Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Cari fratelli e sorelle […] celebriamo con gioia la Santa Famiglia di Nazaret. Il contesto è il più adatto, perché il Natale è per eccellenza la festa della famiglia. Lo dimostrano tante tradizioni e consuetudini sociali, specialmente l’usanza di riunirsi insieme, in famiglia appunto, per i pasti festivi e per gli auguri e lo scambio dei doni; e, come non rilevare che in queste circostanze, il disagio e il dolore causati da certe ferite familiari vengono amplificati? Gesù ha voluto nascere e crescere in una famiglia umana; ha avuto la Vergine Maria come mamma e Giuseppe che gli ha fatto da padre; essi l’hanno allevato ed educato con immenso amore. La famiglia di Gesù merita davvero il titolo di "santa", perché è tutta presa dal desiderio di adempiere la volontà di Dio, incarnata nell’adorabile presenza di Gesù. Da una parte, è una famiglia come tutte e, in quanto tale, è modello di amore coniugale, di collaborazione, di sacrificio, di affidamento alla divina Provvidenza, di laboriosità e di solidarietà, insomma, di tutti quei valori che la famiglia custodisce e promuove, contribuendo in modo primario a formare il tessuto di ogni società. Al tempo stesso, però, la Famiglia di Nazaret è unica, diversa da tutte, per la sua singolare vocazione legata alla missione del Figlio di Dio. Proprio con questa sua unicità essa addita ad ogni famiglia, e in primo luogo alle famiglie cristiane, l’orizzonte di Dio, il primato dolce ed esigente della sua volontà, la prospettiva del Cielo al quale siamo destinati. Per tutto questo oggi rendiamo grazie a Dio, ma anche alla Vergine Maria e a San Giuseppe, che con tanta fede e disponibilità hanno cooperato al disegno di salvezza del Signore.
(Papa Benedetto, Angelus 28 dicembre 2008)
Carissimi Fratelli e Sorelle!
1. […] La Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia. Come nel presepe, lo sguardo di fede ci fa abbracciare insieme il Bimbo divino e le persone che gli sono accanto: la sua Madre Santissima, e Giuseppe, il suo padre putativo. Quale luce si sprigiona da questa “icona di gruppo” del Santo Natale! Luce di misericordia e di salvezza per il mondo intero, luce di verità per ogni uomo, per la famiglia umana e per le singole famiglie. Com’è bello per i coniugi rispecchiarsi nella Vergine Maria e nel suo sposo Giuseppe! Com’è consolante per i genitori specialmente se hanno un bimbo piccolo! Com’è illuminante per i fidanzati alle prese con i loro progetti di vita!
Raccoglierci intorno alla grotta di Betlemme, a contemplarvi la Santa Famiglia, ci fa gustare in modo speciale il dono dell’intimità familiare, e ci sprona ad offrire calore umano e concreta solidarietà in quelle situazioni, purtroppo numerose, in cui, per vari motivi manca la pace, manca l’armonia, manca, in una parola, la “famiglia”.
2. Il messaggio che viene dalla Santa Famiglia è anzitutto un messaggio di fede: quella di Nazaret è una casa in cui Dio è veramente al centro. Per Maria e Giuseppe questa scelta di fede si concretizza nel servizio al Figlio di Dio loro affidato, ma si esprime anche nel loro amore reciproco, ricco di spirituale tenerezza e di fedeltà.
Essi insegnano con la loro vita che il matrimonio è un’alleanza tra l’uomo e la donna, alleanza che impegna alla reciproca fedeltà e poggia sul comune affidamento a Dio. Alleanza così nobile, profonda e definitiva, da costituire per i credenti il sacramento dell’amore di Cristo e della Chiesa. La fedeltà dei coniugi a sua volta si pone come solida roccia su cui poggia la fiducia dei figli.
Quando genitori e figli respirano insieme questo clima di fede, essi dispongono di una energia che permette loro di affrontare prove anche difficili, come mostra l’esperienza della Santa Famiglia.
3. […] Affido a Maria “Regina della famiglia”, tutte le famiglie del mondo, specialmente quelle che incontrano gravi difficoltà, e invoco su di esse la sua materna protezione.
(Papa Giovanni Paolo II, Angelus 29 dicembre 1996)
La liturgia ci invita a fissare lo sguardo sulla Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe. È bello riflettere sul fatto che il Figlio di Dio ha voluto aver bisogno, come tutti i bambini, del calore di una famiglia. Proprio per questo, perché è la famiglia di Gesù, quella di Nazaret è la famiglia-modello, in cui tutte le famiglie del mondo possono trovare il loro sicuro punto di riferimento e una sicura ispirazione. A Nazaret è germogliata la primavera della vita umana del Figlio di Dio, nel momento in cui Egli è stato concepito per opera dello Spirito Santo nel grembo verginale di Maria. Tra le mura ospitali della Casa di Nazaret si è svolta nella gioia l’infanzia di Gesù, circondato dalle premure materne di Maria e dalla cura di Giuseppe, nel quale Gesù ha potuto vedere la tenerezza di Dio (cfr Lett. apost. Patris corde, 2).
Ad imitazione della Sacra Famiglia, siamo chiamati a riscoprire il valore educativo del nucleo familiare: esso richiede di essere fondato sull’amore che sempre rigenera i rapporti aprendo orizzonti di speranza. In famiglia si potrà sperimentare una comunione sincera quando essa è casa di preghiera, quando gli affetti sono seri, profondi e puri, quando il perdono prevale sulle discordie, quando l’asprezza quotidiana del vivere viene addolcita dalla tenerezza reciproca e dalla serena adesione alla volontà di Dio. In questo modo, la famiglia si apre alla gioia che Dio dona a tutti coloro che sanno dare con gioia. Al tempo stesso, trova l’energia spirituale di aprirsi all’esterno, agli altri, al servizio dei fratelli, alla collaborazione per la costruzione di un mondo sempre nuovo e migliore; capace, perciò, di farsi portatrice di stimoli positivi; la famiglia evangelizza con l’esempio di vita. È vero, in ogni famiglia ci sono dei problemi, e a volte anche si litiga. “Padre, ho litigato…” – siamo umani, siamo deboli, e tutti abbiamo a volte questo fatto che litighiamo in famiglia. Io vi dirò una cosa: se litighiamo in famiglia, che non finisca la giornata senza fare la pace. “Sì, ho litigato”, ma prima di finire la giornata, fai la pace. E sai perché? Perché la guerra fredda del giorno dopo è pericolosissima. Non aiuta. E poi, in famiglia ci sono tre parole, tre parole da custodire sempre: “permesso”, “grazie”, “scusa”. “Permesso”, per non essere invadenti nella vita degli altri. “Permesso: posso fare qualcosa? Ti sembra che possa fare questo?”. “Permesso”. Sempre, non essere invadente. “Permesso”, la prima parola. “Grazie”: tanti aiuti, tanti servizi che ci facciamo in famiglia. Ringraziare sempre. La gratitudine è il sangue dell’anima nobile. “Grazie”. E poi, la più difficile da dire: “Scusa”. Perché noi sempre facciamo delle cose brutte e tante volte qualcuno si sente offeso di questo. “Scusami”, “scusami”. Non dimenticatevi le tre parole: “permesso”, “grazie”, “scusa”. Se in una famiglia, nell’ambiente familiare ci sono queste tre parole, la famiglia va bene.
All’esempio di evangelizzare con la famiglia ci chiama la festa di oggi, riproponendoci l’ideale dell’amore coniugale e familiare, così come è stato sottolineato nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia […]
Affidiamo alla Santa Famiglia di Nazareth, in particolare a San Giuseppe sposo e padre sollecito, questo cammino con le famiglie di tutto il mondo.
La Vergine Maria, alla quale ci rivolgiamo ora con la preghiera dell’Angelus, ottenga alle famiglie del mondo intero di essere sempre più affascinate dall’ideale evangelico della Santa Famiglia, così da diventare fermento di nuova umanità e di una solidarietà concreta e universale.
[Papa Francesco, Angelus 27 dicembre 2020]
Per non affievolire l’Incontro personale
(Gv 20,2-8)
In Gv il discepolo amato ai piedi della Croce insieme alla Madre è figura di ciascuno, e della nuova comunità che nasce attorno a Gesù.
Sorge la Chiesa; non sulla base d’una successione prevista, bensì per adesione piena e spontanea.
Nell’Asia Minore gli amici del Signore, ellenisti meno legati alle consuetudini, intendevano contrapporsi all’atteggiamento incerto e compromissorio dei giudaizzanti.
Buona parte dei fedeli delle chiese giovannee pensavano di abbandonare sinagoga e Primo Testamento, che li attardavano.
In alternativa, essi desideravano abbracciare esclusivamente il Nuovo, mediante la Fede personale nel Cristo vivo, senza incertezze.
Il quarto Vangelo tenta di riequilibrare le posizioni estremiste.
“Figlio” e Madre - ossia il popolo del Patto antico [in ebraico «Israèl» è di genere femminile] - devono rimanere uniti (Gv 19,26-27).
Insomma, Fede e ‘opere di legge’ vanno di pari passo.
La Fede è una relazione progressiva che si accende in una ‘ricerca’ colma di tensione e passione [«correre»].
Essa trasmette percezioni progressive, le quali fanno accedere a un mondo nuovo [«entrare»], dove ‘vediamo’ cose che non sappiamo.
Era già stata questa in parte la reazione costernata della Maddalena, che in Gv accorre sola alla tomba - non accompagnata da altre “donne” come narrano i sinottici.
Uno sgomento che però spinge all’Annuncio: il sepolcro (la condizione dello Sheôl, anfratto di tenebre) non era più nell’assetto in cui era stato lasciato dopo la sepoltura del Cristo.
E appunto, quel lenzuolo «ravvolto [con cura] a parte» dice che non avrà mai bisogno di alcun sudario. La morte non ha più potere su di Lui.
Così, sebbene il giovane sia più veloce del veterano e arrivi primo ad avvistare i segni della verità e del mondo nuovo, cede il passo.
Al pari d’un profeta che coglie tutto anzitempo, il discepolo schietto e la comunità genuina aspettano che anche gli attardati giungano alla medesima esperienza, all’identico acume delle cose; al credere nel misterioso processo che porta guadagno nella perdita e vita dalla morte.
L’occhio dell’innamorato «percepisce» immediatamente; ha lo sguardo intimo e acuto che afferra e fa propria la Novità del Risorto.
Prima dei semplici ammiratori, il fratello empatico e verace «coglie Vita fra segni di morte».
Come se per relazione di Fede che ci anima, nell’attenzione degli accadimenti, fossimo già introdotti in una realtà che comunica ‘sensi nuovi’. E il distinguere-udire del cuore.
Un Ascolto che fa acuto l’occhio - proiettando l’Annuncio.
Sorge in tal guisa un nuovo Popolo, che “vede dentro”, che avverte l’Infinito affacciarsi nella finitezza, e vita completa che si svela nella fragilità dell’evento (persino oscuro).
Forse non pochi restano ancora sorpresi dalla «tomba vuota»: ossia un Gesù Risorto solo ‘personale’, vissuto nell’amore, nel gratis normale, nel dono di sé che vince la morte. Ma senza ‘mausoleo’ alcuno.
Il Discepolo Amato - sgorgato dal Cuore del Trafitto e che porta in vetta anche la Tradizione - nella sua sensibilità ‘avverte’ il Signore vivente ben prima di quello commemorato.
Ne viene rapito, e nella sua esperienza ‘si accorge’ all’istante della potenza della Vita su qualsiasi legaccio.
Condizione divina, illuminante, dispiegata nella storia.
[San Giovanni Apostolo ed Evangelista, 27 dicembre]
Giovanni, figlio di Zebedeo
Cari fratelli e sorelle,
dedichiamo l'incontro di oggi al ricordo di un altro membro molto importante del collegio apostolico: Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo. Il suo nome, tipicamente ebraico, significa “il Signore ha fatto grazia”. Stava riassettando le reti sulla sponda del lago di Tiberìade, quando Gesù lo chiamò insieme con il fratello (cfr Mt 4,21; Mc 1,19). Giovanni fa sempre parte del gruppo ristretto, che Gesù prende con sé in determinate occasioni. E’ insieme a Pietro e a Giacomo quando Gesù, a Cafarnao, entra in casa di Pietro per guarirgli la suocera (cfr Mc 1,29); con gli altri due segue il Maestro nella casa dell'archisinagògo Giàiro, la cui figlia sarà richiamata in vita (cfr Mc 5,37); lo segue quando sale sul monte per essere trasfigurato (cfr Mc 9,2); gli è accanto sul Monte degli Olivi quando davanti all’imponenza del Tempio di Gerusalemme pronuncia il discorso sulla fine della città e del mondo (cfr Mc 13,3); e, finalmente, gli è vicino quando nell'Orto del Getsémani si ritira in disparte per pregare il Padre prima della Passione (cfr Mc 14,33). Poco prima della Pasqua, quando Gesù sceglie due discepoli per mandarli a preparare la sala per la Cena, a lui ed a Pietro affida tale compito (cfr Lc 22,8).
Questa sua posizione di spicco nel gruppo dei Dodici rende in qualche modo comprensibile l’iniziativa presa un giorno dalla madre: ella si avvicinò a Gesù per chiedergli che i due figli, Giovanni appunto e Giacomo, potessero sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel Regno (cfr Mt 20,20-21). Come sappiamo, Gesù rispose facendo a sua volta una domanda: chiese se essi fossero disposti a bere il calice che egli stesso stava per bere (cfr Mt 20,22). L’intenzione che stava dietro a quelle parole era di aprire gli occhi dei due discepoli, di introdurli alla conoscenza del mistero della sua persona e di adombrare loro la futura chiamata ad essergli testimoni fino alla prova suprema del sangue. Poco dopo infatti Gesù precisò di non essere venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine (cfr Mt 20,28). Nei giorni successivi alla risurrezione, ritroviamo “i figli di Zebedeo” impegnati con Pietro ed alcuni altri discepoli in una notte infruttuosa, a cui segue per intervento del Risorto la pesca miracolosa: sarà “il discepolo che Gesù amava” a riconoscere per primo “il Signore” e a indicarlo a Pietro (cfr Gv 21,1-13).
All'interno della Chiesa di Gerusalemme, Giovanni occupò un posto di rilievo nella conduzione del primo raggruppamento di cristiani. Paolo infatti lo annovera tra quelli che chiama le “colonne” di quella comunità (cfr Gal 2,9). In realtà, Luca negli Atti lo presenta insieme con Pietro mentre vanno a pregare nel Tempio (cfr At 3,1-4.11) o compaiono davanti al Sinedrio a testimoniare la propria fede in Gesù Cristo (cfr At 4,13.19). Insieme con Pietro viene inviato dalla Chiesa di Gerusalemme a confermare coloro che in Samaria hanno accolto il Vangelo, pregando su di loro perché ricevano lo Spirito Santo (cfr At 8,14-15). In particolare, va ricordato ciò che afferma, insieme con Pietro, davanti al Sinedrio che li sta processando: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). Proprio questa franchezza nel confessare la propria fede resta un esempio e un monito per tutti noi ad essere sempre pronti a dichiarare con decisione la nostra incrollabile adesione a Cristo, anteponendo la fede a ogni calcolo o umano interesse.
Secondo la tradizione, Giovanni è “il discepolo prediletto”, che nel Quarto Vangelo poggia il capo sul petto del Maestro durante l'Ultima Cena (cfr Gv 13,21), si trova ai piedi della Croce insieme alla Madre di Gesù (cfr Gv 19, 25) ed è infine testimone sia della Tomba vuota che della stessa presenza del Risorto (cfr Gv 20,2; 21,7). Sappiamo che questa identificazione è oggi discussa dagli studiosi, alcuni dei quali vedono in lui semplicemente il prototipo del discepolo di Gesù. Lasciando agli esegeti di dirimere la questione, ci contentiamo qui di raccogliere una lezione importante per la nostra vita: il Signore desidera fare di ciascuno di noi un discepolo che vive una personale amicizia con Lui. Per realizzare questo non basta seguirlo e ascoltarlo esteriormente; bisogna anche vivere con Lui e come Lui. Ciò è possibile soltanto nel contesto di un rapporto di grande familiarità, pervaso dal calore di una totale fiducia. E’ ciò che avviene tra amici; per questo Gesù ebbe a dire un giorno: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici ... Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,13.15).
Negli apocrifi Atti di Giovanni l'Apostolo viene presentato non come fondatore di Chiese e neppure alla guida di comunità già costituite, ma in continua itineranza come comunicatore della fede nell'incontro con “anime capaci di sperare e di essere salvate” (18,10; 23,8). Tutto è mosso dal paradossale intento di far vedere l'invisibile. E infatti dalla Chiesa orientale egli è chiamato semplicemente “il Teologo”, cioè colui che è capace di parlare in termini accessibili delle cose divine, svelando un arcano accesso a Dio mediante l'adesione a Gesù.
Il culto di Giovanni apostolo si affermò a partire dalla città di Efeso, dove, secondo un’antica tradizione, avrebbe a lungo operato, morendovi infine in età straordinariamente avanzata, sotto l'imperatore Traiano. Ad Efeso l'imperatore Giustiniano, nel secolo VI, fece costruire in suo onore una grande basilica, di cui restano tuttora imponenti rovine. Proprio in Oriente egli godette e gode tuttora di grande venerazione. Nell’iconografia bizantina viene spesso raffigurato molto anziano – secondo la tradizione morì sotto l’imperatore Traiano - e in atto di intensa contemplazione, quasi nell’atteggiamento di chi invita al silenzio.
In effetti, senza adeguato raccoglimento non è possibile avvicinarsi al mistero supremo di Dio e alla sua rivelazione. Ciò spiega perché, anni fa, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, colui che il Papa Paolo VI abbracciò in un memorabile incontro, ebbe ad affermare: “Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma” (O. Clément, Dialoghi con Atenagora, Torino 1972, p. 159). Il Signore ci aiuti a metterci alla scuola di Giovanni per imparare la grande lezione dell’amore così da sentirci amati da Cristo “fino alla fine” (Gv 13,1) e spendere la nostra vita per Lui.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 5 luglio 2006]
1. Ci incontriamo nel tempo liturgico del Natale. Desidero quindi che le parole, che oggi vi rivolgerò, corrispondano alla gioia di questa festa e di questa ottava. Desidero inoltre che corrispondano a quella semplicità e insieme profondità che il Natale irradia su tutti. Affiora spontaneo alla mia mente il ricordo dei miei sentimenti e delle mie vicende, cominciando dagli anni della mia infanzia nella casa paterna, attraverso gli anni difficili della giovinezza, il periodo della seconda guerra, la guerra mondiale. Possa essa non ripetersi mai più nella storia dell’Europa e del mondo! Eppure, perfino negli anni peggiori, il Natale ha sempre portato con sé qualche raggio. E questo raggio penetrava anche nelle più dure esperienze di disprezzo dell’uomo, di annientamento della sua dignità, di crudeltà. Basta, per rendersene conto, prendere in mano le memorie degli uomini che sono passati per le carceri o per i campi di concentramento, per i fronti di guerra e per gli interrogatori e i processi.
Questo raggio della Notte natalizia, raggio della nascita di Dio, non è soltanto un ricordo delle luci dell’albero, accanto al presepio nella casa, nella famiglia o nella chiesa parrocchiale, ma è qualcosa di più. Esso è il più profondo barlume dell’umanità che è stata visitata da Dio, l’umanità nuovamente accolta e assunta da Dio stesso; assunta nel Figlio di Maria nell’unità della Persona divina: il Figlio-Verbo. Natura umana assunta misticamente dal Figlio di Dio in ciascuno di noi, che siamo stati adottati nella nuova unione col Padre. L’irradiazione di questo mistero si estende lontano, molto lontano; raggiunge anche quelle parti e quelle sfere dell’esistenza degli uomini, nelle quali qualsiasi pensiero su Dio è stato quasi offuscato, sembra essere assente, come se fosse bruciato e spento del tutto. Ed ecco, con la notte di Natale, spunta un barlume: forse nonostante tutto? Felice questo “forse nonostante tutto”: esso è già un barlume di fede e di speranza.
2. Nella festività del Natale leggiamo dei pastori di Betlemme, che per primi furono chiamati al presepe, a vedere il Neonato: “Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino che giaceva nella mangiatoia” (Lc 2,16).
Fermiamoci a quel “trovarono”. Questa parola indica la ricerca. Infatti, i pastori di Betlemme, mettendosi a riposare col loro gregge, non sapevano che era giunto il tempo, in cui sarebbe avvenuto ciò che da secoli avevano preannunziato i profeti di quel Popolo, a cui essi stessi appartenevano; e che si sarebbe compiuto proprio in quella notte; e che sarebbe avvenuto nelle vicinanze del luogo dove sostavano. Anche dopo il risveglio dal sonno in cui erano immersi, essi non sapevano né che cosa fosse successo né dove fosse successo. Il loro arrivo alla grotta della Natività era il risultato di una ricerca. Ma, nello stesso tempo, essi erano stati condotti, erano – come leggiamo – guidati dalla voce e dalla luce. E se risaliamo ancor più nel passato, li vediamo guidati dalla tradizione del loro Popolo, dalla sua attesa. Sappiamo che Israele aveva ottenuto la promessa del Messia.
Ed ecco l’Evangelista parla dei semplici, dei modesti, dei poveri d’Israele: dei pastori che per primi l’hanno trovato. Parla, del resto, con tutta semplicità, come se si trattasse di un avvenimento “esteriore”: hanno cercato dove potesse essere, e infine hanno trovato. Allo stesso tempo questo “trovarono” di Luca indica una dimensione interiore: ciò che si è avverato negli uomini la notte di Natale, in quei semplici pastori di Betlemme. “Trovarono Maria e Giuseppe e il bambino che giaceva nella mangiatoia”, e poi: “...se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro” (Lc 2,16-20).
3.“Trovarono” indica “la ricerca”.
L’uomo è un essere che cerca. Tutta la sua storia lo conferma. Anche la vita di ciascuno di noi lo testimonia. Molti sono i campi in cui l’uomo cerca e ricerca e poi trova e, talvolta, dopo aver trovato, ricomincia nuovamente a cercare. Fra tutti questi campi in cui l’uomo si rivela come un essere che cerca, ve n’è uno, il più profondo. È quello che penetra più intimamente nella stessa umanità dell’essere umano. Ed è il più unito al senso di tutta la vita umana.
L’uomo è l’essere che cerca Dio.
Diverse sono le vie di questa ricerca. Molteplici sono le storie delle anime umane proprio su queste strade. Talvolta le vie sembrano molto semplici e vicine. Altre volte sono difficili, complicate, lontane. A volte l’uomo arriva facilmente al suo “heureka”: “ho trovato!”. A volte lotta con le difficoltà, come se non potesse penetrare se stesso e il mondo, e soprattutto come se non potesse comprendere il male che c’è nel mondo. Si sa che perfino nel contesto della Natività questo male ha mostrato il suo volto minaccioso.
Non pochi sono gli uomini che hanno descritto la loro ricerca di Dio sulle strade della propria vita. Ancor più numerosi sono coloro che tacciono, considerando come il proprio mistero più profondo e più intimo tutto ciò che su queste strade hanno vissuto: quello che hanno sperimentato, come hanno cercato, come hanno perduto l’orientamento e come l’hanno nuovamente ritrovato.
L’uomo è l’essere che cerca Dio.
E perfino dopo averlo trovato, continua a cercarlo. E se lo cerca con sincerità, lo ha già trovato; come, in un celebre frammento di Pascal, Gesù dice all’uomo: “Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato” (Pascal, Pensées, 553: “Il mistero di Gesù”).
Questa è la verità sull’uomo.
Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce.
Che cosa dire dell’ateismo di fronte a questa verità? Bisogna dire moltissime cose, più di ciò che è possibile racchiudere nella cornice di questo mio breve discorso. Ma almeno una cosa è necessario dire: è indispensabile applicare un criterio, cioè il criterio della libertà dello spirito umano. Non va d’accordo con questo criterio – fondamentale criterio – l’ateismo, sia quando nega a priori che l’uomo è l’essere che cerca Dio, sia quando mutila in vari modi tale ricerca nella vita sociale, pubblica e culturale. Tale atteggiamento è contrario ai diritti fondamentali dell’uomo.
4.Ma non voglio fermarmi su questo. Se vi accenno, lo faccio per dimostrare tutta la bellezza e la dignità della ricerca di Dio.
Questo pensiero mi è stato suggerito dalla festa del Natale.
Come è nato il Cristo? Come è venuto al mondo? Perché è venuto al mondo? È venuto al mondo perché Lo possano trovare gli uomini; coloro che lo cercano. Così come l’hanno trovato i pastori nella grotta di Betlemme.
Dirò ancor di più. Gesù è venuto al mondo per rivelare tutta la dignità e nobiltà della ricerca di Dio, che è il più profondo bisogno dell’anima umana, e per venire incontro a questa ricerca.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 27 dicembre 1978]
Nel brano del Vangelo che abbiamo ascoltato (cfr Gv 20,1-8), Giovanni ci racconta quella mattina inimmaginabile che ha cambiato per sempre la storia dell’umanità. Figuriamocela, quella mattina: alle prime luci dell’alba del giorno dopo il sabato, attorno alla tomba di Gesù tutti si mettono a correre. Maria di Magdala corre ad avvisare i discepoli; Pietro e Giovanni corrono verso il sepolcro... Tutti corrono, tutti sentono l’urgenza di muoversi: non c’è tempo da perdere, bisogna affrettarsi... Come aveva fatto Maria – ricordate? – appena concepito Gesù, per andare ad aiutare Elisabetta.
Abbiamo tanti motivi per correre, spesso solo perché ci sono tante cose da fare e il tempo non basta mai. A volte ci affrettiamo perché ci attira qualcosa di nuovo, di bello, di interessante. A volte, al contrario, si corre per scappare da una minaccia, da un pericolo…
I discepoli di Gesù corrono perché hanno ricevuto la notizia che il corpo di Gesù è sparito dalla tomba. I cuori di Maria di Magdala, di Simon Pietro, di Giovanni sono pieni d’amore e battono all’impazzata dopo il distacco che sembrava definitivo. Forse si riaccende in loro la speranza di rivedere il volto del Signore! Come in quel primo giorno quando aveva promesso: «Venite e vedrete» (Gv 1,39). Chi corre più forte è Giovanni, certamente perché è più giovane, ma anche perché non ha smesso di sperare dopo aver visto coi suoi occhi Gesù morire in croce; e anche perché è stato vicino a Maria, e per questo è stato “contagiato” dalla sua fede. Quando noi sentiamo che la fede viene meno o è tiepida, andiamo da Lei, Maria, e Lei ci insegnerà, ci capirà, ci farà sentire la fede.
Da quella mattina, cari giovani, la storia non è più la stessa. Quella mattina ha cambiato la storia. L’ora in cui la morte sembrava trionfare, in realtà si rivela l’ora della sua sconfitta. Nemmeno quel pesante macigno, messo davanti al sepolcro, ha potuto resistere. E da quell’alba del primo giorno dopo il sabato, ogni luogo in cui la vita è oppressa, ogni spazio in cui dominano violenza, guerra, miseria, là dove l’uomo è umiliato e calpestato, in quel luogo può ancora riaccendersi una speranza di vita.
Cari amici, vi siete messi in cammino e siete venuti a questo appuntamento. E ora la mia gioia è sentire che i vostri cuori battono d’amore per Gesù, come quelli di Maria Maddalena, di Pietro e di Giovanni. E poiché siete giovani, io, come Pietro, sono felice di vedervi correre più veloci, come Giovanni, spinti dall’impulso del vostro cuore, sensibile alla voce dello Spirito che anima i vostri sogni. Per questo vi dico: non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila. Non accontentatevi del passo prudente di chi si accoda in fondo alla fila. Ci vuole il coraggio di rischiare un salto in avanti, un balzo audace e temerario per sognare e realizzare come Gesù il Regno di Dio, e impegnarvi per un’umanità più fraterna. Abbiamo bisogno di fraternità: rischiate, andate avanti!
Sarò felice di vedervi correre più forte di chi nella Chiesa è un po’ lento e timoroso, attratti da quel Volto tanto amato, che adoriamo nella santa Eucaristia e riconosciamo nella carne del fratello sofferente. Lo Spirito Santo vi spinga in questa corsa in avanti. La Chiesa ha bisogno del vostro slancio, delle vostre intuizioni, della vostra fede. Abbiamo bisogno! E quando arriverete dove noi non siamo ancora giunti, abbiate la pazienza di aspettarci, come Giovanni aspettò Pietro davanti al sepolcro vuoto. E un’altra cosa: camminando insieme, in questi giorni, avete sperimentato quanto costa fatica accogliere il fratello o la sorella che mi sta accanto, ma anche quanta gioia può darmi la sua presenza se la ricevo nella mia vita senza pregiudizi e chiusure. Camminare soli permette di essere svincolati da tutto, forse più veloci, ma camminare insieme ci fa diventare un popolo, il popolo di Dio. Il popolo di Dio che ci dà sicurezza, la sicurezza dell’appartenenza al popolo di Dio… E col popolo di Dio ti senti sicuro, nel popolo di Dio, nella tua appartenenza al popolo di Dio hai identità. Dice un proverbio africano: “Se vuoi andare veloce, corri da solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme a qualcuno”.
Il Vangelo dice che Pietro entrò per primo nel sepolcro e vide i teli per terra e il sudario avvolto in un luogo a parte. Poi entrò anche l’altro discepolo, il quale – dice il Vangelo – «vide e credette» (v. 8). È molto importante questa coppia di verbi: vedere e credere. In tutto il Vangelo di Giovanni si narra che i discepoli vedendo i segni che Gesù compiva credettero in Lui. Vedere e credere. Di quali segni si tratta? Dell’acqua trasformata in vino per le nozze; di alcuni malati guariti; di un cieco nato che acquista la vista; di una grande folla saziata con cinque pani e due pesci; della risurrezione dell’amico Lazzaro, morto da quattro giorni. In tutti questi segni Gesù rivela il volto invisibile di Dio.
Non è la rappresentazione della sublime perfezione divina, quella che traspare dai segni di Gesù, ma il racconto della fragilità umana che incontra la Grazia che risolleva. C’è l’umanità ferita che viene risanata dall’incontro con Lui; c’è l’uomo caduto che trova una mano tesa alla quale aggrapparsi; c’è lo smarrimento degli sconfitti che scoprono una speranza di riscatto. E Giovanni, quando entra nel sepolcro di Gesù, porta negli occhi e nel cuore quei segni compiuti da Gesù immergendosi nel dramma umano per risollevarlo. Gesù Cristo, cari giovani, non è un eroe immune dalla morte, ma Colui che la trasforma con il dono della sua vita. E quel lenzuolo piegato con cura dice che non ne avrà più bisogno: la morte non ha più potere su di Lui.
Cari giovani, è possibile incontrare la Vita nei luoghi dove regna la morte? Sì, è possibile. Verrebbe da rispondere di no, che è meglio stare alla larga, allontanarsi. Eppure questa è la novità rivoluzionaria del Vangelo: il sepolcro vuoto di Cristo diventa l’ultimo segno in cui risplende la vittoria definitiva della Vita. E allora non abbiamo paura! Non stiamo alla larga dai luoghi di sofferenza, di sconfitta, di morte. Dio ci ha dato una potenza più grande di tutte le ingiustizie e le fragilità della storia, più grande del nostro peccato: Gesù ha vinto la morte dando la sua vita per noi. E ci manda ad annunciare ai nostri fratelli che Lui è il Risorto, è il Signore, e ci dona il suo Spirito per seminare con Lui il Regno di Dio. Quella mattina della domenica di Pasqua è cambiata la storia: abbiamo coraggio!
Quanti sepolcri – per così dire – oggi attendono la nostra visita! Quante persone ferite, anche giovani, hanno sigillato la loro sofferenza “mettendoci – come si dice – una pietra sopra”. Con la forza dello Spirito e la Parola di Gesù possiamo spostare quei macigni e far entrare raggi di luce in quegli anfratti di tenebre.
E’ stato bello e faticoso il cammino per venire a Roma; pensate voi, quanta fatica, ma quanta bellezza! Ma altrettanto bello e impegnativo sarà il cammino del ritorno alle vostre case, ai vostri paesi, alle vostre comunità. Percorretelo con la fiducia e l’energia di Giovanni, il “discepolo amato”. Sì, il segreto è tutto lì, nell’essere e nel sapere di essere “amato”, “amata” da Lui, Gesù, il Signore, ci ama! E ognuno di noi, tornando a casa, metta questo nel cuore e nella mente: Gesù, il Signore, mi ama. Sono amato. Sono amata. Sentire la tenerezza di Gesù che mi ama. Percorre con coraggio e con gioia il cammino verso casa, percorretelo con la consapevolezza di essere amati da Gesù. Allora, con questo amore, la vita diventa una corsa buona, senza ansia, senza paura, quella parola che ci distrugge. Senza ansia e senza paura. Una corsa verso Gesù e verso i fratelli, col cuore pieno di amore, di fede e di gioia. Andate così!
[Papa Francesco, Riflessione finale alla Veglia di preghiera al Circo Massimo 11 agosto 2018]
Collocarsi negli eventi di persecuzione
(Mt 10,17-22)
Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.
In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.
Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.
Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.
L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.
Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.
Non saremo sull’altro lato. Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.19-20).
Mt intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.
Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (vv.16-18).
I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.
Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.
Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.
Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.
In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.
Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco.
Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.
Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.
È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.
Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.22b).
La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.
Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione?
Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?
[S. Stefano protomartire, 26 dicembre]
Cari fratelli e sorelle!
All’indomani del Natale, la liturgia ci fa celebrare la "nascita al cielo" del primo martire, santo Stefano. "Pieno di fede e di Spirito Santo" (At 6,5), egli fu scelto come diacono nella Comunità di Gerusalemme, insieme con altri sei discepoli di cultura greca. Con la forza che gli veniva da Dio, Stefano compiva numerosi miracoli ed annunciava nelle sinagoghe il Vangelo con "sapienza ispirata". Fu lapidato alle porte della città e morì, come Gesù, invocando il perdono per i suoi uccisori (At 7,59-60). Il legame profondo che unisce Cristo al suo primo martire Stefano è la Carità divina: lo stesso Amore che spinse il Figlio di Dio a spogliare se stesso e a farsi obbediente fino alla morte di croce (cfr Fil 2,6-8), ha poi spinto gli Apostoli e i martiri a dare la vita per il Vangelo.
Bisogna sempre rimarcare questa caratteristica distintiva del martirio cristiano: esso è esclusivamente un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini, compresi i persecutori. Perciò noi oggi, nella santa Messa, preghiamo il Signore che ci insegni "ad amare anche i nostri nemici sull’esempio di [Stefano] che morendo pregò per i suoi persecutori" (Orazione "colletta"). Quanti figli e figlie della Chiesa nel corso dei secoli hanno seguito questo esempio! Dalla prima persecuzione a Gerusalemme a quelle degli imperatori romani, fino alle schiere dei martiri dei nostri tempi. Non di rado, infatti, anche oggi giungono notizie da varie parti del mondo di missionari, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose e fedeli laici perseguitati, imprigionati, torturati, privati della libertà o impediti nell’esercitarla perché discepoli di Cristo e apostoli del Vangelo; a volte si soffre e si muore anche per la comunione con la Chiesa universale e la fedeltà al Papa. Nella Lettera Enciclica Spe salvi (cfr n. 37), ricordando l’esperienza del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin (morto nel 1857), faccio notare che la sofferenza è trasformata in gioia mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. Il martire cristiano, come Cristo e mediante l’unione con Lui, "accetta nel suo intimo la croce, la morte e la trasforma in un’azione d’amore. Quello che dall’esterno è violenza brutale, dall’interno diventa un atto d’amore che si dona totalmente. La violenza così si trasforma in amore e quindi la morte in vita" (Omelia a Marienfeld - Colonia, 21 agosto 2005). Il martire cristiano attualizza la vittoria dell’amore sull’odio e sulla morte.
Preghiamo per quanti soffrono a motivo della fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. Maria Santissima, Regina dei Martiri, ci aiuti ad essere testimoni credibili del Vangelo, rispondendo ai nemici con la forza disarmante della verità e della carità.
[Papa Benedetto, Angelus 26 dicembre 2007]
An eloquent and peremptory manifestation of the power of the God of Israel and the submission of those who did not fulfill the Law was expected. Everyone imagined witnessing the triumphal entry of a great ruler, surrounded by military leaders or angelic ranks...
Ci si attendeva una manifestazione eloquente e perentoria della potenza del Dio d’Israele e la sottomissione di coloro che non adempivano la Legge. Tutti immaginavano di assistere all’ingresso trionfale d’un condottiero, circondato da capi militari o schiere angeliche…
May the Holy Family be a model for our families, so that parents and children may support each other mutually in adherence to the Gospel, the basis of the holiness of the family (Pope Francis)
La Santa Famiglia possa essere modello delle nostre famiglie, affinché genitori e figli si sostengano a vicenda nell’adesione al Vangelo, fondamento della santità della famiglia (Papa Francesco)
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athinagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict)
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
Thousands of Christians throughout the world begin the day by singing: “Blessed be the Lord” and end it by proclaiming “the greatness of the Lord, for he has looked with favour on his lowly servant” (Pope Francis)
Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva” (Papa Francesco)
The new Creation announced in the suburbs invests the ancient territory, which still hesitates. We too, accepting different horizons than expected, allow the divine soul of the history of salvation to visit us
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio antico, che ancora tergiversa. Anche noi, accettando orizzonti differenti dal previsto, consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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