Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle

Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.

Mt 25,1-13

Matteo 25:1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo.

Matteo 25:2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge;

Matteo 25:3 le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio;

Matteo 25:4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche dell'olio in piccoli vasi.

Matteo 25:5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono.

Matteo 25:6 A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!

Matteo 25:7 Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade.

Matteo 25:8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono.

Matteo 25:9 Ma le sagge risposero: No, che non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene.

Matteo 25:10 Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.

Matteo 25:11 Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici!

Matteo 25:12 Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco.

Matteo 25:13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.

 

Gesù si serve di una usanza matrimoniale dei suoi tempi come allegoria per insegnare che i suoi veri discepoli saranno sia attenti che preparati al suo ritorno. Ma qui, la stranezza, è che la sposa non c'è, e il rapporto così diretto tra le fanciulle e lo sposo lascia intendere come in realtà siano proprio esse a rappresentare la sposa. Si dice, infatti, che le fanciulle uscirono incontro allo sposo, e questo non trova riscontro nelle usanze del tempo, perché era la sposa che accompagnata dalle sue amiche veniva portata in corteo alla casa dello sposo.

Il regno dei cieli è paragonato alla storia di ciò che accade alle dieci vergini: alla venuta improvvisa del Figlio dell'uomo; alcune sono pronte e altre no. Il simbolismo contenuto nella parabola è abbastanza evidente: il tema è il "regno dei cieli", ovvero la parousia del Signore. Lo sposo quindi rappresenta Gesù che viene a prendere la sua sposa, la chiesa, l'insieme dei redenti, e la porta nella sua casa dove si svolge la cerimonia del matrimonio e il banchetto. Le fanciulle sagge sono quelle che perseverano e rimangono fedeli a Cristo; le stolte sono coloro che non perseverano.

Le fanciulle sono qualificate da un numero, il dieci, che nel linguaggio biblico indica la compiutezza, la pienezza. Basti pensare ai dieci comandamenti, le dieci piaghe d'Egitto, la decima,  ecc. Questo gruppo, quindi, è il gruppo perfetto, è l'universalità dei cristiani; esso è composto da fanciulle, che Matteo definisce "vergini", cioè persone che sono riservate e consacrate in via esclusiva allo sposo. Ciò che le ha rese tali è l'aver preso la lampada, che nella metafora biblica allude a Dio e alla sua Parola. Si tratta, quindi, di una scelta esistenziale che queste hanno compiuto, uscendo incontro allo sposo, cioè orientando la loro vita verso Cristo, a cui l'hanno consacrata nella loro scelta di fede. Questa, ora, illumina i loro passi verso lo sposo, la cui venuta è sentita come imminente.

Il regno dei cieli è dunque visto nella sua prospettiva finale che è l'incontro con lo sposo. Ma già tutta l'esistenza terrena è una uscita incontro allo sposo. C'è una prima uscita dalla madre per venire alla luce della vita; c'è una seconda uscita che dura tutta la vita: l'uscita da sé, dal vecchio uomo, per andare incontro al Signore.

Ma è proprio in questo andare verso il Signore che divergono i comportamenti: c'è chi si mostra saggio e chi stolto. La fine della storia è palesata fin dall'inizio, perché è chiaro che le fanciulle stolte non riusciranno a portare a termine il loro dovere e ne pagheranno le conseguenze. In questo modo Gesù mette subito in primo piano qual è l'esortazione principale della parabola: essere preparati e pronti per la sua venuta.

L'elemento discriminante e che genera i due contrapposti comportamenti è l'olio: le vergini sagge hanno preso dell'olio extra per le loro lampade, mentre le altre trascurarono di prenderlo. Le sagge hanno considerato l'eventualità di un ritardo dello sposo - decise di non farsi cogliere impreparate. Le stolte, invece, non hanno avuto la lungimiranza di prepararsi in caso di ritardo dello sposo.

L'olio, utilizzato in molti modi nell'antichità, assume significati diversi a seconda dei casi. Era ampiamente e variamente usato in tante situazioni, e certamente uno dei suoi usi più comuni era per alimentare le lampade, che, nel simbolismo biblico, è l'immagine di Dio quale contenuto vivo della fede. Bisogna comunque stare attenti a non cadere nella tentazione di allegorizzare troppo tutti i particolari. Il  fulcro della parabola è la semplice questione della preparazione o non preparazione, e la tragicità di quest'ultima.

Le vergini stolte, aspettando lo sposo hanno calcolato i tempi e pensato che l'olio fosse in quantità sufficiente. Invece la parabola è centrata sul non sapere quando arriva lo sposo, sull'incertezza. Le sagge, prevedendo i tempi di attesa, prendono più olio, proprio perché non sanno: allora è bene che le lampade non si spengano, si mantengano accese. Se proprio si vuole dare un significato simbolico all'olio – ma non è necessario per la comprensione della parabola - in questo contesto esso va colto come la metafora dell'alimento spirituale, che serve a tenere sempre viva la fiamma della fede, perché essa non si affievolisca e non venga meno, e così non ci faccia essere impreparati alla Venuta del Signore. Sappiamo poi che l'elemento fondante della fede e tale da generarla, è la parola di Dio.

La discriminante, dunque, tra la stoltezza e la saggezza nel vivere cristiano è la parola di Dio che genera la fede, perché senza fede non si può avere la forza e la pazienza di aspettare e perseverare. La parola di Dio fa la differenza tra la saggezza e la stoltezza, essa è l'unica che può alimentare la fede ed aver per frutto le opere, e insieme fanno ardere e brillare la lampada, cioè mette nella condizione di essere sempre pronti per la parousia. Pertanto, il punto della metafora è quello di prepararsi a sufficienza per il compito da svolgere, senza focalizzarsi troppo sul simbolismo dell'olio, quanto piuttosto sul messaggio generale che è quello della diligente perseveranza nell'attesa dell’avvento di Gesù.

Le fanciulle stolte non hanno calcolato il costo del servizio cristiano, e in tal modo erano mal preparate per ciò che sarebbe stato richiesto loro. In altre parole, le stolte, prendendo le lampade senza portare con sé l'olio, si sono proposte di portare a termine un compito senza considerare ciò che era necessario per la sua realizzazione.

Ecco dunque chi è il saggio e chi è lo stolto. È questo anche il motivo per cui la parabola è narrata per i credenti. Queste vergini sono stolte perché alla fine hanno scoperto di aver creduto in maniera vana. Si crede in maniera vana quando non si vive secondo il vangelo di nostro Signore Gesù Cristo. La parola del vangelo trasformata in nostra vita è quell'olio di grazia e di verità che fa brillare la nostra lampada. Queste vergini hanno vissuto con una fede inutile, come inutile è la lampada senza l'olio. La fede inutile è una fede morta, non conduce al Cielo.

Così, prendiamo atto che nel corpo di Cristo ci sono quelli che hanno una fede vera e una vita che corrisponde alla loro fede, e quelli che hanno solo l'apparenza della fede, senza la potenza di quella fede genuina che produce la perseveranza fino alla fine. La sposa di Cristo custodisce sempre nel proprio cuore la fede e la speranza in Colui che deve venire. Non importa a quale ora.

Questa vita è immersa nel sonno della morte, ma solo per coloro che andranno incontro a Cristo in maniera inadeguata, cioè senza la fede che rende graditi e accetti. I pentimenti tardivi, per paura dell'inferno e non per vero amore, non sono accolti. Non gioverà bussare alle porte del cielo, quando le sue porte sono ormai serrate per sempre. Per questo dobbiamo portare la lampada, che è la nostra fede alimentata dalla parola divina: per non perderci nelle tenebre di questo mondo.

Potremmo anche spingerci a dire che lo stolto è l'uomo che, fiducioso nella luce che gli è stata data, si chiude nella presunzione della propria giustizia e finisce per addormentarsi senza rendersene   conto, perché la luce della fede non si spegne improvvisamente, ma poco a poco. Queste parole non sono dette a tutti, ma ai discepoli, perché da sapienti non diventino stolti. Non possiamo vivere per Cristo e nel contempo trascurare la fede, fiduciosi nel fatto che la fede non è ancora spenta del tutto, e rimandando la pienezza e la serietà di vita al domani. Che non ci accada di svegliarci dall'errore quando è troppo tardi!

 

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Argentino Quintavalle, autore dei libri 

- Apocalisse commento esegetico 

- L'Apostolo Paolo e i giudaizzanti – Legge o Vangelo?

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  • Il discorso profetico di Gesù (Matteo 24-25)
  • Tutte le generazioni mi chiameranno beata

 

  

Oct 29, 2023

XXXI Domenica T.O. (anno A)

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Mt 23,1-12

Matteo 23:1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo:

Matteo 23:2 «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.

Matteo 23:3 Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.

Matteo 23:4 Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.

 

Il v. 1 ci presenta i destinatari del discorso di Gesù: la folla e i discepoli. Ma nel contesto del capitolo, la folla rimane sullo sfondo, e i veri destinatari sono i discepoli, ai quali si parlerà in esclusiva nei vv. 8-12 («ma voi non vi fate chiamar…»). La presenza della folla è importante in quanto è testimone di una denuncia terribile contro scribi e farisei, che occuperà tutto il cap. 23.

È da tener presente il luogo dove Gesù fa questo discorso: è l’area del tempio di Gerusalemme, il cuore dell’istituzione religiosa, il luogo più sacro, e da qui Gesù scaglia, contro scribi e farisei, le parole più dure di tutto il Vangelo. Gesù davanti alla folla e davanti ai discepoli intende squalificare quelli che si presentavano come modelli di santità, li biasima per il contrasto stridente tra il loro insegnamento e la loro condotta. In questa pagina Matteo non cerca di dire quanto erano malvagi gli scribi e i farisei, ma è preoccupato che nella comunità cristiana non si riproducano gli stessi atteggiamenti degli scribi e dei farisei.

Il v. 2 presenta gli scribi e i farisei come gli eredi dell'insegnamento mosaico: "Gli scribi e i Farisei siedono sulla cattedra di Mosè". Cos’è questa cattedra di Mosè? In alcune sinagoghe si sono trovati dei seggi in pietra isolati dai restanti posti a sedere, e si pensa che siano la cattedra di Mosè, il luogo da dove il rabbino impartiva il suo insegnamento, che in tal modo veniva inteso come una continuazione di quello mosaico, dando prestigio e autorevolezza a chi presiedeva. Ma la cattedra di Mosè può anche essere una semplice espressione metaforica per intendere l’autorevolezza dell’insegnamento, o meglio ancora indicare coloro sui quali ricadeva ufficialmente la responsabilità d’interpretare e far osservare le leggi di Mosè.

Se si riferisce, come è probabile che sia, alla responsabilità di interpretare e far osservare le leggi, l’espressione "cattedra di Mosè" indicherebbe il Sinedrio. Contrariamente all'opinione comune, la "cattedra di Mosè" non è propriamente la sedia occupata dall'insegnante nella sinagoga, come per esempio quella scoperta dagli archeologi nei resti della sinagoga di Chorazin. Piuttosto, l'idioma deriva dalla storia di Esodo 18, che descrive come "Mosè sedette a render giustizia al popolo" risolvendo le loro dispute e prendendo decisioni legali (Es 18,13).

La cattedra di Mosè non può riferirsi a qualunque scriba o fariseo della sinagoga locale, perché nessun maestro poteva aspettarsi che i suoi discepoli si attenessero a ogni decisione e regola avanzata da qualunque sinagoga locale. Solo il Sinedrio aveva l'autorità legale di prendere decisioni vincolanti per tutti gli ebrei. Inoltre, uno scritto giudeo-cristiano apocrifo si riferisce al Sinedrio come alla "cattedra di Mosè" (Epistola di Pietro a Giacomo 1: "Mosè consegnò [la tradizione] ai settanta [anziani] che sono succeduti sulla sua cattedra").

Quando Gesù disse: "Gli scribi e i Farisei siedono sulla cattedra di Mosè", intendeva che essi avevano posto nell’alta corte del Sinedrio e quindi esercitavano l'autorità di legiferare.

Se non fosse così, dovremmo porci un’altra domanda: l'osservazione che fa qui Matteo, la dobbiamo intendere come una constatazione o come un atto di accusa? “Siedono” perché ne hanno diritto o “siedono” in maniera arbitraria? Chi è il vero interprete della Legge, gli scribi e i farisei oppure Gesù? Il giudaismo rabbinico o il cristianesimo? Dopo la distruzione del Tempio e la fine del culto ebraico, quindi dello stesso giudaismo veterotestamentario, ormai allo sbando, chi è il vero interprete della Legge? Chi può dirsi a pieno titolo suo erede? Non v'è dubbio che per Matteo è Gesù, il quale reinterpreta autorevolmente la Legge, secondo lo schema: "Voi avete udito che … Ma io vi dico che…" (Mt 5,21-48). È lui, dunque, il nuovo e autentico interprete; lui il vero erede della cattedra di Mosè.

La polemica, quindi, è infuocata, perché si tratta di cambiare il corso della storia, piazzando il cristianesimo come nuova evoluzione del giudaismo. Ma dopo la distruzione del Tempio, il giudaismo che rifiutò il Messia si riformulò sotto un'altra forma, quella del rabbinismo. Il cap. 23 di Matteo è dunque profetico, e servirà a screditare questo nuovo giudaismo, denunciando tutte le sue contraddizioni interne e destituendolo di ogni autorità morale.

Il v. 3 va letto alla luce dell’intero capitolo, che tenderà a dimostrare che il fariseismo (che poi diventerà giudaismo rabbinico), non ha alcuna autorità morale, perché il suo insegnamento è inficiato da un operare contrario alla Legge stessa.

Ma, rivolto ai suoi discepoli e alla folla, Gesù li invita a osservare quello che scribi e farisei dicono, ma a non fare secondo le loro opere. Sembra esserci una contraddizione. Come si fa a fidarsi delle parole di un altro sapendo che costui è un ipocrita? Come mi posso fidare delle parole di un falso? Come ci si può fidare di persone delle quali Gesù disse: trasgredite il comandamento di Dio a motivo della vostra tradizione (Mt 15,3)? Inoltre, nel v. 4 di questo capitolo, Gesù attacca i regolamenti legali di scribi e farisei (“legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente…”).

Non ci si può fidare delle parole di un altro sapendo che è un falso. Nel vangelo di Matteo che cosa ha fatto finora Gesù quando si è incontrato con scribi e farisei? Ha condannato in maniera molto chiara il loro insegnamento, come gente da non ascoltare, chiamandoli guide cieche, persone delle quali non bisogna fidarsi mai, perché chi segue un cieco fa una brutta fine. E ora nel cap. 23 Gesù non poteva arrivare a dire il contrario: "va bene, vi ho detto così, però quello che loro dicono, fatelo e osservatelo"!

Cerchiamo allora di capire alla luce di tutto il contesto. Matteo ha parlato della cattedra di Mosè. Mosè ha portato la Parola di Dio, non la sua, scendendo dal Sinai con le tavole della Legge, che dovevano guidare la vita degli Israeliti. In Es 24,7 ritroviamo quasi uguale la frase riportata da Matteo. Lì Mosè presenta le tavole della Legge e il popolo dice: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!».

Matteo ci dice che scribi e farisei (le istituzioni), hanno tradito la fedeltà a Dio, perché loro dicono ma non fanno, hanno tradito l’impegno di Es 24,7 dove il popolo si era dichiarato pronto a fare tutto quello che Dio aveva detto. Non possono essere rappresentanti autorevoli per l’insegnamento. Gesù non intende assolutamente invitare i suoi discepoli e la folla a seguire le direttive dei farisei, ma prepara il terreno per smascherare la loro falsità.

Infatti, Gesù ha previsto un momento in cui i suoi stessi discepoli occuperanno la cattedra di Mosè, prendendo decisioni di legare (proibire) e sciogliere (permettere).

Pertanto, “fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno”, sta a significare che siccome gli scribi e i farisei sedevano sulla cattedra di Mosè, che a quei tempi indicava il Sinedrio, andava rispettata la loro autorità legislativa, anche per non subirne le sanzioni penali. Il riconoscimento del loro potere civile-legale non costituiva un pericolo per la fede cristiana. Invece andava respinta la loro ipocrisia, perché le opere erano in contrasto stridente con il loro insegnamento. Tale incoerenza di vita risultava biasimevole e scandalosa. 

 

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Oct 22, 2023

XXX Domenica T.O. (anno A)

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Mt 22,34-40

Matteo 22:34 Allora i farisei, udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme

Matteo 22:35 e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova:

Matteo 22:36 «Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?».

Matteo 22:37 Gli rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente.

Matteo 22:38 Questo è il più grande e il primo dei comandamenti.

Matteo 22:39 E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.

Matteo 22:40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

Dopo che Gesù ha chiuso la bocca ai sadducei, i farisei si riuniscono insieme, in chiaro segno di ostilità. Anziché interrogarsi e chiedersi perché la loro scienza falliva dinanzi a Gesù, anziché arrendersi e convertirsi al suo insegnamento, vogliono ancora metterlo alla prova, ed è questo lo scopo del riunirsi insieme. Nel loro cuore covano una segreta speranza: ci sarà un punto debole nel suo insegnamento. Prima o poi questo punto debole verrà alla luce e per lui sarà la fine. Mandano da Gesù un dottore della legge, uno che la legge la conosce, per tentarlo.

Per comprendere dove stia l’insidia bisogna ricordare a quale punto è arrivato il confronto fra Gesù e i suoi detrattori. I farisei si sono visti demolire nella sapienza che viene loro dalle Scritture: se pur sono fedeli alla Legge, non sanno intenderla alla luce dello Spirito. I sadducei non hanno avuto maggior fortuna, davanti a Gesù hanno dimostrato la loro stoltezza e una conoscenza della Parola molto superficiale e distorta. E questo spiega la domanda il cui senso è pressappoco questo: “Se dunque noi tutti (farisei e sadducei) siamo in errore perché non abbiamo intelligenza della Legge, allora dicci tu, che la sai più lunga, qual è il più grande comandamento: la cui importanza cioè sia fuori discussione e non lasci spazio a interpretazioni diverse”. Passano la palla a Gesù, perché questa volta sia lui a lanciarla, nella speranza di poter controbattere.

Vi era chi diceva più grande il precetto del Sabato, perché più antico; chi diceva più grande la circoncisione, ecc. La domanda fatta a Gesù si prestava quindi a mille cavilli, e mirava a trascinarlo nelle dispute che dividevano le varie scuole. Infatti, la domanda non è sui comandamenti, ma su quale di essi sia il primo e più grande. Lo scopo è evidente: poiché tanti erano i comandamenti di Dio considerati ugualmente grandi - e qualunque cosa Gesù risponderà, il dottore della legge avrà buon gioco per cavillare che c’è un altro comandamento più grande.

«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Viene riportata la citazione di Deut. 6:5 estrapolata dallo Shemà Israel, la preghiera ebraica per eccellenza, il cuore della fede di Israele, che il pio ebreo recitava due volte al giorno, il mattino e la sera. È il credo di Israele e “shemà” vuol dire “ascolta”. Gesù risponde eliminando “ascolta Israele”, facendo vedere che la sua risposta è valida per tutta l’umanità, estendendo anche il concetto di prossimo ad ogni persona umana, al di sopra di ogni razza.

Il verbo “amerai”, inoltre, viene posto all'imperativo futuro, per indicare come l'amore di Dio non solo deve permeare l'uomo nelle profondità del suo essere, ma deve estendersi in tutto l'arco della sua vita.

La risposta di Gesù non ammette replica perché va nel cuore della Legge, tralasciando tutto ciò che è in periferia. Che cosa si può obiettare al primo e più grande comandamento, se non la durezza del proprio cuore? Il problema non è più quello di comprendere la Parola, ma di accoglierla. Che senso hanno tutte le vostre disquisizioni sulla Legge se non avete dato a Dio tutto il vostro essere?

Questo comandamento è indicato non solo come “il più grande” ma anche come “il primo”. Questa sottolineatura serve a dire che c'è anche un “secondo”, stabilendo una scala d'importanza e la dipendenza del secondo dal primo, essendo il primo il fondamento di ogni altro comandamento.

L’errore di molti, oggi, è nell’aver abolito il primo comandamento, pensando erroneamente che sia sufficiente un poco di solidarietà sociale per essere a posto in questione di amore.

«E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso». I due comandamenti sono tra loro agganciati, ma nella Legge sono collocati in libri diversi, in Dt 6,5 il primo e in Lv 18,19 il secondo; qui, in Matteo vengono non solo fatti incontrare per la prima volta, ma anche intrecciati tra loro e fatti dipendere l'uno dall'altro in una sorta di reciprocità, per cui violarne uno, porta inevitabilmente a violare anche l'altro.

Ora si passa dal verticale all'orizzontale. Anche qui il tempo del verbo è posto al futuro, proiettando in tal modo l'impegno dell'uomo sull'intero arco della sua vita. La responsabilità verso l'altro passa attraverso se stessi; parametro di raffronto non è Dio, ma se stessi (“amerai... come te stesso”). Il punto su cui lavorare, dunque, è “te stesso”. È necessario, pertanto, imparare ad amare, a rispettare e ad accettare se stessi per poter amare e rispettare gli altri.

L'amore è un comandamento: “co-mandare” vuol dire “mandare insieme” e Dio ci manda insieme a Lui ad amare, quindi ci co-manda ad amare come ama Lui. L'insegnamento di Gesù è originale per la connessione che stabilisce tra i due precetti. L'amore verso Dio deve esprimersi concretamente nell'amore verso il prossimo, che non va però identificato soltanto nel connazionale, bensì in ogni uomo.

Prossimo è colui che ci sta vicino, e chi è più vicino di Gesù? Perché mi ponete domande con l’odio nel cuore, quando la Legge vi prescrive di amare il prossimo? Come siete falsi con Dio, così siete falsi con l’uomo. Se sono Dio dovete amarmi come Dio, se sono uomo, dovete amarmi come prossimo. Chi non ama Dio non ama neanche il prossimo e chi non ama il prossimo non ama neppure Dio. Chi ama il Padre ama anche il Figlio che si è fatto uomo e chi ama il Figlio ama anche il Padre che è nei cieli.  

 

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Oct 16, 2023

XXIX Domenica T.O. (anno A)

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Mt 22,15-21

Matteo 22:15 Allora i farisei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi.

Matteo 22:16 Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno.

Matteo 22:17 Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?».

Matteo 22:18 Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate?

Matteo 22:19 Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro.

Matteo 22:20 Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?».

Matteo 22:21 Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 

I farisei “tennero consiglio”, si mettono a studiare insieme la via attraverso la quale poter sconfiggere Gesù. Il male sa coalizzarsi, sa studiare, sa architettare. Si radunano e vogliono impostare bene la loro strategia per cogliere Gesù in fallo nei suoi discorsi, perché la forza di Gesù sta nel suo insegnamento che attira e entusiasma la gente. Ma la tensione è alta, meglio inviare i propri discepoli insieme agli erodiani. Meglio mandare altri e fuggire il confronto diretto: nessuno può parlare con Gesù e sottrarsi al suo sguardo. Vogliono sapere da Gesù ma non cercare il suo volto.

Per bocca di farisei ed erodiani, vengono attribuiti a Gesù dei tratti che riflettono la sua personalità e il modo di condurre la sua missione. Egli è definito come maestro, che insegna la via di Dio con verità e fermezza, senza riguardo per nessuno. È il più bello elogio che c'è nel Vangelo fatto a Gesù, ed è fatto dai suoi nemici. Tuttavia, l'elogio serve come esca per la trappola, affinché Gesù non se la cavi a buon mercato: tu “sei veritiero” conosci la “verità” e la dici senza guardare in faccia nessuno, quindi non te la puoi cavere dicendo: non so, oppure dicendo una mezza verità per salvare la faccia, non puoi svicolare nella risposta. Dunque l'elogio serve per incastrarlo, perché sospinto dall'aut aut della domanda, la risposta data avrebbe assunto un peso politico e teologico molto rilevante, da cui egli non poteva più sottrarsi e che lo condannava senza scampo.

La questione posta era semplice, ma nello stesso tempo molto complicata, proprio per la sua formulazione di “aut, aut”: “è lecito o no pagare dare il tributo a Cesare?”. Non dicono: Gesù, maestro, dacci un parere. Sono molto più acuti, “è lecito”, vogliono portare la questione sul campo religioso, alla luce della Legge. Un figlio di Abramo, cui il Signore ha dato la Terra promessa in eredità, può essere suddito del romano invasore pagandogli anche il tributo? Un figlio di Abramo si deve sottomettere a questa ingiustizia, oppure si può ribellare? Cosa deve fare? Poiché tu, Gesù, conosci e insegni la verità secondo Dio, cosa vuole Dio: che paghiamo il tributo o che non lo paghiamo? Che ci ribelliamo o che ci sottomettiamo?

Il tentativo era chiaro: coinvolgere Gesù in uno dei due schieramenti pro o contro Roma. È una vera trappola perché ogni risposta sarebbe stata motivo di accusa: o presso gli Israeliti, o presso l'invasore romano. Avrebbero potuto accusare Gesù come collaborazionista dei Romani in caso di affermazione, ma anche di ribellione all’autorità imperiale nel caso di negazione. Per questo era stata posta la domanda: per non dare a Gesù nessuna via di fuga. «Ipocriti, perché mi tentate?». Usano la verità per secondi fini. Qui sta l'ipocrisia.

Dove circola una moneta vuol dire che è riconosciuto il dominio di colui che ha battuto moneta, quindi loro implicitamente riconoscono il dominio perché hanno la moneta. Gesù per sé no, perché non ce l’ha. E sulla moneta del tributo, che è un denaro, c'era un'immagine e una iscrizione. L'immagine da una parte è di Tiberio Cesare, dall'altra di sua madre; lui è rappresentato come Giove, e la madre come Giunone, e l'iscrizione è: ‘il divino Tiberio Cesare figlio del divino Augusto’ da una parte, e ‘pontefice massimo’ dall'altra.

Nell’area del tempio non poteva entrare nulla di pagano, perché era un’offesa alla solennità del luogo. Questo per loro non è un problema; quando si tratta del dio mammona chiudono tutti e due gli occhi e non si fanno scrupolo ad avere nell’area sacra del tempio le tasche piene di monete pagane. A quell’epoca si diceva che l’influsso di un imperatore arrivava dove arrivavano le sue monete. Se giravano nel tempio di Gerusalemme, vuol dire che il vero signore del tempio non è Dio, ma mammona. Gesù li smaschera nella loro malvagità; si dicono ossequiosi di Dio, ma in fondo il loro signore è soltanto il dio denaro.

«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». La diatriba è chiusa. Gesù non ha risposto che bisogna pagare, dice “rendete”, cioè questo non vi appartiene, rimandatelo indietro, restituite all’imperatore il suo denaro. Il denaro è di Cesare e si deve dare a Cesare. L’uomo però non è di Cesare. L’uomo è di Dio. È Dio che ha fatto l’uomo. È Lui che ha posto nell'uomo la sua immagine e la sua iscrizione. Come si dà l’uomo a Dio? Donandosi alla sua volontà, ai suoi comandamenti, alla sua parola. Consegnandosi all’obbedienza di ogni parola che esce dalla sua bocca.

Il bello dell'insegnamento è che possiamo dare a Dio ciò che è di Dio, in qualunque situazione; abbiamo sempre questa libertà qualunque sia la situazione. Fosse anche in prigione, ciascuno ha la libertà di dare a Dio ciò che è di Dio, cioè il mio essere figlio e l’essere fratello degli altri; questo è possibile in ogni momento.

La risposta di Gesù all'apparenza sembra voglia distinguere le due aree di potere: quello umano e quello divino, da non mischiarsi insieme. La risposta, in realtà, è molto acuta - sia perché introduce all'interno della discussione un elemento nuovo e inaspettato, “Dio”, con cui ora i suoi avversari sono costretti a fare i conti, e sia perché la distinzione e la divisione delle competenze di Cesare e quelle di Dio sono solo apparenti. Che cosa appartiene, infatti a Cesare? Di certo la moneta, il potere, gli eserciti, l'impero; ma che cosa appartiene a Dio? Tutto, anche Cesare. La risposta di Gesù, dunque, è l'affermazione della supremazia di Dio su tutto, come fonte, origine da cui discende ogni cosa e a cui tutto appartiene, poiché “In principio Dio creò il cielo e la terra”.  

 

 

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Mt 22,1-14

Matteo 22:1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse:

Matteo 22:2 «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio.

Matteo 22:3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire.

Matteo 22:4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze.

Matteo 22:5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari;

Matteo 22:6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.

Matteo 22:7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.

Matteo 22:8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni;

Matteo 22:9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.

Matteo 22:10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali.

Matteo 22:11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l'abito nuziale,

Matteo 22:12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì.

Matteo 22:13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.

Matteo 22:14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Il contesto entro cui si svolge la scena è quello di un banchetto di nozze, che un re ha indetto per suo figlio. L'immagine del banchetto di nozze evocava nell'animo dell'israelita il suo rapporto di alleanza con Dio, che i profeti definirono come un rapporto di fidanzamento e sponsale. Ma questa volta il banchetto nuziale non è per Israele, non si parla di alleanza tra Dio e il suo popolo, ma del rapporto tra il padre-re e suo figlio. Il banchetto, infatti, è imbandito per festeggiare il figlio e non gli invitati. La venuta di Gesù, quindi, è collocata all'interno di questo banchetto nuziale e la sua venuta inaugura i tempi messianici - e lui è lo sposo, che Israele non ha saputo riconoscere. A fronte della chiamata, la risposta fu letteralmente “non vollero venire” (v. 3).

Vi possiamo anche scorgere l'uomo che ritiene di non aver bisogno di essere salvato, di non aver bisogno di ricevere nessun invito, perché lui sa già che cosa deve fare della sua vita e sa già quali sono le cose buone che deve inseguire. Non ha bisogno che nessuno gli proponga qualche cosa.

Le cause del rifiuto sono legate al proprio interesse: ho un affare che devo sbrigare, ho un campo che deve essere curato, ho delle cose più urgenti da sbrigare che andare a un banchetto di nozze. C'è chi è rimasto del tutto indifferente all'evento Gesù, che non li tocca, e sembra non aggiungere nulla alla vita. Ritengono che la vita sia il loro campo e i loro affari. E in questa vita non c’è nient’altro da attendersi, non c’è nient’altro da vedere.

Applicato alla sfera religiosa, i capi religiosi sono incapaci di concepire l’immagine di Dio che Gesù comunica: un Dio che vuole fare festa con i suoi amici, un Dio che vuole comunicare gioia,  il banchetto a tutti. Per loro è impossibile immaginare un Dio simile; Dio è uno scriba che sta a controllarti per vedere che cosa si fa e che cosa non fai, per chiedere conto di tutto. È l’immagine dell’osservante che vive la propria esistenza per rendere conto a Dio delle proprie cose secondo le regole, e non potrà mai capire che Dio vuole fare un invito a tutti per un banchetto di nozze.

“Gli invitati alle nozze non ne erano degni”. È punto fermo, che chiude una lunga storia andata male. Ma la storia non si ferma, continua per la volontà salvifica del re. Ora si va per le strade, i viottoli, i sentieri, si va dappertutto. Quanti vengono trovati sono invitati, vengono chiamati a partecipare alle nozze. Tutti possono presentarsi. Non ci sono esclusi. C’è una chiamata generale, universale, verso “buoni e cattivi”. La chiesa non è composta solo di santi. Nella chiesa quaggiù i cattivi sono mischiati ai buoni; prima però che abbia luogo il convito nuziale, Dio separerà gli unì dagli altri. A tutti, quindi, è data la possibilità di accedere al banchetto: tutti hanno diritto alla salvezza; ma a questo diritto corrisponde il dovere di una risposta adeguata, perché la salvezza non è imposta, bensì proposta.

Infatti, l'annuncio è per tutti, ma poi dovrà passare attraverso il filtro di una corretta accettazione esistenziale di ogni singolo convocato, così che le moltitudini saranno selezionate in base alla loro risposta. Non a caso, infatti, l'immagine del re, che “entra” e “vede”, introduce l'elemento discriminante: il giudizio che viene operato su ciascuno. Non è sufficiente accettare l'invito - è necessario anche accettarlo nella maniera adeguata.

Nella sala del banchetto si entra con l’abito nuziale. Nella sala del cristianesimo si entra da rigenerati. Una volta chiamati ed accolto l’invito si deve entrare indossando l’abito della grazia e della verità di Cristo. La differenza tra il prima e il dopo è sostanziale. Il prima non può esistere nel dopo. Il prima che è stato cancellato da Dio, deve essere cancellato anche dall’uomo. Chi vuole restare nel dopo come e peggio di prima, insulta Cristo. E cosa vede il re nella sala del convito? Vede un uomo vestito così come era prima, quando sostava ai crocicchi delle strade. Lì si poteva sostare senz’abito nuziale. Nella sala del convito questo non è consentito. C’è un dopo che obbliga.

«Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito nuziale? Ed egli ammutolì». Il re-giudice chiede conto del comportamento tenuto dall'anonimo convocato, e che proprio per il suo anonimato acquista una valenza di generalità, in cui tutti si possono rispecchiare. Ha accettato l'annuncio ma non ha indossato l'abito nuziale. L'abito è metafora della condizione di vita di una persona. In tal modo l'abito è come una sorta di alter ego di chi lo indossa, mentre il cambiamento d'abito indica il cambiamento dell'io interiore, ne esprime il suo rinnovamento.

L'accusa, rivolta dal re-giudice al convocato, è l'essere entrato nella nuova comunità e l'essersi accostato al suo banchetto, senza aver deposto i suoi abiti precedenti ed aver indossato quelli appropriati. Per entrare nel banchetto di nozze bisogna cambiarsi di abito, ovvero di mentalità e di comportamento, cioè bisogna convertirsi.

Il re si rivolge all’uomo dicendogli “amico” - non lo tratta male, non dice: ma tu chi sei? Fino all’ultimo momento il re ha un atteggiamento di benevolenza verso tutti. “Ed egli ammutolì”. Il problema è che l’uomo non ha niente da dire, quando gli viene chiesto come mai non indossa l’abito; come se pensasse, nella sua mente: ‘ho sbagliato posto’. Costui non sa rispondere perché è una persona completamente fuori posto.

La “morale della favola” è che molti sono chiamati, ma pochi eletti (v. 14). In altri termini, molti si dichiarano disponibili ad aderire alla nuova fede, ma ben pochi, per gli impegni e le difficoltà che essa comporta, la sanno incarnare nella propria vita. Molti accolgono l’invito ad essere dei discepoli di Gesù. Pochi in realtà vivono da veri discepoli di Gesù. 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Mt 21,33-43

Matteo 21:33 Ascoltate un'altra parabola: C'era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l'affidò a dei vignaioli e se ne andò.

Matteo 21:34 Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto.

Matteo 21:35 Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l'altro lo uccisero, l'altro lo lapidarono.

Matteo 21:36 Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo.

Matteo 21:37 Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio!

Matteo 21:38 Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità.

Matteo 21:39 E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero.

Matteo 21:40 Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?».

Matteo 21:41 Gli rispondono: «Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo».

Matteo 21:42 E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:

La pietra che i costruttori hanno scartata

è diventata testata d'angolo;

dal Signore è stato fatto questo

ed è mirabile agli occhi nostri?

Matteo 21:43 Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.

 

Gesù non mostra alcuna soggezione verso le massime autorità religiose del suo tempo. Si rivolge a loro in maniera imperativa: “ascoltate”, non è un invito, ma un comando.

Gesù prende come modello per la parabola “Il Canto della Vigna”, un brano bellissimo del profeta Isaia, riportando gli ascoltatori alle origini di Israele. Il “padrone”, è metafora di Dio, il Signore della casa di Israele. Questo padrone piantò una vigna. Il piantare parla di origine, di inizio, l'origine di Israele, proprietà di Dio. La siepe, nel linguaggio metaforico biblico, esprime la protezione divina. Similmente la torre posta in mezzo alla vigna richiama da vicino Dio stesso, posto in mezzo al suo popolo, e il suo Tempio santo, punto d'incontro tra cielo e terra; mentre la presenza del frantoio all'interno della vigna richiama il castigo di Dio per le infedeltà del popolo. Il verso ci dice che la vigna è consegnata ai vignaioli, così come Israele fu affidato alle cure dei suoi capi e dei sacerdoti, ai quali è diretta questa parabola.

Verità primaria che dobbiamo mettere in risalto: la vigna è affidata a dei vignaioli. La vita della vigna è in questo affidamento. Ma anche il fallimento è in questo affidamento. Oggi regna una grande eresia: ognuno si pensa non affidato, cioè si pensa libero, solo, senza appartenenza, senza dipendenza. Ognuno si pensa vite senza vignaiolo. Questa eresia è devastante. Rende inutili gli “affidatari” della vigna. L’affidatario deve zappare la vigna, innestarla, potarla, concimarla, recintarla, vendemmiarla, ecc.. Questo lavoro non appartiene alla vigna, appartiene al vignaiolo.

La parabola è chiaramente un atto di accusa contro i capi di Israele. Se nei confronti dei servi i vignaioli malvagi si sono limitati ad eliminarli tout court, togliendosi dei fastidi, di fronte al figlio del padrone sviluppano un pensiero perverso, che in ultima analisi denuncia ciò che effettivamente è accaduto nel giudaismo: “Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità”. L'uccisione del figlio, quindi, è stata finalizzata non tanto a togliersi un fastidio, ma ad appropriarsi dell'eredità e, in ultima analisi, di soppiantare il padrone della vigna mettendosi al suo posto. È quanto era avvenuto nel Paradiso terrestre dove il serpente sospinse Adamo ed Eva a mangiare dell'albero per diventare come Dio e mettersi, quindi, al suo posto. C'è stato, dunque, un tentativo di colpo di stato nei confronti di Dio.

A livello psicologico è come se l'uomo volesse generare se stesso, essere padre di se stesso. Non ci sta bene che la vita ci sia donata: la vita è mia, me la gestisco io. Se è di un altro, in qualche modo devo renderne conto. Questo innesca tutto un processo che ci mette in un atteggiamento di ribellione. 

L’uomo uccide il Figlio di Dio per non dare frutti a Dio. Nel giardino dell’Eden l’uomo aveva deciso di essere come Dio, ora decide di uccidere Dio per non avere alcun Dio sopra di lui. Siamo al punto del non ritorno del peccato. Questo peccato lo può commettere solo l’uomo. Satana, padre di ogni superbia, non può arrivare fino a tanto.

«E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d'angolo...?». Gesù è quasi sarcastico. Parla a persone che dalla mattina alla sera stanno con la testa sulla bibbia, e ogni volta che c’è una disputa con loro dice: avete mai letto nelle Scritture? È un monito anche per la comunità cristiana - si può leggere le Scritture senza capirle - e il fatto di stare tutto il giorno con la testa sul testo sacro non significa comprendere.

La pietra scartata dai costruttori (autorità giudaiche) ma diventata testata d'angolo, è un riferimento a Gesù: è il fondamento di una nuova costruzione messianica, riunita attorno a lui, non fatta da mani d'uomo, ma da Dio stesso. I costruttori hanno scartato una pietra, la più importante, che doveva dare la solidità all’edificio, ma sono costruttori assolutamente incompetenti. In altre parole, essi hanno ucciso il Figlio, Gesù Cristo, ma Dio ha fatto sorgere un nuovo edificio, la sua Chiesa, della quale ha costituito Gesù Cristo pietra angolare, che la sorregge e la sostiene.

«Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare». Con queste parole finisce l’Antica Alleanza. Chi vuole appartenere a Dio, deve entrare nella Nuova Alleanza, stabilita nel sangue di Gesù Cristo. Chi si rifiuta di entrare nella Nuova alleanza si esclude dal regno di Dio. Non ci sono due regni di Dio: uno che fa riferimento all’Antica Alleanza e uno alla Nuova. L’Antica Alleanza non esiste più. È stata resa nulla dalla Nuova.

 

 

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Sep 22, 2023

XXVI Domenica T.O. (anno A)

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Mt 21,28-32

Matteo 21:28 «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna.

Matteo 21:29 Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò.

Matteo 21:30 Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò.

Matteo 21:31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.

Matteo 21:32 È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.

 

La figura del padre dà fastidio, è dovere, è norma, è obbligo, ti fa ombra, in fondo vorresti essere tu come tuo padre, vorresti essere il padre di te stesso. C'è qualcosa nell'uomo che si chiama peccato originale che fa sì che egli non accetta questo principio. Vuole lui mettere le mani sul suo principio, essere lui padrone di sé, il che vuol dire uccidere il padre, vuol dire rimuovere il fatto di avere una origine, un principio - e accettare che è un principio. Noi vogliamo essere il principio di noi stessi, quindi ci dà fastidio il padre e lo intendiamo come uno che esige, e ci ribelliamo.

La parabola vuole demolire quel muro di perbenismo e di separazione che divideva la società giudaica in giusti e peccatori, e che faceva sì che i primi si sentissero già salvati, pertanto non bisognosi di salvezza; un atteggiamento questo che rende impossibile ogni apertura alla proposta salvifica di Gesù. Il racconto, infatti, è incentrato su due figli che hanno un unico padre, quindi entrambi sono posti sullo stesso piano. Questi due figli si distingueranno tra loro non per l'appartenenza al padre, che è comune, ma per la diversa risposta che daranno.

Il padre dice a un figlio: «Figlio», lo chiama figlio, è un vocativo, la nostra vocazione fondamentale è l’essere chiamati figli, cioè l’accettare che lui ci è padre. Se non accetto di essere figlio non accetto me, non accetto lui, non accetto di essere fratello. Quindi è importante questa parola: Figlio! È in quanto figlio che esisto! Ciò che sono è il mio essere figlio. Ho ricevuto tutto. Se non accetto di essere figlio, voglio mettere le mani su tutto e distruggo tutto.

La proposta di salvezza è la stessa per tutti i figli, ma diversa è la risposta; ed è proprio qui, che la parabola smaschera l'ipocrisia religiosa. Il primo figlio dà un netto rifiuto, ma poi pentitosi accoglie l'invito del padre, e va nella vigna. L'iniziale atteggiamento negativo (rifiuto), passando attraverso un processo di conversione («pentitosi»), che comporta un rimettere in discussione le proprie scelte, le proprie sicurezze e la propria vita, si trasforma in apertura esistenziale a Dio, che viene accolto nella propria esistenza («va nella vigna»).

Il primo figlio proclama con enfasi la sua adesione. “Sì, signore” (egō, kyrie). Significativa è la costruzione della frase di Matteo fa: “Sì, signore E non andò” (v. 30b). Ci saremmo aspettati che Matteo dicesse: “Sì, signore, MA non andò”. La differenza sembra di poco conto, ma non lo è. Il “ma”, infatti, crea una contrapposizione tra il dire e il fare: il dire è positivo, ma poi c'è stato un cambiamento nella sua decisione: ci potrebbe essere stato qualcosa che ha impedito di mettere in pratica la sua promessa, che in qualche modo lo avrebbe potuto giustificare. Però, il “ma” non c'è.  Al suo posto Matteo mette una congiunzione “kai” (“e”), che esprime continuità tra quel “Sì, signore” e il non andare. In altre parole, in quella immediata e pronta adesione alla richiesa del padre, è racchiusa una menzogna, un rifiuto; non perché poi non l'ha fatto, ma perché non ha mai avuto intenzione di farlo.

Nella figura del primo figlio si vede l’atteggiamento delle autorità religiose. Il loro tanto  ostentato zelo, la loro ostentata devozione, in realtà serve solo a mascherare il niente. Non serve riempirsi la bocca di cose buone, se poi la vita viaggia in senso opposto. È sul piano del fare, dunque, che il vero credente viene misurato e solo in questo modo il suo culto acquista un vero significato.

Il secondo figlio, spiega Gesù, sono i pubblicani e le prostitute (v. 31), cioè due categorie di persone considerate impure, tagliate fuori dalla salvezza e, per questo, messe al bando della società civile e religiosa. Ebbene, questo secondo figlio è ora messo in concorrenza con il primo, che si riteneva santo e prediletto da Dio, cui è dovuta la salvezza. Tuttavia per Gesù ciò che fa la differenza non è la condizione sociale di vita, ma l'accettazione della sua proposta di salvezza.

La parabola, quindi, denuncia un comportamento ipocrita e menzognero, poiché fa consistere la salvezza nell'apparire e non nell'essere, quasi che Dio si possa comperare con qualche preghiera o con qualche sacrificio.

«Vi passano avanti nel regno di Dio». Gesù non parla di precedenza. Il verbo non significa vi prendono il posto e voi rimanete indietro. L'espressione indica esclusione: quelli che voi credete essere gli esclusi dal regno di Dio sono entrati e voi siete rimasti fuori. Infatti, mentre i pubblicani e le prostitute avevano prestato fede alla parola del Battista e si erano convertiti, essi, al contrario, ne avevano contrastato l'attività, come del resto continuavano a fare con Gesù. È implicito che chi non ha accolto il Battista, non accoglie neppure Gesù come Messia. In questa maniera essi si opponevano al disegno di Dio, estromettendosi dalla via della salvezza, chiudendosi la via per l'accesso nel regno dei cieli.

Perché i pubblicani e le prostitute «passano avanti» nel regno di Dio? Perché sanno di sbagliare. Sapere di sbagliare è la dignità dell’uomo. L’uomo che dice di aver sbagliato mostra la più grande dignità, che è riconoscere la colpa. Uno che non riconosce l’errore o è disonesto o è stolto. L’uomo va avanti solo se riconosce gli errori precedenti, in questo modo la sua storia passata è recuperata. Allora può dire: Kyrie eleison! Chi si sente giusto, invece, non chiederà mai pietà. Di che cosa deve domandare perdono?  

 

 

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Sep 19, 2023

XXIV Domenica T.O. (anno A)

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Mt 20,1-16

Matteo 20:1 «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna.

Matteo 20:2 Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna.

Matteo 20:3 Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati

Matteo 20:4 e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono.

Matteo 20:5 Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto.

Matteo 20:6 Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?

Matteo 20:7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.

 

Matteo 20:8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi.

Matteo 20:9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro.

Matteo 20:10 Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno.

Matteo 20:11 Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo:

Matteo 20:12 Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo.

Matteo 20:13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro?

Matteo 20:14 Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te.

Matteo 20:15 Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?

Matteo 20:16 Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».

 

 

Vanno tenuti presenti due elementi: a) i Vangeli sono stati scritti principalmente, se non esclusivamente, per le comunità credenti, e costituivano una risposta ai problemi e alle necessità di queste comunità. Il loro intento, quindi, era squisitamente pastorale; b) il fatto che soltanto Matteo riporti questa parabola significa che questa era destinata a dare risposta a un problema presente all'interno della sua comunità. Chi siano questi “primi”, che mal si accordavano con gli ultimi e che non accettavano di essere a loro equiparati, perché essi erano già presenti nella vigna quando questi si erano presentati, non è difficile comprenderlo. Matteo sta parlando dei difficili e spesso tesi rapporti che intercorrevano tra i giudeocristiani e i gentili convertiti, provenienti dal paganesimo. Tale è il contesto storico.

Il padrone di casa, proprietario della vigna, è descritto che “uscì all'alba” alla ricerca di operai. È dunque il padrone che prende l'iniziativa, è lui che esce alla ricerca. L'espressione temporale (“all'alba”) richiama gli inizi del rapporto tra Dio e il suo popolo, con il quale Egli stabilisce un'Alleanza, in qualche modo richiamata dal fatto che il padrone pattuisce il compenso per l'aver accettato la sua offerta di lavoro. I primi versetti, così, narrano, con tocco magistrale, gli elementi essenziali degli inizi della storia di Israele, con i quali Matteo mette in evidenza il primato storico di quel popolo rispetto agli altri, che per primo è stato chiamato e per primo ha risposto alla chiamata. Ma la “giornata”, che rappresenta il tempo della storia della salvezza, non si è esaurita con loro, perché l'iniziativa del padrone di casa continua per tutta la durata della giornata, fino all'undicesima ora, termine ultimo di questo tempo di salvezza, caratterizzato da una continua e costante chiamata aperta a tutti.

La storia della salvezza, partita con Israele, continua nel tempo, ampliandosi gradualmente all'intera umanità. Tuttavia, la diversità tra il prima (Antico Testamento) e il dopo (Nuovo Testamento) è indicata dalla diversità del padrone di casa nei confronti dei chiamati: mentre non c'è alcun dialogo tra il padrone e gli operai, ma si sottolinea soltanto che con questi fece un contratto (Alleanza), nelle chiamate successive, invece, lo stesso padrone innesca un dialogo con i suoi chiamati, interpellandoli sul loro stato di sfaccendati e spingendoli ad accettare la sua chiamata. A questi non promette un denaro concordato, promette un'altra cosa: “Vi darò quello che è giusto”. Che cos’è giusto per chi arriva dopo? Non viene detto, ma capiremo qual è la giustizia di Dio.

Questi nuovi operai, chiamati a lavorare nella vigna insieme ai primi, sono definiti, al momento della chiamata, come “disoccupati” e “oziosi”, persone, quindi, prive di lavoro e di mestiere, che soltanto la loro accettazione della chiamata trasformerà in “operai della vigna”, ponendoli in pari dignità con i primi. Nessuna differenza, quindi tra i primi e gli altri, poiché tutti lavorano nella stessa vigna, tutti sono stati parimenti chiamati dall'unico Padrone; tutti, in egual modo, hanno risposto alla chiamata. L'essere arrivati primi è solo una questione di tempo, che nulla ha a che vedere con il progetto salvifico del Padre, il cui scopo è far sì che gli uomini aderiscano alla sua chiamata, che dà loro una nuova identità, trasformandoli in creature nuove. Le regole umane, che premiano i primi arrivati, quindi, vengono completamente stravolte, per lasciare spazio alla disponibilità del cuore dell'uomo di rispondere alla chiamata di Dio.

Infatti, ciò che interessa al padrone della vigna non è la quantità di lavoro svolto o il tempo in cui l'operaio è rimasto a lavorare, bensì l'esserci stato, l'aver lavorato per lui dandogli la disponibilità della propria vita.

La reazione dei primi operai è sdegnata, anche perché appare evidente la sproporzione e l'ingiustizia di trattamento tra gli ultimi e i primi. Tuttavia, questo non è un fatto di cronaca e di ingiustizia sociale, ma è una parabola che tratta di una realtà nuova che si è instaurata con la venuta di Gesù. Bisogna, dunque, mettere da parte i sentimenti di sdegno e le logiche umane, per vedere [dietro l'apparente ingiustizia] le nuove logiche del Regno, che vanno a cozzare contro il settarismo e l'individualismo del mondo ebraico, che concepiva Dio e la sua salvezza come proprietà di Israele.

La mormorazione dei primi per il trattamento subito, apparentemente ingiusto, non è tanto una rivendicazione salariale, ma l'essere stati equiparati agli ultimi; è questo che è insopportabile e inaccettabile: “Questi ultimi [...] li hai trattati come noi [...]”. Qui sta il problema dei primi operai, metafora del giudaismo, ma anche della maggior parte dei giudeocristiani, che ritenevano inaccettabile l'essere posti sullo stesso piano dei gentili. Essi avevano una lunga familiarità nelle cose di Dio; per primi avevano aderito all'Alleanza; per primi avevano conformato la propria vita alle esigenze di Dio, per primi sono stati definiti popolo santo e regno di sacerdoti, loro sono gli eredi della promessa e i discendenti di Abramo. Tutto questo non poteva passare sotto silenzio nei confronti di questi ultimi parvenus; né potevano sopportare una uguaglianza con i nuovi credenti provenienti dal paganesimo. L'orgoglio dell'ebreo ne usciva profondamente ferito.

La risposta del padrone punta a mettere in rilievo la correttezza del suo agire: i rapporti tra padrone e operai della prima ora è regolato da un Patto - dono per Israele, il chiamato della prima ora, legato a Dio con l'accettazione del Patto. Ma c'è anche una intimazione ad andarsene (v. 14): “Prendi il tuo e vattene”. In altri termini, il padrone fa capire che nella nuova realtà che lui ha creato, non c'è posto per le recriminazioni, perché queste vanno in collisione con gli intenti del padrone, che ha deciso di allargare la salvezza data ai primi a tutti gli uomini che si rendono disponibili alla chiamata. In questo disegno di salvezza universale non c'è spazio per le graduatorie, perché la salvezza non è legata al “chi arriva prima”, ma alla risposta dell'uomo all'annuncio. Per questo il volersi intestardire su parametri di anzianità e di orgoglio religioso, significa non aver capito il piano divino, che iniziato con Israele si stava ora allargando, per mezzo di Gesù, a tutta l'umanità; significava essere d'impedimento all'attuazione di questo disegno di salvezza universale. Ecco, quindi, il senso del comando: “Prendi il tuo e vattene”. In altri termini, se il giudeocristiano non è in grado di adeguarsi alla nuova realtà inaugurata in Gesù, è bene che ritorni da dove è venuto, all'Alleanza mosaica. Che prenda, dunque, il suo (Legge mosaica) e se ne vada. Chi vuole un Dio giusto avrà un Dio giusto e nulla più. Vuoi da Dio solo quello che ti spetta di diritto? Ebbene prendilo e vattene, non avrai la Sua grazia e la Sua amicizia.

 

Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi”. Nessuno sa perché è chiamato prima e nessuno sa perché è chiamato dopo. Ognuno però deve rispondere prontamente al Signore e recarsi a lavorare nella sua vigna.

Possiamo attualizzare il discorso a noi stessi. Dio è il padrone che prende i lavoratori, ossia gli uomini, e li manda a lavorare nella sua vigna, cioè nella sua Chiesa. Le varie ore della giornata significano le varie età della vita, nelle quali Dio chiama gli uomini al suo servizio. La sera è la fine del mondo ossia il giudizio, o anche la fine della vita di una persona. Il denaro rappresenta la vita eterna. La condotta generosa del padrone verso i lavoratori dell'undicesima ora mostra che nessuno deve disperare della propria salvezza, poiché in qualunque tempo può convertirsi a Dio con la certezza di essere accolto. L'avere poi dato a tutti la stessa paga, fa vedere come Dio non ha riguardo all'essere stato uno chiamato prima e l'altro chiamato dopo, né all'avere lavorato uno per breve e l'altro per lungo tempo. Dio è padrone della grazia che elargisce, e la elargisce  come vuole: e al convertito dell'ultima ora può darne tanta da equipararlo nel merito a colui che fin dal mattino della vita si era messo al suo servizio. Nessuno pertanto ha motivo di gloriarsi e di preferirsi agli altri per avere per più lungo tempo servito al Signore, oppure per avere fatto o sofferto più cose per lui.

 

 

 Argentino Quintavalle, autore dei libri 

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Mt 18,21-35

Matteo 18:21 Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?».

Matteo 18:22 E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.

 

Matteo 18:23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi.

Matteo 18:24 Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.

Matteo 18:25 Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.

Matteo 18:26 Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa.

Matteo 18:27 Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Matteo 18:28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi!

Matteo 18:29 Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito.

Matteo 18:30 Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.

 

Ancora una volta emerge la figura di Pietro, che chiama in causa Gesù su di una questione dibattuta all'interno del mondo giudaico, il quale era arrivato alla conclusione che il perdono, per uno stesso errore, doveva essere dato per non più di tre volte. Pietro si spinge ben più in là della normale prassi e propone a Gesù un perdono dato per ben sette volte, più del doppio. Un numero questo, il sette, che nella simbologia ebraica parla di compiutezza, di perfezione. La proposta di Pietro, quindi, prospettava un comportamento di eccellenza spirituale, ma è pur sempre la ricerca di un limite, oltre il quale non si può concedere il perdono. Pietro vuole una regola precisa, vuole il limite massimo, una volta superato si è esonerati dall’obbligo del perdono.

E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». Sembra che Gesù giochi con i numeri, ma il richiamo a questa espressione è il cantico vendicativo di Lamec, discendente di Caino, in Gen 4,24. Lamec dice: ‘se Caino verrà vendicato sette volte (è la dichiarazione che ha fatto Dio perché nessuno tocchi Caino), io verrò vendicato settantasette volte!’. Gesù prende il grido vendicativo di Lamec e dice che bisogna opporre alla vendetta il perdono, settantasette volte la vendetta, settanta volte sette il perdono.

Gesù con l'accenno a Caino (si parla di un fratricidio) dice: nella comunità dove non c'è il perdono o si vuole mettere un limite al perdono, succede come a Caino, si porta a morte l'altro.

Non sette volte, bensì settanta volte sette. Un ebraismo questo per dire sempre. Vi è quindi un passaggio dall'eccellenza spirituale (sette volte) alla perfezione (settanta volte sette), che spinge il credente al di là di ogni logica umana, introducendolo nelle logiche stesse di Dio. È in questa prospettiva che va colto il perdono, che deve essere totale e incondizionato, cioè divino. Non ci deve mai essere un limite al perdono. Il vivere cristiano è così un vivere che assimila l'uomo a Dio, portando la sua umanità alla perfezione divina. È come se fosse stato iniettato nel credente il DNA stesso di Dio.

Per i discepoli è difficile capire l’insegnamento di Gesù, ma anche per noi oggi è ancora difficile.  Quante persone, per situazioni personali, non sono mai sicure di essere state veramente perdonate, coltivando dannosi sensi di colpa.

La parabola che segue ha la finalità di illustrare la qualità del perdono, che non è legato a parametri legali e quantitativi, ma fondato sull'amore misericordioso e compassionevole, e che affonda le sue radici nelle stesse logiche del Regno di Dio: “A proposito, il regno dei cieli è simile a un re...”. Il re fu mosso a compassione verso un servo disgraziato. Il verbo usato per esprimere la compassione è splagchnistheìs, che indica una compassione viscerale; una commozione che lo prende totalmente e che lo porta a liberare quel servo da ogni suo debito.

Se nessuno avesse dei torti nei miei confronti, io non saprei cosa voglia dire l'amore gratuito. Sono proprio i debiti che abbiamo gli uni verso gli altri che permettono a chi è perdonato di sperimentare che Dio perdona, e a chi perdona di diventare come Dio che perdona.

Capiamo, allora, come hanno una loro funzione nella vita comunitaria, nelle famiglie, anche i litigi, i disaccordi. Cioè il male esce proprio dove si sta insieme ed è lì che il male deve essere vinto dall'amore e dal perdono. Allora, cerchiamo di vedere come quelle cose negative che ci capitano quotidianamente, quei cento danari che ci dobbiamo l'un l'altro, come il luogo dove possiamo dire: dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia. 

 

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Mt 18,15-20

Matteo 18:15 Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello;

Matteo 18:16 se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.

Matteo 18:17 Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano.

 

Il v. 15 introduce in termini volutamente generici il caso di un fratello che sbaglia. Il verbo usato, (amartáno) è ricco di significati: deviare, fallire, non cogliere l'obiettivo o la meta posta davanti, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, rendersi colpevole, peccare. Si tratta, dunque, di un membro della comunità (fratello), che tiene comportamenti disdicevoli. A fronte di ciò, ogni fratello è reso personalmente responsabile ed è chiamato in prima persona ad intervenire per recuperare il fratello in errore.

L’iniziativa parte sempre dalla parte offesa, non da chi ha offeso, perché ci può essere l’umiliazione di dover andare a chiedere scusa all’altro e ci può essere il rischio che l’altro dica: io non ti voglio più vedere e così si raddoppia l’umiliazione. In questa maniera non si può ricostruire l’unità all’interno del gruppo. Gesù invita la comunità dei discepoli ad assumere lo stesso atteggiamento del Padre nei confronti degli uomini.

Qual è il comportamento da assumere nei confronti del fratello che ha sbagliato? Nell'insieme si ha l'idea di un richiamo deciso, che punta ad ottenere risultati concreti e immediati. Il primo verbo che si incontra è un imperativo: “hypage” (vai) che se da un lato significa avvicinarsi, dall'altro letteralmente significa trarre a sé, guadagnare alla propria causa, adescare. Questa pluralità di significati definisce il senso dell'avvicinarsi al fratello che ha sbagliato: si tratta di sottrarlo, con decisione, all'errore in cui è caduto, riconducendolo sulla retta via.

Segue immediatamente il secondo verbo “élegxon”, che significa far convincere dell'errore. Significa anche far vergognare, rimproverare, biasimare. Si tratta, quindi, di un approccio nei confronti del fratello in errore, senza tanti convenevoli, che punta ad ottenere risultati pratici. Il terzo verbo “ekérthēsas” parla di un guadagno, quale risultato utile di un'azione mirata e condotta con fermezza e decisione.

Non basta dire che tutto va bene. Anche dire ciò che va male è un atto di amore. Fa parte della carità chiamare le cose col loro nome; si può perdonare solo se il male è male, se no che perdono è?

Gesù insiste che bisogna concedere perdono all’altro perché chiedere perdono a Dio è la cosa più semplice che ci sia: mi chiudo in camera e dico Signore perdonami. Però è difficile farlo capire agli altri. Come possono sapere gli altri che io ho chiesto perdono a Dio? È una cosa privata tra me e Lui. Invece concedere il perdono all’altro è molto difficile, perché lì bisogna fare un profondo respiro e aprire il petto, tutti si accorgono del perdono concesso. In quella casa, in quella comunità c’era discordia; si è superata perché in quella casa, fra quelle persone, è entrato il perdono.

Ma cosa succede “se non ti ascolterà”? Fai la stessa cosa in presenza di testimoni! “Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano”.

Dal richiamo privato a quello semiufficiale in presenza di testimoni, da qui all'ufficialità dell'assemblea (ekklēsía). Il termine ekklēsía indica la chiesa, intesa qui come comunità di credenti. Assume il senso di assemblea appositamente convocata per giudicare il caso. Il termine ekklēsía,  traduce generalmente l'ebraico qāhāl, il cui senso è fatto derivare da un gruppo lessicale che significa “riunirsi”, e talvolta traduce anche il termine 'ēdāh, che designa un gruppo di persone che si riuniscono su convocazione. È probabile, quindi, che il nostro ekklēsía, in questo contesto, abbia questo significato: il riunirsi dei responsabili della comunità per giudicare il caso.

“Sia per te come un pagano e un pubblicano”. È l'espulsione dalla comunità. Di conseguenza l'impenitente non era più considerato un fratello, ma eguagliato ai pagani e ai pubblicani, una persona da cui tutti i credenti dovevano guardarsi. Se uno non si pente non puoi neanche perdonargli.

L’estrema ratio è dirgli: Guarda che tu hai rotto la fraternità, non sei fratello; il tuo atteggiamento non è da figlio di Dio. È doveroso dirlo, anche se non spetta a me dirlo - spetta alla comunità. Ed è un atto di carità dirgli: non sei fratello, e se lui ci tiene ad essere fratello e figlio, è l’estrema ratio con cui può dire: no, allora cambio. Questa prassi non è finalizzata all'espulsione del fratello impenitente, bensì al suo recupero, nello spirito che punta a cercare e a recuperare ciò che era perduto.

 

 

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Familiarity at the human level makes it difficult to go beyond this in order to be open to the divine dimension. That this son of a carpenter was the Son of God was hard for them to believe [Pope Benedict]
La familiarità sul piano umano rende difficile andare al di là e aprirsi alla dimensione divina. Che questo Figlio di un falegname sia Figlio di Dio è difficile crederlo per loro [Papa Benedetto]
Christ reveals his identity of Messiah, Israel's bridegroom, who came for the betrothal with his people. Those who recognize and welcome him are celebrating. However, he will have to be rejected and killed precisely by his own; at that moment, during his Passion and death, the hour of mourning and fasting will come (Pope Benedict)
Cristo rivela la sua identità di Messia, Sposo d'Israele, venuto per le nozze con il suo popolo. Quelli che lo riconoscono e lo accolgono con fede sono in festa. Egli però dovrà essere rifiutato e ucciso proprio dai suoi: in quel momento, durante la sua passione e la sua morte, verrà l'ora del lutto e del digiuno (Papa Benedetto)
Peter, Andrew, James and John are called while they are fishing, while Matthew, while he is collecting tithes. These are unimportant jobs, Chrysostom comments, "because there is nothing more despicable than the tax collector, and nothing more common than fishing" (In Matth. Hom.: PL 57, 363). Jesus' call, therefore, also reaches people of a low social class while they go about their ordinary work [Pope Benedict]
Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c'è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario [Papa Benedetto]
For the prodigious and instantaneous healing of the paralytic, the apostle St. Matthew is more sober than the other synoptics, St. Mark and St. Luke. These add broader details, including that of the opening of the roof in the environment where Jesus was, to lower the sick man with his lettuce, given the huge crowd that crowded at the entrance. Evident is the hope of the pitiful companions: they almost want to force Jesus to take care of the unexpected guest and to begin a dialogue with him (Pope Paul VI)
Per la prodigiosa ed istantanea guarigione del paralitico, l’apostolo San Matteo è più sobrio degli altri sinottici, San Marco e San Luca. Questi aggiungono più ampi particolari, tra cui quello dell’avvenuta apertura del tetto nell’ambiente ove si trovava Gesù, per calarvi l’infermo col suo lettuccio, data l’enorme folla che faceva ressa all’entrata. Evidente è la speranza dei pietosi accompagnatori: essi vogliono quasi obbligare Gesù ad occuparsi dell’inatteso ospite e ad iniziare un dialogo con lui (Papa Paolo VI)
The invitation given to Thomas is valid for us as well. We, where do we seek the Risen One? In some special event, in some spectacular or amazing religious manifestation, only in our emotions and feelings? [Pope Francis]
L’invito fatto a Tommaso è valido anche per noi. Noi, dove cerchiamo il Risorto? In qualche evento speciale, in qualche manifestazione religiosa spettacolare o eclatante, unicamente nelle nostre emozioni e sensazioni? [Papa Francesco]
His slumber causes us to wake up. Because to be disciples of Jesus, it is not enough to believe God is there, that he exists, but we must put ourselves out there with him; we must also raise our voice with him. Hear this: we must cry out to him. Prayer is often a cry: “Lord, save me!” (Pope Francis)

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