità del mistero della paternità di Dio.
Cristo infatti ha parlato molte volte del Padre suo, presentandone in vari modi la provvidenza e l’amore misericordioso.
Ma il suo insegnamento va oltre. Riascoltiamo le parole particolarmente solenni, riportate dall’evangelista Matteo (e parallelamente da Luca): “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai semplici . . .” e, in seguito: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio, nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11, 25. 27; cf. Lc 10, 2. 11).
Dunque per Gesù, Dio non è solamente “il Padre d’Israele, il Padre degli uomini”, ma “il Padre mio”! “Mio”: proprio per questo i giudei volevano uccidere Gesù, perché “chiamava Dio suo Padre” (Gv 5, 18). “Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni.
2. Il “Padre mio” è il Padre di Gesù Cristo, colui che è l’origine del suo essere, della sua missione messianica, del suo insegnamento. L’evangelista Giovanni ha riportato con abbondanza l’insegnamento messianico che ci permette di scandagliare in profondità il mistero di Dio Padre e di Gesù Cristo, il Figlio suo unigenito.
Gesù dice: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato” (Gv 12, 44). “Io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare” (Gv 12, 49). “In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre, quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (Gv 5, 19). “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso” (Gv 5, 26). E infine: “. . . il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre” (Gv 6, 57).
Il Figlio vive per il Padre prima di tutto perché è stato da lui generato. Vi è una strettissima correlazione tra la paternità e la figliolanza proprio in forza della generazione: “Tu sei mio Figlio; oggi ti ho generato” (Eb 1, 5). Quando presso Cesarea di Filippo Simon Pietro confesserà: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, Gesù gli risponderà: “Beato te . . . perché né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio . . .” (Mt 16, 16-17), perché solo “il Padre conosce il Figlio” così come solo il “Figlio conosce il Padre” (Mt 11, 27). Solo il Figlio fa conoscere il Padre: il Figlio visibile fa vedere il Padre invisibile. “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9).
3. Dall’attenta lettura dei Vangeli si ricava che Gesù vive ed opera in costante e fondamentale riferimento al Padre. A lui spesso si rivolge con la parola colma d’amore filiale: “Abbà”; anche durante la preghiera del Getsemani questa stessa parola gli torna alle labbra (cf. Mc 14, 36). Quando i discepoli gli domandano di insegnar loro a pregare, insegna il “Padre nostro” (cf. Mt 6, 9-13). Dopo la risurrezione, al momento di lasciare la terra sembra che ancora una volta faccia riferimento a questa preghiera, quando dice: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20, 17).
Così dunque per mezzo del Figlio (cf. Eb 1, 2), Dio si è rivelato nella pienezza del mistero della sua paternità. Solo il Figlio poteva rivelare questa pienezza del mistero, perché solo “il Figlio conosce il Padre” (Mt 11, 27). “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18).
4. Chi è il Padre? Alla luce della testimonianza definitiva che noi abbiamo ricevuto per mezzo del Figlio, Gesù Cristo, abbiamo la piena consapevolezza della fede che la paternità di Dio appartiene prima di tutto al mistero fondamentale della vita intima di Dio, al mistero trinitario. Il Padre è colui che eternamente genera il Verbo, il Figlio a lui consostanziale. In unione col Figlio, il Padre eternamente “spira” lo Spirito Santo, che è l’amore nel quale il Padre e il Figlio reciprocamente rimangono uniti (cf. Gv 14, 10).
Dunque il Padre è nel mistero trinitario l’“inizio-senza-inizio”. “Il Padre da nessuno è fatto, né creato, né generato” (simbolo Quicumque). È da solo il principio della vita, che Dio ha in se stesso. Questa vita - cioè la stessa divinità - il Padre possiede nell’assoluta comunione col Figlio e con lo Spirito Santo, che sono a lui consostanziali.
Paolo, apostolo del mistero di Cristo, cade in adorazione e preghiera “davanti al Padre dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome” (Ef 3, 15), inizio e modello.
Vi è infatti “un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4, 6).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 23 ottobre 1985]
La grandezza del mistero di Gesù si può conoscere solo umiliandosi e abbassandosi come ha fatto lui, che è arrivato al punto di essere «emarginato» e non si è certo presentato come un «generale o un governatore». Gli stessi teologi, se non fanno «teologia in ginocchio», rischiano di dire «tante cose» ma di non capire «niente». Essere umili e miti, dunque, è il suggerimento proposto da Francesco, martedì mattina, 2 dicembre, nella messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta.
«I testi liturgici che ci offre oggi la Chiesa — ha fatto subito notare il Pontefice — ci avvicinano al mistero di Gesù, al mistero della sua persona». E infatti, ha spiegato, il passo liturgico del Vangelo di Luca (10, 21-24) «dice che Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e lodò il Padre». Del resto, «questa è la vita interiore di Gesù: il suo rapporto col Padre, rapporto di lode, nello Spirito, proprio lo Spirito Santo che unisce quel rapporto». E questo è «il mistero dell’interiorità di Gesù, quello che lui sentiva».
Gesù infatti — ha proseguito Francesco — «dichiara che chi vede lui, vede il Padre». Dice precisamente: «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza». E «nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre. E nessuno sa chi è il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
Il Padre, ha ribadito il Papa, «soltanto il Figlio lo conosce: Gesù conosce il Padre». E così «quando Filippo è andato da Gesù e ha detto: “mostraci il Padre”», il Signore gli risponde: «Filippo, chi vede me, vede il Padre». Difatti «è tanta l’unione fra loro: lui è l’imago del Padre; è la vicinanza della tenerezza del Padre a noi». E «il Padre si avvicina a noi in Gesù».
Francesco ha quindi ricordato che «in quel discorso di congedo, dopo la Cena», Gesù ripete tante volte: «Padre, che questi siano uno, come te e me». E «promette lo Spirito Santo, perché è proprio lo Spirito Santo che fa questa unità, come la fa tra il Padre e il Figlio». E «Gesù esulta di gioia nello Spirito Santo».
«Questo è un po’ per avvicinarsi a questo mistero di Gesù» ha spiegato il Pontefice. Ma «questo mistero non è rimasto soltanto fra loro, è stato rivelato a noi». Il Padre, dunque, «è stato rivelato da Gesù: lui ci fa conoscere il Padre; ci fa conoscere questa vita interiore che lui ha». E «a chi rivela questo, il Padre, a chi dà questa grazia?» si è chiesto il Papa. La risposta la dà Gesù stesso, come riporta Luca nel suo Vangelo: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».
Perciò «soltanto quelli che hanno il cuore come i piccoli sono capaci di ricevere questa rivelazione». Soltanto «il cuore umile, mite, che sente il bisogno di pregare, di aprirsi a Dio, si sente povero». In una parola, «soltanto quello che va avanti con la prima beatitudine: i poveri di spirito».
Certo, ha riconosciuto il Papa, «tanti possono conoscere la scienza, la teologia pure». Ma «se non fanno questa teologia in ginocchio, cioè umilmente, come i piccoli, non capiranno nulla». Magari «ci diranno tante cose, ma non capiranno nulla». Poiché «soltanto questa povertà è capace di ricevere la rivelazione che il Padre dà tramite Gesù, attraverso Gesù». E «Gesù viene non come un capitano, un generale di esercito, un governante potente», ma «viene come un germoglio», secondo l’immagine della prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia (11, 1-10): «In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse». Dunque, «lui è un germoglio, è umile, è mite, ed è venuto per gli umili, per i miti, a portare la salvezza agli ammalati, ai poveri, agli oppressi, come lui stesso dice nel quarto capitolo di Luca, quando è alla sinagoga di Nazareth». E Gesù è venuto proprio «per gli emarginati: lui si emargina, non ritiene un valore innegoziabile essere uguale a Dio». Infatti, ha ricordato il Pontefice, «umiliò se stesso, si annientò». Egli «si è emarginato, si è umiliato» per «darci il mistero del Padre e il suo proprio».
Il Papa ha rimarcato che «non si può ricevere questa rivelazione fuori, al di fuori, del modo in cui Gesù la porta: in umiltà, abbassando se stesso». Non si può mai dimenticare che «il Verbo si è fatto carne, si è emarginato per portare la salvezza agli emarginati». E «quando il grande Giovanni Battista, in carcere, non capiva tanto come erano le cose lì, con Gesù, perché era un po’ perplesso, invia i suoi discepoli a fare la domanda: “Giovanni ti domanda: sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”».
Alla richiesta di Giovanni, Gesù non risponde: «Sono io il Figlio». Dice invece: «Guardate, vedete tutto questo, e poi dite a Giovanni cosa avete visto»: ossia che «i lebbrosi sono sanati, i poveri sono evangelizzati, gli emarginati sono trovati».
Risulta evidente, secondo Francesco, che «la grandezza del mistero di Dio si conosce soltanto nel mistero di Gesù, e il mistero di Gesù è proprio un mistero di abbassarsi, di annientarsi, di umiliarsi, e porta la salvezza ai poveri, a quelli che sono annientati da tante malattie, peccati e situazioni difficili».
«Fuori da questa cornice — ha ribadito il Papa — non si può capire il mistero di Gesù, non si può capire questa unzione dello Spirito Santo che lo fa gioire, come avevamo sentito nel Vangelo, nella lode del Padre, e che lo porta ad evangelizzare i poveri, gli emarginati».
In questa prospettiva, nel tempo di Avvento, Francesco ha invitato a pregare per chiedere la grazia «al Signore di avvicinarci più, più, più al suo mistero, e di farlo sulla strada che lui vuole che noi facciamo: la strada dell’umiltà, la strada della mitezza, la strada della povertà, la strada di sentirci peccatori» Perché è così, ha concluso, che «lui viene a salvarci, a liberarci».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 03/12/2014]
La scoperta di essere degni
(Mt 8,5-11)
Mt scrive il suo Vangelo per incoraggiare i membri di comunità e stimolare la missione ai pagani, che appunto i giudeo cristiani non erano ancora pronti a fare propria.
La Fede incipiente di un pagano convertito è l’esempio che Gesù antepone a quella degli israeliti osservanti.
Ma dire Fede (vv.10.13) significa caldeggiare un’adesione più profonda, e [insieme] una manifestazione meno forte.
Ciò che guarisce è credere all’efficacia della sua sola Parola (vv.8-9.16), evento che possiede forza generatrice e ri-creatrice.
Nelle comunità giudaizzanti di Galilea e Siria, ancora a metà anni 70 ci si chiedeva: la nuova Legge di Dio proclamata su ‘il Monte’ delle Beatitudini crea esclusioni?
O corrisponde alle speranze e alla sensibilità profonda del cuore umano, di ogni luogo e tempo (vv.10-12)?
I lontani possedevano una spiccata intuizione per le novità dello Spirito, e scoprivano il vissuto di Fede da altre posizioni - non installate, meno legate a concatenazioni conformi; forse scomode.
Non di rado erano proprio gli ultimi arrivati che si distinguevano per freschezza d’intuizione sostanziale - e vedevano chiaro.
Bastava comunicare a tu per Tu col Signore, in un senso d’amicizia sicura (v.6).
Non c’è bisogno di chissà quali aggiunte a questo segreto, per rinascere. Dio è Azione immediata (v.7).
La Relazione personale fra uomo comune e il Padre in Cristo è sobria e istantanea.
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della vera Fede [che non pretende ”contatti” o elementi materiali e locali: vv.8-9].
Insomma, il retaggio culturale e il conformismo religioso antico restavano un fardello.
Qua e là mancavano sia l’esperienza del Cristo Salvatore personale, che la completa scoperta della potenza di Vita piena contenuta nella nuova proposta totale e ‘creatrice’ de «il Monte».
Ma non c’è da temere: Dio ci ha preceduti; il diverso e lontano non è un estraneo, bensì fratello.
Pertanto, ciò che salva non è l’appartenenza a una tradizione o a nuove mode di pensiero e di culto.
Non esigere che il Signore arrivi in una certa forma significa non immaginarlo legato a una espressione esterna.
Lo si raggiunge e coglie solo intimamente, per Visione certa - sgombra di convinzioni immaginate indispensabili - qualunque cosa accada.
Si rivelerà volta per volta nel modo più adatto ai nostri limiti.
Insomma, i distanti da noi sono persone totalmente «degne» sebbene talora vacillanti - come tutti.
Dio è nella loro carne e nel loro focolare.
E nel Cristo veniamo educati a dilatare l’orizzonte dei rapporti verticali esterni, tipici di una religiosità a testa china.
Il Cospetto divino è già dentro le cose del nostro ambiente, e in chi ci affianca - anche oltre confine.
[Lunedì 1.a sett. Avvento, 1 dicembre 2025]
Fede e Parola: Dio non è legato a un’espressione esterna
(Mt 8,5-11)
«L’essenziale è stare nell’ascolto di ciò che sale da dentro.
Le nostre azioni spesso non sono altro che imitazione, dovere ipotetico
o rappresentazione erronea di che cosa deve essere un essere umano.
Ma la sola vera certezza che tocca la nostra vita e le nostre azioni
può venire solo dalle sorgenti che zampillano nel profondo di noi stessi.
Si è a casa sotto il cielo si è a casa dovunque su questa terra se si porta tutto in noi stessi.
Spesso mi sono sentita, e ancora mi sento, come una nave che ha preso a bordo un carico prezioso:
le funi vengono recise e ora la nave va, libera di navigare dappertutto».
[Etty Hillesum, Diario]
Dice il Tao Tê Ching (LIII): «La gran Via è assai piana, ma la gente preferisce i sentieri».
Commentando il passo, i maestri Wang Pi e Ho-shang Kung sottolineano: «sentieri tortuosi».
La Fede incipiente di un pagano convertito è l’esempio che Gesù antepone a quella degli israeliti osservanti.
Ciò che guarisce è credere all’efficacia della sua sola Parola (vv.8-9.16), evento che possiede forza generatrice e ricreatrice.
Il Signore dimostra cura, in genere toccando i malati o imponendo le mani, quasi ad assorbire ciò che s’immaginava fosse impurità, alterazione rispetto alla normalità [una “febbre” o paralisi che si riteneva rendesse indegno agli occhi di Dio il bisognoso].
Nelle comunità di Galilea e Siria giudaizzanti, ancora a metà anni 70 ci si chiedeva: la nuova Legge di Dio proclamata su “il Monte” delle Beatitudini crea esclusioni?
O corrisponde alle speranze e alla sensibilità profonda del cuore umano, di ogni luogo e tempo (vv.10-12)?
I lontani possedevano una spiccata intuizione per le novità dello Spirito, e scoprivano il vissuto di Fede da altre posizioni - non installate, meno legate a concatenazioni conformi; forse scomode.
Non di rado erano proprio gli ultimi arrivati che si distinguevano per freschezza d’intuizione sostanziale - e vedevano chiaro.
Bastava comunicare a tu per Tu col Signore, in un senso d’amicizia sicura (v.6).
Non c’è bisogno di chissà quali aggiunte a questo segreto, per rinascere. Dio è Azione immediata (v.7).
La Relazione personale fra uomo comune e il Padre in Cristo è sobria e istantanea.
Partendo dalla sua semplice esperienza, il centurione comprende il valore “a distanza” della Parola e l’effetto-calamita della vera Fede [che non pretende ”contatti” o elementi materiali e locali: vv.8-9].
Insomma, il retaggio culturale e il conformismo religioso antico restavano un fardello.
Qua e là mancavano sia l’esperienza del Cristo Salvatore personale, che la completa scoperta della potenza di Vita piena contenuta nella nuova proposta totale e creatrice de «il Monte».
Mt scrive il suo Vangelo per incoraggiare i membri di comunità e stimolare la missione ai pagani, che appunto i giudeo cristiani non erano ancora pronti a fare propria.
Ma dire «Fede» (vv.10.13) significa caldeggiare un’adesione più profonda, e [insieme] una manifestazione meno forte.
Espressione di Fede personale non è ripetere o edulcorare una dottrina appresa, né la convinzione altrui.
Non c’è da temere: Dio ci ha preceduti; il diverso e lontano non è un estraneo, bensì fratello.
Pertanto, ciò che salva non è l’appartenenza a una tradizione o moda di pensiero e di culto.
Non esigere che il Signore arrivi in una certa forma significa non immaginarlo legato a una espressione esterna.
Lo si raggiunge e coglie solo intimamente, per visione certa - sgombra di convinzioni immaginate indispensabili - qualunque cosa accada.
Si rivelerà volta per volta nel modo più adatto ai nostri limiti.
I distanti da noi sono creature totalmente «degne» sebbene talora vacillanti e fallibili.
Non autonome, insufficienti, come tutti - per il fatto che non si rendono conto che Dio è nella loro carne e nel loro focolare.
Grazie a tale nitida consapevolezza nel Figlio, essi possono finalmente comprendere l’Amore supremo del Padre, gratuito, senza riserve; che sbalordisce, fa superare l’impaccio e li lancia.
Il pagano è condizionato dal suo mondo piramidale, ma incontrando Cristo si scopre persona totalmente adeguata e realizzata.
Non perché ha meritato o concesso favori al popolo eletto, o adempiuto uno speciale genere di osservanze (recitando formule da imprimatur).
Nel Signore, egli stesso viene educato a dilatare l’orizzonte della solita religione - fatta di rapporti verticali esterni.
Sebbene si riconosca manchevole [v.8 testo greco] intuisce che la sua relazione con Dio non dipende da uno scambio di favori.
Tale amicizia personale immediata e spontanea non si fa subalterna ad opere di legge, né scaturisce da norme di purità adempiute.
Tantomeno si assoggetta ad una relazione religiosa a testa china.
Il “lontano” comprende l’amore. In tal guisa, egli è già emancipato da una mentalità appariscente, epidermica, comune.
Nel Signore, egli stesso viene educato a dilatare l’orizzonte della solita religione.
Ritiene appunto che la Parola del Signore - per Via, fuori di luoghi e tempi sincronizzati o stabiliti - produca quel che afferma.
E lo realizzi anche a distanza; senza neppure segni clamorosi e perentori, che facciano baccano.
Piuttosto, liberando l’Energia misteriosa [ancora prigioniera] del «Logos» (v.7).
Verbo non convenzionale, che non gira a vuoto.
Ciò, malgrado questa Potenza si possa trovare mescolata a convincimenti talora contraddittori:
Egli è già lontano da una mentalità magica e carnale.
Ma deve ancora fare il passo decisivo, che lo farà crescere oltre - e ci riguarda da vicino.
La stima di sé dev’essere attitudine dei figli anche remoti, a ogni costo.
Non per sensazione recondita vaga o emotiva, bensì per Presenza garantita a prescindere - persino già operante, sebbene talora inconsapevole.
Interiorizzarla sarà opera - e il “di più” - della Fede matura, che vede, coglie, penetra le energie preparatorie in atto.
E le attualizza, anticipando futuro.
«Io non sono degno» è insieme a «Pietà di me» o «Figlio di Davide» - una delle espressioni più infelici della vita spirituale e missionaria.
Formule che Gesù aborrisce, sebbene siano divenute abituali in alcune espressioni della liturgia.
Il figlio prodigo prova con la medesima sconclusionata espressione [«non sono più degno»] a commuovere il Padre, che appunto non gli consente di finire l’assurda sviolinata.
Piuttosto gl’impedisce di considerarsi «uno dei suoi servi» e mettersi in ginocchio davanti a Lui [Lc 15,21ss].
Questo sarebbe davvero l’unico pericolo che pone a repentaglio tutta la vita; non solo un piccolo tratto di esistenza.
Per Fede in Cristo, da incompleti diventiamo non solo degnissimi, ma siamo così qui e ora Perfetti per realizzare la nostra Vocazione.
Certo, qualche ideologo o purista da mulino bianco potrebbe considerarci fuori moda, o ancora paganeggianti.
Il nostro grande e unico rischio è appunto quello di assorbire tali oppressive opinioni dall’ambiente, e lasciarci condizionare.
Ogni contorno funziona non di rado con la logica delle gerarchie ed i rapporti di forza, per cui ad es. l’inferiore non dovrebbe considerarsi allo stesso livello dell’anteposto.
Ma di questo passo non si riesce più a percepire il Cospetto divino.
Il Volto dell’Eterno è dentro noi e in casa nostra; non nella catena di comando con influssi condizionanti, bensì nel nostro ambiente e in chi ci affianca - anche oltre confine.
Famigliari, amici, persone care e non, sono sullo stesso piano. Vale anche con Dio: siamo faccia a faccia.
Neanche conta più lo schema “io e Tu”, col Figlio: perché - Incarnato diffusamente - ha piantato il suo Cielo nonché la sua stessa capacità terapeutica [addirittura di autoguarigione] «in» noi.
Grazie al Maestro non siamo più all’interno di una ideologia di sottomessi - identica a quella che vigeva nell’impero - né in una caserma ben disciplinata, a ruoli distinti e ambiti confinati.
L’assetto di correttezze esterne non attiene ai Vangeli.
Insomma, il Padre non chiede più a nessuno di obbedire a delle “autorità”, bensì di «somigliare» a Lui.
Ciò si realizza semplicemente corrispondendo - ciascuno di noi - a questa sorta di Presenza superiore che ci abita e ama.
È la fine delle vuote trafile: siamo intimi e consanguinei del nostro stesso Sé recondito, Volto sovreminente.
Non c’è assolutamente bisogno di «scongiurare» Dio (v.5) come se fossimo dei «subalterni» (v.9).
La nostra opera è quella di dissodare e acquisire un nuovo “occhio”, non di sottostare a organigrammi.
Lo sguardo rinato è intuitivo di altre virtù - non sottostà a nomenclature incapaci di fecondità immediata.
Basta con i sensi di manchevolezza!
Essi finiscono per introdurci in cappe e dinamiche a guglia (v.9) tipiche d’ogni feudalesimo stagnante.
Palude che annienta la potenza nuova d’amore - cronicizzando gli assetti.
Configurazioni ingessate da troppe noiose concatenazioni e monarchie locali [come ad es. constatiamo in provincia].
Nell’Ascolto naturale di se stessi e degli eventi, stima genuina e divina Gratuità ci guidano onda su onda verso un nuovo modo di vivere e scambiarsi doni.
Strada impervia per l’abitudine; per l’ovvietà che non sposta i pensieri, e non percepisce.
Cifra inaccessibile a coloro che agiscono per dovere - sentiero enigmatico, poco trasparente, subdolo e assai «tortuoso».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come intendi e coltivi la certa e libera Venuta di Gesù nella tua Casa?
Cattolica
La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.
[Papa Benedetto, allocuzione Concistoro 24 novembre 2012]
La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Mentre la missione di Gesù nella sua vita terrena era limitata al popolo giudaico, «alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24), era tuttavia orientata dall’inizio a portare a tutti i popoli la luce del Vangelo e a far entrare tutte le nazioni nel Regno di Dio. Davanti alla fede del Centurione a Cafarnao, Gesù esclama: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (Mt 8,11). Questa prospettiva universalistica affiora, tra l’altro, dalla presentazione che Gesù fece di se stesso non solo come «Figlio di Davide», ma come «figlio dell’uomo» (Mc 10,33), come abbiamo sentito anche nel brano evangelico poc’anzi proclamato. Il titolo di «Figlio dell’uomo», nel linguaggio della letteratura apocalittica giudaica ispirata alla visione della storia nel Libro del profeta Daniele (cfr 7,13-14), richiama il personaggio che viene «con le nubi del cielo» (v. 13) ed è un’immagine che preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno sorretto non da poteri umani, ma dal vero potere che proviene da Dio. Gesù si serve di questa espressione ricca e complessa e la riferisce a Se stesso per manifestare il vero carattere del suo messianismo, come missione destinata a tutto l’uomo e ad ogni uomo, superando ogni particolarismo etnico, nazionale e religioso. Ed è proprio nella sequela di Gesù, nel lasciarsi attrarre dentro la sua umanità e dunque nella comunione con Dio che si entra in questo nuovo regno, che la Chiesa annuncia e anticipa, e che vince frammentazione e dispersione.
[Papa Benedetto, allocuzione Concistoro 24 novembre 2012]
3. In che cosa consiste la fede? La Costituzione Dei Verbum spiega che con essa "l'uomo si abbandona a Dio tutt'intero liberamente, prestandogli 'il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà' e acconsentendo volontariamente alla rivelazione data da Lui" (n. 5). La fede non è, dunque, solo adesione dell'intelligenza alla verità rivelata, ma anche ossequio della volontà e dono di sé a Dio che si rivela. E' un atteggiamento che impegna l'intera esistenza.
Il Concilio ricorda ancora che per la fede sono necessari "la grazia di Dio, che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità" (ibid.). Si vede così come la fede, da una parte, fa accogliere la verità contenuta nella Rivelazione e proposta dal magistero di coloro che, come Pastori del Popolo di Dio, hanno ricevuto un "carisma certo di verità" (Dei Verbum, 8). D'altra parte, la fede spinge anche ad una vera e profonda coerenza, che deve esprimersi in tutti gli aspetti di una vita modellata su quella di Cristo.
4. Frutto com'è della grazia, la fede esercita un influsso sugli avvenimenti. Lo si vede mirabilmente nel caso esemplare della Vergine Santa. Nell'Annunciazione la sua adesione di fede al messaggio dell'angelo è decisiva per la stessa venuta di Gesù nel mondo. Maria è Madre di Cristo perché prima ha creduto in Lui.
Alle nozze di Cana Maria per la sua fede ottiene il miracolo. Dinanzi a una risposta di Gesù che sembrava poco favorevole, Ella mantiene un atteggiamento fiducioso, diventando così modello della fede audace e costante che supera gli ostacoli.
Audace e insistente fu anche la fede della cananea. A questa donna, venuta a chiedere la guarigione della figlia, Gesù aveva opposto il piano del Padre, che limitava la sua missione alle pecore perdute della casa d'Israele. La cananea rispose con tutta la forza della sua fede e ottenne il miracolo: "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri" (Mt 15,28).
5. In molti altri casi il Vangelo testimonia la potenza della fede. Gesù esprime la sua ammirazione per la fede del centurione: "In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande" (Mt 8,10). E a Bartimeo dice: "Va', la tua fede ti ha salvato" (Mc 10,52). La stessa cosa ripete all'emorroissa (cfr Mc 5,34).
Le parole rivolte al padre dell'epilettico, che desiderava la guarigione del figlio, non sono meno impressionanti: "Tutto è possibile per chi crede" (Mc 9,23).
Il ruolo della fede è di cooperare con questa onnipotenza. Gesù chiede tale cooperazione al punto che, tornando a Nazaret, non opera quasi nessun miracolo per il motivo che gli abitanti del suo villaggio non credevano in lui (cfr Mc 6,5-6). Ai fini della salvezza, la fede ha per Gesù un'importanza decisiva.
San Paolo svilupperà l'insegnamento di Cristo quando, in contrasto con quanti volevano fondare la speranza di salvezza sull'osservanza della legge giudaica, affermerà con forza che la fede in Cristo è la sola fonte di salvezza: "Noi riteniamo, infatti, che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge" (Rm 3,28). Non bisogna, tuttavia, dimenticare che san Paolo pensava a quella fede autentica e piena "che opera per mezzo della carità" (Gal 5,6). La vera fede è animata dall'amore verso Dio, che è inseparabile dall'amore verso i fratelli.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 18 marzo 1998]
Lasciamoci incontrare da Gesù «con la guardia bassa, aperti», affinché egli possa rinnovarci dal profondo della nostra anima. È questo l’invito di Papa Francesco all’inizio del tempo di Avvento. Il Pontefice lo ha rivolto ai fedeli durante la messa celebrata questa mattina, lunedì 2 dicembre, nella cappella di Santa Marta.
Il cammino che cominciamo in questi giorni, ha esordito, è «un nuovo cammino di Chiesa, un cammino del popolo di Dio, verso il Natale. E camminiamo all’incontro del Signore». Il Natale è infatti un incontro: non solo «una ricorrenza temporale oppure — ha specificato il Pontefice — un ricordo di qualcosa bella. Il Natale è di più. Noi andiamo per questa strada per incontrare il Signore». Dunque nel periodo dell’Avvento «camminiamo per incontrarlo. Incontrarlo con il cuore, con la vita; incontrarlo vivente, come lui è; incontrarlo con fede».
In verità, non è «facile vivere con la fede», ha notato il vescovo di Roma. E ha ricordato l’episodio del centurione che, secondo il racconto del vangelo di Matteo (8, 5-11), si prostra dinnanzi a Gesù per chiedergli di guarire il proprio servo. «Il Signore, nella parola che abbiamo ascoltato — ha spiegato il Papa — si meravigliò di questo centurione. Si meravigliò della fede che lui aveva. Aveva fatto un cammino per incontrare il Signore. Ma l’aveva fatto con fede. Per questo non solo lui ha incontrato il Signore, ma ha sentito la gioia di essere incontrato dal Signore. E questo è proprio l’incontro che noi vogliamo, l’incontro della fede. Incontrare il Signore, ma lasciarci incontrare da lui. È molto importante!».
Quando ci limitiamo solo a incontrare il Signore, ha puntualizzato, «siamo noi — ma questo diciamolo tra virgolette — i “padroni” di questo incontro». Quando invece «ci lasciamo incontrare da lui, è lui che entra dentro di noi» e ci rinnova completamente.
«Questo — ha ribadito il Santo Padre — è quello che significa quando viene Cristo: rifare tutto di nuovo, rifare il cuore, l’anima, la vita, la speranza, il cammino».
In questo periodo dell’anno liturgico, dunque, siamo in cammino per incontrare il Signore, ma anche e soprattutto «per lasciarci incontrare da lui». E dobbiamo farlo con cuore aperto, «perché lui mi incontri, mi dica quello che vuole dirmi, che non sempre è quello che voglio che lui mi dica!». Non dimentichiamo allora che «lui è il Signore e lui mi dirà quello che ha per me», per ciascuno di noi, perché «il Signore — ha precisato il Pontefice — non ci guarda tutti insieme, come una massa: no, no! Lui ci guarda uno a uno, in faccia, negli occhi, perché l’amore non è un amore astratto ma è un amore concreto. Persona per persona. Il Signore, persona, guarda a me, persona». Ecco perché lasciarci incontrare dal Signore significa in definitiva «lasciarci amare dal Signore».
«Nella preghiera all’inizio della messa — ha ricordato il Pontefice — abbiamo chiesto la grazia di fare questo cammino con alcuni atteggiamenti che ci aiutano. La perseveranza nella preghiera: pregare di più. La operosità nella carità fraterna: avvicinarci un po’ di più a quelli che hanno bisogno. E la gioia nella lode del Signore». Dunque «cominciamo questo cammino con la preghiera, la carità e la lode, a cuore aperto, perché il Signore ci incontri». Ma, ha chiesto il Papa in conclusione, «per favore, che ci incontri con la guardia bassa, aperti!».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 02-03/12/2013]
Mt 24,37-44 (24-51)
Chiave di lettura del brano potrebbe essere la celebre espressione di s. Agostino: «Timeo Dominum transeuntem».
Incarnazione è filo diretto con la realtà e la condizione divina insieme.
Il tempo della persona di Fede è come stagione d’attesa, ma non di provvisorietà: piuttosto, capitalizzazione e rivolgimento continui.
Né il momento della Chiesa si configura come periodo istituzionale, un lasso di pausa - a orario, con scadenza.
Certo, non è neppure un’età d’allestimento a partire dalle nostre idee, bensì di accoglienza del Regno, che giunge nel suo Appello - oggi con proposte chiarissime (perfino nelle sue sottrazioni).
Siamo chiamati a essere pronti in ogni istante, e veloci come un ‘ladro di notte’…
Forse vuol portarci via qualcosa che crediamo assolutamente nostro, cui però siamo troppo legati.
Fin dalle prime generazioni di credenti sorgevano gruppi di visionari - purtroppo sprovveduti - collegati a un’idea di catastrofe imminente.
L’attesa del ‘ritorno’ subitaneo d’un Messia che doveva porre fine all’ingiustizia e realizzare il Giudizio finale, era aspettativa comune di quanti desideravano s’inaugurasse una nuova fase della storia.
Tuttavia, in nessun punto dei Vangeli è scritto: Gesù “torna”, come se si fosse allontanato.
Egli sopraggiunge, certo: «Viene» - non “ritorna”.
Nel Nuovo Testamento il Risorto è Veniente [‘o Erchòmenos] ossia Colui che irrompe, che incessantemente si rende Presente.
Il punto della Vita è accorgersi, percepire la Presenza di Qualcuno dentro qualcosa; nelle cose sommarie e nelle vicende di liberazione.
Anche nel dramma della rinascita dalla crisi globale.
Nessuna forma di alienazione proviene dai Vangeli: Cristo è «con-noi» in ogni momento; nel nostro impegno in favore della natura, delle culture, della vita di tutti.
L’esperienza piena, totale, di completezza, non è data nel tempo particolare.
Ma ad es. lo spirito di disinteresse che si diffonde e già rende nuove le relazioni e le cose rimane una garanzia del Regno.
Seme e preludio del nuovo mondo che la Chiesa è chiamata ad annunciare e costruire - includendolo a braccia aperte.
Con a centro il «Figlio dell’uomo» che «viene», passo dopo passo, non perdiamo l‘intesa.
Ogni momento è buono per acuire la perspicacia nello Spirito.
La flessibilità del cuore prevarrà sui pronostici, sugli imperativi della mente.
Ecco l’accorgersi e percepire le opportunità; aprire gli occhi, decifrare gli accadimenti, spostare lo sguardo - onde cogliere la Venuta del Signore, fiutarne il Senso, intuirla come Fonte di Speranza.
Nell’Eucaristia proclamiamo appunto la Venuta del Signore, perché la vita in Cristo è in ogni evento anticipazione e preparazione all’Incontro sponsale.
In ottica di Fede, qualsiasi istante critico coopera al bene.
È Chiamata e opportunità di risposta, non timore permanente.
[1.a Domenica Avvento (anno A), 30 novembre 2025]
Our shortages make us attentive, and unique. They should not be despised, but assumed and dynamized in communion - with recoveries that renew relationships. Falls are therefore also a precious signal: perhaps we are not using and investing our resources in the best possible way. So the collapses can quickly turn into (different) climbs even for those who have no self-esteem
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, ma assunte e dinamizzate in comunione - con recuperi che rinnovano i rapporti. Anche le cadute sono dunque un segnale prezioso: forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse. Così i crolli si possono trasformare rapidamente in risalite (differenti) anche per chi non ha stima di sé
God is Relationship simple: He demythologizes the idol of greatness. The Eternal is no longer the master of creation - He who manifested himself strong and peremptory; in his action, again in the Old Covenant illustrated through nature’s irrepressible powers
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza. L’Eterno non è più il padrone del creato - Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura
What kind of Coming is it? A shortcut or an act of power to equalize our stormy waves? The missionaries are animated by this certainty: the best stability is instability: that «Deluge» Coming, where no wave resembles the others
Che tipo di Venuta è? Una scorciatoia o un atto di potenza che pareggi le nostre onde in tempesta? I missionari sono animati da questa certezza: la migliore stabilità è l’instabilità: quel «Diluvio» che Viene, dove nessuna onda somiglia alle altre
The community of believers is a sign of God’s love, of his justice which is already present and active in history but is not yet completely fulfilled and must therefore always be awaited, invoked and sought with patience and courage (Pope Benedict)
La comunità dei credenti è segno dell’amore di Dio, della sua giustizia che è già presente e operante nella storia ma che non è ancora pienamente realizzata, e pertanto va sempre attesa, invocata, ricercata con pazienza e coraggio (Papa Benedetto)
"In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet". This refers to the solidity of the Word. It is solid, it is the true reality on which one must base one's life (Pope Benedict)
«In aeternum, Domine, verbum tuum constitutum est in caelo... firmasti terram, et permanet». Si parla della solidità della Parola. Essa è solida, è la vera realtà sulla quale basare la propria vita (Papa Benedetto)
It has made us come here the veneration of martyrdom, on which, from the beginning, the kingdom of God is built, proclaimed and begun in human history by Jesus Christ (Pope John Paul II)
Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall’inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo (Papa Giovanni Paolo II)
The evangelization of the world involves the profound transformation of the human person (Pope John Paul II)
L'opera evangelizzatrice del mondo comporta la profonda trasformazione delle persone (Papa Giovanni Paolo II)
The Church, which is ceaselessly born from the Eucharist, from Jesus' gift of self, is the continuation of this gift, this superabundance which is expressed in poverty, in the all that is offered in the fragment (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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