don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 10 Novembre 2025 03:20

Cosa spinge: riempire la vita

Cominciamo dall’acqua – come appare logico per molti versi. L’acqua è simbolo ambivalente: di vita, ma anche di morte; lo sanno bene le popolazioni colpite da alluvioni e maremoti. Ma l’acqua è anzitutto elemento essenziale per la vita. Venezia è detta la “Città d’acqua”. Anche per voi che vivete a Venezia questa condizione ha un duplice segno, negativo e positivo: comporta molti disagi e, al tempo stesso, un fascino straordinario. L’essere Venezia “città d’acqua” fa pensare ad un celebre sociologo contemporaneo, che ha definito “liquida” la nostra società, e così la cultura europea: una cultura “liquida”, per esprimere la sua “fluidità”, la sua poca stabilità o forse la sua assenza di stabilità, la mutevolezza, l’inconsistenza che a volte sembra caratterizzarla. E qui vorrei inserire la prima proposta: Venezia non come città “liquida” – nel senso appena accennato –, ma come città “della vita e della bellezza”. Certo, è una scelta, ma nella storia bisogna scegliere: l’uomo è libero di interpretare, di dare un senso alla realtà, e proprio in questa libertà consiste la sua grande dignità. Nell’ambito di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli.

[Papa Benedetto, Incontro con il mondo della cultura… Venezia 8 maggio 2011]

 

Gratitudine e gioia sono perciò i sentimenti che caratterizzano questo nostro incontro. Esso si svolge nello spazio sacro, colmo di arte e di memoria, della Basilica di San Marco, dove la fede e la creatività umana hanno dato origine ad una eloquente catechesi per immagini. Il Servo di Dio Albino Luciani, che fu vostro indimenticabile Patriarca, così descrisse la sua prima visita in questa Basilica, da giovane sacerdote: “Mi trovai immerso in un fiume di luce … Finalmente potevo vedere e godere con i miei occhi tutto lo splendore di un mondo di arte e di bellezza unico e irripetibile, il cui fascino ti penetra nel profondo” (Io sono il ragazzo del mio Signore, Venezia-Quarto d’Altino, 1998). Questo tempio è immagine e simbolo della Chiesa di pietre vive, che siete voi, cristiani di Venezia.

“Oggi devo fermarmi a casa tua. In fretta scese e l’accolse” (Lc 19,5-6). Quante volte, durante la Visita pastorale, avete ascoltato e meditato queste parole, rivolte da Gesù a Zaccheo! Esse sono state il motivo conduttore dei vostri incontri comunitari, offrendovi uno stimolo efficace ad accogliere Gesù Risorto, via sicura per trovare pienezza di vita e felicità. Infatti, l’autentica realizzazione dell’uomo e la sua vera gioia non si trovano nel potere, nel successo, nel denaro, ma soltanto in Dio, che Gesù Cristo ci fa conoscere e ci rende vicino. E’ questa l’esperienza di Zaccheo. Egli, secondo la mentalità corrente, ha tutto: potere e denaro. Può dirsi un “uomo arrivato”: ha fatto carriera, ha raggiunto ciò che voleva e potrebbe dire, come il ricco stolto della parabola evangelica, “anima mia hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (Lc 12,19). Per questo il suo desiderio di vedere Gesù è sorprendente. Che cosa lo spinge a ricercare l’incontro con Lui? Zaccheo si rende conto che quanto possiede non gli basta, sente il desiderio di andare oltre. Ed ecco che Gesù, il profeta di Nazaret, passa da Gerico, la sua città. Di Lui gli è giunta l’eco di alcune parole inconsuete: beati i poveri, i miti, gli afflitti, gli affamati di giustizia. Parole per lui strane, ma forse proprio per questo affascinanti e nuove. Vuole vedere questo Gesù. Ma Zaccheo, seppure ricco e potente, è piccolo di statura. Perciò corre avanti, sale su un albero, un sicomoro. Non gli importa di esporsi al ridicolo: ha trovato un modo per rendere possibile l’incontro. E Gesù arriva, alza lo sguardo verso di lui, lo chiama per nome: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5). Nulla è impossibile a Dio! Da questo incontro scaturisce per Zaccheo una vita nuova: accoglie Gesù con gioia, scoprendo finalmente la realtà che può riempire veramente e pienamente la sua vita. Ha toccato con mano la salvezza, ormai non è più quello di prima e come segno di conversione si impegna a donare metà dei suoi beni ai poveri e a restituire il quadruplo a chi aveva derubato. Ha trovato il vero tesoro, perché il Tesoro, che è Gesù, ha trovato lui!

Amata Chiesa che sei in Venezia! Imita l’esempio di Zaccheo e vai oltre! Supera e aiuta l’uomo di oggi a superare gli ostacoli dell’individualismo, del relativismo; non lasciarti mai trarre verso il basso dalle mancanze che possono segnare le comunità cristiane. Sforzati di vedere da vicino la persona di Cristo, che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Come successore dell’Apostolo Pietro, visitando in questi giorni la vostra terra, ripeto a ciascuno di voi: non abbiate paura di andare controcorrente per incontrare Gesù, di puntare verso l’alto per incrociare il suo sguardo. Nel “logo” di questa mia Visita pastorale è rappresentata la scena di Marco che consegna il Vangelo a Pietro, tratta da un mosaico di questa Basilica. Oggi, simbolicamente, vengo a riconsegnare il Vangelo a voi, figli spirituali di san Marco, per confermarvi nella fede e incoraggiarvi dinanzi alle sfide del momento presente. Avanzate fiduciosi nel sentiero della nuova evangelizzazione, nel servizio amorevole dei poveri e nella testimonianza coraggiosa all’interno delle varie realtà sociali. Siate consapevoli d’essere portatori di un messaggio che è per ogni uomo e per tutto l’uomo; un messaggio di fede, di speranza e di carità.

[Papa Benedetto, chiusura della visita pastorale Venezia 8 maggio 2011]

Lunedì, 10 Novembre 2025 03:17

Grazie alla vicinanza, e l’Oggi

1. "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).

San Luca, nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, ci mostra l’incontro di Gesù con un uomo chiamato Zaccheo, capo dei pubblicani, molto ricco. Dato che era basso di statura, salì su un albero per vedere Cristo. Udì allora le parole del Maestro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Gesù aveva notato il gesto di Zaccheo: interpretò il suo desiderio e anticipò l’invito. Destò perfino la meraviglia di qualcuno il fatto che Gesù andasse a trovare un peccatore. Zaccheo, felice per la visita “accolse pieno di gioia Cristo” (cfr Lc 19, 6), cioè aprì generosamente la porta della sua casa e del suo cuore all’incontro con il Salvatore.

3. “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri” ( Lc 19, 8). Desidero tornare alla lettura dal Vangelo di San Luca: Cristo “la luce del mondo” (cfr Gv 8, 12), ha portato la sua luce nella casa di Zaccheo, e in modo particolare nel suo cuore. Grazie alla vicinanza di Gesù, delle sue parole e del suo insegnamento comincia a compiersi la trasformazione del cuore di quest’uomo. Già sulla soglia della propria casa Zaccheo dichiara: “Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituirò quattro volte tanto” (Lc 19, 8). Sull’esempio di Zaccheo vediamo come Cristo rischiari le tenebre della coscienza umana. Alla sua luce si allargano gli orizzonti dell’esistenza: uno comincia a rendersi conto degli altri uomini e delle loro necessità. Nasce il senso del legame con l'altro, la consapevolezza della dimensione sociale dell’uomo e di conseguenza il senso della giustizia. “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità - insegna San Paolo (Ef 5, 9). La svolta verso l’altro uomo, verso il prossimo, costituisce uno dei principali frutti di una conversione sincera. L’uomo esce fuori dal suo egoistico “essere per se stesso” e si volge verso gli altri, sente il bisogno di “essere per gli altri”, di essere per i fratelli.

Una tale dilatazione del cuore nell’incontro con Cristo è il pegno della salvezza, come mostra il seguito del colloquio con Zaccheo: “Gesù gli rispose: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa (...) il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto»” (Lc 19, 9-10).

Anche oggi, la descrizione che Luca fa dell’evento che ebbe luogo a Gerico, non ha perso di importanza. Porta con sé l’esortazione da parte di Cristo, che “è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1, 30). E come una volta di fronte a Zaccheo, così in questo istante Cristo si presenta davanti all’uomo del nostro secolo. Sembra presentare a ciascuno separatamente la sua proposta: “Oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5).

Cari Fratelli e Sorelle, importante è questo «oggi». Costituisce come un sollecito. Nella vita ci sono delle questioni talmente importanti e talmente urgenti che non possono essere posticipate e non possono essere lasciate per il domani. Devono essere affrontate già oggi. Esclama il Salmista: “Ascoltate oggi la sua voce: «Non indurite il cuore»” (Sal 94[95], 8). “Il lamento dei poveri” (Gb 34, 28) di tutto il mondo si alza incessantemente da questa terra e giunge a Dio. E’ il grido dei bambini, delle donne, degli anziani, dei profughi, di chi ha subito torto, delle vittime di guerra, dei disoccupati. I poveri sono anche in mezzo a noi: i senza casa, i mendicanti, gli affamati, i disprezzati, i dimenticati dalle perone più care e dalla società, i degradati e gli umiliati, le vittime di vari vizi. Molti di essi tentano perfino di nascondere la loro miseria umana, ma bisogna saperli riconoscere. Ci sono anche persone sofferenti negli ospedali, i bambini orfani oppure i giovani che sperimentano le difficoltà e i problemi della loro età.

4. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3).

Sin dall’inizio della sua attività messianica, parlando nella sinagoga di Nazaret, Gesù disse: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4, 18). Riteneva i poveri i più privilegiati eredi del regno. Ciò significa che soltanto “i poveri in spirito” sono in grado di ricevere il regno di Dio con tutto il cuore. L’incontro di Zaccheo con Gesù mostra che anche un uomo ricco può diventare partecipe della beatitudine di Cristo per i poveri in spirito.

Povero in spirito è colui che è disposto ad usare con generosità la propria ricchezza a favore di chi è nel bisogno. In tal caso si vede che non è attaccato a quelle ricchezze. Si vede che comprende bene l’essenziale finalità di esse. I beni materiali infatti sono per servire gli altri, specialmente chi si trova nella necessità. La Chiesa ammette la proprietà personale di questi beni, se vengono usati a questo fine.

Oggi ricordiamo Sant’Edvige regina. E’ conosciuta la sua generosità verso i poveri. Benché fosse ricca, non dimenticava gli indigenti. E’ per noi esempio e modello, come bisogna vivere e mettere in pratica l’insegnamento di Cristo sull’amore e sulla misericordia e rendersi simili a colui che, come dice San Paolo “essendo ricco si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (cfr 2 Cor 8, 9).

“Beati i poveri in spirito”. E’ il grido di Cristo che oggi dovrebbe ascoltare ogni cristiano, ogni uomo credente. C’è tanto bisogno di uomini poveri in spirito, cioè aperti ad accogliere la verità e la grazia, aperti alle grandi cose di Dio; di uomini dal cuore grande che non si lasciano incantare dallo splendore delle ricchezze di questo mondo e non permettono che esse abbiano il dominio sui loro cuori. Sono veramente forti, perché colmi della ricchezza della grazia di Dio. Vivono nella consapevolezza di ricevere da Dio incessantemente e senza fine.

“Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3, 6) - con queste parole gli Apostoli Pietro e Giovanni rispondono alla richiesta dello zoppo dello storpio. Gli donarono il sommo bene che egli avrebbe potuto desiderare. Poveri trasmisero al povero la più grande ricchezza: nel nome di Cristo gli restituirono la salute. Mediante ciò confessarono la verità che attraverso le generazioni è la parte dei confessori di Cristo.

Ecco i poveri in spirito, senza possedere essi stessi né argento né oro, grazie a Cristo hanno un potere maggiore di quello che possono dare tutte le ricchezze del mondo.

Davvero, sono felici e beati questi uomini, perché ad essi appartiene il regno dei cieli. Amen.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Elk 8 giugno 1999]

Il Vangelo di oggi ci presenta un fatto accaduto a Gerico, quando Gesù giunse in città e fu accolto dalla folla (cfr Lc 19,1-10). A Gerico viveva Zaccheo, il capo dei “pubblicani”, cioè degli esattori delle tasse. Zaccheo era un ricco collaboratore degli odiati occupanti romani, uno sfruttatore del suo popolo. Anche lui, per curiosità, voleva vedere Gesù, ma la sua condizione di pubblico peccatore non gli permetteva di avvicinarsi al Maestro; per di più, era piccolo di statura, e per questo sale su un albero di sicomoro, lungo la strada dove Gesù doveva passare.

Quando arriva vicino a quell’albero, Gesù alza lo sguardo e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Possiamo immaginare lo stupore di Zaccheo! Ma perché Gesù dice «devo fermarmi a casa tua»? Di quale dovere si tratta? Sappiamo che il suo dovere supremo è attuare il disegno del Padre su tutta l’umanità, che si compie a Gerusalemme con la sua condanna a morte, la crocifissione e, al terzo giorno, la risurrezione. E’ il disegno di salvezza della misericordia del Padre. E in questo disegno c’è anche la salvezza di Zaccheo, un uomo disonesto e disprezzato da tutti, e perciò bisognoso di convertirsi. Infatti il Vangelo dice che, quando Gesù lo chiamò, «tutti mormoravano: “E’ entrato in casa di un peccatore!”» (v. 7). Il popolo vede in lui un furfante, che si è arricchito sulla pelle del prossimo. E se Gesù avesse detto: “Scendi, tu, sfruttatore, traditore del popolo! Vieni a parlare con me per regolare i conti!”. Di sicuro il popolo avrebbe fatto un applauso. Invece incominciarono a mormorare: “Gesù va a casa di lui, del peccatore, dello sfruttatore”.

Gesù, guidato dalla misericordia, cercava proprio lui. E quando entra in casa di Zaccheo dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (vv. 9-10). Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi. E questo è importante! Dobbiamo impararlo. Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi; vede la persona con gli occhi di Dio, che non si ferma al male passato, ma intravede il bene futuro; Gesù non si rassegna alle chiusure, ma apre sempre, sempre apre nuovi spazi di vita; non si ferma alle apparenze, ma guarda il cuore. E qui ha guardato il cuore ferito di quest’uomo: ferito dal peccato della cupidigia, da tante cose brutte che aveva fatto questo Zaccheo. Guarda quel cuore ferito e va lì.

A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che Dio continua a vedere malgrado tutto, malgrado tutti i suoi sbagli. Questo può provocare una sorpresa positiva, che intenerisce il cuore e spinge la persona a tirare fuori il buono che ha in sé. È il dare fiducia alle persone che le fa crescere e cambiare. Così si comporta Dio con tutti noi: non è bloccato dal nostro peccato, ma lo supera con l’amore e ci fa sentire la nostalgia del bene. Tutti abbiamo sentito questa nostalgia del bene dopo uno sbaglio. E così fa il nostro Padre Dio, così fa Gesù. Non esiste una persona che non ha qualcosa di buono. E questo guarda Dio per tirarla fuori dal male.

La Vergine Maria ci aiuti a vedere il buono che c’è nelle persone che incontriamo ogni giorno, affinché tutti siano incoraggiati a far emergere l’immagine di Dio impressa nel loro cuore. E così possiamo gioire per le sorprese della misericordia di Dio! Il nostro Dio, che è il Dio delle sorprese!

[Papa Francesco, Angelus 30 ottobre 2016]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:43

Il movimento del sacerdozio di Cristo

Le nostre cecità, tra senso religioso e Fede

(Lc 18,35-43)

 

Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.

Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.

Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il ‘figlio di Davide’ (vv.38-39) - che non dà, bensì toglie vita.

L’equivoco ha pesanti conseguenze.

Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici ad es. nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.

Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.

Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.

Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.

Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.

Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.

Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.

Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.

Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.

La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.

Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale - trasmettendo un modello diametralmente opposto di uomo riuscito.

Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo ‘posto’.

Religiosità o Fede personale: è scelta dirimente. Per partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.

Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.

In tal guisa, il Vangelo invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.

Anche l’enciclica Fratelli Tutti propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di ‘passaggio’ e Speranza.

 

Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del Sacerdozio di Cristo.

Con ‘percezione sana.

 

 

[Lunedì 33.a sett. T.O. 17 novembre 2025]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:40

Le nostre cecità, tra senso religioso e Fede

Il movimento del sacerdozio di Cristo

(Lc 18,35-43)

 

L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.

Papa Francesco propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di “passaggio” e Speranza.

Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55) [cit. da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].

Affranto, Paolo VI ammetteva:

«Sì, vi sono molti cristiani mediocri; e non solo perché sono deboli o mancanti di formazione, ma perché vogliono essere mediocri e perché hanno le loro così dette buone ragioni del giusto mezzo, del ne quid nimis, quasi che il Vangelo fosse una scuola d’indolenza morale, o quasi che esso autorizzasse servire al conformismo. Non è ipocrisia? Incoerenza? Relativismo secondo il vento che tira?» [passim].

 

Sembra il ritratto della vita scadente e cieca che talora ci coglie: “nulla di troppo”, “mai l’eccessivo”.

Una sorta di esistenza alla don Abbondio, a contrasto del quale Manzoni delinea l’icona dell’uomo di Fede - che appunto spicca sul mediocre devoto - nella solenne e decisa figura del cardinal Federigo.

Prelato che invece «ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti».

Non il qualunquismo rassicurato d’un pio vigliacco e situazionalista, che finge di non vedere, si accontenta della sua nicchia da mezza tacca; si siede nell’aia scadente del minimo sindacale, si barcamena e non s’espone.

 

Il passo di Lc è un insegnamento che trae spunto dalle primissime forme di liturgia battesimale riservate ai nuovi credenti, chiamati photismòi-illuminati [coloro che dal buio della vita pagana aprivano finalmente gli occhi alla Luce].

Il brano illustra cosa accade a una persona quando incontra Cristo e ne riceve l’orientamento esistenziale: abbandona le posizioni consolidate ma non personalmente rielaborate, e diviene testimone critico.

La narrazione è impostata sul confronto tra sguardi materiali verso il basso (come quelli dei pagani o dei seguaci arroganti) e sguardi aperti, in grado di sollevare l’occhio dell’uomo da pastoie di sembianti, abitudinarietà e potenze esteriori o interiori distruttive.

La comparazione fa affiorare ciò che conta nella vita, quel che ha peso e non viene spazzato via dagli impedimenti d’una spiritualità vuota, rapita o attratta da brame epidermiche; imbrigliate su falsarighe di ruoli sociali o conformismi culturali e spirituali - da consuetudini ereditate ma non vagliate.

Insomma: il Signore ci vuol far comprendere che il conformismo all’ambiente e la vuota devozione inculcano un intendere paludoso, esanime, poco rilevante.

Cosa dunque è necessario per «vedere» con la percezione di Dio, oltre le apparenze, e risollevarsi da una grigia vita di elemosine, letteralmente a terra? E come curare la visuale di chi non si raccapezza?

Anche i “vicini” hanno aspettative più o meno chiare su come entrare nel Movimento del sacerdozio di Cristo.

I discepoli stessi sono suggestionati da una folla spesso qualunquista attorno che si attende ben poco, se non quiete, svago e favori; e che preme perché si entri «ne’ loro limiti».

 

Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.

Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.

Condizionato da falsi maestri e guide spirituali approssimative, anch’egli è bloccato da uno spirito di letargo che punta la sua esistenza a ribasso.

Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il figlio di Davide (v.38) - che non dà, bensì toglie vita.

 

Gesù somiglia e rimanda al Padre, non a un sovrano abile e svelto, che sa addomesticare le masse [figura di uno stile di dominio subdolo o violento, e di continua rivalsa].

L’equivoco ha pesanti conseguenze.

Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.

Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.

Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.

 

Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.

Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.

[Mentre scrivevo un mio prof del liceo, persona di gran fede e dinamismo - mi ha inviato un proverbio indiano: «se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l’elefante»].

Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.

Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.

Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.

Eppure sono dotati d’uno spiccato senso religioso antico; ma proprio per questo - mancando del balzo di Fede - centrati su di sé e sulle idee che sono state trasmesse.

Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.

 

La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.

La sua nuova attitudine diventa piuttosto quella del “neonato”. Si adopera in un modello di vita industrioso, creativo, pratico - avveniristico.

Risorge dinamico, sbarazzandosi degli stracci sui quali si attendeva che altri deponessero qualcosa in suo favore.

L’abito vecchio finisce nella polvere - gettato lontano come nelle antiche liturgie battesimali: a qualsiasi età intraprende, surclassando sicurezze di piccolo cabotaggio.

Cambia vita, la guarda in faccia; sebbene sappia di complicarsela, rendendola impegnativa e controcorrente.

Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale.

In tal guisa, egli comprendere il senso primordiale e rigenerante - anzi, ricreante - della Novità di Dio.

L’Incontro faccia a faccia gli ha trasmesso un modello diametralmente opposto di uomo riuscito; non sottomesso al tatticismo.

Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo posto.

 

“Il vento che tira” c’infonde un letale veleno: quello rinunciatario dell’identificarci-e-assomigliare, che fa rima con l’arrenderci e invecchiare.

La guarigione da tale cecità non può essere un... Miracolo! Religiosità o Fede: è scelta dirimente.

Significa adattarsi pigramente alle mode di circostanza o al vestito vecchio dei comportamenti già “detti” e solite amicizie, aspettando solo qualche soluzione-fulmine che non coinvolga troppo...

Ovvero partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.

Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.

Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del sacerdozio di Cristo. Con percezione sana.

Infatti - come in questo episodio - non di rado i Vangeli insistono sul criterio (devotamente assurdo) che il nemico di Dio non sia il peccato, bensì la vita media e passiva dell’ormai identificato e piazzato.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

L’incontro con Cristo ti ha tolto come un velo dagli occhi? Hai colto l’occasione per nascere come uomo nuovo, e sollevare lo sguardo? O rimani miope e inerte?

 

 

Il Passaggio della Pasqua

Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr Lc 18,35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr v. 35). Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata, assorta nei propri pensieri e in tante cose...E la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa...E lui è solo.

E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15,7.11). E’ stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere, come se non avesse diritto di parlare. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada – gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”.

Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr Es 12,23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione: quando passa Gesù, sempre c’è liberazione, sempre c’è salvezza! Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr Is 35,5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche noi, quando siamo stati in situazioni brutte, anche situazioni di peccato, com’è stato proprio Gesù a prenderci per mano e a toglierci dal margine della strada e donarci la salvezza. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, Il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione. Anche nella nostra vita Gesù passa; e quando passa Gesù, e io me ne accorgo, è un invito ad avvicinarmi a Lui, a essere più buono, a essere un cristiano migliore, a seguire Gesù.

Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Lui, Gesù, Dio, dice: “Ma cosa vuoi che io ti faccia? Come tu vuoi che io ti serva?” Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo. Da mendicante a discepolo, anche questa è la nostra strada: tutti noi siamo mendicanti, tutti. Abbiamo bisogno sempre di salvezza. E tutti noi, tutti i giorni, dobbiamo fare questo passo: da mendicanti a discepoli. E così, il cieco si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li fa venire a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso. Lasciamoci anche noi chiamare da Gesù, e lasciamoci guarire da Gesù, perdonare da Gesù, e andiamo dietro Gesù lodando Dio. Così sia!

[Papa Francesco, Udienza Generale 15 giugno 2016]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:36

L’uomo è fatto per vedere la luce

Questi figli prediletti del Padre celeste sono come il cieco del Vangelo, Bartimeo, che “sedeva lungo la strada a mendicare” (Mc 10,46), alle porte di Gerico. Proprio per quella strada passa Gesù Nazareno. E’ la strada che conduce a Gerusalemme, dove si consumerà la Pasqua, la sua Pasqua sacrificale, alla quale il Messia va incontro per noi. E’ la strada del suo esodo che è anche il nostro: l’unica via che conduce alla terra della riconciliazione, della giustizia e della pace. Su quella via il Signore incontra Bartimeo, che ha perduto la vista. Le loro vie si incrociano, diventano un’unica via. “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”, grida il cieco con fiducia. Replica Gesù: “Chiamatelo!”, e aggiunge: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio è luce e creatore della luce. L’uomo è figlio della luce, fatto per vedere la luce, ma ha perso la vista, e si trova costretto a mendicare. Accanto a lui passa il Signore, che si è fatto mendicante per noi: assetato della nostra fede e del nostro amore. “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio sa, ma chiede; vuole che sia l’uomo a parlare. Vuole che l’uomo si alzi in piedi, che ritrovi il coraggio di domandare ciò che gli spetta per la sua dignità. Il Padre vuole sentire dalla viva voce del figlio la libera volontà di vedere di nuovo la luce, quella luce per la quale lo ha creato. “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù a lui: “Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc 10,51-52).

“Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52). Sì, la fede in Gesù Cristo – quando è bene intesa e praticata – guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Bartimeo che, guarito, segue Gesù lungo la strada, è immagine dell’umanità che, illuminata dalla fede, si mette in cammino verso la terra promessa. Bartimeo diventa a sua volta testimone della luce, raccontando e dimostrando in prima persona di essere stato guarito, rinnovato, rigenerato. Questo è la Chiesa nel mondo: comunità di persone riconciliate, operatrici di giustizia e di pace; “sale e luce” in mezzo alla società degli uomini e delle nazioni.

La Chiesa, comunità che segue Cristo sulla via dell’amore, ha una forma sacerdotale. La categoria del sacerdozio, come chiave interpretativa del mistero di Cristo e, di conseguenza, della Chiesa, è stata introdotta nel Nuovo Testamento dall’Autore della Lettera agli Ebrei. La sua intuizione prende origine dal Salmo 110, citato nel brano odierno, là dove il Signore Dio, con solenne giuramento, assicura al Messia: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (v. 4). Riferimento che ne richiama un altro, tratto dal Salmo 2, nel quale il Messia annuncia il decreto del Signore che dice di lui: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (v. 7). Da questi testi deriva l’attribuzione a Gesù Cristo del carattere sacerdotale, non in senso generico, bensì “secondo l’ordine di Melchisedek”, vale a dire il sacerdozio sommo ed eterno, di origine non umana ma divina. Se ogni sommo sacerdote “è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1), solo Lui, il Cristo, il Figlio di Dio, possiede un sacerdozio che si identifica con la sua stessa Persona, un sacerdozio singolare e trascendente, da cui dipende la salvezza universale. Questo suo sacerdozio Cristo l’ha trasmesso alla Chiesa mediante lo Spirito Santo; pertanto la Chiesa ha in se stessa, in ogni suo membro, in forza del Battesimo, un carattere sacerdotale. Ma – qui c’è un aspetto decisivo – il sacerdozio di Gesù Cristo non è più primariamente rituale, bensì esistenziale. La dimensione del rito non viene abolita, ma, come appare chiaramente nell’istituzione dell’Eucaristia, prende significato dal Mistero pasquale, che porta a compimento i sacrifici antichi e li supera. Nascono così contemporaneamente un nuovo sacrificio, un nuovo sacerdozio ed anche un nuovo tempio, e tutti e tre coincidono con il Mistero di Gesù Cristo. Unita a Lui mediante i Sacramenti, la Chiesa prolunga la sua azione salvifica, permettendo agli uomini di essere risanati mediante la fede, come il cieco Bartimeo. Così la Comunità ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l’amore di Dio e così seminare speranza.

[Papa Benedetto, omelia per la chiusura del Sinodo speciale per l’Africa 25 ottobre 2009]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:33

Gettare luce, riacquistare senso

L’odierna lettura del Vangelo […] ci ricorda l’episodio della guarigione del cieco di Gerico. Il Vangelo rivela anche il suo nome: Bartimeo, e ricostruisce la sua supplica-grido: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me” (Mc 10, 47). Infine riferisce la sua commovente supplica: “Rabbuni, che io riabbia la vista” (Mc 10,51). E la risposta di Gesù non si fa attendere: “Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52).

Ecco, uno di quei segni che Gesù di Nazaret compiva durante il suo ministero pubblico. È, questo, un segno particolarmente eloquente: ridonando la vista al cieco, Gesù getta luce sulla sua vita. L’intera missione di Cristo è piena di questo senso: Egli getta luce divina sulla vita umana per mezzo del Vangelo. Alla luce delle parole di Cristo la vita umana acquista senso: il senso ultimo, che illumina anche le diverse sfere di questa vita terrena.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 27 ottobre 1991]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:24

Non mettere all’asta la carta d’identità

Un invito a non mettere «all’asta la nostra carta d’identità» cristiana, a non uniformarci allo spirito del mondo, che quando riesce a prevalere porta all’apostasia e alla persecuzione. Lo ha individuato Papa Francesco commentando la liturgia della parola di lunedì mattina, 16 novembre, durante la consueta celebrazione della messa nella cappella di Casa Santa Marta.

Il Pontefice ha dedicato la sua riflessione interamente alla prima lettura, tratta dal primo libro dei Maccabei (1,10-15.41-43.54-57 62-64), riassumendone i contenuti «con tre parole: mondanità, apostasia, persecuzione». Rileggendolo, Francesco ha fatto notare «che il brano incomincia così: “In quei giorni uscì una radice perversa”». E ha spiegato come «l’immagine della radice che è sotto terra, non si vede, sembra non fare male, ma poi cresce e mostra, fa vedere, la propria realtà» negativa, sia presente anche nella lettera agli Ebrei, il cui «autore ammoniva i suoi nello stesso modo: “Che non spunti né cresca in mezzo a voi alcuna radice velenosa, che provochi mali e ne contagi tanti”».

In proposito il Papa ha descritto «la fenomenologia della radice», la quale «cresce, sempre cresce», anche quando — come nel caso del brano preso in esame — può sembrare una «radice ragionevole: “Andiamo e stringiamo un’alleanza con le nazioni che ci stanno attorno; perché tante differenze? Perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali. Andiamo da loro, siamo uguali”». E così, ha proseguito nella descrizione, «alcuni del popolo presero l’iniziativa e andarono dal re che diede loro facoltà di introdurre le istituzioni delle nazioni. Dove? Nel popolo eletto, cioè nella Chiesa di quel momento».

Ma, ha subito avvertito Francesco, in quell’azione «c’è la mondanità. Facciamo ciò che fa il mondo, lo stesso: mettiamo all’asta la nostra carta d’identità; siamo uguali a tutti». Proprio come gli uomini di Israele, i quali «incominciarono a fare questo: costruirono un ginnasio a Gerusalemme, secondo le usanze delle nazioni, le usanze pagane; cancellarono i segni della circoncisione, cioè rinnegarono la fede, e si allontanarono dalla santa alleanza; si unirono alle nazioni e si vendettero per fare il male». Ma, ha messo in guardia il Pontefice, proprio «questo, che sembrava tanto ragionevole, — “siamo come tutti, siamo normali” — diventò la distruzione». Perché, ha ribadito, «questa è la mondanità. Questo è il cammino della mondanità, di quella radice velenosa, perversa».

Al riguardo Francesco ha confidato come lo abbia sempre colpito il fatto «che il Signore, nell’ultima cena pregasse per l’unità dei suoi e chiedesse al Padre che li liberasse da ogni spirito del mondo, da ogni mondanità, perché la mondanità distrugge l’identità; la mondanità porta al pensiero unico, non c’è differenza».

E la prima conseguenza di ciò è l’apostasia. Il Papa lo ha dimostrato proseguendo la rilettura del brano: «Poi il re prescrisse in tutto il suo regno che tutti formassero un solo popolo — il pensiero unico, la mondanità — e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re; anche molti israeliti accettarono il suo culto: sacrificarono agli idoli e profanarono il sabato». Dunque «l’apostasia. Cioè, la mondanità ti porta al pensiero unico e all’apostasia. Non sono permesse, non ci sono permesse le differenze». Finiamo col diventare «tutti uguali. E nella storia della Chiesa, nella storia abbiamo visto, penso a un caso, che alle feste religiose è stato cambiato il nome — il Natale del Signore ha un altro nome — per cancellare l’identità».

Inoltre non bisogna dimenticare, sembra voler dire la lettura, che all’apostasia segue la persecuzione. «Il re — ha continuato il Pontefice — innalzò sull’altare un abominio di devastazione. Anche nelle vicine città di Giuda eressero altari e bruciarono incenso sulle porte delle case e nelle piazze; stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco. Se, presso qualcuno, veniva trovato il libro dell’alleanza e se qualcuno obbediva alla legge, la sentenza del re lo condannava a morte». Ecco appunto «la persecuzione», che «incomincia da una radice» anche «piccola, e finisce nell’abominazione della desolazione». Del resto, «questo è l’inganno della mondanità». E perciò nell’ultima cena Gesù domandava al Padre: «Non ti chiedo di toglierli dal mondo, ma custodiscili dal mondo», ovvero «da questa mentalità, da questo umanismo, che viene a prendere il posto dell’uomo vero, Gesù Cristo»; da questa mondanità «che viene a toglierci l’identità cristiana e ci porta al pensiero unico: “Tutti fanno così, perché noi no?”».

Ecco allora l’attualità del brano odierno, che «di questi tempi, ci deve far pensare» a com’è la nostra identità. Occorre chiedersi: «È cristiana o mondana? O mi dico cristiano perché da bambino sono stato battezzato o sono nato in un Paese cristiano, dove tutti sono cristiani?». Secondo Francesco è necessario trovare una risposta a tali domande, poiché «la mondanità che entra lentamente», poi «cresce, si giustifica e contagia». Come? «Cresce come quella radice» citata nella lettura; «si giustifica — “facciamo come tutta la gente, non siamo tanto differenti” — cerca sempre una giustificazione, e alla fine contagia, e tanti mali vengono da lì».

Al termine dell’omelia il Papa ha evidenziato come tutta «la liturgia, in questi ultimi giorni dell’anno liturgico», ci faccia pensare a queste cose, e in particolare oggi ci dica «nel nome del Signore: guardatevi dalle radici velenose, dalle radici perverse che ti portano lontano dal Signore e ti fanno perdere la tua identità cristiana». Si tratta insomma di un’esortazione a tenersi alla larga «dalla mondanità» e a chiedere nella preghiera, in particolare, che la Chiesa sia custodita «da ogni forma di mondanità. Che la Chiesa sempre abbia l’identità disposta da Gesù Cristo; che tutti noi abbiamo l’identità» ricevuta nel battesimo; «e che questa identità non venga buttata fuori» solo per voler «essere come tutti, per motivi di “normalità». In definitiva, ha concluso Francesco, «che il Signore ci dia la grazia di mantenere e custodire la nostra identità cristiana contro lo spirito di mondanità che sempre cresce, si giustifica e contagia».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/11/2015]

(Lc 21,5-19)

 

Valori e indipendenza emotiva

 

Collocarsi negli eventi di persecuzione

 

Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.

In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.

Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.

Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.

L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.

Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.

Non saremo sull’altro lato. Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.14-15).

 

Lc intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.

Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (v.13).

I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.

Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.

Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.

Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che ‘si rivela’.

In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.

Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco.

 

Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e controsenso.

Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei paradossi d’altro versante.

È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.

Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.18).

La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.

Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione? 

Sei consapevole che gli intoppi non ‘vengono’ per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?

 

 

[33.a Domenica (anno C), 16 Novembre 2025]

(Lc 21,5-19)

 

Pietra su pietra, a tinte fosche?

 

Istanze del mondo, idea di ‘perfezione’, senso del Cristo

(Lc 21,5-11)

 

Nel suo Discorso Apocalittico Lc vuol farci meditare sul senso della storia e su ‘ciò che permane’... ma quante condizioni avverse e opposizioni!

Quindi mira a sostenere la speranza [non fittizia e tuttavia frustrata] della gente povera e sotto persecuzione delle sue comunità.

Certo, la Fede volge al Dio che guida la storia. Egli ne è Signore; però l’oggi rimane oscuro e incerto; in tal guisa restiamo come braccati da istanze che non ci corrispondono - ma sopravanzano.

Anche alcuni credenti iniziavano a dubitare: Dio ha davvero il controllo dei fatti e del cosmo? È la stessa domanda che ci poniamo oggi: in mezzo a tante sciagure, dove andremo a finire?

Come mordere la vita e realizzarsi pur nell’emergenza? In che modo vivere i conflitti e lo sconcerto, senza lasciarsi travolgere dagli eventi? Come mai affiorano tante oscurità, che non ci piacciono?

In tempi di mutamento, insicurezza globale e inquietudine politica, continuano a spuntare carie parassite, che accentuano il disorientamento, sentimenti d’inadeguatezza; forse i sensi di colpa.

Ecco gli astuti del quartierino che (pure nel sottobosco ecclesiale) vogliono trarre vantaggio dal turbamento e dalla confusione, ingannando le anime deboli e spaesate - perfino i giovani.

Per non farsi abbindolare, confondere e plagiare, deve subentrare una migliore consapevolezza, un affinamento della percezione, onde discernere il senso dei “regni” che si avvicendano e passano.

La sovranità di Dio propugna una maturazione della ‘messe’ con la luce e il calore dello Spirito, un più approfondito discernimento sul genio e i fatti del secolo.

Non escluse le brutture: anch’esse hanno il potere di attivarci, per cercare nuove armonie.

 

La Chiesa autentica ha una nuova Visione, che appunto caldeggia questi terremoti e calamità, ossia gli sconquassi del mondo antico - esso che, oggi come sempre, traballa e volge alla fine.

D’altro canto i sommovimenti non disintegrano la creazione: ne preparano una radicalmente nuova.

Bisogna resistere dentro e applicarsi - forse avendo più cura del carattere del tempo, degli amici inconsueti dell’anima, e trascurando l’idea ereditata [o imposta] di “perfezione”.

Tanti mondi costruiti dalla mente e dalle mani dell’uomo s’immaginavano perpetui, addirittura il Fine di tutto.

Invece continuano a crollare, trascinando via antiche espressioni, convinzioni, costumi, egemonie, visioni delle cose…

Ogni era porta con sé lo sgretolamento delle umane edificazioni e dei suoi imperi - fragili e inconsistenti, nonostante le apparenze contrarie (e il senso di permanenza con cui li interpretavamo).

Quindi anche il Tempio di mattoni e stucchi - centro della vita e dell’identità del popolo - è destinato all’agonia, alla frantumazione, alla più miserevole rovina, a essere raso al suolo... malgrado la sua imponente magnificenza.

Ci disorienta, certo. Ma se unilaterale, non più rende presente, bensì dissolve il Mistero - concentrazione di novità e amore.

Quando ad esempio si chiudono le frontiere culturali [e la ricerca di profondità] per timore dei “problemi”, e ci si fa intransigenti, il presente devoto diviene una pura realtà del mondo, che presto o tardi sarà smantellata.

 

Le funzioni della terra non hanno altra legge che quella di perire: sono minate alla base, destinate a evaporare. In un attimo passano dal controllo allo sfaldamento e dal predominio all’insignificanza.

Bellezza radiosa e “spessore” della città eterna e santa - coi suoi gelosi privilegi, nonché dottrine minute o generaliste (e terrificanti) - si tramutano in un sorpasso e rovesciamento: in un profilo di morte.

Basta un capovolgimento.

Futile immaginarla duratura e tenerla in piedi a tutti i costi.

Viceversa, il Regno nuovo si presenta intimo e sottovoce: per questo non rimane scheggiato da eventi esterni.

Ad alcuni sconvolgimenti non bisogna tanto resistere, quanto stare con essi.

L’obbiettivo è ‘ri-nascere’ - come figli, ancora rigenerati, che percorrono un altro Eros fondante [cui abbandonarsi, altrimenti non potrà svolgere la sua alta funzione].

Esso si stabilisce nei cuori e li trasforma; li cementa, senza clamore: con una potenza grandissima, sovversiva, che fa scattare nuove forme - ma con virtù segreta.

Ha un altro passo, accogliente, e un diverso tempo.

Così non perdiamo alcuna parte di noi, anzi facciamo crescere tutti i lati della personalità e delle relazioni.

 

È la Fede plurale che accoglie gli opposti, a solidificare le pietre.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come vivi gli sconvolgimenti?

Appalti la tua libertà e insegui ciarlatani che fissano e peggiorano l’esistenza di tutti - o in Cristo li osteggi, accendendo Speranza e le tue potenze segrete più sfolgoranti (anche opposte)?

 

 

Il Roveto

 

Fede eccezionale, Conversione ardente

(Es 3,2-4)

 

Conversione in senso biblico non è tornare indietro, ma entrare dentro sé per non estraniarsi, e ritrovare la propria radice onde saper intervenire, liberando la vampa della propria Relazione essenziale.

La conversione non ha a che fare col tatticismo disinteressato di chi si chiude al mondo, evitando di farsi coinvolgere sino al momento in cui gli eventi non abbiano ripercussioni negative sui propri interessi.

Ma come prendere le misure della realtà, come comprenderla? Come capire se stessi? E da dove attingere orientamento, sapienza e forza per proporre soluzioni sagge e azioni efficaci?

Mosè è un fuoriuscito perché precipitoso. Il suo fare impulsivo lo ha costretto a fuggire nel deserto. Qui combina altri pasticci, ancora a causa del suo temperamento focoso. Così decide di darsi una calmata e una sistemazione.

Ma la soluzione non è quella di non immischiarsi in favore degli altri, scegliendo forzosamente una vita quieta. Quel suo Fuoco che gli brucia il petto e la mente non si estingue; anche sopito, lo porta sempre con sé.

Solo Dio capisce che proprio il suo lato oscuro e la sua carica irascibile - come nessun’altra energia - può renderlo protagonista d’’un disegno assurdo, in favore del popolo, e gli farà calcare situazioni e territori impervi.

Un compito rischioso, che obbligherà a tirar fuori la grinta, le pulsioni, la convinzione; ogni risorsa anche poco virtuosa. Una Missione unicamente sua, impossibile per altri animi più equilibrati e tranquilli.

 

Come spiegare la passione per la libertà degli umiliati?

Ce la troviamo dentro, come una fiamma che arde e non dà tregua. Essa risorge spontaneamente, malgrado i prudenti tentativi di soffocarla.

Per i suoi pazzeschi disegni di redenzione, Dio ha bisogno di qualcuno esattamente come noi, così come siamo. Con le nostre immense Risorse inespresse, celate persino dietro individuali puntigli sanguigni.

Qualità che sorgono spontanee e hanno un loro cammino di conversione, ma che prima o poi devono scendere in campo così come sono.

Esprimono noi stessi profondamente, e il Richiamo del Padre.

 

Diversi condizionamenti possono creare errori di percezione della nostra unicità personale; altrettanto, del suo sviluppo e destinazione.

Il grande rischio è quello di spendere la vita dissipando l’identità caratteriale alla ricerca d’illusioni indotte e riflessi condizionati: di ciò che non siamo e neanche vogliamo.

Non solo le distrazioni, ma anche il troppo ragionare può farci smarrire la via di quella dimora ch’è davvero nostra.

Continuare a insistere su ciò che danneggia lo sviluppo dell’anima e la sua piena fioritura, la rende indecisa o astuta e cocciuta - soprattutto se suggestionabile, timorosa, o anche ricettiva e indifesa.

Il nostro Eros fondante scende in campo quando si accorge che la realtà o il suo paradigma culturale (definito) possono farci perdere la strada.

La Vocazione allora si manifesta alla personale ‘visione’ in una sorta d’Immagine energetica, riservata e unica, che fa pensare coi sogni, ci fa da guida, trascina non si sa già perché e dove.

 

I credenti che sperimentano questo Fuoco interiore che non si estingue non sono introdotte in un mondo che vuole solo perdurare, tutto già cesellato e che ben conosce la mèta.

La Fiamma del Padre non si esprime attraverso artificiosità da recitare: vuole recuperare e condurre a casa tutte le risorse, la nostra essenza e i suoi monili - da esaltare invece che nascondere.

Gioielli tutti da estrarre dal mondo delle certezze disattente e rinchiuse. Fiori all’occhiello - non di rado celati dietro versanti e propensioni che (per l’occhio logorato da luoghi comuni) appaiono oscuri.

Spesso è proprio il nostro lato sconosciuto agli schemi la ‘scintilla’ che incalza e fa da terapia all’anima malata; la prende per mano, e con dovuta energia diventa guida alla scoperta rilevante di sé - e grande servizio altrui.

Il Roveto ardente nella carne - Rivelazione divina - si accende affinché realizziamo il Sogno dei nostri stessi sogni. Non perché l’anima diventi sempre più uguale e legata, o fondamentalista.

E solo il nostro Nucleo Fiaccola-che-non-si-consuma continuamente in atto, può evitare che chi nasce rivoluzionario dello spirito, poi [ma anche in fretta] sopravviva da poltronista.

Capita nella banalità delle ideologie come nel conformismo delle religioni, però non può succedere nella sfera della vita di Fede.

In tal guisa, la danza non è condotta da estraneità di controllo: fini, intenzioni, idee, progetti, o codici... bensì da potenze passionali e pulsive, che ogni giorno c’interrogano sulla marea che viene a trovarci.

 

La Provvidenza fa da regista, corteggia e dirige misteriosamente strategie irripetibili, che solcano la storia attraendo e trascinando, sbloccando meccanismi e potenziando energie - persino facendoci cambiare, rimodulare, o accentuare caratteri.

A tali linee personalissime ci si deve abbandonare. Non per bisogno, dovere, calcolo, né solo per capire qualcosa in più, bensì per goderne la Luce spirituale; i raggi d’Amore, vicini e lontani, creativi dell’interiore e di forze geniali [al contorno].

La Fiamma torna a speronarci per riaccendere il balsamo personale dell’istintività, le possibilità di realizzazione della nostra natura.

Il desiderio assurdo ch’esplode dentro vuole espandere le possibilità di Linfa - sia dell’albero che delle stesse radici - per farci diventare persone a tutto tondo.

Così non cercheremo più di assomigliare ai nostri “modelli”:

Il principio di tale trasmutazione che irrompe sullo scenario placido e convenzionale ha riproposto il motivo per cui siamo al mondo.

È il nostro compito che salva la vita... o l’aridità stessa dei “tipi” cui adeguarsi.

Eccoci allora ad azzerare e sorprendere il nostro lato nostalgico e morto, o il male oscuro di vivere - e lo sfiancarsi per una saggezza che non ha il di più della Sapienza.

Spento il fulgore e il bello della Fiaccola, la sua virtù energetica sulla nostra carne affievolisce, smorzando l’entusiasmo dell’anima - estinguendo l’agire (come in una posizione d’inedia).

 

Lo stato passionale è la forza del pensiero e dell’intelletto pratico.

Il coinvolgimento intimo fa volare la nostra identità-carattere, e ha ripercussioni significative sul prossimo.

È custodia dell’indipendenza. E ci integra, surclassando il senso d’imperfezione - o vuoto esistenziale.

L’Energia primordiale intelligente riconosce la nostra essenza; e riporta l’anima dalle vicende esterne al Nucleo: dalle vicissitudini, dalle cose, dalle ferite, al nostro essere intimo e più ricco.

Sa che dallo stimolo di tale centro sorgivo - legame intimo d’origine, primordiale - sprizzeranno eventi sbalorditivi, propensioni sconosciute, magie di accadimenti imprevisti.

Una nuova Creazione.

Da questa Casa della nuova vita e dei differenti inni, si sprigiona tutto un mondo di relazioni... nuovi impegni, intuizioni geniali; attitudini pratiche, che tessono la magia dell’anima sposa corrisposta.

È tale Fonte che subentra ancora, quando si accorge che non siamo compiuti, o che ci sentiamo da essa stessa traditi - ovvero per sorvolare le paure, il senso di desolazione, gli abbandoni amari. Come una potenza che richiama a noi stessi, ai nostri talenti inespressi, all’energia dello sguardo che coglie il senso di una storia, del genio del nostro territorio o tempo. E li varca, facendoci sporgere.

Diventa la bussola quotidiana della vita e delle trasformazioni. Ma sopporta male l’interferenza dei giudizi esterni, che non abitano nel profondo ma contribuiscono a creare l’atmosfera che circuisce attorno.

Sembra una forza che accade, un’energia che non può essere diretta né spiegata da un universo di significati pronti all’uso, da emozioni e simboli pianificanti, o manipolata per ottenere sottomissioni.

Pronta a risorgere come, quando e perché non ci aspettiamo; solo per rigenerare e rendere esponenziale l’inconsueta, autonoma semenza dell’anima. Così com’è: lo sforzo ascetico darebbe risultati scadenti.

 

La Sorgente nascosta si esprime in eventi impregnati di futuro, inzuppati da un’atmosfera di Presenza.

Accadimenti intrisi d’un intero versante della nostra personalità, e non solo di qualche propaggine del suo senso sociale [a nomenclatura].

Le Radici si manifestano in azioni che contengono saperi ancora inespressi ma fortemente potenziali, affettivamente vitali. Esse risolvono i problemi agendo a modo loro.

Proprio ciò che non conosciamo ancora di noi stessi (attitudini, desideri) può essere il segreto, la molla della nostra fioritura. Una scoperta che sgorga innata, non un strada insegnata e riconosciuta maestra.

La vera misura è più profonda.

Ci si smarrisce nelle banalità, se non si scopre il seme personale - e si presuppone di sapere già la direzione: cosa amare, come dire e fare secondo istruzioni.

Il mondo dei saperi acquisiti è viceversa spesso nemico del processo nascosto, il quale continua a voler svolgere il suo tema, e ripudiare ciò che non vuole assorbire, perché lo controbatterebbe.

Ed è questa tutta la partita: non affievolire, bensì intuire le attitudini e lasciare che siano, persino contraddittorie.

E danzino senza collocarle, identificarle, metterle in riga secondo costume o ideale - così inebetirle.

 

La caratteristica peculiare ha il sapore dell’Eterno.

Fa nascere incessantemente uno sguardo rinnovato, che si forma spontaneamente, strada facendo.

Preparando al Nuovo, che non sopporta le aspettative.

Quindi la scintilla imprevista del cuore [che mai combacia] non può essere umiliata, minacciata, frantumata, rimossa, o alienata.

 

È la nostra Inclinazione consistente, che libera un nitido fulgore d’Unicità.

 

 

Valori e indipendenza emotiva

 

Collocarsi negli eventi di persecuzione

(Lc 21,12-19)

 

Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.

In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.

Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.

Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.

L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.

Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.

Non saremo sull’altro lato.

Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.14-15).

 

Lc intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.

Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (v.13).

I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.

Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.

Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.

Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.

In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.

Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco [non per sforzo: per aver spostato lo sguardo, semplicemente].

Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.

Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.

 

Così anche la famiglia o il “clan” di appartenenza vanno condotti a un differente mondo di convinzioni; non senza contrasti laceranti (v.16).

La Torah stessa obbligava alla denuncia degli infedeli alla religione dei padri - perfino parenti strettissimi - sino a metterli a morte (Dt 13,7-12) [nei fatti, solo per designare la gravità di quel tipo di trasgressione].

L’Annuncio non poteva che causare divisioni estreme, e su temi di fondo come il successo, o il progresso in questa vita - la visione di un mondo nuovo, dell’utopia di altre e altrui esigenze.

Tutto sembrerà congiurare e farsi beffe del nostro ideale (v.17).

 

Il riferimento al Nome allude alla vicenda storica di Gesù di Nazaret, col suo carico non solo di bontà ideale ed esplicita, ma pure di attività di denuncia contro l’istituzione ufficiale e le false guide che avevano messo sotto sequestro il Dio dell’Esodo.

Malgrado le interferenze, l’essere fraintesi, calunniati, messi in ridicolo, ricattati e odiati... ancorati a Cristo sperimenteremo che le tappe della storia e della vita procedono verso la Speranza.

La “protezione” di Dio non preserva da tinte cupe, né dal subire danni, ma garantisce che nulla vada perduto, neppure un capello (v.18).

Anche questo esempio spontaneo che Gesù trae dalla natura - eco della vita conciliante sognata per noi dal Padre - introduce alla Felicità che fa consapevoli di esistere in tutta la personale realtà.

L’espressione mostra infatti il valore delle cose genuine, silenti, poco eclatanti, le quali però ci abitano - non sono “ombre”. E le percepiamo senza sforzo né impegno cerebrale.

Nel tempo delle scelte epocali, dell’emergenza che sembra mettere tutto in scacco - ma vuole farci meno artificiali - tale consapevolezza può rovesciare il nostro giudizio di sostanza, sul piccolo e il grande.

Infatti, per l’avventura d’amore non c’è contabilità né clamore.

È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.

Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.18).

 

E (appunto) l’aldilà non è impreciso.

Non bisogna snaturarsi per avere consenso… tantomeno per il “Cielo” che vince la morte.

Il destino dell’unicità non va in rovina: è prezioso e caro, come lo è in natura.

Bisogna scorgerne la Bellezza, futura e già attuale.

Neppure conterà collocarsi sopra e davanti: piuttosto sullo sfondo, già ricchi e perfetti, nel senso intimo della pienezza di essere.

Così non dovremo calpestarci a vicenda (Lc 12,1)... anche per incontrare Gesù.

 

«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale».

(Rabindranath Tagore)

 

Gesù ci mette in guardia: non potremo contare su amicizie inattaccabili, né su potenze umane schierate a difesa della trama terrestre.

Anche colui che credevamo vicino ci scruterà con sospetto: il prezzo della verità sta sempre nella scelta contraria al mondo della menzogna [anche sacrale, datata o effimera] tutto coalizzato contro.

La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.

Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.

Ostinati solo nel cambio di proporzioni, tra spogliamento ed elevazione. Nella contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione? 

Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?

 

 

Sull’altro versante del mondo

 

I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’“altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti; non venditori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti.

Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”. C’erano tante altre possibilità, offerte dal vocabolario: lo si poteva chiamare eroismo, abnegazione, sacrificio di sé. E invece i cristiani della prima ora lo hanno chiamato con un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo. Il martirio non è nemmeno l’ideale supremo della vita cristiana, perché al di sopra di esso vi è la carità, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’apostolo Paolo nell’inno alla carità, intesa come l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’Apostolo Paolo nell’inno alla carità: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Ripugna ai cristiani l’idea che gli attentatori suicidi possano essere chiamati “martiri”: non c’è nulla nella loro fine che possa essere avvicinato all’atteggiamento dei figli di Dio.

A volte, leggendo le storie di tanti martiri di ieri e di oggi - che sono più numerosi dei martiri dei primi tempi -, rimaniamo stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo (cfr Rm 8,38-39).

Che Dio ci doni sempre la forza di essere suoi testimoni. Ci doni di vivere la speranza cristiana soprattutto nel martirio nascosto di fare bene e con amore i nostri doveri di ogni giorno. Grazie.

[Papa Francesco, Udienza Generale 28 giugno 2017]

 

 

Il Senso e il Fine, non la fine

 

È tempo di gioia per la festa di Pasqua, che risveglia attese e speranze di liberazione. Gesù entra nel tempio di Gerusalemme, ovunque ricoperto di marmi perfettamente profilati e stracolmo d’oro.

«Queste cose che osservate, verranno giorni nei quali non sarà lasciata pietra su pietra, che non sarà distrutta»:

Per un ebreo significava la fine del mondo. Era impensabile che un luogo di tale estensione, lusso e magnificenza potesse venire scalzato da qualche teoria utopica.

Gesù voleva dire: se non cambiate mentalità e continuate a ragionare in termini di potere e aggressività, distruggerete voi stessi e rovinerete per sempre la casa di Dio, segno della sua presenza e centro della vostra identità.

Così avvenne - per opera delle truppe di Vespasiano guidate dal figlio prediletto e successore, Tito: tabula rasa (anno 70).

Lc invita a smettere di rincorrere l’opinione altrui - e riflettere invece sull’unica cosa interessante: come porre fine al mondo antico e dare inizio a una società guidata dal disegno del Padre, per il nostro bene integrale.

Anzitutto bisogna non lasciarsi ingannare dagli imbonitori che ripetono ossessivamente: “Questo è il momento da non perdere, mi raccomando! Sarai un grande se segui me e il mio gruppo...”.

Tanti i moralizzatori, altrettante le cocenti delusioni. Anche il credere ridotto a un’ideologia e codicilli confezionati: lo constatiamo ogni giorno.

Speranze deluse anche al contrario, per il desiderio di scapricciarsi... e anche se propugnate da scienza e tecnica: risultano disumanizzanti.

Lc vuole aiutare le sue comunità a non rimanere ai margini della storia di Dio.

Ovviamente, è da mettere in conto la persecuzione: esito perfettamente prevedibile per chi va contromano, e che non ci deve sorprendere, né gettare nello sconforto.

Chiunque desidera anche per interesse venale perpetuare il mondo antico che lo ha portato a galleggiare sugli altri, non si farà certo da parte spontaneamente. È solo infastidito dai progetti dei Figli.

Nessun terrore! Tra contorsioni e terremoti, l’assetto antiquato sta tirando le cuoia. Ma nasce un mondo nuovo: quello dal sisma di Pentecoste.

È un Vangelo, ossia un annuncio di gioia: il mondo competitivo ha avuto il suo colpo di grazia. Sta germogliando l’aurora di un nuovo splendido giorno: bisogna che sappiamo collocarci.

Si sta realizzando il passaggio fra due ere - proprio come avviene per noi oggi: non abbassiamo gli occhi, non spaventiamoci; piuttosto alziamo lo sguardo (v.28)!

Il messaggio mette in causa tre poteri: religioso, politico e famigliare.

Il mondo ripetitivo dei riti e dell’interesse sacrale chiuso viene sostituito dalla Fede [adesione a una proposta sponsale, d’amore] che valica i tatticismi e l’ideologia del potere.

E sua patria è un regno senza confini.

Il mondo famigliare delle società religiose tende alla difesa dell’interesse ristretto dei membri, della casa e del clan. Gesù crea un universo aperto.

La sua Famiglia non è limitata agli steccati del sangue di vecchia data; apre il cuore al pensiero senza limiti, all’incontro senza pregiudizi.

Perché l’essenziale non è prevalere e vincere, ma dare testimonianza non aggressiva che la mentalità dell’interesse è perdente (nel senso che non costruisce vita), e che l’idea di uomo-Dio antica è sì impressionante, ma bacata, inautentica, e non reggerà alla prova dei fatti.

Quindi non c’è bisogno di preparare difese, ossia agire come farebbe un qualsiasi pagano: cercare l’appoggio di chi conta, vendersi, diventare omertosi, aggregarsi a gruppi di potere e al normale stile di menzogna. Tutto per difendersi con artifizi o affermarsi con astuzie.

Qui è in gioco la Fede. Non perché scende in campo una preghiera in più o un maggiore adempimento di devozioni. E non per calcolo, sforzo e strategia, ma per il motivo che la Visione della realtà (opposta) nascente ci corrisponde in modo spontaneo.

È in ballo l’innamoramento: il discepolo di Cristo ne assimila la Visione, la riconosce propria - perché l’autentico innamorato finisce per vedere le cose come la Persona amata.

Quindi, ieri come oggi, gli innocenti continuano a non sapere che il Progetto cui collaborano spontaneamente è irrealizzabile... per questo lo realizzano.

È il mondo dei figli.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come leggi le realtà enigmatiche del mondo? È “la” fine o emerge «il» Fine?

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Ecclesial life is made up of exclusive inclinations, and of tasks that may seem exceptional - or less relevant. What matters is not to be embittered by the titles of others, therefore not to play to the downside, nor to fear the more of the Love that risks (for afraid of making mistakes)
La vita ecclesiale è fatta di inclinazioni esclusive, e di incarichi che possono sembrare eccezionali - o meno rilevanti. Ciò che conta è non amareggiarsi dei titoli altrui, quindi non giocare al ribasso, né temere il di più dell’Amore che rischia (per paura di sbagliare).
Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
The story of the healed blind man wants to help us look up, first planted on the ground due to a life of habit. Prodigy of the priesthood of Jesus
La vicenda del cieco risanato vuole aiutarci a sollevare lo sguardo, prima piantato a terra a causa di una vita abitudinaria. Prodigio del sacerdozio di Gesù.
Firstly, not to let oneself be fooled by false prophets nor to be paralyzed by fear. Secondly, to live this time of expectation as a time of witness and perseverance (Pope Francis)
Primo: non lasciarsi ingannare dai falsi messia e non lasciarsi paralizzare dalla paura. Secondo: vivere il tempo dell’attesa come tempo della testimonianza e della perseveranza (Papa Francesco)
O Signore, fa’ che la mia fede sia piena, senza riserve, e che essa penetri nel mio pensiero, nel mio modo di giudicare le cose divine e le cose umane (Papa Paolo VI)
O Lord, let my faith be full, without reservations, and let penetrate into my thought, in my way of judging divine things and human things (Pope Paul VI)
«Whoever tries to preserve his life will lose it; but he who loses will keep it alive» (Lk 17:33)
«Chi cercherà di conservare la sua vita, la perderà; ma chi perderà, la manterrà vivente» (Lc 17,33)
«And therefore, it is rightly stated that he [st Francis of Assisi] is symbolized in the figure of the angel who rises from the east and bears within him the seal of the living God» (FS 1022)
«E perciò, si afferma, a buon diritto, che egli [s. Francesco d’Assisi] viene simboleggiato nella figura dell’angelo che sale dall’oriente e porta in sé il sigillo del Dio vivo» (FF 1022)
This is where the challenge for your life lies! It is here that you can manifest your faith, your hope and your love! [John Paul II at the Tala Leprosarium, Manila]
È qui la sfida per la vostra vita! È qui che potete manifestare la vostra fede, la vostra speranza e il vostro amore! [Giovanni Paolo II al Lebbrosario di Tala, Manilla]
The more we do for others, the more we understand and can appropriate the words of Christ: “We are useless servants” (Lk 17:10). We recognize that we are not acting on the basis of any superiority or greater personal efficiency, but because the Lord has graciously enabled us to do so [Pope Benedict, Deus Caritas est n.35]
Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: « Siamo servi inutili » (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono [Papa Benedetto, Deus Caritas est n.35]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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