don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 16 Settembre 2025 07:32

25a Domenica T.O. (C)

25a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [21 settembre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Riprendendo le attività pastorali la parola di Dio ci guida a comprendere dove sta la vera ricchezza della vita. 

 

*Prima Lettura dal libro del profeta Amos (8, 4 – 7)

L’ora è certamente grave, poiché questo  testo del profeta Amos si conclude con una formula solenne: “Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe”(v.7) . “Il vanto di Giacobbe” è Dio stesso, perché è lui che è (o che dovrebbe essere) l’unico vanto del suo popolo; in altre parole, il Signore giura per sè stesso. Dio non può impegnarsi che per se stesso! Ma a proposito di cosa Dio giura? Assicura di non dimenticare “tutte le loro opere “, cioè tutte le malefatte d’Israele che il profeta Amos stigmatizza perché cercano solo di arricchirsi a spese degli altri. Amos è un profeta dell’VIII secolo a.C., quando la Palestina è divisa in due regni. Piccolo pastore di un villaggio del Sud (Téqoa, vicino a Betlemme), fu scelto da Dio per andare a predicare nel regno del Nord, chiamato anche Samaria dal nome della sua capitale. Sotto il regno di Geroboamo II, verso il 750 a.C, la Samaria vive un periodo di prosperità economica ma questa prosperità non giova a tutti; al contrario, Amos constata che l’arricchimento degli uni nasce dall’impoverimento degli altri, semplicemente perché i prodotti di prima necessità, come il pane quotidiano o i sandali, sono nelle mani di venditori senza scrupoli. Così si arriva al punto che i poveri non hanno altra soluzione, per non morire di fame o di freddo, se non quella di vendersi come schiavi “ comprare con denaro gli indigenti e il povero con un paio di sandali” (v.6). Chi subisce un torto può tentare di rivolgersi alla giustizia, ma ogni volta che c’è un processo per frodi o truffe manifeste, i tribunali prendono le parti dei ricchi contro i poveri semplicemente perché i ricchi pagano i giudici. Amos lo dice chiaramente: “Cambiano il diritto in veleno e gettano a terra la giustizia”(5,7). La stessa giustizia è falsata, corrotta. Il testo che abbiamo ascoltato è dunque uno di quelli in cui Amos prende la parola per annunciare il giudizio di Dio ed è un vero e proprio atto d’accusa: enuncia i fatti, poi rende il suo verdetto: Voi schiacciate i poveri, annientate gli umili della terra e vi domandate quando passerà la festa della luna nuova perché possiamo vendere il nostro grano?  La luna nuova, il primo giorno del mese (detta «neomenia»), era un giorno festivo: nessun lavoro, nessuno spostamento, nessuna attività commerciale era autorizzata perché giorno del riposo come il sabato. Questo tempo di sospensione negli affari serviva a rivolgere l’uomo verso Dio. Ma qui sembra che lo si viva con impazienza, perché ormai l’uomo ha un altro padrone: il denaro e, per chi ha come unico pensiero il guadagno, un giorno festivo è una perdita. Per questo Amos rimprovera: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero…e dite: quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? (v.7). Prende di mira i venditori disonesti, per i quali commercio significa truffa, con prezzi esorbitanti e bilance falsate. L’immagine della bilancia falsata è a doppio senso: da una parte si capisce come un bilanciere storto possa falsare una misura, ma, più profondamente, significa che tutta la società vive su bilance truccate. In fondo, Amos rimprovera al popolo di Samaria di vivere nella menzogna e nell’ingiustizia: le bilance sono falsate, la giustizia è corrotta, si rispettano controvoglia i giorni festivi e con un secondo fine; tutto è falsato, insomma. Ecco dunque il giudizio: «Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mi tutte le loro opere”  (v.7). In altre parole: Voi che vi arricchite ingiustamente, dimenticate in fretta i vostri delitti, e i tribunali vi seguono; ma il Signore vi dichiara che tutto questo non va dimenticato e non dovete abituarvi all’ingiustizia. Amos pronuncia la sua ammonizione nel modo più solenne possibile, perché c’è una lezione molto seria: la prima cosa che Dio chiede al suo popolo è di vivere nella giustizia e la società fondata su ingiustizie e miserie di ogni genere, non può che offendere Dio. Amos è tanto più severo perché, da cent’anni, il regno del Nord si vanta di aver eliminato l’idolatria abolendo i culti dei Baal; ma in realtà, ciò che Amos rimprovera è di essere caduti in un’idolatria ancora più pericolosa: quella del denaro.

 

*Salmo responsoriale (113/[112])

Questo salmo è il primo di quelli che Gesù ha cantato la sera del Giovedì Santo prima di partire per il Monte degli Ulivi. La prima parola che ha cantato è Alleluia che significa letteralmente Lodate Dio: Allelu è l’imperativo, lodate; e Ya la prima sillaba del Nome santo. Dunque, si tratta di un salmo di lode e si capisce dalla prima parola: Alleluia. Interessante è la composizione di questo salmo, formato da due parti di quattro versetti ciascuna, che incorniciano un versetto centrale. Il versetto centrale è una domanda: “Chi è come il Signore nostro Dio? (v.5) e le due parti contemplano le due facce del mistero di Dio: la sua santità e la sua misericordia. Nella sua rivelazione Dio si è fatto conoscere come il Trascendente, il tutto Santo e come il Misericordioso il Tutto Vicino. Per manifestare la sua santità, si ripete il suo Nome, “il Signore”, il Nome di Dio, rivelato da Lui stesso in quattro lettere (YHWH) che però non viene mai pronunciato. E come sappiamo, nella Bibbia, quando compaiono queste quattro lettere, spontaneamente il lettore ebreo le sostituisce con «Adonai», che significa Mio Signore, e che non pretende descrivere né definire Dio. Il termine “Signore”, che esprime bene la distanza tra Dio e noi, è usato cinque volte mentre “il Nome” tre volte, e il verbo lodare tre volte.  La grande scoperta si trova nel versetto centrale: ”Chi è come il Signore nostro Dio?”: il Dio della gloria è nello stesso tempo il Dio della misericordia. e la seconda parte del salmo descrive l’azione di Dio a favore dei più piccoli, dei più poveri: solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero (v.7). Tra i deboli e i poveri, vi era la donna sterile, che viveva con la continua paura di essere ripudiata: “Fa abitare nella casa la sterile, come madre gioiosa di figli” (v.9). Sara, moglie di Abramo, ha conosciuto questo miracoloso rovesciamento: la gioia della sterile che si ritrova, dopo alcuni anni, con la casa piena di figli. La Bibbia ama sottolineare questi rovesciamenti di situazione: perché nulla è impossibile a Dio. Il Magnificat di Maria è pieno di questa certezza fiduciosa. Quando dopo l’Ultima Cena Gesù ha cantato questo salmo con i discepoli salendo verso il Monte degli Ulivi, ha sentito in modo particolare il versetto “solleva dalla polvere il debole”. Si avviava alla sua morte, e ha certamente riconosciuto qui un annuncio della sua risurrezione. 

 

*Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (2, 1-8)

Nel cuore di questo brano si trova una frase che riassume tutta la Bibbia, è al centro del pensiero di Paolo, e soprattutto è il centro della storia dell’umanità: “Dio, nostro salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (v.4). Ogni parola è importante: “Dio vuole”: è il mistero della sua volontà, quel progetto di misericordia che aveva già prestabilito in se stesso per condurre i tempi alla loro pienezza, come dice la lettera agli Efesini (cf. 1,9-10). La volontà di Dio è una volontà di salvezza che riguarda tutti gli uomini.  Paolo insiste sulla dimensione universale del progetto di Dio: “Dio, nostro Salvatore, vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”. In frasi di questo genere la parola “e” può essere sostituita da “cioè”; bisogna quindi intendere: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, cioè che giungano a conoscere pienamente la verità. E che cos’è la verità? È che Dio ci ama ed è sempre con noi per colmarci del suo amore. Essere salvati significa conoscere questa verità secondo il senso biblico del “conoscere”: cioè viverne, lasciarsi amare e trasformare da essa. Finché gli uomini non conoscono l’amore di Dio restano come prigionieri e Cristo è venuto per liberarci. Ecco perché troviamo l’espressione “ha dato se stesso in riscatto per tutti”(v.6) : ogni volta si può sostituire la parola riscatto con liberazione: credere nell’amore di Dio per tutti gli uomini e vivere di questo amore, significa essere salvati. Allora, la vera preghiera, – come dice Paolo – è entrare nel progetto di Dio per essere capaci di diffondere il vangelo come una scintilla che si propaga. Nell’ultima frase, l’insistenza di Paolo non riguarda tanto la posizione esteriore, ma lo stato d’animo con cui ci si deve presentare nella preghiera: “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese”. Come entrare nel progetto d’amore di Dio per tutti se il cuore è pieno di collera e di cattive intenzioni? Molto probabilmente qui si intravedono segni di difficoltà gravi, di opposizioni, di divisioni, forse persino di persecuzioni, nella comunità alla quale era destinata questa lettera. Non possiamo avanzare ipotesi precise, poiché non siamo nemmeno sicuri della data di composizione della lettera, né se sia interamente di Paolo o di un suo discepolo. Ma poco importa: ciò che conta, in ogni epoca e in qualunque difficoltà  non bisogna dimenticare mai che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla piena conoscenza della verità, cioè dell’amore di Dio.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (16, 1-13)

Questo testo riserva una sorpresa: Gesù sembra fare i complimenti ai truffatori: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”(v.8). Attenzione a non sbagliare! Gesù lo definisce disonesto, cioè  malvagio perché l’onestà faceva parte della morale più elementare. Dunque, l’intenzione di Gesù non è certo quella di andare contro la morale di base e si premura di precisare che il padrone loda quell’uomo per la sua scaltrezza. Se Gesù usa un esempio provocatorio, è per farci riflettere su qualcosa di serio, come mostra l’ultima frase: c’è una scelta urgente da fare tra Dio e il denaro perché non si può servire  Dio e il denaro. Gesù elenca una serie di opposizioni: tra i figli di questo mondo e i figli della luce, tra una piccola cosa e una grande cosa, tra il denaro ingannevole e il bene autentico, tra i beni altrui e ciò che è veramente nostro. Tutte queste opposizioni hanno un unico scopo: farci scoprire che il denaro è un inganno e che dedicare la vita a fare soldi è una strada sbagliata; è grave quanto l’idolatria, che i profeti hanno sempre combattuto. Nella frase: “Non potete servire Dio e il denaro”, il verbo servire ha un senso religioso. C’è un solo Dio: non fatevi idoli, perché ogni idolatria vi rende schiavi e il denaro può diventare un fine a se stesso e non più un mezzo.  Quando si è ossessionati dal desiderio di guadagnare, si diventa presto schiavi: è importante guardarsi da ciò che si possiede per non esserne posseduti, dice la saggezza popolare. Il sabato era stato istituito anche per riscoprire, una volta alla settimana, il gusto della gratuità, un modo per restare liberi. Il denaro è ingannevole in due sensi: anzitutto, ci fa credere che ci assicurerà la felicità, ma un giorno dovremo lasciare tutto. Nella frase di Gesù l’espressione “quando verrà a mancare” (v.9) è un’allusione alla morte e certamente non c’è grande interesse a essere il più ricco del cimitero! Inoltre, il denaro ci inganna se pensiamo che ci appartenga solo per noi. Gesù non disprezza il denaro, ma lo mette al servizio del Regno, cioè per il bene degli altri e nessuno ne è proprietario, bensì amministratore. Se è vero che non serve a nulla essere il più ricco del cimitero, ha però molto senso essere ricchi per farne beneficiare anche gli altri. La domanda “se non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta chi vi affiderà quella vera?” (v.11) aiuta a capire che nell’uso del denaro è importante la fiducia: Dio si fida di noi, ci affida del denaro di cui siamo amministratori e responsabili. Ogni nostra ricchezza, di qualunque genere, ci è stata affidata come a degli amministratori perché la condividiamo trasformandola in felicità per chi ci circonda. Così si comprende meglio la parabola precedente, la storia di quell’amministratore minacciato di licenziamento che, per salvarsi, fa ancora una volta dei regali con i beni del suo padrone per farsi degli amici che lo accolgano. Era del tutto disonesto, ma ha saputo trovare rapidamente una soluzione ingegnosa per assicurarsi un futuro. L’astuzia, qui, consiste nell’usare il denaro come un mezzo e non come un fine. Non è quindi la disonestà che Gesù ammira, ma l’abilità: che cosa aspettiamo anche noi a trovare soluzioni creative per assicurare l’avvenire di tutti? La sete di guadagnare rende molte persone piene di inventiva; Gesù vorrebbe che la passione per la giustizia o la pace ci rendesse altrettanto inventivi! Il giorno in cui dedicheremo tanto tempo e tanta intelligenza a ricercare vie di pace, di giustizia e di condivisione quanto ne dedichiamo ad accumulare denaro oltre il necessario, il volto del mondo cambierà. In fondo, la morale della parabola può essere riassunta così: scegliete Dio, con decisione, e mettete al servizio del Regno la stessa intelligenza che mettereste nel fare soldi. I figli della luce sanno che il denaro è solo una piccola cosa; il Regno è la grande cosa e per questo non servono il denaro come una divinità, ma se ne servono per il bene di tutti.

+ Giovanni D’Ercole

Giovedì, 11 Settembre 2025 14:37

Amministratori disonesti, o Casa comune

Martedì, 09 Settembre 2025 13:52

Esaltazione della Santa Croce

Esaltazione della Santa Croce [Domenica 14 settembre 2025]

Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga!  Contemplando il Mistero della Croce scopriamo la dolcezza di un amore che nasce laddove sembra spegnersi la vita. Mentre muore crocifisso, Gesù rivela per sempre la vittoria definitiva dell’Amore e della Misericordia.

 

*Prima Lettura dal libro dei Numeri (21, 4 – 9)

Il Libro dell’Esodo e quello dei Numeri raccontano episodi simili: quando il popolo, liberato  dalla schiavitù dell’Egitto cammina verso la Terra Promessa,  deve affrontare la quotidianità nel deserto, un luogo totalmente inospitale. Schiavi in Egitto erano sedentari, non certo abituati a lunghe marce a piedi, ma avevano un padrone che li nutriva per cui non morivano di fame come nel deserto deve invece presero a rimpiangere le famose cipolle d’Egitto.  Vennero tentati da crisi di scoraggiamento per la fame, la sete e la paura per tutti gli inconvenienti del deserto, e sfiduciati si misero a mormorare contro Dio e contro Mosè perché li avevano condotti a morire nel deserto. Il Signore mandò allora contro il popolo serpenti velenosi e molti Israeliti morirono. A questo punto il popolo si pente, riconosce di aver peccato e prega il Signore di allontanare i serpenti. Dio ordina a Mosè  di fabbricare un serpente (la tradizione dice di bronzo) perché, fissatolo sopra  un’asta, potesse guarire chiunque lo guardava. Interessante considerare come Mosè reagisce: non discute se i serpenti vengano o no da Dio, ma il suo scopo è di condurre questo popolo diffidente a un atteggiamento di fiducia, qualunque siano le difficoltà perché non tanto i serpenti, bensì la mancanza di fiducia in Dio stava rallentando il loro cammino verso la libertà. Per educarli alla fede, utilizza una pratica già conosciuta: l’adorazione di un dio guaritore raffigurato da un serpente di bronzo su un’asta (probabile antenato del caduceo, simbolo oggi della medicina). Bastava guardare il feticcio per essere guariti. Mosè non distrugge la tradizione, ma la trasforma: Fate come sempre, ma sappiate che non è il serpente a guarirvi bensì il Signore e non confondetevi perché un solo Dio vi ha liberati dall’Egitto e guardando il serpente, in realtà adorate il Dio dell’Alleanza. Secoli dopo, il Libro della Sapienza commenterà così: “Chi si volgeva a guardarlo veniva salvato, non per l’oggetto guardato, ma da te, Salvatore di tutti» (Sp 16,7). La lotta contro idolatria, magia e divinazione percorre tutta la storia biblica e forse continua ancora. Quel serpente di bronzo, segno per condurre alla fede, tornò ad essere considerato oggetto magico e per questo il re Ezechia lo distrusse definitivamente come leggiamo nel libro dei Re (2 Re 18,4).

 

*Salmo responsoriale (77/78, 3-4, 34 – 39)

Nel salmo responsoriale, tratto dal salmo 77/78, abbiamo un riassunto della storia d’Israele che si snoda nella relazione fra Dio sempre fedele e quel popolo incostante perché smemorato, ma pur sempre consapevole dell’importanza del ricordo per cui ripete: “Abbiamo udito ciò che i nostri padri ci hanno raccontato, lo ripeteremo alla generazione che verrà”. La fede si trasmette quando, chi ha vissuto un’esperienza di salvezza, può dire “Dio mi ha salvato” e a sua volta condivide con altri la sua esperienza. Sarà poi la sua comunità a far memoria e a conservare tale testimonianza perché la fede è un’esperienza di salvezza condivisa nel tempo. Il popolo ebraico sa da sempre che la fede non è un bagaglio intellettuale, ma l’esperienza comune del  dono e del perdono sempre rinnovato di Dio. Questo salmo esprime tutto ciò: ricorda in settantadue versetti l’esperienza di salvezza, che ha fondato la fede d’Israele, cioè  la liberazione dall’Egitto e per questo  il salmo presenta tante allusioni all’Esodo e al Sinai. Ascoltare nel senso biblico significa aderire con tutto il cuore alla Parola di Dio e, se una generazione trascura di proseguire a testimoniare la propria fedeltà a Dio, si spezza la catena della trasmissione della fede. Spesso nel corso dei secoli i padri hanno confessato ai propri figli di aver mormorato contro Dio nonostante le sue azioni di salvezza. Di questo parla il salmo e accusa il popolo di infedeltà, di incostanza: ”Lo lusingavano con la loro bocca ma gli mormoravano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza”(vv36-37). Ecco l’idolatria, verso bersaglio di tutti i profeti perché è causa della disgrazia dell’umanità. Ogni idolo ci fa retrocedere sul cammino della libertà e la definizione di un idolo e proprio ciò che ci impedisce di essere liberi. Marx diceva che la  religione è l’oppio del popolo, rivelando in modo crudo quale potere, quale manipolazione una religione, qualunque essa sia, può esercitare sull’umanità. La superstizione, il feticismo, la stregoneria ci impediscono di essere liberi e di imparare ad assumere liberamente le nostre responsabilità, perché ci fanno vivere in un regime di paura. Ogni culto idolatrico. ci allontana dal Dio vivo e vero: solo la verità può fare di noi uomini liberi. Anche il culto eccessivo di una persona o di un’ideologia fa di noi degli schiavi: basta pensare a tutti gli integralismi e i fanatismi che ci deturpano e il denaro pure può benissimo diventare un idolo. In altri versetti che non fanno parte della liturgia di questa domenica, il salmo offre un’immagine molto eloquente, quella di un arco deformato: il cuore d’Israele dovrebbe essere come un arco teso verso il suo Dio, ma è storto. E proprio all’interno dell’ingratitudine che Israele ha fatto l’esperienza più bella: quella del perdono di Dio come dice il salmo chiaramente: “Il loro cuore non era costante verso di lui; non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui, misericordioso, perdonava  la colpa invece di distruggere”(v.38). Questa descrizione della  tenera pietà di Dio dimostra che il salmo è stato scritto in un’epoca in cui la Rivelazione del Dio d’amore aveva già profondamente penetrato la fede di Israele. 

NOTA La grande assemblea di Sichem organizzata da Giosuè aveva proprio questo scopo: ravvivare la memoria di questo popolo oggetto di tanta sollecitudine, ma così spesso incline a dimenticare (Gs 24: vedi la XX domenica del tempo ordinario B): dopo aver ricordato alle tribù radunate tutta l’opera di Dio a partire da Abramo, disse loro: «Scegliete oggi chi volete servire: o il Signore, o un idolo». E le tribù quel giorno fecero la scelta giusta, anche se poi l’avrebbero presto dimenticata. La trasmissione della fede è allora come una corsa a staffetta: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”, dice Paolo ai Corinzi (1 Cor 11,23) e la liturgia è il luogo privilegiato di questa testimonianza e di questo ravvivare la memoria  nel senso di gratitudine che nasce dall’esperienza.

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Filippesi (2, 6 – 1)

Questo passo paolino si legge ogni anno per la festa delle Palme e ora per la festa della Croce Gloriosa: il che significa che le due celebrazioni hanno un punto in comune, che è il legame stretto tra la sofferenza di Cristo e la sua gloria, tra l’abbassamento della croce e l’esaltazione della risurrezione. Paolo lo dice chiaramente: “Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce… Per questo Dio lo esaltò al di sopra di ogni nome”(vv8-9). L’espressione “per questo” indica un legame e un contrasto forte tra abbassamento ed esaltazione, ma non bisogna leggere queste frasi in termini di ricompensa, come se, essendosi Gesù comportato in modo ammirevole, ha ricevuto una ricompensa ammirevole. Questa potrebbe essere la “tendenza” o meglio “tentazione” ma Dio è amore e non conosce calcoli, scambi, il do ut des perché l’amore è gratuito. La meraviglia dell’amore di Dio è che non aspetta i nostri meriti per colmarci e nella Bibbia questo gli uomini l’hanno scoperto poco a poco perché la grazia, come il suo nome indica, è gratuita. Quindi, se, come dice Paolo, Gesù ha sofferto e poi è stato glorificato, non è perché con la sua sofferenza avesse accumulato abbastanza meriti da guadagnarsi il diritto ad essere ricompensato. E allora, per essere fedeli al testo, bisogna leggerlo in termini di gratuità. Per Paolo è evidente che il dono di Dio è gratuito e questo si percepisce in tutte le sue lettere, avendolo lui stesso sperimentato. Quando poi leggiamo: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v.6) è chiaro che Paolo allude ad Adamo ed Eva e qui probabilmente Paolo ci offre un commento al racconto del Paradiso terrestre: il tentatore aveva detto: “Sarete come Dio” e per diventarlo bastava disobbedire a Dio. Eva stese la mano verso il frutto proibito e lo ha preso (il greco labousa nella lettura teologica è “rivendicò l’essere come Dio” come se fosse un suo diritto). Paolo contrappone l’atteggiamento di Adamo/Eva (afferrare/vendicare) a quello di Cristo (accogliere gratuitamente, obbedire). Gesù Cristo è stato soltanto accoglienza (ciò che Paolo chiama «obbedienza»), e proprio perché è stato pura accoglienza del dono di Dio e non rivendicazione, ha potuto lasciarsi colmare dal Padre, completamente disponibile al suo dono. La scelta di Gesù è la “kénosis”, lo svuotamento totale di sé scandito con cinque verbi di umiliazione: svuotarsi, assumere una condizione di servo, diventare simile agli uomini, umiliarsi, farsi obbediente. La croce è il baratro dell’annientamento (vv.6-8), ma anche l’apice della seconda frase dell’inno (vv9-11). “Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v9). Gesù riceve il Nome che è al di sopra di ogni nome: il nome “Signore” è il nome di Dio! Dire che Gesù è Signore significa dire che è Dio: nell’Antico Testamento il titolo di Signore era riservato a Dio come pure la genuflessione. Quando Paolo dice: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”… allude a una frase del profeta Isaia: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua presterà giuramento” (Is 45,23). L’inno si conclude con “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre” (v.11): vedendo Cristo portare l’amore al suo culmine, accettando di morire per rivelare fino a dove arriva l’amore di Dio, possiamo dire come il centurione: «Davvero costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 13 – 17)

La prima sorpresa di questo testo è che Gesù parla della croce con un linguaggio positivo, potremmo dire «glorioso»: da una parte, usa il termine “innalzato” – “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo” (v.14) – e poi questa croce che ai nostri occhi è strumento di supplizio e di dolore, viene presentata come prova dell’amore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo” (v17). Come può lo strumento di tortura di un innocente essere glorioso? E qui sta la seconda sorpresa: il richiamo al serpente di bronzo. Gesù utilizza questa immagine perché era allora ben conosciuta. Nella prima Lettura si parla ampiamente di questo evento nel deserto del Sinai durante l’Esodo, al seguito di Mosè. Gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi e, non avendo la coscienza tranquilla perché avevano mormorato, sono convinti che ciò sia una punizione del Dio di Mosè. Supplicano Mosè di intercedere e Mosè riceve il comando di fissare un serpente ardente (cioè velenoso) sopra un’asta: chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita (Nm 21, 7-9). Se a prima vista, sembra pura magia, in realtà, è esattamente il contrario. Mosè trasforma quello che fino ad allora era un atto magico in un atto di fede. Gesù riprende questo episodio parlando di sé: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”(vv14-15). Se nel deserto, bastava guardare con fede verso il Dio dell’Alleanza per essere guariti fisicamente, ora occorre guardare con fede Cristo in croce per ottenere la guarigione interiore. Come spesso avviene nel vangelo di Giovanni, ritorna il tema della fede: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”(v.17).  Quando Gesù mette in parallelo il serpente di bronzo innalzato nel deserto e la sua elevazione sulla croce, manifesta anche il salto straordinario che esiste tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù porta tutto a compimento, ma in lui tutto assume una dimensione nuova. Nel deserto era interessato solo il popolo dell’Alleanza; ora, in lui, è l’umanità intera a essere invitata a credere per avere la vita: ben due volte Gesù ripete che “chiunque crede in lui avrà la vita eterna”. Inoltre, non si tratta più solo di guarigione esteriore, ma della trasformazione profonda dell’uomo. Al momento della crocifissione, Giovanni scrive: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), citando il profeta Zaccaria che aveva scritto: “In quel giorno effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Questo “spirito di grazia e supplica” è l’opposto delle mormorazioni del deserto: l’uomo ora finalmente è convinto dell’amore di Dio per lui.  Ci sono dunque due modi di guardare la croce di Cristo: come segno dell’odio e della crudeltà degli uomini, ma soprattutto come l’emblema della mitezza e del perdono di Cristo che accetta la croce per mostrarci fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’umanità. La croce è il luogo stesso della rivelazione dell’amore di Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre”(Gv14,9) aveva detto Gesù a Filippo. Cristo crocifisso mostra la tenerezza di Dio, malgrado l’odio degli uomini. Ecco perché possiamo dire che la croce è gloriosa: perché è il luogo in cui si manifesta l’amore perfetto, cioè Dio stesso, un Dio abbastanza grande da farsi piccolo per  condividere la vita degli uomini malgrado incomprensioni e odio: non fugge davanti ai suoi carnefici e perdona dall’alto della Croce. Chi accetta di cadere in ginocchio davanti a tale grandezza viene trasformato per sempre: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12).

+ Giovanni D’Ercole

Lunedì, 08 Settembre 2025 04:24

La morte è una via senza ritorno?

L’aspetto oscuro, alleato

(Lc 7,11-17)

 

Na’im significa Delizioso: simbolo di tutti i luoghi ameni e ridenti, dove la vita scorre tranquilla sino al giorno in cui la spensieratezza finisce: i sorrisi tramutano in lacrime e i canti in lamento.

Ci sono sempre due cortei, e due guide. La processione della morte giunge a prelevare tutti: essa è appunto preceduta da un cadavere.

Destino che abbatte e tentiamo di esorcizzare, ma - oltre le distrazioni - ci angoscia immaginare che la fine fisica sia una via senza ritorno.

 

Chi può bloccare la marcia dell’umanità diretta alla tomba?

Ecco in direzione opposta sopraggiungere un altro corteo, preceduto dal Signore della Vita, che ha la meglio.

Nell’opinione comune delle religioni, l’impurità è contagiosa, si trasmette immediatamente per contatto, e addirittura prevale sulla santità.

Secondo gli stessi rabbini, se ad es. un oggetto fosse venuto in contatto con il lembo di un mantello sacerdotale, non sarebbe stato santificato, malgrado avesse toccato una persona santa.

Ma se il medesimo oggetto avesse sfiorato un cadavere sarebbe diventato immondo. 

Fissazioni sconclusionate e idoli stravaganti, tipici delle superstizioni.

 

Cristo infrange volutamente, in modo palese, sia la legge di purità che la consuetudine del pensiero comune.

Nel cammino di Fede che propone, non solo la vita ha la meglio sulla morte, ma la stessa morte non ha nulla d’immondo.

La realtà che sconcerta tutti noi non è più una frontiera oscura, bensì una ‘foce’.

Essa c’introduce nella pienezza, nell’espressione e fioritura completa delle nostre potenzialità.

[In tal guisa, l’Annuncio Pasquale risuona come sorgente d’attesa di Colui che rende pura ogni morte, e la trasforma in Grembo di Vita].

 

La “vedova” Israele era stata privata dell’affettuosità dello Sposo per l’opera deleteria delle false guide ufficiali.

Quella Nazione si era così ritrovata a generare figli spiritualmente moribondi, sin da giovani.

Infeconda, sterile, destinata alla solitudine [in ebraico il termine Israel è di genere femminile]. Ovvero: senza il vero Figlio di Dio.

Un popolo privato del Messia, quindi senza futuro.

 

Accanto a questo messaggio centrale, Lc - evangelista dei bisognosi - vuole richiamare l'attenzione delle sue comunità su chi è rimasto solo.

«E Gesù lo diede a sua Madre» (Lc 7,15b).

La Chiesa ha il compito di restituire figli o famiglia, a coloro che li hanno perduti.

La fraternità deve rispettare e accudire chi piange solitudine.

Al pari di Gesù, essa si distingue da tutte le altre forme devote competitive perché rianima, rende gli affetti, ridona equilibrio e voglia di farcela.

Segna sempre un trionfo della vita sulla caligine delle tombe.

 

Papa Francesco ha affermato: «Dio per donarsi a noi sceglie spesso delle strade impensabili, magari quelle dei nostri limiti, delle nostre lacrime, delle nostre sconfitte».

Insomma, nei nostri tentativi ed errori, [accanto] dobbiamo tenere tutti gli aspetti - che nel corso del tempo abbiamo imparato a conoscere, e ci siamo resi conto che sono parte di noi.

Questo cambierà la solidità di rapporto con noi stessi, gli altri, la natura, la storia, e il mondo.

Qui l’aspetto oscuro si fa corroborante, Alleato.

 

 

[Martedì 24.a sett. T.O.  16 settembre 2025]

Lunedì, 08 Settembre 2025 04:20

La morte è una via senza ritorno?

L’aspetto oscuro, alleato

(Lc 7,11-17)

 

Na’im significa Delizioso: simbolo di tutti i luoghi ameni e ridenti, dove la vita scorre tranquilla sino al giorno in cui la spensieratezza finisce: i sorrisi tramutano in lacrime e i canti in lamento.

Ci sono sempre due cortei, e due guide. La processione della morte giunge a prelevare tutti: essa è appunto preceduta da un cadavere.

Destino che abbatte e tentiamo di esorcizzare, ma - oltre le distrazioni - ci angoscia immaginare che la fine fisica sia una via senza ritorno.

 

Chi può bloccare la marcia dell’umanità diretta alla tomba?

Ecco in direzione opposta sopraggiungere un altro corteo, preceduto dal Signore della Vita, che ha la meglio.

Nell’opinione comune delle religioni, l’impurità è contagiosa, si trasmette immediatamente per contatto, e addirittura prevale sulla santità.

Secondo gli stessi rabbini, se ad es. un oggetto fosse venuto in contatto con il lembo di un mantello sacerdotale, non sarebbe stato santificato, malgrado avesse toccato una persona santa.

Ma se il medesimo oggetto avesse sfiorato un cadavere sarebbe diventato immondo. 

Fissazioni sconclusionate e idoli stravaganti, tipici delle superstizioni.

 

Cristo infrange volutamente, in modo palese, sia la legge di purità che la consuetudine del pensiero comune.

Nel cammino di Fede che propone, non solo la vita ha la meglio sulla morte, ma la stessa morte non ha nulla d’immondo.

La realtà che sconcerta tutti noi non è più una frontiera oscura, bensì una foce.

Essa c’introduce nella pienezza, nell’espressione e fioritura completa delle nostre potenzialità.

[In tal guisa, l’Annuncio Pasquale risuona come sorgente d’attesa di Colui che rende pura ogni morte, e la trasforma in Grembo di Vita].

 

La “vedova” Israele era stata privata dell’affettuosità dello Sposo per l’opera deleteria delle false guide ufficiali.

Quella Nazione si era così ritrovata a generare figli spiritualmente moribondi, sin da giovani.

Infeconda, sterile, destinata alla solitudine [in ebraico il termine Israel è di genere femminile]. Ovvero: senza il vero Figlio di Dio.

Un popolo privato del Messia, quindi senza futuro.

 

Accanto a questo messaggio centrale, Lc - evangelista dei bisognosi - vuole richiamare l'attenzione delle sue comunità su chi è rimasto solo.

«E Gesù lo diede a sua Madre» (Lc 7,15b).

La Chiesa ha il compito di restituire figli o famiglia, a coloro che li hanno perduti.

La fraternità deve rispettare e accudire chi piange solitudine.

Al pari di Gesù, essa si distingue da tutte le altre forme devote competitive perché rianima, rende gli affetti, ridona equilibrio e voglia di farcela.

Segna sempre un trionfo della vita sulla caligine delle tombe.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come hai sperimentato l’iniezione di vita che il Risorto ti ha fornito passando dal corteo della religione supinamente diretto al camposanto alla compagnia di Fede e all’orizzonte del Padre e del Figlio nello Spirito?

Hai sperimentato la vicinanza vivificante dei fratelli di fede in occasione di un lutto? (Come) hai vissuto Cristo in essi che ridona vita e affetti?

 

 

L’aspetto oscuro

 

Papa Francesco ha affermato: «Dio per donarsi a noi sceglie spesso delle strade impensabili, magari quelle dei nostri limiti, delle nostre lacrime, delle nostre sconfitte».

 

Il Richiamo del Signore non è manicheo, bensì profondo.

Il nostro comportamento ha radici affascinanti. Luci e ombre del nostro essere permangono in relazione dinamica.

Talora però i nostri disagi o storture sono il frutto di un eccesso di “luce” - disancorato dal suo opposto. 

Tale eccesso si associa volentieri alla pretesa di esorcizzare l’aspetto buio in noi, che vorremmo celare per motivi sociali.

Ci sembra che il biglietto da visita debba essere riflesso solo del nostro aspetto brillante, sciolto, serio, e performante.

Magari, uno stile morale tutto d’un pezzo - almeno a prima vista.

Chi si affeziona al suo lato luminoso e addirittura tenta di promuoverlo per motivi di look (anche ecclesiale), di cultura affermata, di abitudine (anche religiosa) , rischia però di potenziare la  controparte.

Attenzione: in ciascun uomo c’è sempre un versante che fa cilecca, che non ce la fa; e non unilaterale.

Forse proprio in chi predica il bene esiste il pericolo più accentuato di trascurare il suo opposto compresente - che prima o poi irromperà, troverà il suo spazio.

Facendo saltare tutto il castello di carte. Ma per realizzare qualcosa di alternativo e assolutamente non artificioso.

 

Per chi intraprende un cammino di “perfezione”, la sua stessa controparte sembra solo un pericolo.

E condizionati dai modelli, continuiamo a recitare [la “nostra” parte già identificata].

Eppure nel lato oscuro si celano risorse che il lato in sola luce non ha.

Nel lato oscuro leggiamo il nostro seme caratteriale.

Qui c’è la terapia e la guarigione dai disagi che ci affrettiamo a celare (in famiglia, con gli amici, in comunità, sul lavoro).

Gli aspetti oscuri [egoismo, freddezza, chiusura, introversione, tristezza] si annidano dentro; inutile negarlo.

Vale la pena piuttosto considerarli fonte di energie primordiali caratterizzanti.

È infatti il nascondimento - talora la depressione stessa - che ci fa pescare soluzioni inimmaginabili.

Come fossimo un grano piantato in terra, che vuole la sua esistenza. E vuole infine vita naturale, che sviluppi le sue capacità.

Proprio le emozioni che non piacciono e noi stessi detestiamo - come la terra infangata e buia - ci riconnettono con la nostra essenza profonda.

Insomma, gli stati emotivi poco simpatici saranno il pozzo dal quale giungono a noi altre idee, altre “immagini” guida, nuove intuizioni; diversa linfa. E i cambiamenti.

La luce non possiede tutte le possibilità, tutte le dinamicità. Anzi, non di rado sembra declinata [dalle stesse tradizioni, o mode culturali] in modo fittizio, riduttivo.

Nel chiaroscuro, viceversa, non fingiamo più. Perché è il fondamento della casa dell’anima.

 

Tutto ciò consideriamo, per un’armonia solida, che nasca dal di dentro.

Paradossi della Vocazione personale: se non la seguissimo a tutto tondo, continueremmo a ricalcare idee sbagliate, o stili altrui.

E ci ammaleremmo. Il male prenderà il sopravvento.

Se strutturati su una identità astratta, locale, o fasulla, qui sì che la bufera potrebbe distruggere tutto.

Nei nostri tentativi ed errori, [accanto] dobbiamo tenere tutti gli aspetti - che nel corso del tempo abbiamo imparato a conoscere, e ci siamo resi conto che sono parte di noi.

Questo cambierà la solidità di rapporto con noi stessi, gli altri, la natura, la storia, e il mondo.

Qui l’aspetto oscuro si fa alleato.

 

La sintonia tra condotta e intenzione del cuore supera l'ipocrisia, ma la conformità tra Parola e vita non si allestisce esercitandosi negli automatismi, né consegnandosi a convinzioni altrui.

Nel post-lockdown ce ne stiamo accorgendo nitidamente.

Lunedì, 08 Settembre 2025 04:14

Al Gaslini

Il Gaslini è nato dal cuore di un generoso benefattore, l’industriale e Senatore Gerolamo Gaslini, che dedicò quest’opera a sua figlia deceduta a soli 12 anni, e fa parte della storia di carità che fa di Genova una "città della carità cristiana". Anche oggi la fede suggerisce a tante persone di buona volontà gesti di amore e di sostegno concreto a questo Istituto, che con giusto orgoglio è sentito dai Genovesi come un patrimonio prezioso. Ringrazio e incoraggio tutti a continuare. In particolare mi rallegro per il nuovo complesso, del quale è stata recentemente posta la prima pietra, e che ha trovato un munifico donatore. Anche l'attenzione fattiva e cordiale delle pubbliche Amministrazioni è segno di riconoscimento del valore sociale che il Gaslini rappresenta per i bambini della Città e oltre. Quando un bene, infatti, è per tutti, merita il concorso di tutti nel giusto rispetto dei ruoli e delle competenze.

Mi rivolgo ora a voi, cari medici, ricercatori, personale paramedico e amministrativo; a voi, cari cappellani, volontari e quanti vi occupate dell’assistenza spirituale dei piccoli ospiti e dei loro familiari. So che è vostro corale impegno far sì che l’Istituto Gaslini sia un autentico "santuario della vita" e un "santuario della famiglia", dove alla professionalità gli operatori di ogni settore uniscano amorevolezza e attenzione per la persona. La decisione del Fondatore, per cui il Presidente della Fondazione deve essere l’Arcivescovo pro tempore di Genova, manifesta la volontà che l’ispirazione cristiana dell’Istituto non venga mai meno e tutti siano sempre sorretti dai valori evangelici.

Nel 1931, ponendo le basi della struttura, il Senatore Gerolamo Gaslini preconizzava "l’opera perenne di bene che dall’Istituto stesso dovrà irraggiare". Irraggiare il bene attraverso l’amorevole cura dei piccoli ammalati è dunque lo scopo di questo vostro Ospedale. Per questo, mentre ringrazio tutto il personale – dirigente, amministrativo e sanitario – per la professionalità e la dedizione del loro servizio, auspico che questo eccellente Istituto Pediatrico continui a svilupparsi nelle tecnologie, nelle cure e nei servizi; ma anche ad allargare sempre più gli orizzonti in quell'ottica di positiva globalizzazione per cui si riconoscono le risorse, i servizi e i bisogni creando e rafforzando una rete di solidarietà oggi tanto urgente e necessaria. Tutto questo senza mai venir meno a quel supplemento di affetto che dai piccoli degenti è avvertito come la prima e indispensabile terapia. L’Ospedale allora diventerà sempre più luogo di speranza.

La speranza qui al Gaslini prende il volto della cura di pazienti in età pediatrica, ai quali si cerca di provvedere mediante la formazione continua degli operatori sanitari. Di fatto, il vostro Ospedale, quale stimato Istituto di Ricerca e Cura a carattere scientifico, si distingue per essere monotematico e polifunzionale, coprendo quasi tutte le specialità in campo pediatrico. La speranza che qui si coltiva ha dunque buoni fondamenti. Tuttavia, per affrontare efficacemente il futuro, è indispensabile che questa speranza sia sostenuta da una visione più alta della vita, che permetta allo scienziato, al medico, al professionista, all’assistente, ai genitori stessi di impegnare tutte le loro capacità, senza risparmiare sforzi per ottenere i migliori risultati che la scienza e la tecnica possono oggi offrire, sul piano della prevenzione e della cura. Ecco allora affacciarsi il pensiero della silenziosa presenza di Dio, che accompagna quasi impercettibilmente l’uomo nel suo lungo cammino nella storia. La vera speranza "affidabile" è solo Dio, che in Gesù Cristo e nel suo Vangelo ha spalancato sul futuro la porta oscura del tempo. "Sono risorto e ora sono sempre con te" - ci ripete Gesù, specialmente nei momenti più difficili – "la mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai tra le mie braccia. Sono presente anche alla porta della morte".

Qui, al Gaslini, vengono curati i bambini. Come non pensare alla predilezione che Gesù ebbe per i fanciulli? Li volle accanto a sé, li additò agli apostoli come modelli da seguire nella loro fede spontanea e generosa, nella loro innocenza. Con parole dure mise in guardia dal disprezzarli e dallo scandalizzarli. Si commosse dinanzi alla vedova di Nain, una mamma che aveva perso il figlio, il suo unico figlio. Scrive l’evangelista san Luca che il Signore la rassicurò e le disse: "Non piangere!" (cfr Lc 7,14). Gesù ripete ancor oggi a chi è nel dolore queste parole consolatrici: "Non piangere"! Egli è solidale con ognuno di noi e ci chiede, se vogliamo essere suoi discepoli, di testimoniare il suo amore per chiunque si trova in difficoltà.

Mi rivolgo, infine, a voi, carissimi bambini, per ripetervi che il Papa vi vuole bene. Accanto a voi vedo i vostri familiari, che condividono con voi momenti di trepidazione e di speranza. Siatene tutti certi: Dio non ci abbandona mai. Restate uniti a Lui e non perderete mai la serenità, nemmeno nei momenti più bui e complessi. Vi assicuro il mio ricordo nella preghiera e vi affido a Maria Santissima, che come mamma ha sofferto per i dolori del suo divin Figlio, ma ora vive con Lui nella gloria. Un grazie ancora a ciascuno di voi per quest’incontro, che rimarrà impresso nel mio cuore. Con affetto tutti vi benedico.

[Papa Benedetto, discorso al Gaslini di Genova 18 maggio 2008]

Padre misericordioso,
Signore della vita e della morte,
il nostro destino è nelle tue mani.
Guarda con bontà
l’afflizione di coloro
che piangono la morte di persone care:
figli, padri, fratelli, parenti, amici.
Sentano essi la presenza di Cristo
che consolò la vedova di Naim
e le sorelle di Lazzaro,
perché Egli è la risurrezione e la vita.
Aiutaci a imparare
dal mistero del dolore
che siamo pellegrini sulla terra.

(Giovanni Paolo II)

Lunedì, 08 Settembre 2025 04:00

Prediche vanitose

Papa Francesco, nell’omelia oggi alla Messa a casa Santa Marta, ha commentato il vangelo del giorno che narra della vedova di Naim, cui Gesù resuscitò il figlio. Ma Cristo fece di più, ha osservato il Papa: si mostra vicino, partecipe del dramma vissuto dalla donna. «Era vicino alla gente», ha detto Bergoglio. «Dio vicino che riesce a capire il cuore della gente, il cuore del suo popolo. Poi vede quel corteo, e il Signore si avvicina. Dio visita il suo popolo, in mezzo al suo popolo, e avvicinandosi. Vicinanza. È la modalità di Dio. E poi c’è un’espressione che si ripete nella Bibbia, tante volte: “Il Signore fu preso da grande compassione”. La stessa compassione che, dice il Vangelo, aveva quando ha visto tanta gente come pecore senza pastore. Quando Dio visita il suo popolo, gli è vicino, gli si avvicina e sente compassione: si commuove. Il Signore è profondamente commosso, come lo è stato davanti alla tomba di Lazzaro», come è commosso quel Padre «quando ha visto tornare a casa il figlio prodigo». Cristo ci mostra la strada da seguire: «Vicinanza e compassione». Non stare lontani e predicare, come «i dottori della legge, gli scribi, i farisei», ma avvicinarsi, «patire con il popolo».

Papa Francesco ha voluto sottolineare un altro passo del Vangelo: «”Il morto si mise seduto e incominciò a parlare, ed egli – Gesù – lo restituì a sua madre”. Quando Dio visita il suo popolo, restituisce al popolo la speranza. Sempre. Si può predicare la Parola di Dio brillantemente: ci sono stati nella storia tanti bravi predicatori. Ma se questi predicatori non sono riusciti a seminare speranza, quella predica non serve. È vanità». Per questo, ha concluso il Pontefice rivolgendo un invito ai fedeli, dobbiamo «chiedere la grazia che la nostra testimonianza di cristiani sia testimonianza portatrice della visita di Dio al suo popolo, cioè di vicinanza che semina la speranza».

[Redazione “Tempi”, 16.9.2014.

https://www.tempi.it/papa-francesco-non-belle-prediche-ma-vicinanza-e-compassione-come-quelle-che-ebbe-gesu-con-la-vedova-di-naim/]

Maria nella Chiesa, che genera i figli

(Gv 19,25-27)

 

Il breve passo di Vangelo ai vv.25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.

Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.

Sia a Cana che ai piedi della Croce, la Madre è figura del resto d’Israele autenticamente sensibile e fedele.

Il popolo-sposa del Primo Testamento è come in attesa della reale Rivelazione: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto e spento la gioia della festa nuziale tra il Padre e i suoi figli.

L’Israele autenticamente adorante ha suscitato il passaggio dalla religiosità alla Fede che opera, dalla legge antica al Nuovo Testamento.

Ai piedi della Croce viene generato un Regno alternativo.

Si formano padri e madri di un’umanità diversa, che proclamano la Lieta Notizia di Dio - stavolta in favore esclusivo di ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi.

Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua Madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano diverse correnti di pensiero sul Cristo.

Tra esse: Giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; Lassisti, che consideravano ormai Gesù anatema, intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia.

A inizio secondo secolo Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.

A coloro che ormai volevano prescindere dall’insegnamento dei ‘padri’, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.

Il discepolo amato, icona dell’autentico figlio di Dio [Parola-evento diffusa del Nuovo Testamento] deve ricevere la Madre, la cultura del popolo del Patto, a ‘casa sua’ - ossia nella Chiesa nascente.

Eppure, anche se è nella comunità cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura… la Persona, la vicenda e la Parola di Cristo stesso non si comprendono né porteranno frutto concreto coi tanti sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.

Non bastano le sole proiezioni, che pur scuotono le prigioni mentali, spesso edifici di false certezze: il Seme non è nemico da combattere, ma virtù che viene dal profondo.

L’Alleanza è preziosa, dà l’autentica scossa alla vita. Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.

E la Chiesa suscitata dal suo Signore rivelerà qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.

In Maria e nelle icone fedeli generate dal petto di Cristo - inscindibili nella Missione - l’intima cooperazione s’intensifica dei momenti di un’esistenza comunitaria umile e silenziosa.

Nel perfetto adorare l’identità-carattere del Crocifisso e nel movimento del dono di sé, incede la libertà del calarsi.

Se qualcuno si deposita, il nuovo avanzerà.

E anche il vecchio potrà riemergere, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.

Un fiume di sintonie impensate riallaccerà lo spirito umano dei credenti all’opera materna dello Spirito senza barriere.

In tal guisa, nel silenzio non ci opporremo ai disagi. Il corpo offeso parlerà, manifestando l’anima e colmando la vita, in un crescendo.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo entri nel ritmo di questo passo di Vangelo? In quale personaggio ti riconosci, o perché ti rivedi in tutti? Qual è in ciascuno di loro la tua misura, che doni al mondo?

 

 

[Beata Maria Vergine Addolorata, 15 settembre]

Maria nella Chiesa, che genera i figli

(Gv 19,25-27)

 

Il breve passo di Vangelo ai vv.25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.

Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.

Sia a Cana che ai piedi della Croce, la Madre è figura del resto d’Israele autenticamente sensibile e fedele.

Il popolo-sposa del Primo Testamento è come in attesa della reale Rivelazione: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto e spento la gioia della festa nuziale tra il Padre e i suoi figli.

L’Israele autenticamente adorante ha suscitato il passaggio dalla religiosità alla Fede che opera, dalla legge antica al Nuovo Testamento.

Ai piedi della Croce viene generato un Regno alternativo.

Si formano padri e madri di un’umanità diversa, che proclamano la Lieta Notizia di Dio - stavolta in favore esclusivo di ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi.

Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua Madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo.

Tra esse: Giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; Lassisti, che consideravano ormai Gesù anatema, intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia.

A inizio secondo secolo Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.

A coloro che ormai volevano prescindere dall’insegnamento dei ‘padri’, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.

Il discepolo amato, icona dell’autentico figlio di Dio [Parola-evento diffusa del Nuovo Testamento] deve ricevere la Madre, la cultura del popolo del Patto, a casa sua - ossia nella Chiesa nascente.

Eppure, anche se è nella comunità cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e la Parola di Cristo stesso non si comprendono né porteranno frutto concreto coi tanti sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.

Non bastano le sole proiezioni, che pur scuotono le prigioni mentali, spesso edifici di false certezze: il Seme non è nemico da combattere, ma virtù che viene dal profondo.

L’Alleanza è preziosa, dà l’autentica scossa alla vita. Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.

 

E la Chiesa suscitata dal suo Signore rivelerà qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.

In Maria e nelle icone fedeli generate dal petto di Cristo - inscindibili nella Missione - l’intima cooperazione s’intensifica dei momenti di un’esistenza comunitaria umile e silenziosa.

Nel perfetto adorare l’identità-carattere del Crocifisso e nel movimento del dono di sé, incede la libertà del calarsi.

Se qualcuno si deposita, il nuovo avanzerà.

E anche il vecchio potrà riemergere, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.

Un fiume di sintonie impensate riallaccerà lo spirito umano dei credenti all’opera materna dello Spirito senza barriere.

Dice il Tao Tê Ching (xxii): «Se ti pieghi, ti conservi; Se ti curvi, ti raddrizzi; Se t’incavi, ti riempi; Se ti logori, ti rinnovi; Se miri al poco, ottieni; Se miri al molto, resti deluso. Per questo il santo preserva l’Uno [il massimo del poco], e diviene modello [porge la misura] al mondo. Non da sé vede, perciò è illuminato; non da sé s’approva, perciò splende; non da sé si gloria, perciò ha merito; non da sé s’esalta, perciò a lungo dura. Proprio perché non contende, nessuno al mondo può muovergli contesa. Quel che dicevano gli antichi: se ti pieghi ti conservi, erano forse parole vuote? In verità, integri tornavano».

 

In tal guisa, nel silenzio non ci opporremo ai disagi. Il corpo offeso parlerà, manifestando l’anima e colmando la vita, in un crescendo.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo entri nel ritmo di questo passo di Vangelo? In quale personaggio ti riconosci, o perché ti rivedi in tutti? Qual è in ciascuno di loro la tua misura, che doni al mondo?

 

 

Sangue Acqua: Corpo ancora squarciato

 

Sangue e Acqua: vita donata e vita trasmessa

(Gv 19,31-37)

 

La crudele dipartita del Signore non è una fine: inaugura la vita nuova, sebbene fra segni raccapriccianti e di morte vera.

Il Crocifisso salva: comunica una vita da salvati. Ci fa passare da un mondo all’altro: solo in tal senso la Pasqua antica coincide con la nuova.

La sua è una Liberazione e Redenzione che procede ben oltre le promesse rituali dei sacrifici propiziatori, e la religione delle purificazioni.

Il Sangue del Cristo è qui figura del Dono estremo d’Amore. L’Acqua dal medesimo costato trafitto è quella che viene assimilata e fa crescere.

Tale Amicizia sovreminente, donata e accolta, vince ogni forma di morte, perché offre un doppio principio di vita indistruttibile: accoglienza di una proposta sempre inedita, e crescita di onda in onda.

Così la festa di liberazione ebraica viene sostituita dalla Pasqua cristiana - e dai segni dei Sacramenti essenziali.

Nel corpo di Gesù e in quello degli uomini crocifissi al suo fianco, Gv vede la fraternità del Figlio col genere umano, anch’esso reso Santuario divino.

Morto Gesù, anche noi possiamo seguirlo [malfattori cui sono spezzate le gambe] perché nessuno può togliere la vita al Risorto, anche se poi cerca di farlo agli sventurati con Lui.

Infatti la ‘trafittura’ al Corpo di Cristo continua anche dopo la morte in Croce (v.34): l’ostilità nei suoi confronti non si placherà, anzi vuol annientarlo per sempre.

Ma dal suo Corpo squarciato [la Chiesa autentica] continuerà a sgorgare amore da vertigini e finalmente la gioia d’un banchetto festoso, come promesso sin dalle nozze di Cana.

La testimonianza dell’evangelista diventa solenne fondamento della Fede dei discepoli futuri. E la Fede soppianterà il giogo della religione già tutta redatta.

Così l’autore invita ciascuno di noi a scrivere un proprio Vangelo (Gv 20,30-31) nell’esperienza dei paradossi e della salvezza di Dio, che ci ha raggiunto a partire proprio dai nostri peccati o situazioni incerte.

I discepoli futuri sono proclamati Beati (Gv 20,29) proprio perché «non hanno visto» quello spettacolo con gli occhi.

Lo hanno però riconosciuto in se stessi e nel proprio andare - ripetutamente sperimentando nelle proprie debolezze il luogo della Misericordia.

 

 

Senso Materno, non Chiesa di zitelli

 

A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».

«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».

«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».

«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».

«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».

«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».

«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».

Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».

Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».

«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».

«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2018]

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«The Russian mystics of the first centuries of the Church gave advice to their disciples, the young monks: in the moment of spiritual turmoil take refuge under the mantle of the holy Mother of God». Then «the West took this advice and made the first Marian antiphon “Sub tuum Praesidium”: under your cloak, in your custody, O Mother, we are sure there» (Pope Francis)
«I mistici russi dei primi secoli della Chiesa davano un consiglio ai loro discepoli, i giovani monaci: nel momento delle turbolenze spirituali rifugiatevi sotto il manto della santa Madre di Dio». Poi «l’occidente ha preso questo consiglio e ha fatto la prima antifona mariana “Sub tuum praesidium”: sotto il tuo mantello, sotto la tua custodia, o Madre, lì siamo sicuri» (Papa Francesco)
The Cross of Jesus is our one true hope! That is why the Church “exalts” the Holy Cross, and why we Christians bless ourselves with the sign of the cross. That is, we don’t exalt crosses, but the glorious Cross of Christ, the sign of God’s immense love, the sign of our salvation and path toward the Resurrection. This is our hope (Pope Francis)
La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza (Papa Francesco)
The basis of Christian construction is listening to and the fulfilment of the word of Christ (Pope John Paul II)
Alla base della costruzione cristiana c’è l’ascolto e il compimento della parola di Cristo (Papa Giovanni Paolo II)
«Rebuke the wise and he will love you for it. Be open with the wise, he grows wiser still; teach the upright, he will gain yet more» (Prov 9:8ff)
«Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s)
These divisions are seen in the relationships between individuals and groups, and also at the level of larger groups: nations against nations and blocs of opposing countries in a headlong quest for domination [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
But the words of Jesus may seem strange. It is strange that Jesus exalts those whom the world generally regards as weak. He says to them, “Blessed are you who seem to be losers, because you are the true winners: the kingdom of heaven is yours!” Spoken by him who is “gentle and humble in heart”, these words present a challenge (Pope John Paul II)
È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore”, queste parole  lanciano una sfida (Papa Giovanni Paolo II)
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)

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