Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
“Quale mirabile cosa è mai il possedere la Croce! Chi la possiede, possiede un tesoro! (Sant’Andrea di Creta, Omelia X per l’Esaltazione della Croce: PG 97, 1020). In questo giorno in cui la liturgia della Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della santa Croce, il Vangelo che avete appena inteso ci ricorda il significato di questo grande mistero: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché gli uomini siano salvati (cfr Gv 3,16). Il Figlio di Dio s’è reso vulnerabile, prendendo la condizione di servo, obbedendo fino alla morte e alla morte di croce (cfr Fil 2,8). E’ per la sua Croce che siamo salvati. Lo strumento di supplizio che, il Venerdì Santo, aveva manifestato il giudizio di Dio sul mondo, è divenuto sorgente di vita, di perdono, di misericordia, segno di riconciliazione e di pace. “Per essere guariti dal peccato, guardiamo il Cristo crocifisso!” diceva sant’Agostino (Tract. in Johan.,XII,11). Sollevando gli occhi verso il Crocifisso, adoriamo Colui che è venuto per prendere su di sé il peccato del mondo e donarci la vita eterna. E la Chiesa ci invita ad elevare con fierezza questa Croce gloriosa affinché il mondo possa vedere fin dove è arrivato l’amore del Crocifisso per gli uomini, per tutti gli uomini. Essa ci invita a rendere grazie a Dio, perché da un albero che aveva portato la morte è scaturita nuovamente la vita. È su questo legno che Gesù ci rivela la sua sovrana maestà, ci rivela che Egli è esaltato nella gloria. Sì, “Venite, adoriamolo!”. In mezzo a noi si trova Colui che ci ha amati fino a donare la sua vita per noi, Colui che invita ogni essere umano ad avvicinarsi a Lui con fiducia.
Il segno della Croce è in qualche modo la sintesi della nostra fede, perché ci dice quanto Dio ci ha amati; ci dice che, nel mondo, c’è un amore più forte della morte, più forte delle nostre debolezze e dei nostri peccati. La potenza dell’amore è più forte del male che ci minaccia. E’ questo mistero dell’universalità dell’amore di Dio per gli uomini che Maria è venuta a rivelare qui, a Lourdes. Essa invita tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che soffrono nel cuore o nel corpo, ad alzare gli occhi verso la Croce di Gesù per trovarvi la sorgente della vita, la sorgente della salvezza.
La Chiesa ha ricevuto la missione di mostrare a tutti questo viso di un Dio che ama, manifestato in Gesù Cristo. Sapremo noi comprendere che nel Crocifisso del Golgota è la nostra dignità di figli di Dio, offuscata dal peccato, che ci è resa? Volgiamo i nostri sguardi verso il Cristo. È Lui che ci renderà liberi per amare come Egli ci ama e per costruire un mondo riconciliato. Perché, su questa Croce, Gesù ha preso su di sé il peso di tutte le sofferenze e le ingiustizie della nostra umanità. Egli ha portato le umiliazioni e le discriminazioni, le torture subite in tante regioni del mondo da innumerevoli nostri fratelli e nostre sorelle per amore di Cristo. Noi li affidiamo a Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, presente ai piedi della Croce.
[Papa Benedetto, omelia 150° anniversario Lourdes, 14 settembre 2008]
1. "Gioisci, santa Chiesa, poiché Cristo, il re dei cieli, ti ha coronata oggi con la sua croce e ha ornato le tue mura con lo splendore della sua gloria".
La vostra liturgia recita queste parole in numerose circostanze, cari fratelli e care sorelle del popolo armeno, che siete venuti qui per celebrare il vostro Giubileo.
"Cristo ti ha coronato oggi con la sua croce". Vergogna suprema, supplizio ignobile, la croce dei condannati è divenuta corona di gloria. Noi esaltiamo e veneriamo ciò che fu per tutti il segno esecrabile dell'abbandono e della vergogna. Come è possibile questo paradosso? L'inno che voi canterete nell'Officio di questa sera lo spiega: "Su questa Santa Croce, o Dio, tu sei stato fissato, e su di essa hai versato il tuo sangue prezioso". La nostra salvezza ha la sua origine nell'umiliazione totale di Cristo.
"Io, quando sarò elevato da terra - dice - attirerò tutti a me" (Gv 12, 32).
Dal dolore inesprimibile dell'Amore nasce la potenza che trionfa sulla morte, e lo Spirito, effuso dal crocifisso sul mondo, restituisce all'albero secco dell'umanità il ricco fogliame del paradiso terrestre.
L'umanità è stupefatta di fronte a questo mistero; non le resta che inginocchiarsi e adorare il disegno divino della nostra liberazione.
2. Fratelli e sorelle, qualche mese fa sono cominciate le celebrazioni dei millesettecento anni trascorsi dal battesimo del popolo armeno. Con questo gesto, compiuto dai vostri Padri, le acque sante della Redenzione hanno suscitato numerosi semi di vita e di prosperità fra le spine e i cardi che la terra aveva prodotto come conseguenza del peccato dei primi genitori. Questo Giubileo della Chiesa universale apre il vostro Giubileo, in un'ammirevole continuità di spirito e di contenuto teologico: dalla Croce, dal costato del Signore crocifisso è sgorgata l'acqua del vostro Battesimo. Che questo anniversario sia l'occasione di un prezioso rinnovamento, di una speranza ritrovata, di una profonda comunione fra tutti coloro che credono in Cristo!
Il popolo armeno conosce bene la Croce: la porta incisa nel suo cuore. È il simbolo della sua identità, delle tragedie della sua storia e della gloria della sua rinascita dopo ogni evento avverso. In ogni tempo, il sangue dei vostri martiri si è unito a quello del Crocifisso. Intere generazioni di Armeni non hanno esitato ad offrire la propria vita per non rinnegare la propria fede che, come dice uno dei vostri storici, vi appartiene come il colore appartiene alla pelle.
Le croci, di cui la vostra terra è disseminata, sono di pietra nuda, come nudo è il dolore dell'uomo; allo stesso tempo vi sono incise eleganti volute, per mostrare che tutto l'universo è santificato dalla Croce, che il dolore è redento. Questa sera, con la Croce voi benedirete i quattro punti cardinali, per ricordare che questo povero strumento di supplizio è divenuto il metro di giudizio del mondo, un simbolo cosmico della benedizione di Dio, che santifica tutto e feconda tutto.
3. Possa questa benedizione raggiungere le vostre regioni e portarvi serenità e fiducia! Prego innanzitutto il Signore crocifisso per le vostre comunità d'Armenia: là nuove e gravi forme di povertà mettono alla prova i vostri fratelli e le vostre sorelle, provocando la tentazione di nuovi esodi per andare a cercare altrove i mezzi per vivere e garantire la sicurezza delle famiglie. Il vostro popolo chiede pane e giustizia, chiede alla politica di essere ciò che essa deve essere per vocazione profonda: il servizio onesto e disinteressato al bene comune, la lotta affinché il più povero e il più abbandonato, sempre rivestito malgrado tutto della dignità indelebile di figlio di Dio, possa vivere un'esistenza degna e umana. Non abbandonate i vostri fratelli che soffrono: oggi più che mai, che gli Armeni che vivono in tutto il mondo, i quali mediante il loro duro lavoro hanno conquistato una sicurezza economica e sociale, si prendano cura dei loro concittadini, in uno sforzo comune di rinascita!
Il Papa vuole portare oggi con voi la croce di quanti soffrono. Vi ricorda che, nelle privazioni e nelle sofferenze quotidiane, il vostro sguardo deve levarsi verso la Croce, da dove la salvezza continua a venire. Il Vangelo non è soltanto una consolazione, è anche un incitamento a vivere fino in fondo i valori che ridanno alla vita civile la sua dignità, eliminando alla radice, nel più profondo del cuore umano, la tentazione della violenza e dell'ingiustizia, dello sfruttamento dei piccoli e dei poveri da parte dei potenti e dei ricchi. È solo rimettendo Cristo Signore al centro della vita che la società sarà giusta e che l'egoismo di un esiguo numero di persone lascerà il posto al bene di tutti.
Oltre che ai cattolici, il mio ricordo e il mio saluto vanno ai figli della Chiesa armena apostolica: che siano certi che il Papa di Roma segue con sollecitudine i loro sforzi per essere "il sale della terra e la luce del mondo", affinché il mondo creda e ritrovi la forza di sperare e di lottare. La Chiesa cattolica intende sostenere tale sforzo, come se fosse il suo, nell'amore che ci unisce tutti in Cristo.
4. Cari amici, su tutti voi qui presenti, su tutte le persone che vi sono care, su tutto il popolo armeno, invoco i benefici del Signore, in particolare per i malati, le persone anziane e tutti coloro che soffrono nel corpo e nell'anima.
Oggi sarò spiritualmente con voi nel vostro pellegrinaggio di fede, che è una dimensione fondamentale del Giubileo. Il pellegrinaggio ci ricorda che il nostro essere è in cammino verso la pienezza del Regno, che ci verrà donato quando, con riconoscente ammirazione, vedremo il Signore dei secoli ritornare nella gloria, recando sempre sul suo Corpo i segni della passione: "per Crucem ad gloriam"
Non dimenticate di pregare anche per me, affinché il Signore guidi i miei passi lungo il cammino della pace!
A tutti imparto di cuore la mia Benedizione!
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Patriarcato Armeno 14 settembre 2000]
Il 14 settembre la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Qualche persona non cristiana potrebbe domandarci: perché “esaltare” la croce? Possiamo rispondere che noi non esaltiamo una croce qualsiasi, o tutte le croci: esaltiamo la Croce di Gesù, perché in essa si è rivelato al massimo l’amore di Dio per l’umanità. È quello che ci ricorda il Vangelo di Giovanni nella liturgia odierna: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Unigenito» (3,16). Il Padre ha “dato” il Figlio per salvarci, e questo ha comportato la morte di Gesù, e la morte in croce. Perché? Perché è stata necessaria la Croce? A causa della gravità del male che ci teneva schiavi. La Croce di Gesù esprime tutt’e due le cose: tutta la forza negativa del male, e tutta la mite onnipotenza della misericordia di Dio. La Croce sembra decretare il fallimento di Gesù, ma in realtà segna la sua vittoria. Sul Calvario, quelli che lo deridevano gli dicevano: “Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce” (cfr Mt 27,40). Ma era vero il contrario: proprio perché era il Figlio di Dio Gesù stava lì, sulla croce, fedele fino alla fine al disegno d’amore del Padre. E proprio per questo Dio ha «esaltato» Gesù (Fil 2,9), conferendogli una regalità universale.
E quando volgiamo lo sguardo alla Croce dove Gesù è stato inchiodato, contempliamo il segno dell’amore, dell’amore infinito di Dio per ciascuno di noi e la radice della nostra salvezza. Da quella Croce scaturisce la misericordia del Padre che abbraccia il mondo intero. Per mezzo della Croce di Cristo è vinto il maligno, è sconfitta la morte, ci è donata la vita, restituita la speranza. Questo è importante: per mezzo della Croce di Cristo ci è restituita la speranza. La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza.
Mentre contempliamo e celebriamo la santa Croce, pensiamo con commozione a tanti nostri fratelli e sorelle che sono perseguitati e uccisi a causa della loro fedeltà a Cristo. Questo accade specialmente là dove la libertà religiosa non è ancora garantita o pienamente realizzata. Accade però anche in Paesi e ambienti che in linea di principio tutelano la libertà e i diritti umani, ma dove concretamente i credenti, e specialmente i cristiani, incontrano limitazioni e discriminazioni. Perciò oggi li ricordiamo e preghiamo in modo particolare per loro.
Sul Calvario, ai piedi della croce, c’era la Vergine Maria (cfr Gv 19,25-27). E’ la Vergine Addolorata, che domani celebreremo nella liturgia. A Lei affido il presente e il futuro della Chiesa, perché tutti sappiamo sempre scoprire ed accogliere il messaggio di amore e di salvezza della Croce di Gesù.
[Papa Francesco, Angelus 14 settembre 2014]
La forza del mondo interiore, anche nei suoi abissi
(Lc 6,43-49)
Papa Francesco ha affermato: «Dio per donarsi a noi sceglie spesso delle strade impensabili, magari quelle dei nostri limiti, delle nostre lacrime, delle nostre sconfitte».
I costruttori frettolosi si accontentano di edificare direttamente sul terreno; badando solo a quanto si vede e sperimentano (su due piedi). Non scavano la casa sino al sodo - nel profondo, nell’oro di sé.
Nel mondo interiore tutto si rovescia: il primato è della Grazia, che spiazza, perché tiene conto solo della realtà essenziale, inspiegabile - e della nostra dignitosa autonomia.
«L’acqua troppo pura non ha pesci» [Ts’ai Ken T’an]. Accettarsi ci completerà: farà recuperare i lati compresenti, opposti e in ombra. È il balzo della Fede profonda.
Gesù punta a suscitare nelle persone una coscienza critica riguardo a soluzioni banali ed esterne, cosa comune fra i leaders della religiosità antica.
Per edificare un nuovo Regno non bastano le pubbliche liturgie sovrabbondanti di bei segni, e ossequi sociali clamorosi - neppure i doni più appariscenti.
Falsa sicurezza è quella di chi si sente a posto. Non vi è malato o recluso peggiore di colui che si ritiene sano, arrivato e non contagiato: solo qui non c’è terapia, né rilancio.
Lo si vedrà nel momento della tormenta, quando sarà evidente la necessità di tradurre in vita il rapporto personale col Signore, a partire dalla capacità di accogliere l’azzardo.
I meriti non radicati nelle convinzioni intimamente salde non reggeranno il turbine della prova.
Ci sono fondamenta dietro una facciata di farfalle? Lo si capisce nella bufera, e se si diventa «roccia» anche per gl’invisibili - non turisti dello “spirito” che lodano lodano e non rischiano.
La sicurezza non viene dall’adeguarsi a costumanze e adempimenti, né da quel farsi ammirare (almeno) al pari di altri, che rende insana la Casa comune.
Nostro specifico e cifra della Fede non è un’identità tratta da protocolli o dalle maniere - che gioca sulle apparenze e non sull’unico punto forte: l’attitudine dei pellegrini in Cristo.
Siamo saldi solo nella dignità sacerdotale profetica regale, che ci è data in Dono irripetibile e mai sarà frutto del derivare dal consenso.
Viviamo per seguire una Vocazione profonda: Radice, Molla e Motore delle nostre fibre più intime; apparentata ai sogni e alla naturalezza di ciascuno.
Solo affidarsi all’anima è piattaforma autentica, vera salvezza e medicina.
La Missione giungerà alle periferie esistenziali, partendo dal Nucleo.
Sembra insensato, paradossale, incredibile, ma per ogni Chiamato la Roccia sulla quale può e deve edificare il suo modo di scendere in campo… è la Libertà.
[Sabato 23.a sett. T.O. 13 settembre 2025]
La forza del mondo interiore, anche nei suoi abissi
(Lc 6,43-49)
Papa Francesco ha affermato: «Dio per donarsi a noi sceglie spesso delle strade impensabili, magari quelle dei nostri limiti, delle nostre lacrime, delle nostre sconfitte».
Il Richiamo del Signore non è manicheo, bensì profondo.
Il nostro comportamento ha radici affascinanti. Luci e ombre del nostro essere permangono in relazione dinamica.
Talora però i nostri disagi o storture sono il frutto di un eccesso di “luce” - disancorato dal suo opposto.
Tale eccesso si associa volentieri alla pretesa di esorcizzare l’aspetto buio in noi, che vorremmo celare per motivi sociali.
Ci sembra che il biglietto da visita debba essere riflesso solo del nostro aspetto brillante, sciolto, serio, e performante.
Magari, uno stile morale tutto d’un pezzo - almeno a prima vista.
Chi si affeziona al suo lato luminoso e addirittura tenta di promuoverlo per motivi di look (anche ecclesiale), di cultura affermata, di abitudine (anche religiosa) , rischia però di potenziare la controparte.
Attenzione: in ciascun uomo c’è sempre un versante che fa cilecca, che non ce la fa; e non unilaterale.
Forse proprio in chi predica il bene esiste il pericolo più accentuato di trascurare il suo opposto compresente - che prima o poi irromperà, troverà il suo spazio.
Facendo saltare tutto il castello di carte. Ma per realizzare qualcosa di alternativo e assolutamente non artificioso.
Per chi intraprende un cammino di “perfezione”, la sua stessa controparte sembra solo un pericolo.
E condizionati dai modelli, continuiamo a recitare [la “nostra” parte già identificata].
Eppure nel lato oscuro si celano risorse che il lato in sola luce non ha.
Nel lato oscuro leggiamo il nostro seme caratteriale.
Qui c’è la terapia e la guarigione dai disagi che ci affrettiamo a celare (in famiglia, con gli amici, in comunità, sul lavoro).
Gli aspetti oscuri [egoismo, freddezza, chiusura, introversione, tristezza] si annidano dentro; inutile negarlo.
Vale la pena piuttosto considerarli fonte di energie primordiali caratterizzanti.
È infatti il nascondimento - talora la depressione stessa - che ci fa pescare soluzioni inimmaginabili.
Come fossimo un grano piantato in terra, che vuole la sua esistenza. E vuole infine vita naturale, che sviluppi le sue capacità.
Proprio le emozioni che non piacciono e noi stessi detestiamo - come la terra infangata e buia - ci riconnettono con la nostra essenza profonda.
Insomma, gli stati emotivi poco simpatici saranno il pozzo dal quale giungono a noi altre idee, altre “immagini” guida, nuove intuizioni; diversa linfa. E i cambiamenti.
La luce non possiede tutte le possibilità, tutte le dinamicità. Anzi, non di rado sembra declinata [dalle stesse tradizioni] in modo fittizio, riduttivo.
Nel chiaroscuro, viceversa, non fingiamo più. Perché è il fondamento della casa dell’anima.
Tutto ciò consideriamo, per un’armonia solida, che nasca dal di dentro.
Paradossi della Vocazione personale: se non la seguissimo a tutto tondo, continueremmo a ricalcare idee sbagliate, o stili altrui.
E ci ammaleremmo. Il male prenderà il sopravvento.
Se strutturati su una identità astratta, locale, o fasulla, qui sì che la bufera potrebbe distruggere tutto.
Nei nostri tentativi ed errori, accanto dobbiamo tenere tutti gli aspetti - che nel corso del tempo abbiamo imparato a conoscere, e ci siamo resi conto che sono parte di noi.
Questo cambierà la solidità di rapporto con noi stessi, gli altri, la natura, la storia, e il mondo.
La sintonia tra condotta e intenzione del cuore supera l'ipocrisia, ma la conformità tra Parola e vita non si allestisce esercitandosi negli automatismi, né consegnandosi a convinzioni altrui.
Nel post-lockdown ce ne stiamo accorgendo nitidamente.
Un tempo si pensava che la formazione (in specie dei giovani) cesellasse anche l’anima, e tutto sfociasse naturalmente nelle scelte; nei mezzi, nei risultati, nelle opere esterne, e persino nei sogni: “Dimmi ciò che fai e ti dirò chi sei”.
Invece la sintonia qualitativa con il Mistero e la Parola del Cristo non la si ottiene allestendo, bensì la si trova dentro (ciascuno di noi) enigmaticamente, e a partire dagli abissi - come puro Dono segreto, per l’indipendenza creativa.
Fretta, timore di fallire, cultura della concatenazione e stabilità, propositi (anche “spirituali”) o viceversa lusinghe di tranquillità; mire, smanie di essere riconosciuti, mancanza di distacco, ambizione, paura di essere esclusi, difficoltà a spostare lo sguardo... portano all’ignoranza del Mistero.
Privi di spessore, saremo condannati a non scavare sino in fondo neppure dentro noi stessi; in balia perenne dei ruoli particolari, di ambiti e dei suoi eventi; delle relazioni occasionali o locali.
I costruttori frettolosi si accontentano di edificare direttamente sul terreno; badando solo a quanto si vede e sperimentano (su due piedi). Non scavano la casa sino al sodo - nel profondo, nell’oro di sé.
Nel mondo interiore e nella sua potenza nascosta tutto si rovescia: il primato è della Grazia, che spiazza, perché tiene conto solo della realtà essenziale, inspiegabile - e della nostra dignitosa autonomia.
Il resto sarà purtroppo destinato a crollare rovinosamente, perché non rimane fondato sulla Parola, sul carattere [pur magmatico, ma fortemente potenziale]… né sul rapporto vocazionale con Dio e le cose, o sulla più genuina comunione [convivialità e ricchezza condivisa delle differenze].
Viviamo una lacerazione, anche nel tempo dell’emergenza: il mondo interiore è più forte e convincente, eppure l’esteriorità non vuole cedere il passo dei traguardi immediati. Infatti ne siamo ancora attratti.
Ma questi ultimi sappiamo bene che non riattivano alcuna tappa di peso specifico, come invece spontaneamente fa il nostro giovane essere interiore - quasi un Bimbo che portiamo in gestazione.
In genere, anche nel cammino spirituale subito precipitiamo nel personaggio ambìto che vorremmo essere: qui non si cresce, non ci si accende che per delle futilità, né ci s’accorge che non sono esse le nostre “proprietarie”.
Certo, il traguardo esteriore immediato non soffre l’attesa della lunga necessaria evoluzione del dover partorire se stessi (perfino nell’angoscia e solitudine) tappa dopo tappa; che si attiva e riattiva senza comfort e sicurezze.
Eppure siamo nati per spiccare il volo, non per ricalcare e diventare fotocopie nell’anima.
Così tutto ciò che vale sarà nell’oscillazione, perché un percorso di peso specifico personale si configura secondo il dono della nostra eccezionalità.
E l’Unicità si potrà ottenere nel processo di ogni nostro lato, d’ogni versante della personalità - anche apparentemente meschina o sommaria. Anche poco lusinghiera dal punto di vista della tranquillità religiosa; che pure avrà avuto il suo valore.
Gesù non intende distinguere i buoni dai cattivi [cf. vv.15-20 e passo parallelo di Lc 6,43-45] in modo banale: vuole che viviamo appieno, nell’unicità integrale, e percepiamo bene.
Il Signore non propone un destino imprigionato; piuttosto, un ribaltamento di senso.
Il suo è un monito ad acuire lo sguardo, e posarlo dentro - non lasciarlo fuori, a osservare risultati effimeri, quelli da ovvietà e clamore; e poi basta, non vivere troppi scossoni… come fossimo in una zona relax.
L'Unità di misura in Cristo non è l’immediatamente percepibile all’occhio, e non è in sé neppure il “progredire”, bensì: «il valore di ogni parte».
Proprio la consapevolezza di limite diventa in noi principio trasformativo. E ogni imperfezione chiama all’Esodo.
Rinnegare i propri confini significa lasciarsi sequestrare da opinioni comuni, prive di Mistero - con orizzonti ridotti a una “parola” sola.
È ad es. la forte crisi che stimola il rivolgimento d’un sistema anche economico appariscente ma competitivo e disumanizzante, dai principi intimi corrotti - sebbene un tempo ci apparissero come degli assoluti.
Perché non accontentarsi, se grosso modo ce la caviamo? Perché l’identificazione forzata ha tolto Libertà, anche quella di ammettere che siamo fatti di luci e ombre.
Non è il disturbo che priva donne e uomini di emancipazione vocazionale eloquente.
Anche ciascuno che si batte il petto, lo fa in modo particolare; e si riconosce in simbiosi col proprio Nome.
Poi ad ogni età della vita - come a ciascuna era - tocca il suo “peccato”, che non è un mostro bensì un sintomo che parla proprio della Chiamata personale, morale, culturale, sociale.
Anche se non piacesse, l’oscillazione va compresa, non criticata e accusata.
Direi addirittura accolta e rielaborata - non semplicisticamente rifiutata, con atteggiamenti di artificiosa lontananza o gesti di ambigua virtù, che rendono esterni e fanno tornare al punto di partenza.
Oggi la mancanza di vita completa e relazioni belle, il rivolgimento generale, l’inquietudine dell'anima - il nervosismo, l’insoddisfazione - costringono ad abbandonare sia le antiche e fascinose sicurezze devote, che le sofisticazioni disincarnate “à la page”.
Tutto in favore delle situazioni concrete e personali, nell’orizzonte della vocazione irripetibile e del balzo di Fede che apre alla convivenza.
«L’acqua troppo pura non ha pesci» [Ts’ai Ken T’an].
Accettarsi senza riserve c’introdurrà in un’esperienza vertiginosa, da stupore: con lo sbalordimento prodotto dal recupero dei lati compresenti, opposti e in ombra. Tanti quanti i fratelli e sorelle.
Forse constateremo che sono essi i più attivanti e fecondi.
Non l'etica della perfezione e delle distinzioni omologate, bensì il vituperato caos e i nostri demoni interiori diventeranno paradossalmente i migliori compagni di cammino, e gli unici veri; corifei di una stupefacente Missione.
Del resto, le opere stesse sono frutto dei nostri pensieri e desideri. Questi ultimi scaturiscono certo anche da una buona, variegata formazione, ma non in senso meccanico.
È fondamentale anche qui non essere sventati. Un cattivo discernimento annienta l’autentica Roccia, che coincide con la propria Guida spontanea alla completezza.
Fondamento stabile del nostro itinerario è la Libertà di accogliere e la Libertà di corrispondere all’irripetibile carattere - proprio - dell’istinto a realizzarci.
Infatti Gesù si distacca non solo dalla religione antica, ma persino dai filoni messianici - piuttosto crudi - dei primi tempi (es. Gc 3,11-12).
Non per questo il Maestro rinnega lo spirito profondo delle Sacre Scritture antiche, anzi ne coglie il cuore: Qo 3,14; 7,13-18; Sir 37,13-15 [e tanti altri passi (incredibili per la mentalità in cui siamo stati educati)].
Quindi non basta dire: «Signore, Signore» (v.46). Non è sufficiente riconoscere formalmente il Figlio di Dio.
Bisogna vagliare il suo Richiamo nell’essere, farlo proprio e comprenderlo appieno, affinché non venga corrotto e deturpato in forme inessenziali, di puerile conformismo esterno.
Nell’insicurezza, molta gente domanda espressioni di potenza, cerca la forza palese; si accontenta dei paradigmi morali, guarda forme di assicurazione immediata, o brama guide rinomate [che perpetuino e confortino il loro sentiero difensivo].
Illusioni paralizzanti… anche nel cammino di Fede.
Su questa strada non si costruisce la felicità prevista, né solidità alcuna, bensì giorno dopo giorno la propria tristezza - com’è palese da troppe vicende, infine dalle più occulte forme di compensazione (oggi smascherate).
Non c’è guru che possa rimettere le cose a posto in radice.
Il nostro Seme è ciò che è: bisogna scoprirne le virtù, anche e soprattutto quelle inattese - che derivano dall’essenza e da forme magmatiche e plastiche di energie persino contrapposte.
Inutile “curarsi” secondo una omologazione conforme che non appartiene al Nucleo personale.
L’anima ha una vita autonoma, sospensiva dei contesti, delle distanze; esiste dentro e anche fuori dello scandire del tempo - come l’Amore.
Ognuno è una molteplicità di volti coesistenti - cui dare spazio per una maggiore completezza.
Questo conta, e allearsi coi propri limiti: abbracciare ciò che l’ambiente circostante o il paradigma culturale convenzionalista - il quale difende il suo territorio - ritiene magari inconcludente (così via).
Presidiamo altri confini.
Ciò che non piace è forse la nostra parte migliore.
In ogni caso, dar voce alle tensioni significa poter finalmente denominarle, ospitarle degnamente - affinché dispongano gioie più complete.
E lascino varcare la soglia della letizia di vivere, quindi dell’autentica affidabilità.
Spazzando via l’ansia dell’imperfezione, troveremo una più armonica fermezza, energetica.
Accogliendo le fragilità insieme alle ribellioni, non vivremo a metà; anzi, faremo esperienza di pienezza di essere (vitale e scattante).
Non sentendoci sempre intrappolati, potremo volar via.
Ma che certe situazioni tranquille siano ristrettezze contraffatte e tagliole dell’anima, possiamo accorgercene subito: nei disagi radicali, che affiorano.
Molti continuano invano a cercare futili conferme: nella ricerca di doni straordinari o nella meticolosità delle osservanze, ovvero nelle mode di pensiero. Tutte realtà esterne.
Tuttavia non è questa la pedagogia che educa e lancia la vita nello Spirito fuori da meccanismi appunto estrinseci.
Né per vincere davvero le tormente basta “fare la volontà di Dio” in modo disciplinato ma senza consapevolezze amicali con noi stessi.
Nessuna forma di esteriorità inculcata potrà convincerci.
Tantomeno, farci diventare «roccia» - o piccolo baluardo - per persuadere, capacitare, rafforzare altri.
La differenza tra religiosità comune e Fede personale?
La Vita nella condizione umanizzante e divina di preziosità apre percorsi variegati - di abisso perfino, ma colmi di esperienze interiori; di ricerca e scoperte inimmaginabili, ove possiamo essere noi stessi.
Nella sfera di Fede non esistono più sacri tempi, luoghi, saperi, modelli - tutti epidermici, se ingessati - che non siano anche inediti e personali.
L’unione col Signore, Roccia da cui siamo stati come tagliati ed estratti, non è binario né solco, bensì un’opzione fondamentale.
Essa lascia briglie sciolte sull’inclinazione e colore particolari di ciascuno.
Con l’intero Discorso della Pianura (vv.17ss.) - qui agli sgoccioli - Gesù punta a suscitare nelle persone una coscienza critica riguardo a soluzioni banali ed esterne. Cosa comune fra i leaders della religiosità popolare e ufficiale antica.
Per edificare un nuovo Regno non bastano le pubbliche liturgie sovrabbondanti di bei segni col giusto credo, e ossequi sociali clamorosi - neppure i doni più appariscenti.
Falsa sicurezza è quella di chi professa… ma compie atti solo conformi e riflette idee allineate - quindi si sente a posto.
Non c’è malato o recluso peggiore di colui che si ritiene sano, arrivato e non contagiato: solo qui non c’è terapia, né rilancio.
Lo si vedrà nel momento della tormenta, quando sarà evidente la necessità di tradurre in vita il rapporto personale col Signore, a partire da se stessi e dalla capacità di accogliere l’azzardo dell’Amore.
I meriti non radicati nelle convinzioni intimamente salde - gesti prodotti d’intrigo, calcolo e atteggiamenti artificiosi - non reggeranno il turbine della prova.
«Praticanti di cose vane» ossia inconsistenti (è il senso del testo greco che introduce il passo parallelo di Mt 7,23): sono gli alfieri d’una spiritualità vuota, che malgrado la vernice, con lati anche spettacolari, nulla hanno a che fare con Dio.
Secondo convenienza, i “maestri” che si frappongono al percorso dei risvolti personali sembrano disposti a rimangiarsi qualsiasi adesione, tramando il rovescio dei loro stessi proclami - perché prigionieri in merito [invece di come appaiono: condottieri].
Non rivelano ancora il Volto divino, bensì un contrario qualunquista e calcolante.
Campano per tirare avanti - insieme al club cui sono iscritti - e ottenere solo riconoscimenti immediati, ossequi, elemosine di consenso attorno.
E ciò malgrado le grandi discipline di censura che propugnano:
Non correggono la separazione fra insegnare e impegno personale: magari predicano tutti i giorni il Dio vero e (sempre) grandi cose - ma come per mestiere.
Gl’intriganti moltiplicano formule e gesti altisonanti o simbolici, al pari di droghe soporifere ovvero eccitanti… ma sono i primi a non credere a ciò che dicono e a più riprese impongono agli altri.
Pieni di ottuse pretese sulla gente, non comprendono il Padre, Dio dei disperati, esiliati e derisi, che risuscita i non eletti - i privati di futuro; non gli assicurati a vita, comandati dal tornaconto e dall’apparire.
Ci sono fondamenta dietro una facciata di farfalle? Lo si capisce nella prova, e se appunto si diventa «roccia» anche per gli invisibili - non turisti dello spirito che lodano lodano (v.46) e non rischiano.
Pertanto la sicurezza non viene dall’adeguarsi a costumanze e adempimenti, né da quel farsi ammirare (almeno) al pari di altri. Fiction che rende insana la Casa comune.
Nostro specifico e cifra della Fede non è un’identità “culturale” tratta da protocolli o maniere mainstream - trama che gioca sulle apparenze e non sull’unico punto forte: l’attitudine dei pellegrini in Cristo.
Siamo saldi solo nella dignità sacerdotale profetica regale, ch’è data in Dono irripetibile e mai sarà frutto del derivare dal consenso.
Né dell’apparire, del dire e non dire, del costruirsi; dell’adeguarsi alle forze in campo, dell’arrabattarsi per galleggiare.
Viviamo per seguire una Vocazione profonda: Radice, Molla e Motore delle nostre fibre intime; apparentata ai sogni e alla naturalezza di ciascuno.
Solo affidarsi all’anima è piattaforma autentica, vera salvezza e medicina.
La Missione giungerà alle periferie esistenziali, partendo dal Nucleo.
Sembra insensato, paradossale, incredibile, ma per ogni Chiamato la Roccia sulla quale può e deve edificare il suo modo di scendere in campo… è la Libertà.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando la tormenta urterà la tua casa, immagini una caduta grande? Qual è la roccia su cui è costruita la tua comunità? È interessata alla tua naturalezza o vuole omologarti?
Conosci persone dalla forte attività profetica, apostolica o taumaturgica, che danno la sensazione d’una famigliarità con Dio solo straordinaria o di circostanza, forse apparente?
Qual è il motivo, secondo te? Pensi che si siano davvero mai arresi a se stessi e alla quintessenza della propria Chiamata per Nome?
1. Alle sorgenti delle vostre più grandi aspirazioni
In ogni epoca, anche ai nostri giorni, numerosi giovani sentono il profondo desiderio che le relazioni tra le persone siano vissute nella verità e nella solidarietà. Molti manifestano l’aspirazione a costruire rapporti autentici di amicizia, a conoscere il vero amore, a fondare una famiglia unita, a raggiungere una stabilità personale e una reale sicurezza, che possano garantire un futuro sereno e felice. Certamente, ricordando la mia giovinezza, so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza. Certamente, ciò dipendeva anche dalla nostra situazione. Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, “rinchiusi” dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all’aperto per entrare nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo. Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all’abituale ci sia in ogni generazione. È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande. Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente. Sant’Agostino aveva ragione: il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te. Il desiderio della vita più grande è un segno del fatto che ci ha creati Lui, che portiamo la sua “impronta”. Dio è vita, e per questo ogni creatura tende alla vita; in modo unico e speciale la persona umana, fatta ad immagine di Dio, aspira all’amore, alla gioia e alla pace. Allora comprendiamo che è un controsenso pretendere di eliminare Dio per far vivere l’uomo! Dio è la sorgente della vita; eliminarlo equivale a separarsi da questa fonte e, inevitabilmente, privarsi della pienezza e della gioia: “la creatura, infatti, senza il Creatore svanisce” (Con. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 36). La cultura attuale, in alcune aree del mondo, soprattutto in Occidente, tende ad escludere Dio, o a considerare la fede come un fatto privato, senza alcuna rilevanza nella vita sociale. Mentre l’insieme dei valori che sono alla base della società proviene dal Vangelo – come il senso della dignità della persona, della solidarietà, del lavoro e della famiglia –, si constata una sorta di “eclissi di Dio”, una certa amnesia, se non un vero rifiuto del Cristianesimo e una negazione del tesoro della fede ricevuta, col rischio di perdere la propria identità profonda.
Per questo motivo, cari amici, vi invito a intensificare il vostro cammino di fede in Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Voi siete il futuro della società e della Chiesa! Come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani della città di Colossi, è vitale avere delle radici, delle basi solide! E questo è particolarmente vero oggi, quando molti non hanno punti di riferimento stabili per costruire la loro vita, diventando così profondamente insicuri. Il relativismo diffuso, secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento. Voi giovani avete il diritto di ricevere dalle generazioni che vi precedono punti fermi per fare le vostre scelte e costruire la vostra vita, come una giovane pianta ha bisogno di un solido sostegno finché crescono le radici, per diventare, poi, un albero robusto, capace di portare frutto.
2. Radicati e fondati in Cristo
Per mettere in luce l’importanza della fede nella vita dei credenti, vorrei soffermarmi su ciascuno dei tre termini che san Paolo utilizza in questa sua espressione: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). Vi possiamo scorgere tre immagini: “radicato” evoca l’albero e le radici che lo alimentano; “fondato” si riferisce alla costruzione di una casa; “saldo” rimanda alla crescita della forza fisica o morale. Si tratta di immagini molto eloquenti. Prima di commentarle, va notato semplicemente che nel testo originale i tre termini, dal punto di vista grammaticale, sono dei passivi: ciò significa che è Cristo stesso che prende l’iniziativa di radicare, fondare e rendere saldi i credenti.
La prima immagine è quella dell’albero, fermamente piantato al suolo tramite le radici, che lo rendono stabile e lo alimentano. Senza radici, sarebbe trascinato via dal vento, e morirebbe. Quali sono le nostre radici? Naturalmente i genitori, la famiglia e la cultura del nostro Paese, che sono una componente molto importante della nostra identità. La Bibbia ne svela un’altra. Il profeta Geremia scrive: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti” (Ger 17,7-8). Stendere le radici, per il profeta, significa riporre la propria fiducia in Dio. Da Lui attingiamo la nostra vita; senza di Lui non potremmo vivere veramente. “Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio” (1 Gv 5,11). Gesù stesso si presenta come nostra vita (cfr Gv 14,6). Perciò la fede cristiana non è solo credere a delle verità, ma è anzitutto una relazione personale con Gesù Cristo, è l’incontro con il Figlio di Dio, che dà a tutta l’esistenza un dinamismo nuovo. Quando entriamo in rapporto personale con Lui, Cristo ci rivela la nostra identità, e, nella sua amicizia, la vita cresce e si realizza in pienezza. C’è un momento, da giovani, in cui ognuno di noi si domanda: che senso ha la mia vita, quale scopo, quale direzione dovrei darle? E’ una fase fondamentale, che può turbare l’animo, a volte anche a lungo. Si pensa al tipo di lavoro da intraprendere, a quali relazioni sociali stabilire, a quali affetti sviluppare… In questo contesto, ripenso alla mia giovinezza. In qualche modo ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la Guerra, quando in seminario e all’università ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza. Ho dovuto chiedermi: è questa veramente la mia strada? È veramente questa la volontà del Signore per me? Sarò capace di rimanere fedele a Lui e di essere totalmente disponibile per Lui, al Suo servizio? Una tale decisione deve anche essere sofferta. Non può essere diversamente. Ma poi è sorta la certezza: è bene così! Sì, il Signore mi vuole, pertanto mi darà anche la forza. Nell’ascoltarLo, nell’andare insieme con Lui divento veramente me stesso. Non conta la realizzazione dei miei propri desideri, ma la Sua volontà. Così la vita diventa autentica.
Come le radici dell’albero lo tengono saldamente piantato nel terreno, così le fondamenta danno alla casa una stabilità duratura. Mediante la fede, noi siamo fondati in Cristo (cfr Col 2,7), come una casa è costruita sulle fondamenta. Nella storia sacra abbiamo numerosi esempi di santi che hanno edificato la loro vita sulla Parola di Dio. Il primo è Abramo. Il nostro padre nella fede obbedì a Dio che gli chiedeva di lasciare la casa paterna per incamminarsi verso un Paese sconosciuto. “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio” (Gc 2,23). Essere fondati in Cristo significa rispondere concretamente alla chiamata di Dio, fidandosi di Lui e mettendo in pratica la sua Parola. Gesù stesso ammonisce i suoi discepoli: “Perché mi invocate: «Signore, Signore!» e non fate quello che dico?” (Lc 6,46). E, ricorrendo all’immagine della costruzione della casa, aggiunge: “Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica… è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene” (Lc 6,47-48).
Cari amici, costruite la vostra casa sulla roccia, come l’uomo che “ha scavato molto profondo”. Cercate anche voi, tutti i giorni, di seguire la Parola di Cristo. Sentitelo come il vero Amico con cui condividere il cammino della vostra vita. Con Lui accanto sarete capaci di affrontare con coraggio e speranza le difficoltà, i problemi, anche le delusioni e le sconfitte. Vi vengono presentate continuamente proposte più facili, ma voi stessi vi accorgete che si rivelano ingannevoli, non vi danno serenità e gioia. Solo la Parola di Dio ci indica la via autentica, solo la fede che ci è stata trasmessa è la luce che illumina il cammino. Accogliete con gratitudine questo dono spirituale che avete ricevuto dalle vostre famiglie e impegnatevi a rispondere con responsabilità alla chiamata di Dio, diventando adulti nella fede. Non credete a coloro che vi dicono che non avete bisogno degli altri per costruire la vostra vita! Appoggiatevi, invece, alla fede dei vostri cari, alla fede della Chiesa, e ringraziate il Signore di averla ricevuta e di averla fatta vostra!
3. Saldi nella fede
Siate “radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). La Lettera da cui è tratto questo invito, è stata scritta da san Paolo per rispondere a un bisogno preciso dei cristiani della città di Colossi. Quella comunità, infatti, era minacciata dall’influsso di certe tendenze culturali dell’epoca, che distoglievano i fedeli dal Vangelo. Il nostro contesto culturale, cari giovani, ha numerose analogie con quello dei Colossesi di allora. Infatti, c’è una forte corrente di pensiero laicista che vuole emarginare Dio dalla vita delle persone e della società, prospettando e tentando di creare un “paradiso” senza di Lui. Ma l’esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un “inferno”: prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza. Al contrario, là dove le persone e i popoli accolgono la presenza di Dio, lo adorano nella verità e ascoltano la sua voce, si costruisce concretamente la civiltà dell’amore, in cui ciascuno viene rispettato nella sua dignità, cresce la comunione, con i frutti che essa porta. Vi sono però dei cristiani che si lasciano sedurre dal modo di pensare laicista, oppure sono attratti da correnti religiose che allontanano dalla fede in Gesù Cristo. Altri, senza aderire a questi richiami, hanno semplicemente lasciato raffreddare la loro fede, con inevitabili conseguenze negative sul piano morale.
Ai fratelli contagiati da idee estranee al Vangelo, l’apostolo Paolo ricorda la potenza di Cristo morto e risorto. Questo mistero è il fondamento della nostra vita, il centro della fede cristiana. Tutte le filosofie che lo ignorano, considerandolo “stoltezza” (1 Cor 1,23), mostrano i loro limiti davanti alle grandi domande che abitano il cuore dell’uomo. Per questo anch’io, come Successore dell’apostolo Pietro, desidero confermarvi nella fede (cfr Lc 22,32). Noi crediamo fermamente che Gesù Cristo si è offerto sulla Croce per donarci il suo amore; nella sua passione, ha portato le nostre sofferenze, ha preso su di sé i nostri peccati, ci ha ottenuto il perdono e ci ha riconciliati con Dio Padre, aprendoci la via della vita eterna. In questo modo siamo stati liberati da ciò che più intralcia la nostra vita: la schiavitù del peccato, e possiamo amare tutti, persino i nemici, e condividere questo amore con i fratelli più poveri e in difficoltà.
Cari amici, spesso la Croce ci fa paura, perché sembra essere la negazione della vita. In realtà, è il contrario! Essa è il “sì” di Dio all’uomo, l’espressione massima del suo amore e la sorgente da cui sgorga la vita eterna. Infatti, dal cuore di Gesù aperto sulla croce è sgorgata questa vita divina, sempre disponibile per chi accetta di alzare gli occhi verso il Crocifisso. Dunque, non posso che invitarvi ad accogliere la Croce di Gesù, segno dell’amore di Dio, come fonte di vita nuova. Al di fuori di Cristo morto e risorto, non vi è salvezza! Lui solo può liberare il mondo dal male e far crescere il Regno di giustizia, di pace e di amore al quale tutti aspiriamo.
4. Credere in Gesù Cristo senza vederlo
Nel Vangelo ci viene descritta l’esperienza di fede dell’apostolo Tommaso nell’accogliere il mistero della Croce e Risurrezione di Cristo. Tommaso fa parte dei Dodici apostoli; ha seguito Gesù; è testimone diretto delle sue guarigioni, dei miracoli; ha ascoltato le sue parole; ha vissuto lo smarrimento davanti alla sua morte. La sera di Pasqua il Signore appare ai discepoli, ma Tommaso non è presente, e quando gli viene riferito che Gesù è vivo e si è mostrato, dichiara: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25).
Noi pure vorremmo poter vedere Gesù, poter parlare con Lui, sentire ancora più fortemente la sua presenza. Oggi per molti, l’accesso a Gesù si è fatto difficile. Circolano così tante immagini di Gesù che si spacciano per scientifiche e Gli tolgono la sua grandezza, la singolarità della Sua persona. Pertanto, durante lunghi anni di studio e meditazione, maturò in me il pensiero di trasmettere un po’ del mio personale incontro con Gesù in un libro: quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore, nel quale Dio ci è venuto incontro per farsi conoscere. Gesù stesso, infatti, apparendo nuovamente dopo otto giorni ai discepoli, dice a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (Gv 20,27). Anche a noi è possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere, per così dire, la mano sui segni della sua Passione, i segni del suo amore: nei Sacramenti Egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona a noi. Cari giovani, imparate a “vedere”, a “incontrare” Gesù nell’Eucaristia, dove è presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel Sacramento della Penitenza, in cui il Signore manifesta la sua misericordia nell’offrirci sempre il suo perdono. Riconoscete e servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli che sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto.
Aprite e coltivate un dialogo personale con Gesù Cristo, nella fede. Conoscetelo mediante la lettura dei Vangeli e del Catechismo della Chiesa Cattolica; entrate in colloquio con Lui nella preghiera, dategli la vostra fiducia: non la tradirà mai! “La fede è innanzitutto un’adesione personale dell’uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 150). Così potrete acquisire una fede matura, solida, che non sarà fondata unicamente su un sentimento religioso o su un vago ricordo del catechismo della vostra infanzia. Potrete conoscere Dio e vivere autenticamente di Lui, come l’apostolo Tommaso, quando manifesta con forza la sua fede in Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”.
5. Sorretti dalla fede della Chiesa, per essere testimoni
In quel momento Gesù esclama: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29). Egli pensa al cammino della Chiesa, fondata sulla fede dei testimoni oculari: gli Apostoli. Comprendiamo allora che la nostra fede personale in Cristo, nata dal dialogo con Lui, è legata alla fede della Chiesa: non siamo credenti isolati, ma, mediante il Battesimo, siamo membri di questa grande famiglia, ed è la fede professata dalla Chiesa che dona sicurezza alla nostra fede personale. Il Credo che proclamiamo nella Messa domenicale ci protegge proprio dal pericolo di credere in un Dio che non è quello che Gesù ci ha rivelato: “Ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 166). Ringraziamo sempre il Signore per il dono della Chiesa; essa ci fa progredire con sicurezza nella fede, che ci dà la vera vita (cfr Gv 20,31).
Nella storia della Chiesa, i santi e i martiri hanno attinto dalla Croce gloriosa di Cristo la forza per essere fedeli a Dio fino al dono di se stessi; nella fede hanno trovato la forza per vincere le proprie debolezze e superare ogni avversità. Infatti, come dice l’apostolo Giovanni, “chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,5). E la vittoria che nasce dalla fede è quella dell’amore. Quanti cristiani sono stati e sono una testimonianza vivente della forza della fede che si esprime nella carità: sono stati artigiani di pace, promotori di giustizia, animatori di un mondo più umano, un mondo secondo Dio; si sono impegnati nei vari ambiti della vita sociale, con competenza e professionalità, contribuendo efficacemente al bene di tutti. La carità che scaturisce dalla fede li ha condotti ad una testimonianza molto concreta, negli atti e nelle parole: Cristo non è un bene solo per noi stessi, è il bene più prezioso che abbiamo da condividere con gli altri. Nell’era della globalizzazione, siate testimoni della speranza cristiana nel mondo intero: sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza! Davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro, morto da quattro giorni, Gesù, prima di richiamarlo alla vita, disse a sua sorella Marta: “Se crederai, vedrai la gloria di Dio” (cfr Gv 11,40). Anche voi, se crederete, se saprete vivere e testimoniare la vostra fede ogni giorno, diventerete strumento per far ritrovare ad altri giovani come voi il senso e la gioia della vita, che nasce dall’incontro con Cristo!
[Papa Benedetto, Messaggio per la XXVI GMG, 2011]
3. Che cosa Cristo, dice in proposito, nella pagina dell’odierno Vangelo? Terminando il discorso della montagna, disse: “chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7, 24-25). L’opposto di colui che costruì sulla roccia è l'uomo che costruì sulla sabbia. La sua costruzione si dimostrò poco resistente. Di fronte alle prove e alle difficoltà crollò. Cristo ci insegna questo.
Una casa costruita sulla roccia. L'edificio della vita. Come costruirlo affinché non crolli sotto la pressione degli avvenimenti di questo mondo? Come costruire questo edificio perché da ”abitazione sulla terra” diventi un’”abitazione ricevuta da Dio?, una dimora eterna nei cieli non costruita da mani di uomo” (cfr. 2 Cor 5, 1)? Oggi udiamo la risposta a questi interrogativi essenziali della fede: alla base della costruzione cristiana c’è l’ascolto e il compimento della parola di Cristo. E dicendo “la parola di Cristo” abbiamo in mente non soltanto il suo insegnamento, le parabole, le promesse, ma anche le sue opere, i segni, i miracoli. E soprattutto la sua morte, la risurrezione e la discesa dello Spirito Santo. Più ancora: abbiamo in mente il Figlio di Dio stesso, l’eterno Verbo del Padre, nel mistero dell’incarnazione. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14).
[Papa Giovanni Paolo II, Biskupia Góra (Pelplin), 6 giugno 1999]
Fondare la propria vita «sulla roccia di Dio» e sulla «concretezza» dell’agire e del donarsi, piuttosto che «sulle apparenze o sulla vanità» o sulla cultura corrotta delle «raccomandazioni». È l’indicazione che Papa Francesco ha suggerito — durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 6 dicembre — per vivere coerentemente il cammino dell’Avvento.
Linee guida semplici e impegnative al tempo stesso, che il Pontefice ha ricavato dalle letture del giorno, nelle quali s’incontrano tre significativi gruppi di parole contrapposte: «dire e fare», «sabbia e roccia», «alto e basso».
Riguardo al primo gruppo — «dire e fare» — il Pontefice ha richiamato immediatamente le parole del Vangelo di Matteo (7, 21): «Non chiunque mi dica “Signore, Signore” entrerà nel regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre». E ha spiegato: «Si entra nel regno dei cieli, si matura spiritualmente, si va avanti nella vita cristiana con il fare, non con il dire». Infatti «il dire è un modo di credere, ma a volte molto superficiale, a metà cammino»: come quando «io dico che sono cristiano ma non faccio le cose del cristiano». È una sorta di «truccarsi», perché «dire soltanto, è un trucco», è «dire senza fare».
Invece «la proposta di Gesù è concretezza». E così, «quando qualcuno si avvicinava e chiedeva consiglio», lui proponeva «sempre cose concrete». Del resto, ha aggiunto il Papa, «le opere di misericordia sono concrete». E ancora: «Gesù non ha detto: “Ma vai a casa tua e pensa ai poveri, pensa ai carcerati, pensa agli ammalati”: no. Vai: visitali».
Ecco la contrapposizione tra il fare e il dire. Necessaria da evidenziare perché «tante volte noi scivoliamo, non solo personalmente ma socialmente, sulla cultura del dire». A tale riguardo Francesco ha indicato una pratica purtroppo diffusa, quella legata alla «cultura delle raccomandazioni». Accade, per esempio, che per un concorso all’università venga scelto «uno che non ha quasi meriti» rispetto a tanti bravi professori; «e se si domanda: “Ma perché questo? E questi altri bravi..?” – “Perché questo è stato raccomandato da un cardinale, lei sa... i pesci grossi...”». Questo il commento del Papa: «Io non voglio pensare male, ma sotto il tavolo di una raccomandazione sempre c’è una busta». Si tratta solo di un esempio del prevalere del “dire”: «non sono i meriti, non è il fare quello che ti fa andare avanti, no: è il dire. Truccarsi la vita». Ed è proprio «una delle contraddizioni che la liturgia di oggi ci insegna: fare, non dire». Addirittura, ha spiegato il Papa chiudendo questa prima parte della riflessione, «Gesù consiglia» di «fare senza dire: quando dai l’elemosina, quando preghi... di nascosto, senza dirlo. Fare, non dire».
Il secondo confronto rimanda a un’immagine usata da Gesù nel Vangelo: «un uomo saggio costruisce la sua casa sulla roccia, non sulla sabbia». La parabola ha una sua evidenza: «La sabbia non è solida. E una tempesta, i venti, i fiumi, tante cose, la pioggia fanno cadere una casa costruita sulla sabbia. La sabbia è una concretezza debole». Ha spiegato il Pontefice: «La sabbia è conseguenza del dire: io mi trucco, come cristiano, mi costruisco una vita ma senza fondamenti. La vanità, la vanità è dire tante cose, o farmi vedere senza fondamento, sulla sabbia». Bisogna invece «costruire sulla roccia». A tale riguardo il Papa ha invitato a cogliere la bellezza della prima lettura del giorno, tratta da Isaia (26, 1-6), dove si legge: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna».
È una contrapposizione strettamente legata a quella tra il dire e il fare, perché «tante volte, chi confida nel Signore non appare, non ha successo, è nascosto... ma è saldo. Non ha la sua speranza nel dire, nella vanità, nell’orgoglio, negli effimeri poteri della vita», ma si affida al Signore, «la roccia». Ha spiegato Francesco: «La concretezza della vita cristiana ci fa andare avanti e costruire su quella roccia che è Dio, che è Gesù; sul solido della divinità. Non sulle apparenze o sulla vanità, l’orgoglio, le raccomandazioni... No. La verità».
Infine il «terzo gruppo», dove si fronteggiano i concetti di «alto e basso». È ancora il brano di Isaia a guidare la meditazione: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto, ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo. I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri». È un passo, ha fatto notare il Pontefice, che ricorda il «canto della Madonna, del Magnificat: il Signore alza gli umili, quelli che sono nella concretezza di ogni giorno, e abbatte i superbi, quelli che hanno costruito la loro vita sulla vanità, l’orgoglio... questi non durano». E l’espressione, ha sottolineato Francesco, «è molto forte, anche nel Magnificat si usa “ha rovesciato”, e anche più forte: quella grande città bella è calpestata. Da chi? Dai piedi degli oppressi e dai passi dei poveri». Cioè, il Signore «esalta i poveri, esalta gli umili».
La categoria di «alto e basso», ha aggiunto il Papa a commento, viene usata anche da Gesù, ad esempio, quando «parla di satana: “Io ho visto satana cadere dall’alto del cielo». Ed è l’espressione di un «giudizio definitivo sugli orgogliosi, sui vanitosi, su quelli che si vantano di essere qualcosa ma sono pura aria».
Concludendo l’omelia, Francesco ha invitato ad accompagnare il tempo di Avvento con la riflessione su «questi tre gruppi di parole che contrastano una con l’altra. Dire o fare? Io sono cristiano del dire o del fare? Sabbia e roccia: io costruisco la mia vita sulla roccia di Dio o sulla sabbia della mondanità, della vanità? Alto e basso: io sono umile, cerco di andare sempre dal basso, senza orgoglio, e così servire il Signore?». Sarà di aiuto rispondere a tali domande; e, ha aggiunto, anche prendere il Vangelo di Luca e pregare «con il canto della Madonna, con il Magnificat, che è un riassunto di questo messaggio di oggi».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 6 dicembre 2018]
Per una convivenza trasparente
(Lc 6,39-42 )
«Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» (Papa Francesco FT n.100).
Nelle assemblee dei primi secoli i battezzati erano detti «illuminati», persone in grado di orientarsi, scegliere e farsi autonomi.
Il Signore non consentiva ai suoi di fregiarsi del ruolo di “guide” della vita altrui (v.39).
Gli apostoli di tutti i tempi devono solo annunciare e restare discepoli, ossia alunni dello Spirito - non fare gli esperti.
La via di Dio è il Cristo stesso. Non può essere comunicata da docenti: non è un’informazione che va a colmare teste vuote e vicende inutili, da riempire di esteriorità.
Il contesto del brano di oggi abolisce il giudizio, nell’ideale d’una esistenza di ‘persona’ trasformata in ricchezza e dono - che ridicolizza ogni tendenza di dominio.
Nessuno è padrone della sorte e della personalità di chi non si orienta, altrimenti tutti vanno fuori strada (v.39) - pur coi migliori propositi.
Gesù stesso non comandava né dirigeva, ma educava e aiutava. I rabbini si facevano pagare: Lui offriva tutto, vivendo coi suoi [per una reciproca identificazione, però a maglie larghe].
Atteggiamento trasparente e creativo: questa la vera e unica norma di condotta per gli apostoli di tutti i tempi, spesso non in grado di cogliere la loro stessa cecità - perché ancora unilaterali.
Poi, d’una pianta non conta la mole e l’apparenza, ma il frutto (vv.43-45). Motivo in più per risottolineare che gli animatori di chiesa non sono superiori agli altri, né i depositari di verità assolute.
Infatti Gesù è imparagonabile: Maestro sui generis (v.40).
Non ha un’aula arredata con cattedra e banchi. E ancora insegna lungo la strada: lì c’introduce a incontrare noi stessi, i fratelli e la realtà circostante; in un processo, in un cammino.
Non tiene tranquille lezioni di chiosa, compilatorie o moralistiche: stupisce.
Non reinterpreta il ginepraio di saperi, costumanze e disposizioni arcaiche - o mode - autentiche «travi» (vv.41-42) ficcate nell’occhio libero dell’anima, che ne deformano lo sguardo.
Propone la sua Persona e la sua Vita. Nonché i suoi rimproveri - ma proprio quelli e non altri [scontati] volatili come «pagliuzze» (vv.41-42).
Ciò mentre i falsi maestri si ritenevano amici di Dio e destinatari di ovvio riconoscimento.
Da come si atteggiavano, sembrava si sentissero nettamente superiori non solo alla gente, ma allo stesso Maestro (v.40).
Ma Egli li bolla per quello che sono: «ipocriti» (v.42). In lingua greca significa teatranti, gente che recita.
Gesù mette in guardia i suoi [che a parole lo chiamano volentieri Signore: v.46] dalla presunzione di fare i capitani della truppa.
C’è un solo Maestro che dirige e sa dove andare; e ‘unica’ ogni persona - forse inesperta e ritenuta cieca, ma che ‘vede’ meglio dei grandi nomi.
Questi, dal loro cattivo tesoro tireranno fuori - appena dietro l’angolo - il brutto e corrotto anche per gli altri (vv.43-45; testo greco).
Invece l’uomo di Fede prova ancora una nuova Beltà dentro, che vuole esprimersi e restare di prima mano - non accontentarsi di strappare un “pareggio mediocre”.
Peggiore dei fossi (v.39) in cui si cade insieme.
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare Individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima, appunto perché non è universale» (Tagore).
[Venerdì 23.a sett. T.O. 12 settembre 2025]
Gesù e la mania di governare
Lc 6,39-42 (39-45)
«Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» (Papa Francesco FT n.100).
Per vivere in modo fraterno e sapiente non basta stare insieme in due, tre, dieci o più: potremmo essere come tanti ciechi che non sanno dimorare con se stessi.
In tal caso, la vita di relazione si fa esteriore e può diventare vuota - solo colma di giudizi: fiscale, ostinata e pedestre.
Allora sorge dentro il risentimento, per essere costretti in uno spazio maniacale che non ci corrisponde.
L’inevitabile malessere inizia a declinare se e quando proprio chi coordina la comitiva o la compagnia vive il suo esser vicino con estrema modestia, con senso dei suoi stessi confini.
La Via dello Spirito è infatti iniziativa-risposta vocazionale al bisogno di una Guida autentica.
I pastori autentici aiutano solo quando si mettono in discussione prima degli altri, quando non restano impigliati in un esercizio di vacuo indottrinamento e moralismo che esacerba gli animi, indispettisce.
Così l’Amico interiore che conduce infallibilmente le anime vuole sì riflettersi nei “maestri” - ma nella misura in cui essi c’introducono a incontrare noi stessi e la saggezza della Scrittura (più volentieri che a trastullarsi in propri ambiti megalomani).
Commentando il Tao xxix, il maestro Ho-shang Kung puntualizza (di chi vuol essere signore del mondo):
«Vuole governare le creature con l’azione. A mio parere non vi riuscirà, poiché la Via del Cielo e il cuore degli uomini sono chiari.
La Via del Cielo [Perfezione dell’armonia] detesta la confusione [riguardo la propria natura, spontaneamente espressa] e l’impurità [artifizio], il cuore umano detesta le troppe brame».
L’antico popolo eletto s’è ritrovato duro di cuore, smarrito e privo di orizzonte, perché malguidato da capi religiosi fiscali e terra terra.
La loro cecità ottenebrante e artificiosa è stata la rovina concreta del destino e della qualità di vita di tutta la nazione.
Gesù si rivolge agli apostoli affinché le sue assemblee d’ingenui, umili e disorientati non facciano la medesima fine - a motivo d’una mancanza di rettitudine proprio dei responsabili di comunità.
Questi ultimi - se inebriati da autocompiacimento - talora invece di umanizzare, promuovere e rallegrare l’esistenza della gente comune, volentieri la soffocano di minuzie e deviano verso nullaggini.
Il Signore non vuole assolutamente che gli animatori delle sue fraternità si permettano il lusso di farsi superiori agli altri e padroni della verità. La Verità evangelica non è qualcosa che si ha, ma che si fa.
Il Maestro non è colui che impartisce lezioni: accompagna gli allievi e vive con loro; non si limita alle maniere.
Non insegna materie varie, etichetta, manierismi, buona creanza: trasmette piuttosto la Persona viva e globale del Cristo - anche quella senza galateo - non spersonalizzando il discepolo.
Insomma, il Risorto non è solo un esempio da imitare, un modello che fa assumere impegni e minuzie, un fondatore d’istituto, d’ideologia mirata, o di religione (grammatica, dottrina, stile e disciplina).
In Gesù siamo chiamati a identificarci - non “a orecchio”, né copiando. La Fede stessa è relazione poliedrica.
Essa ci spinge a reinterpretare Cristo in modo inedito; ciascuno di noi in correlazione alla storia di vita, alle nuove situazioni, accadimenti, emergenze culturali, sensibilità, genio del tempo.
È l’esperienza diretta e personale del Padre come propugnata dal Figlio. Conquista che sconvolge le misure puerili, mondane o consuetudinarie.
Scaturigine e appropriazione che consente di coglierci temerariamente già redenti, per passare dalle tenebre alla luce senza condizioni né trafile martellanti.
Quella del Signore è Luce frutto d’Azione inedita e forte dello Spirito.
Intuizione dei segni e Virtù che vince il disorientamento d’ogni sviato, se prigioniero di opinioni, piccinerie, egoismo solitario e non.
Energia inattesa che tuttavia scende in campo anche grazie alle situazioni paludose cui sente di reagire; e si fa potenza rigenerante, vita inaspettata (dei salvati già qui e ora).
Cristo chiede un atteggiamento inventivo anche nel porgersi al fratello - senza schemi e codicilli preconcetti, asfissianti, morbosi o cerebrali; senza forse, solo per accogliere.
Apertura quasi impossibile, se i ministri di comunità restano distratti o sono già tarati - quindi verso gli altri inutilmente rigidi.
In tal guisa essi resterebbero puntigliosi, più impazienti del Dio pagano che hanno ancora in corpo e in testa.
Tutti noi, gratuitamente risanati, siamo appunto stati chiamati per Nome: in modo speciale - e ad orientare i fratelli su opzioni fondamentali. Quali guide esperte dell’anima e della intensità di relazione.
Non comandanti e reggitori senza possibilità di ricambio: bensì pane, sostegno, alimento, segno luminoso del Signore, pungolo in favore della vita altrui.
I responsabili di chiesa devono essere particolarissimi punti di riferimento e cardini di comunione estrosa, rigenerante - dai quali traspare la persistenza e tolleranza d’una superiore forza di reciprocità.
L’occhio del fedele in Cristo rimane limpido e luminoso perché trova Amici geniali che lo introducono a confrontarsi e rispecchiarsi non con modelli esterni e indotti (da opinioni o propositi), ma con la Parola.
Condizionati dal bombardamento della “società dell’esterno” o da banali interessi di parte, la stessa guida spirituale può viceversa smarrire il discernimento creativo.
Così si riattacca all’uomo vecchio, legato a corte speranze; tanti piccini e trascurabili nonnulla - infine ridiventa «cieco».
Nel regno delle tenebre s’annoverano purtroppo non solo miopi, ipermetropi o astigmatici, ma soprattutto coloro che vedono “lontano” (come si dice) ma non le persone sotto gli occhi.
Più svelti e organizzati di altri, prendono in pugno la situazione.
A lungo le cose in loro compagnia sembrano piacevoli, ma non avendo radice profonda, infine proprio costoro rovinano il destino dei malfermi.
Allestiscono eventi o festival, invece di riqualificare da dentro, e intonare il canto autentico della vita completa, lieta per tutti.
Oltre i difetti di vista, attenzione anche alla «misura»: non siamo chiamati a diventare gentiluomini buonisti e impeccabili, né rinunciatari un pochino più avveduti e “concreti”.
Tutti questi sono già vecchi fallimenti, che non guardano in faccia il presente e non aprono futuro.
Abbiamo ricevuto in Dono la Missione di edificare il mondo nel Risorto, che sprigiona forza e scintilla divina: cieli e terra radicalmente nuovi, anche nelle nostre ricerche.
Figuriamoci soffermarsi sulle «pagliuzze».
Insomma, per grazia, guida, orientamento propulsivo e azione, l’Azione genuina della Provvidenza vitale ci allontana dal signoreggiare di antiche sovrastrutture [«travi» nell’occhio].
Con tale bagaglio personale ci si può anche fare accompagnatori di un’umanità non più alienata, bensì messa in grado di respirare oltre i soliti fervorini… che incitano bazzecole.
Malgrado i difetti, guidati e benedetti dal Maestro grande e dalla sua Parola nello Spirito, sarà il nostro desiderio di pienezza di vita ampia e completa, a non farci perdere di vista la nostra sacra Unicità nel mondo.
Travi e pagliuzze, mole e Frutto
L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che suscita la decisione e l’azione: un occhio nuovo, colmo di Speranza.
Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55; da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015).
Nelle assemblee dei primi secoli i battezzati erano detti illuminati, persone in grado di orientarsi, scegliere e farsi autonomi.
Il Signore non consentiva ai suoi di fregiarsi del ruolo di guide della vita altrui, che facilmente potevano viceversa affossare (v.39).
Pertanto non abilitava alcuno a insegnare (cf. testo greco dei Vangeli, passim) in comunità o fuori di essa.
Gli apostoli di tutti i tempi devono solo annunciare e restare discepoli, ossia alunni dello Spirito - non fare i dittatori e gli esperti.
La via di Dio è il Cristo stesso. Non può essere comunicata da docenti: non è un’informazione che va a colmare teste vuote e vicende inutili, da riempire di esteriorità targate.
Il contesto del brano di oggi abolisce il giudizio, nell’ideale d’una esistenza personale trasformata in ricchezza e dono - che ridicolizza ogni tendenza al dominio.
Nessuno è padrone della sorte e della personalità di chi non si orienta, altrimenti - pur coi migliori propositi - tutti vanno fuori strada (v.39).
Gesù stesso non comandava né dirigeva, ma educava e aiutava. I rabbini si facevano pagare: Lui offriva tutto, vivendo coi suoi (per una reciproca identificazione, però a maglie larghe).
Atteggiamento trasparente e creativo: questa la vera e unica norma di condotta per gli apostoli di tutti i tempi - spesso non in grado di cogliere la loro stessa grande cecità (perché ancora unilaterali).
Poi, d’una pianta non conta la mole e l’apparenza, ma il frutto (vv.43-45). Motivo in più per risottolineare che gli animatori di chiesa non sono superiori agli altri, né depositari di verità assolute.
Infatti Gesù è imparagonabile: Maestro sui generis (v.40).
Non ha un’aula arredata con cattedra e banchi. E ancora insegna lungo la strada: lì c’introduce a incontrare noi stessi, i fratelli e la realtà circostante (in un processo, in un cammino).
Non tiene tranquille lezioni di chiosa, compilatorie o moralistiche: stupisce.
Non reinterpreta il ginepraio di saperi, costumanze e disposizioni arcaiche - autentiche travi (vv.41-42) ficcate nell’occhio libero dell’anima, che ne deformano lo sguardo.
Propone la sua Persona e la sua Vita. Nonché i suoi rimproveri - ma proprio quelli e non altri (scontati) volatili come pagliuzze (vv.41-42).
Per il Signore, la buona indole non è questione di carattere (remissivo, come per secoli si è inteso): essa è solo nell’apertura alla missione, che via via dilata la vita di tutti, e le prospettive.
In tal guisa Gesù non dava lezioni saccenti o a pillole, né proponeva modelli cui attenersi; a seguire però qualcuno ha preteso farlo in nome suo. Il risultato è oggi un bel garbuglio.
L’insegnamento autentico del Signore fa spazio, sconvolge i cattedratici, ribalta le aspettative normali.
Quindi sono proprio i suoi “esperti” che rischiano di comportarsi da sbandati e guide cieche. Purtroppo, rischiando di rovinare la vita altrui.
Vediamo in questi tempi come sia pericoloso smarrire la luce del Vangelo.
Dopo una prima scelta, sono proprio coloro che si ritengono eletti a degradare l’atmosfera ecclesiale.
Il senso di supremazia e spocchia, nonché il giro di cordate “dollaro e lingotto”, recano con sé ogni vizio.
Ciò mentre i falsi maestri si ritengono amici di Dio e destinatari di ovvio riconoscimento.
Da come si atteggiano, sembra si sentano ancora nettamente superiori non solo alla gente, ma allo stesso Maestro (v.40).
Per non mettere in discussione se stessi, essi proiettano i propri squilibri inespressi e condannano gli altri - tutti coloro che non vogliono tacitare le grandi domande di senso - “nemici”.
Cercano con ogni mezzo anche illecito d’imporre le proprie convinzioni: idee e modi di vivere che per primi contestano e nemmeno credono. Un diritto che neppure Gesù si è mai arrogato.
Figuriamoci i pedissequi «piccoli mostri» (come dice Papa Francesco) che derivano da questi vanitosi, evidentemente sognando di ereditarne la popolarità, le benemerenze; agi, servitù, trine, ori e palazzi.
Ancora oggi il Risorto li bolla per quello che sono: «ipocriti» (v.42). In lingua greca significa teatranti, gente che recita - di belle maniere e pessime abitudini.
Commedianti profondamente offesi di doversi adattare agli altri - e persino sentirsi “loro” inviati a chiamare tutti alle Nozze (Mt 22,8-9).
Il continuo chiedere dazio dei marpioni pieni di pretese, esclusivisti da fiction, ha gravi risvolti spirituali e pastorali.
Presunzione, boria e senso di superiorità chiudono la percezione delle inclinazioni e risorse di credenti e famiglie - motore dell’entusiasmo della vita e principio d’incisività, esuberanza e ricambio pastorale.
Gesù mette in guardia i suoi (che a parole lo chiamano volentieri «Signore»: v.46) dalla tronfiezza di fare i capitani della truppa.
Col pericolo che mentre Dio mette in campo Doni, i suoi direttori li stronchino uno ad uno.
C’è un solo Maestro che guida e sa dove andare; e unica ogni persona - forse inesperta e ritenuta cieca, ma che vede meglio dei super-titolati e dei grandi nomi (superApostoli con tutto il codazzo).
L’uomo calcolatore e tarato dalla religione [consuetudini dottrina-disciplina] può facilmente restare fermo sui seggiolini, coi bei paraventi dietro cui immagina di proteggersi, alimentarsi e sentenziare.
Ma dal suo cattivo tesoro riciclato tirerà fuori - appena dietro l’angolo - il «brutto e corrotto» anche per gli altri (vv.43-45; testo greco).
Invece l’uomo di Fede prova ancora una nuova Beltà dentro, che vuole esprimersi e restare di prima mano - quindi non sarà mai un attore di parti altrui, né regista o protagonista di ogni piega.
Neppure qualcuno che - senza rispetto di sé e della Chiamata per Nome - s’accontenta di sottomettere l’anima a recitanti di agenzie alla moda o di plagio, cui strappare elemosine o un “pareggio mediocre”.
Peggiore dei fossi (v.39) in cui si cade insieme.
Parallelo di Mt:
Travi e pagliuzze: eliminare preconcetti
Per una convivenza trasparente
(Mt 7,1-5)
Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.
Non mancavano episodi di disprezzo (anche reciproco) acceso in specie da veterani abituati a mettere sotto inchiesta i nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.
Ma non siamo giudici, bensì famigliari. E certo, in ultima analisi è proprio la malizia che aguzza l’occhio sui minimi difetti altrui: in genere, pagliuzze e mancanze esterne.
Ciò mentre la medesima scaltrezza sorvola enormità proprie - pesantissima trave che ci separa non solo da Dio e da tutti, ma perfino da noi stessi, accostandoci all’io egoista e arrogante.
«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.
Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del di più che ci circonda e chiama.
Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).
Ben sappiamo quant’è dura metterci in discussione, o educare proprio i religiosi perfezionisti a successivi distacchi da loro convincimenti accidentali, diventati per abitudine sclerotici come totem.
Insomma, negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.
Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di Giustizia maggiore che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.
L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.
I preconcetti devoti parevano un macigno insuperabile per la vita personalizzante e di condivisione reciproca secondo la nuova logica delle Beatitudini [Mt 5,1-12: Autoritratto di Cristo come “libro aperto” (a colpi di lancia)].
Il bagaglio culturale legato agli adempimenti, al senso di dovere e gerarchia, allo stile di vita assuefatto e alle vecchie credenze (che facevano fatica a essere deposte) moltiplicava giudizi severi reciproci fra generazioni e tra variegate impostazioni culturali.
Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.
Egli infatti sapeva recuperare e desiderava valorizzare tutte le singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.
Solo la sua forte radice nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.
Ciò per una trasparenza ricca e globale, da proporre anche ai discepoli.
In tal guisa, non si configurava l’adesione a credenze particolari, né la ripetizione delle solite discipline di perfezione.
Neppure dovevano prediligersi le pie osservanze di massa, talora primo impedimento al dialogo e all’Esodo - nelle sue differenti opulenze.
Poi la vita stessa avrebbe in modo provvidente guidato ciascuno verso una specifica testimonianza, che potesse essa stessa creare un’altra apertura (attinente il proprio carattere e vocazione d’anima).
In Palestina il Signore non si era mostrato ossessivo e unilaterale, né ridotto a schemi normali e verosimili - sulla base di codici culturali, prudenze valutative, o paradigmi morali e religiosi.
La fiducia nel Padre e nella vita che viene donava al Maestro Gesù la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.
Un’apertura conviviale alle differenze, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità nello Spirito delle Beatitudini.
Il senza-condizioni dell’Amore vale sempre in primis per il discepolo, i membri della medesima comunità, e il prossimo.
Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla di preconcetti-a-monte e convincimenti relativi.
Creati per amare la verità eccezionale della donna e dell’uomo, non per spegnere le unicità e sentenziare sui nonnulla.
Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino di novità e un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi volti intimi (sostenuti dal Padre), o nel fratello pur eccentrico.
I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» (Tradizione orale africana Peul).
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare Individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima, appunto perché non è universale» (Tagore).
«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» (Sobonfu Somé).
«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» (Gandhi).
Travi e pagliuzze: situazione paradossale, dove talora c’è un eccesso di “credo” - eppure manca la Fede.
«The Russian mystics of the first centuries of the Church gave advice to their disciples, the young monks: in the moment of spiritual turmoil take refuge under the mantle of the holy Mother of God». Then «the West took this advice and made the first Marian antiphon “Sub tuum Praesidium”: under your cloak, in your custody, O Mother, we are sure there» (Pope Francis)
«I mistici russi dei primi secoli della Chiesa davano un consiglio ai loro discepoli, i giovani monaci: nel momento delle turbolenze spirituali rifugiatevi sotto il manto della santa Madre di Dio». Poi «l’occidente ha preso questo consiglio e ha fatto la prima antifona mariana “Sub tuum praesidium”: sotto il tuo mantello, sotto la tua custodia, o Madre, lì siamo sicuri» (Papa Francesco)
The Cross of Jesus is our one true hope! That is why the Church “exalts” the Holy Cross, and why we Christians bless ourselves with the sign of the cross. That is, we don’t exalt crosses, but the glorious Cross of Christ, the sign of God’s immense love, the sign of our salvation and path toward the Resurrection. This is our hope (Pope Francis)
La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza (Papa Francesco)
The basis of Christian construction is listening to and the fulfilment of the word of Christ (Pope John Paul II)
Alla base della costruzione cristiana c’è l’ascolto e il compimento della parola di Cristo (Papa Giovanni Paolo II)
«Rebuke the wise and he will love you for it. Be open with the wise, he grows wiser still; teach the upright, he will gain yet more» (Prov 9:8ff)
«Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s)
These divisions are seen in the relationships between individuals and groups, and also at the level of larger groups: nations against nations and blocs of opposing countries in a headlong quest for domination [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
But the words of Jesus may seem strange. It is strange that Jesus exalts those whom the world generally regards as weak. He says to them, “Blessed are you who seem to be losers, because you are the true winners: the kingdom of heaven is yours!” Spoken by him who is “gentle and humble in heart”, these words present a challenge (Pope John Paul II)
È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore”, queste parole lanciano una sfida (Papa Giovanni Paolo II)
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)
don Giuseppe Nespeca
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