don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 01 Settembre 2025 05:37

Incarnazione disinvolta

(Mt 1,1-16.18-23)

 

Fin dal VII secolo l’evento di prima Aurora che precede la Venuta del Sole di Giustizia è identificato da papa Sergio nella nascita di Maria - secondo Dante «termine fisso d’eterno consiglio».

La Madre di Dio è figura che nel panorama della spiritualità reca una novità radicale, perché non genera l’atteso Davide, bensì la Persona più dimessa e favorevole, dall'energia non aggressiva.

Nella sua icona di «bimba appena generata», Ella è anche immagine dell'umanità nuova, ma reale, “complice” della nostra condizione; dal cuore non più artificioso e di pietra [legalista] bensì di carne.

Quindi la Festa di oggi è una sorta di prefigurazione del Natale, evento di Rivelazione d’uno sconcertante ma finalmente autentico Volto di Dio - e delle creature realizzate.

 

Eccoci allora interpellati dal Vangelo sul peso da dare alla rigidità delle norme, le quali nella storia della spiritualità hanno spesso divorato l’essere spontaneo dei chiamati dal Padre.

Genuinità che stimola semplicemente a esprimersi, a partire dal proprio carattere vocazionale.

Anche le culture animate da Sapienza di Natura ne attestano il peso.

Scrive il Tao Tê Ching (LVII): «Quando con la correzione si governa il mondo, con la falsità s’adopran l’armi [...] Per questo il santo dice: io non agisco e il popolo da sé si trasforma [...] io non bramo e il popolo da sé si fa semplice».

 

Nell’oriente antico le genealogie indicavano solo uomini, e sorprende che Mt riporti il nome di ben cinque donne, considerate creature solo servili, inaffidabili, impure per natura.

Ma nella vicenda delle quattro compagne di Maria c’è non poco di a-normale (anche per il modello di vita scelto) che però vale la pena.

Per giungere alla pienezza umana del Figlio, Dio non ha preteso superare le vicende storiche, viceversa le ha assunte e valorizzate.

Il cammino che porta a Cristo non è questione di scalate, né di risultati o performance da calibrare sempre meglio in un crescendo lineare - quindi moralizzatore e dirigista, che non impone svolte che contano, né risolve i veri problemi.

Nelle vicende, l’Eterno riesce a dare ali spiegate non tanto alla forza e al genio, ma a tutte le povere origini, alla pochezza della nostra natura, la quale d’improvviso si tramuta in ricchezza totalmente imprevedibile. 

E se di continuo strappiamo il filo, il Signore lo riannoda - non per aggiustare, metterci una pezza e riprendere come prima, ma per rifare un’intera trama nuova. Proprio a partire dalle cadute.

È l’energia dell’inadeguatezza e dei fallimenti che ci fa rientrare in noi stessi e perdere finalmente la testa. Altre configurazioni dell’anima ci attendono.

 

Nei Vangeli dell’infanzia di Mt Dio assume due Nomi: Redentore [Yeshua: Dio è Salvatore] e Con-noi. Il senso di tali prerogative non è meccanico, bensì teologico.

Il Nome proprio del Figlio Gesù descrive la sua Opera di recupero di tutto l’essere.

E l’attributo caratteristico Immanu’el [tratto da Isaia] ne puntualizza i (molti) recapiti - i suoi (tanti) indirizzi, che siamo ciascuno di noi, in crescita nel tempo.

 

Incarnazione: il Padre si colloca a fianco dei suoi figli e figlie.

Non solo non teme di rendersi impuro nel contatto con le cose che riguardano le dinamiche di terra: addirittura si riconosce nella loro Condizione.

Per questo motivo, dal disagio di Giuseppe scaturisce addirittura il culmine dell’intera Storia di Salvezza.

Quello che colpisce della narrazione di Mt è: il discrimine e le possibilità d’irruzione della vetta del Disegno salvifico scaturiscono non da una certezza religiosa, ma da un Dubbio!

Ogni Dono eminente passa attraverso la carne, e qui - nel malsicuro - ciò che sembrava controverso diventa fecondo.

L’imbarazzo e l’improbabile attivano infine vita intensa e piena.

Lo Spirito che s’infila nei pertugi delle mentalità standard trova un ‘punto’ dentro di noi che consente di fiorire diversamente adesso, in trasparenza.

Le vere svolte della storia. La differenza fra devozione e Fede.

 

 

[Natività della Beata Vergine Maria, 8 settembre]

Lunedì, 01 Settembre 2025 05:30

Sa trovare nel nostro fallimento

Cari fratelli e sorelle,

con il nostro grande pellegrinaggio a Mariazell celebriamo la festa patronale di questo Santuario, la festa della Natività di Maria. Da 850 anni vengono qui persone da vari popoli e nazioni, persone che pregano portando con sé i desideri dei loro cuori e dei loro Paesi, le preoccupazioni e le speranze del loro intimo. Così Mariazell è diventata per l’Austria, e molto al di là delle sue frontiere, un luogo di pace e di unità riconciliata. Qui sperimentiamo la bontà consolatrice della Madre; qui incontriamo Gesù Cristo, nel quale Dio è con noi, come afferma oggi il brano evangelico - Gesù, di cui nella lettura del profeta Michea abbiamo sentito: Egli sarà la pace (cfr 5,4). Oggi ci inseriamo nel grande pellegrinaggio di molti secoli. Facciamo una sosta dalla Madre del Signore e la preghiamo: Mostraci Gesù. Mostra a noi pellegrini Colui che è insieme la via e la meta: la verità e la vita.

Il brano evangelico, che abbiamo appena ascoltato, apre ulteriormente il nostro sguardo. Esso presenta la storia di Israele a partire da Abramo come un pellegrinaggio che, con salite e discese, per vie brevi e per vie lunghe, conduce infine a Cristo. La genealogia con le sue figure luminose e oscure, con i suoi successi e i suoi fallimenti, ci dimostra che Dio può scrivere diritto anche sulle righe storte della nostra storia. Dio ci lascia la nostra libertà e, tuttavia, sa trovare nel nostro fallimento nuove vie per il suo amore. Dio non fallisce. Così questa genealogia è una garanzia della fedeltà di Dio; una garanzia che Dio non ci lascia cadere, e un invito ad orientare la nostra vita sempre nuovamente verso di Lui, a camminare sempre di nuovo verso Cristo.

Andare in pellegrinaggio significa essere orientati in una certa direzione, camminare verso una meta. Ciò conferisce anche alla via ed alla sua fatica una propria bellezza. Tra i pellegrini della genealogia di Gesù ce n’erano alcuni che avevano dimenticato la meta e volevano porre sé stessi come meta. Ma sempre di nuovo il Signore aveva suscitato anche persone che si erano lasciate spingere dalla nostalgia della meta, orientandovi la propria vita. Lo slancio verso la fede cristiana, l’inizio della Chiesa di Gesù Cristo è stato possibile, perché esistevano in Israele persone con un cuore in ricerca – persone che non si sono accomodate nella consuetudine, ma hanno scrutato lontano alla ricerca di qualcosa di più grande: Zaccaria, Elisabetta, Simeone, Anna, Maria e Giuseppe, i Dodici e molti altri. Poiché il loro cuore era in attesa, essi potevano riconoscere in Gesù Colui che Dio aveva mandato e diventare così l’inizio della sua famiglia universale. La Chiesa delle genti si è resa possibile, perché sia nell’area del Mediterraneo sia nell’Asia vicina e media, dove arrivavano i messaggeri di Gesù, c’erano persone in attesa che non si accontentavano di ciò che facevano e pensavano tutti, ma cercavano la stella che poteva indicare loro la via verso la Verità stessa, verso il Dio vivente.

Di questo cuore inquieto e aperto abbiamo bisogno. È il nocciolo del pellegrinaggio. Anche oggi non è sufficiente essere e pensare in qualche modo come tutti gli altri. Il progetto della nostra vita va oltre. Noi abbiamo bisogno di Dio, di quel Dio che ci ha mostrato il suo volto ed aperto il suo cuore: Gesù Cristo. Giovanni, con buona ragione, afferma che Lui è l’Unigenito Dio che è nel seno del Padre (cfr Gv 1,18); così solo Lui, dall’intimo di Dio stesso, poteva rivelare Dio a noi – rivelarci anche chi siamo noi, da dove veniamo e verso dove andiamo. Certo, ci sono numerose grandi personalità nella storia che hanno fatto belle e commoventi esperienze di Dio. Restano, però, esperienze umane con il loro limite umano. Solo Lui è Dio e perciò solo Lui è il ponte, che veramente mette in contatto immediato Dio e l’uomo. Se noi cristiani dunque lo chiamiamo l’unico Mediatore della salvezza valido per tutti, che interessa tutti e del quale, in definitiva, tutti hanno bisogno, questo non significa affatto disprezzo delle altre religioni né assolutizzazione superba del nostro pensiero, ma solo l’essere conquistati da Colui che ci ha interiormente toccati e colmati di doni, affinché noi potessimo a nostra volta fare doni anche agli altri. Di fatto, la nostra fede si oppone decisamente alla rassegnazione che considera l’uomo incapace della verità – come se questa fosse troppo grande per lui. Questa rassegnazione di fronte alla verità è, secondo la mia convinzione, il nocciolo della crisi dell’Occidente, dell’Europa. Se per l’uomo non esiste una verità, egli, in fondo, non può neppure distinguere tra il bene e il male. E allora le grandi e meravigliose conoscenze della scienza diventano ambigue: possono aprire prospettive importanti per il bene, per la salvezza dell’uomo, ma anche – e lo vediamo – diventare una terribile minaccia, la distruzione dell’uomo e del mondo. Noi abbiamo bisogno della verità. Ma certo, a motivo della nostra storia abbiamo paura che la fede nella verità comporti intolleranza. Se questa paura, che ha le sue buone ragioni storiche, ci assale, è tempo di guardare a Gesù come lo vediamo qui nel santuario di Mariazell. Lo vediamo in due immagini: come bambino in braccio alla Madre e, sull’altare principale della basilica, come crocifisso. Queste due immagini della basilica ci dicono: la verità non si afferma mediante un potere esterno, ma è umile e si dona all’uomo solamente mediante il potere interiore del suo essere vera. La verità dimostra se stessa nell’amore. Non è mai nostra proprietà, un nostro prodotto, come anche l’amore non si può produrre, ma solo ricevere e trasmettere come dono. Di questa interiore forza della verità abbiamo bisogno. Di questa forza della verità noi come cristiani ci fidiamo. Di essa siamo testimoni. Dobbiamo trasmetterla in dono nello stesso modo in cui l’abbiamo ricevuta, così come essa si è donata.

“Guardare a Cristo”, è il motto di questo giorno. Questo invito, per l’uomo in ricerca, si trasforma sempre di nuovo in una spontanea richiesta, una richiesta rivolta in particolare a Maria, che ci ha donato Cristo come il Figlio suo: “Mostraci Gesù!” Preghiamo oggi così con tutto il cuore; preghiamo così anche al di là di questa ora, interiormente alla ricerca del Volto del Redentore. “Mostraci Gesù!”. Maria risponde, presentandoLo a noi innanzitutto come bambino. Dio si è fatto piccolo per noi. Dio non viene con la forza esteriore, ma viene nell’impotenza del suo amore, che costituisce la sua forza. Egli si dà nelle nostre mani. Chiede il nostro amore. Ci invita a diventare anche noi piccoli, a scendere dai nostri alti troni ed imparare ad essere bambini davanti a Dio. Egli ci offre il Tu. Ci chiede di fidarci di Lui e di imparare così a stare nella verità e nell’amore. Il bambino Gesù ci ricorda naturalmente anche tutti i bambini del mondo, nei quali vuole venirci incontro. I bambini che vivono nella povertà; che vengono sfruttati come soldati; che non hanno mai potuto sperimentare l’amore dei genitori; i bambini malati e sofferenti, ma anche quelli gioiosi e sani. L’Europa è diventata povera di bambini: noi vogliamo tutto per noi stessi, e forse non ci fidiamo troppo del futuro. Ma priva di futuro sarà la terra solo quando si spegneranno le forze del cuore umano e della ragione illuminata dal cuore – quando il volto di Dio non splenderà più sopra la terra. Dove c’è Dio, là c’è futuro.

“Guardare a Cristo”: gettiamo ancora brevemente uno sguardo al Crocifisso sopra l’altare maggiore. Dio ha redento il mondo non mediante la spada, ma mediante la Croce. Morente, Gesù stende le braccia. Questo è innanzitutto il gesto della Passione, in cui Egli si lascia inchiodare per noi, per darci la sua vita. Ma le braccia stese sono allo stesso tempo l’atteggiamento dell’orante, una posizione che il sacerdote assume quando nella preghiera allarga le braccia: Gesù ha trasformato la passione – la sua sofferenza e la sua morte – in preghiera, e così l’ha trasformata in un atto di amore verso Dio e verso gli uomini. Per questo le braccia stese del Crocifisso sono, alla fine, anche un gesto di abbraccio, con cui Egli ci attrae a sé, vuole racchiuderci nelle mani del suo amore. Così Egli è un’immagine del Dio vivente, è Dio stesso, a Lui possiamo affidarci.

“Guardare a Cristo!” Se questo noi facciamo, ci rendiamo conto che il cristianesimo è di più e qualcosa di diverso da un sistema morale, da una serie di richieste e di leggi. È il dono di un’amicizia che perdura nella vita e nella morte: “Non vi chiamo più servi, ma amici” (cfr Gv 15,15), dice il Signore ai suoi. A questa amicizia noi ci affidiamo. Ma proprio perché il cristianesimo è più di una morale, è appunto il dono di un’amicizia, proprio per questo porta in sé anche una grande forza morale di cui noi, davanti alle sfide del nostro tempo, abbiamo tanto bisogno. Se con Gesù Cristo e con la sua Chiesa rileggiamo in modo sempre nuovo il Decalogo del Sinai, penetrando nelle sue profondità, allora ci si rivela come un grande, valido, permanente ammaestramento. Il Decalogo è innanzitutto un “sì” a Dio, a un Dio che ci ama e ci guida, che ci porta e, tuttavia, ci lascia la nostra libertà, anzi, la rende vera libertà (i primi tre comandamenti). È un “sì” alla famiglia (quarto comandamento), un “sì” alla vita (quinto comandamento), un “sì” ad un amore responsabile (sesto comandamento), un “sì” alla solidarietà, alla responsabilità sociale e alla giustizia (settimo comandamento), un “sì” alla verità (ottavo comandamento) e un “sì” al rispetto delle altre persone e di ciò che ad esse appartiene (nono e decimo comandamento). In virtù della forza della nostra amicizia col Dio vivente noi viviamo questo molteplice “sì” e al contempo lo portiamo come indicatore di percorso in questa nostra ora del mondo.

“Mostraci Gesù!”. Con questa domanda alla Madre del Signore ci siamo messi in cammino verso questo luogo. Questa stessa domanda ci accompagnerà quando torneremo nella nostra vita quotidiana. E sappiamo che Maria esaudisce la nostra preghiera: sì, in qualunque momento, quando guardiamo verso Maria, lei ci mostra Gesù. Così possiamo trovare la via giusta, seguirla passo passo, pieni della gioiosa fiducia che la via conduce nella luce – nella gioia dell’eterno Amore. Amen.

[Papa Benedetto, omelia 8 settembre 2007]

Lunedì, 01 Settembre 2025 05:24

Maria Bambina, punto di convergenza

Noi oggi celebriamo “con gioia la Natività della Beata Vergine Maria: da Lei è sorto il sole di giustizia, Cristo, nostro Dio!”.

Questa festività mariana è tutta un invito alla gioia, proprio perché con la nascita di Maria Santissima Dio dava al mondo quasi la garanzia concreta che la salvezza era ormai imminente: l’umanità che da millenni, in forme più o meno coscienti, aveva atteso qualcosa o qualcuno che la potesse liberare dal dolore, dal male, dall’angoscia, dalla disperazione, e che nel Popolo eletto aveva trovato, specialmente nei Profeti, i portavoce della Parola di Dio, rassicurante e consolatrice, poteva finalmente guardare, commossa e trepidante, a Maria “Bambina”, la quale era il punto di convergenza e di arrivo di un complesso di promesse divine, echeggiate misteriosamente nel cuore stesso della storia.

È proprio questa Bambina, ancor piccola e fragile, la “Donna” del primo annuncio della Redenzione futura, contrapposta da Dio al serpente tentatore: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno!” (Gen 3, 15).

È proprio questa Bambina la “Vergine” che “concepirà e partorirà un Figlio, che sarà chiamato Emanuele, che significa: Dio con noi” (cf. Is 7, 14; Mt 1, 23).

È proprio questa Bambina la “Madre” che partorirà a Betlemme “colui che deve essere il dominatore di Israele” (cf. Mt  5, 1s).

La Liturgia odierna applica a Maria nascente il brano della Lettera ai Romani, in cui San Paolo descrive il piano misericordioso di Dio nei confronti degli eletti: Maria è predestinata dalla Trinità ad una altissima missione; è chiamata; è santificata; è glorificata.

Dio l’ha predestinata ad essere intimamente associata alla vita ed all’opera del suo Figlio unigenito. Per questo l’ha santificata, in maniera mirabile e singolare, fin dal primo momento della sua concezione, costituendola “piena di grazia” (cf. Lc 1, 28); l’ha resa conforme all’immagine del suo Figlio: una conformità che, possiamo dire, fu unica, perché Maria è stata la prima e la più perfetta discepola del Figlio.

Il disegno di Dio in Maria è culminato poi in quella glorificazione, che ha reso il suo corpo mortale conforme al corpo glorioso di Gesù risuscitato; l’assunzione di Maria al cielo, in anima e corpo, rappresenta come l’ultima tappa della vicenda di questa Creatura, nella quale il Padre celeste ha manifestato, in maniera esaltante, il suo divino compiacimento.

La Chiesa tutta, pertanto, non può oggi non gioire nel celebrare la Natività di Maria Santissima, la quale - come afferma con accenti commossi san Giovanni Damasceno - è quella “porta verginale e divina, dalla quale e attraverso la quale Dio, che è al di sopra di ogni cosa, sta per fare il suo ingresso sulla terra corporalmente... Oggi è spuntato un rampollo dal tronco di Jesse, dal quale nascerà al mondo un Fiore sostanzialmente unito alla divinità. Oggi, sulla terra, dalla natura terrena, Colui che un tempo separò il firmamento dalle acque e lo elevò in alto, ha creato un cielo, e questo cielo è di gran lunga divinamente più splendido del primo!” (S. Giovanni Damasceno, Omelia sulla Natività di Maria: PG 96,661s).

3. Guardare a Maria significa specchiare noi stessi in un modello che Dio stesso ci ha donato per la nostra elevazione e per la nostra santificazione.

E Maria oggi ci insegna anzitutto a conservare intatta la fede in Dio, quella fede che ci è stata donata nel Battesimo e che deve continuamente crescere e maturare in noi nelle varie tappe della nostra vita cristiana. Commentando le parole di san Luca (Lc 2, 19), sant’Ambrogio così si esprime: “Riconosciamo in tutto la verecondia della Vergine santa, che, intemerata nel corpo non meno che nelle parole, meditava nel suo cuore gli argomenti della fede”(S. Ambrogio, Expos. Evang. sec. Lucam, II, 54: CCL, XIV,p. 4). Anche noi, fratelli e sorelle carissimi, dobbiamo continuamente meditare nel nostro cuore “gli argomenti della fede”, dobbiamo cioè essere aperti e disponibili alla Parola di Dio, per far sì che la nostra vita quotidiana - a livello personale, familiare, professionale - sia sempre in perfetta sintonia ed in armoniosa coerenza col messaggio di Gesù, con l’insegnamento della Chiesa, con gli esempi dei Santi.

Maria, la Vergine-Madre, riafferma oggi a noi tutti il valore altissimo della maternità, gloria e gioia della donna, ed altresì quello della verginità cristiana, professata ed accolta “in vista del Regno dei Cieli” (cf. Mt 19, 12), cioè come una testimonianza, in questo mondo caduco, di quel mondo finale, in cui i salvati saranno “come gli angeli di Dio” (cf. Mt 22, 30).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia in Frascati 8 settembre 1980]

Lunedì, 01 Settembre 2025 05:07

Nel piccolo c’è tutto

«Nel piccolo c’è tutto». Lo stile di Dio che agisce nelle piccole cose ma che ci apre grandi orizzonti è stato al centro della meditazione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta martedì 8 settembre, memoria liturgica della natività di Maria.

Richiamando il testo della colletta pronunciata poco prima — nella quale si chiede al Signore «la grazia dell’unità e della pace» — il Pontefice ha puntato l’attenzione su due verbi già evidenziati nelle omelie dei «giorni scorsi»: riconciliare e pacificare. Dio, ha detto, «riconcilia: riconcilia il mondo con sé e in Cristo». Gesù, portato a noi da Maria, pacifica, «dà la pace a due popoli, e di due popoli fa uno: degli ebrei e delle genti. Un solo popolo. Fa la pace. La pace nei cuori». Ma, si è chiesto il Papa, «come riconcilia, Dio?». Quale è il suo «stile»? Forse egli «fa una grande assemblea? Si mettono tutti d’accordo? Firmano un documento?». No, ha risposto, «Dio pacifica con una modalità speciale: riconcilia e pacifica nel piccolo e nel cammino».

La riflessione di Francesco è quindi iniziata a partire dal concetto di “piccolo”, quel “piccolo” di cui si legge nella prima lettura (Michea, 5, 1-4): «E tu, Betlemme di Efrata, così piccola...». Questo il commento del Papa: «Così piccola: ma sarai grande, perché da te nascerà la tua guida e lui sarà la pace. Egli stesso sarà la pace», perché da quel “piccolo” «viene la pace». Ecco lo stile di Dio, che sceglie «le cose piccole, le cose umili per fare le grandi opere». Il Signore, ha spiegato il Papa, «è il Grande» e noi «siamo i piccoli», ma il Signore «ci consiglia di farci piccoli come i bambini per poter entrare nel regno dei Cieli», dove «i grandi, i potenti, i superbi, gli orgogliosi non potranno entrare». Dio, perciò, «riconcilia e pacifica nel piccolo».

Il Pontefice ha quindi affrontato il secondo concetto, secondo il quale il Signore riconcilia «anche nel cammino: camminando». E ha spiegato: «Il Signore non ha voluto pacificare e riconciliare con la bacchetta magica: oggi — pum! — tutto fatto! No. Si è messo a camminare con il suo popolo». Un esempio di questa azione di Dio si ritrova nel vangelo del giorno (Matteo, 1, 1-16.18-23). Un brano, quello della genealogia di Gesù, che può apparire un po’ ripetitivo: «Questo generò questo, questo generò questo, questo generò questo... È un elenco», ha fatto notare Francesco. Eppure, ha spiegato, «è il cammino di Dio: il cammino di Dio fra gli uomini, buoni e cattivi, perché in questo elenco ci sono santi e ci sono criminali peccatori».

Un elenco, quindi, dove si incontra anche «tanto peccato». Tuttavia «Dio non si spaventa: cammina. Cammina con il suo popolo. E in questo cammino fa crescere la speranza del suo popolo, la speranza nel Messia». È questa la «vicinanza» di Dio. Lo aveva detto Mosè ai suoi: «Ma pensate: quale nazione ha un Dio tanto vicino come noi?». Ecco allora che «questo camminare nel piccolo, con il suo popolo, questo camminare con buoni e cattivi ci dà il nostro stile di vita». Per «camminare da cristiani», per «pacificare» e «riconciliare» come ha fatto Gesù, abbiamo la strada: «Con le beatitudini e con quel protocollo sul quale tutti saremo giudicati. Matteo, 25: “Fate così: piccole cose”». Questo significa «nel piccolo e nel cammino».

A questo punto il Papa ha aggiunto un altro elemento. Il popolo d’Israele, ha detto, «sognava la liberazione», aveva «questo sogno perché gli era stato promesso». Anche «Giuseppe sogna» e il suo sogno «è un po’ come il riassunto del sogno di tutta questa storia di cammino di Dio con il suo popolo». Ma, ha aggiunto Francesco, «non solo Giuseppe ha dei sogni: Dio sogna. Il nostro Padre Dio ha dei sogni, e sogna cose belle per il suo popolo, per ognuno di noi, perché è Padre e essendo Padre pensa e sogna il meglio per i suoi figli».

In conclusione: «Questo Dio onnipotente e grande, ci insegna a fare la grande opera della pacificazione e della riconciliazione nel piccolo, nel cammino, nel non perdere la speranza con quella capacità» di fare «grandi sogni», di avere «grandi orizzonti».

Perciò il Pontefice ha invitato tutti — in questa commemorazione dell’inizio di una tappa determinante della storia della salvezza, la nascita della Madonna — a chiedere «la grazia che abbiamo chiesto nella preghiera, dell’unità, cioè della riconciliazione, e della pace». Ma «sempre in cammino, in vicinanza con gli altri» e «con grandi sogni». Con lo stile del “piccolo”, quel piccolo, ha ricordato, che si ritrova nella celebrazione eucaristica: «un piccolo pezzo di pane, un po’ di vino...». In «questo “piccolo” c’è tutto. C’è il sogno di Dio, c’è il suo amore, c’è la sua pace, c’è la sua riconciliazione, c’è Gesù».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 09/09/2015]

Domenica, 31 Agosto 2025 02:03

Tre impegni, poca adrenalina

E preoccuparsi del numero

(Lc 14,25-33)

 

Gesù è preoccupato di vedere attorno a sé «molte folle» (v.25).

Inusuale che una proposta di dono totale e rischio dell’intera vita - beni, relazioni, prestigio, speranze - possa trovare consenso oceanico.

In effetti non sono pochi coloro che non sanno «dove» va. Non a prendere il potere e parteciparlo agli amici - insieme al bottino.

Il Signore è preoccupato (v.25) e deve ricominciare a insegnare. Avere tanti ammiratori è cosa strana per Chi propone d’implicarsi e non cedere all’indifferenza.

Ancora oggi il Maestro interpella, e c’incalza, punge.

Per coloro che fanno la scelta dell’amore gratuito, la prima disposizione è l’integrazione degli affetti, persino “famigliari”. Non per farci rinunciare a vivere.

Le cerchie possono staccarci dalle esigenze sconfinate d’un rapporto tra persone che condividono grandi ideali oltre confine.

Sentimenti e legami vanno ricollocati; devono acquistare una luce nuova.

Nessuno è tanto eroe da riuscire a non pensare più a se stesso e i suoi, ma subentra una dimensione prospettica, nell’esperienza di un Padre che provvede a creare svolte più sapienti.

Tutte le logiche di buonsenso assumono un altro significato.

Persino l’attaccamento alla propria immagine e reputazione: «prendere, sollevare, portare il braccio della Croce» [v.27: senso del verbo greco].

Era il momento della massima solitudine e percezione di fallimento.

Chi è agitato per l’opinione-attorno si limita, non inizia percorsi, non s’affida alle proprie doti e neppure le scopre; non impara a prendere il passo di ciò che avviene, né sovverte ciò che va detestato.

Il contrasto coi poteri forti che chiedono la solita fedeltà a doppio taglio, è semplicemente da mettere in conto.

 

Terzo “impegno” (v.33): i beni in eccesso servono solo per costruire Relazione. Questa è la soglia della Felicità: rende simili a Dio.

Affare assurdo, ma fonte di gioia incondizionata, che ci porta assai più dell’emozione. Quindi bisogna aprire bene gli occhi.

Perché in missione non si vive di adrenalina, ma di convinzioni che riflettono la vita intima e la pienezza di essere.

Chi ci mette la faccia deve però prima incontrare e misurare se stesso molto molto a fondo, perché egli va come in guerra (vv.31-32).

Qui non si scherza: i gendarmi dei clan consolidati sono capaci di tutto, per continuare a darsi importanza e occupare posizioni.

Si paga di persona. Non si partecipa di un corteo trionfale: piuttosto, si viene respinti.

Ma la Fede sostiene: crede che il Signore non eserciti soprusi, né voglia attorno testimoni rassegnati.

Il suo Sogno valica il buonsenso - per farci trasalire d’un imprevisto ‘pondus’ che ritroviamo gratis in cuore.

D’ora in poi non si mercanteggia più: questa la nuova Torre (vv.28-30) da costruire.

 

 

[23.a Domenica T.O. (anno C), 7 settembre 2025]

Domenica, 31 Agosto 2025 01:59

Tre impegni, poca adrenalina

E preoccuparsi del numero

(Lc 14,25-33)

 

Nel suo commento al Tao Tê Ching (vii) il maestro Ho-shang Kung scrive: «Il santo è privo di interessi personali e non si cura di darsi importanza: perciò può realizzare il suo interesse».

Gesù è preoccupato di vedere attorno a sé «molte folle» [v.25 testo greco]: avere tanti ammiratori è cosa strana per Chi propone d’implicarsi e non cedere all’indifferenza.

Inusuale che una proposta di dono totale e rischio dell’intera vita (beni, relazioni, prestigio, speranze) possa trovare consenso oceanico.

Davvero insolito, forse grottesco, che tanta gente desideri giocarsi tutto, persino la salute, per un ideale che in genere non “vende” granché.

Chi fa scelte autentiche sa bene che sequela Christi non è partecipare a un corteo trionfale.

In effetti non sono pochi coloro che non sanno «dove» va…

Non a prendere il potere e parteciparlo - accanto al bottino - agli amici della sua cerchia!

Nella migliore delle ipotesi lo hanno frainteso, immaginando di riuscire a sacralizzare un’esperienza tranquilla e senza scossoni - con Lui sul comodino.

Ovvero, pittoresca e brillante in società - intimista dentro (con Lui nel cuoricino). Tutte cappe che attenuano le sporgenze di principio.

Gesù si accorge di chi lo segue per motivi indotti, quasi di festival entusiasti, o addirittura venali, opportunisti, e vuole solo spartirsi il malloppo del nuovo Re della Città santa. 

Comprende per quale motivo si ritrova attorno tanti assiepati. Non hanno colto che Dio è al di là della loro portata.

Ancora ai giorni nostri, le molte folle che partecipano agli appuntamenti della «Chiesa degli eventi» - direbbe Papa Francesco - meravigliano.

Per questo motivo, il Cristo invia e fa verifiche, interpella e continua a incitare lo sgretolamento di qualsiasi illusione riflessa, quietista, esterna, interessata o facilona - che però aggrega.

 

La prima disposizione d’animo che incalza e punge è l’integrazione degli affetti, persino “famigliari”. Non per farci rinunciare a vivere.

Essi possono staccarci dalle esigenze sconfinate d’un rapporto tra persone che condividono grandi ideali oltre confine.

L’intralcio di vecchi sentimenti e legami devono essere infatti ricollocati, acquistando una luce nuova.

Obbiettivo è l’autentica festa. Non l’utile e immediato; neppure le mortificazioni devote o l’astratto perfezionismo di chi insegue atti di forza concitati e artificiosi.

Nessuno è tanto eroe da riuscire a non pensare più a se stesso e i suoi, ma subentra una dimensione prospettica; nonché l’esperienza del Padre, che provvede a creare svolte più sapienti.

Tutte le logiche di buonsenso ed equilibrio vengono valorizzate, eppure assumono un altro significato. In vista di un Amore nel quale ogni altro bene acquista pieno valore.

 

Persino l’attaccamento alla propria immagine e reputazione: «prendere, sollevare e portare il braccio della Croce» [v.27 senso del verbo greco].

Era il momento della massima solitudine e percezione di fallimento, personale, religioso, sociale.

Chi è agitato per l’opinione-attorno si limita, non inizia percorsi, non s’affida alle proprie doti e neppure le scopre; non impara a prendere il passo di ciò che avviene, né sovverte ciò che va detestato.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti (n.187, «I sacrifici dell’amore») si potrebbe dire che proprio «a partire da lì, le vie che si aprono sono diverse da quelle d’un pragmatismo senz’anima».

 

Non basta accettare le normali contrarietà.

 

Non possono essere in sequela Christi coloro che permangono attaccati all’idolo delle aspettative tranquille, del look, delle folle inneggianti e dell’opinione (tonificante) altrui.

Bugie, ma in fondo preziose - a rovescio. Perché non è questo l’entusiasmo che cerchiamo.

Lo sperimentiamo dentro: la brama di prestigio non ascolta gli autentici bisogni, non reinventa il presente.

La soggezione al timore del disprezzo sociale [questa la proposta della Croce] non costruisce la sorte di svolta che ci appartiene; la perde.

Malgrado il concitato vociare delle apparenze esteriori, nel giudizio dei Vangeli i conformisti e qualunquisti non scorgono il Sacro autentico.

 

La Parola di Dio non dichiara Fede certa “quanto ci serve” o quel che si riesce a “vendere”.

La disciplina e il discernimento tradizionali - ma anche le grandi idee disincarnate del pensiero modaiolo - mai vorranno rendere importante ciò che caratterizza la donna e l’uomo reali.

Secondo le attuali sofisticazioni, eventualmente, prima costoro dovranno accontentarsi d’essere numeri, ricalcare la consuetudine, adeguarsi.

In tal guisa, a prima vista il testimone critico potrebbe sembrare sbagliato o non equiparato: bisognerebbe allinearsi - non siamo per una ecclesiologia di comunione?.

Ma lo chiede la stessa convivialità delle differenze, anche in una medesima Famiglia.

Ciò che vale è sintonia che recupera tutto l’essere umano, compresi i poli opposti.

Essi ci completano, e dovranno prima o poi scendere in campo; sebbene non corrispondano al tratto fondamentale di ogni carattere.

Lo vediamo: personaggi che per non sentirsi svalutati e poco apprezzati si riadattano a tutte le stagioni - ma solo per assestarsi.

Non valorizzano le loro stesse contraddizioni energetiche… con l’unico scopo di vivacchiare.

Pensano: quando la vita sembra essere più forte di noi, tanto vale pareggiarsi - senza mai tentare di oggettivare le proprie più intime aspirazioni, inedite, personali, sproporzionate.

 

L’appuntamento con l’Imprevisto non s’accontenta di cose ordinate, artificiose, o cerebrali e schematiche, le quali attenuano il potenziale di crescita.

Siamo costretti a rimettere in circolo forze, virtù, risorse, persino quelle più aguzze, eccentriche e imprevedibili - che neppure pensavamo di avere.

Il contrasto coi poteri forti che chiedono la solita fedeltà a doppio taglio, e l’avversione degl’inquilini dei castelli di cartapesta, è semplicemente da mettere in conto.

Il potere cerca utili idioti e portaborse servili, non Apostoli che amano le variegate espressioni della vita.

Apparteniamo a un altro pianeta: non c’interessa la carriera, la gestione e la considerazione, ma la Chiamata per Nome, che attiva capacità sconosciute - quelle che moltiplicano energie e rimettono in moto.

Non c’è strada alternativa migliore, per superare anche l’emergenza globale, che attanaglia la vita odierna e il mondo: ci sta chiedendo di rigenerare, non di tornare come prima.

 

Terzo “impegno” (v.33): i beni in eccesso servono solo per costruire Relazione. Questa è la soglia della Felicità: rende simili a Dio.

Affare assurdo, ma fonte di gioia incondizionata, che ci porta assai più dell’emozione. Quindi bisogna aprire bene gli occhi.

Perché in missione non si vive di adrenalina, ma di convinzioni che riflettono la vita intima e la pienezza di essere - condizione celeste.

Non sogneremo più di cambiare smartphone, né la riga o lo strappo dei pantaloni, e divertirci comunque: allargheremo spazi, inventeremo strade, pianteremo un germe di società alternativa.

Chi ci mette la faccia per rendere saggio e trasparente il mondo anche ecclesiastico, deve però prima incontrare e misurare se stesso molto molto a fondo, perché egli va come in guerra (vv.31-32).

Anche per questo bisogna imparare a mettere in gioco una mente tutta nuova e non limitarsi a pettinare ninnoli da salotto, come fossimo presi dallo squallore delle rincorse - invece che da Mete struggenti e sacre.

Qui non si scherza: i gendarmi e i diversi clan consolidatissimi a guardia del loro antico o à la page sono capaci di tutto il peggio che c’è, per continuare a darsi importanza e occupare posizioni che contano, e rendono.

Si paga di persona. Si viene respinti. Ma la Fede sostiene: crede che il Signore non eserciti soprusi, né voglia attorno seguaci rassegnati.

Il suo Sogno valica il buon senso - per farci trasalire d’un imprevisto pondus che ritroviamo gratis in cuore.

 

A commento del Tao xxvi, il maestro Wang Pi scrive: «Perdere il fondamento è perdere la persona».

E il maestro Ho-shang Kung aggiunge: «Se il sovrano è leggero e arrogante perde i suoi ministri, se chi governa la sua persona è leggero e licenzioso perde l’essenza».

 

Comodino, cuoricino, esteriorità e bottino sono aspettative puerili.

D’ora in poi non si mercanteggia più: questa la nuova Torre (vv.28-30) da costruire.

Domenica, 31 Agosto 2025 01:51

Ci spaventiamo?

Cari fratelli e sorelle!

Sine dominico non possumus!” Senza il dono del Signore, senza il Giorno del Signore non possiamo vivere: così risposero nell’anno 304 alcuni cristiani di Abitene nell’attuale Tunisia quando, sorpresi nella Celebrazione eucaristica domenicale, che era proibita, furono portati davanti al giudice e fu loro chiesto perché avevano tenuto di Domenica la funzione religiosa cristiana, pur sapendo che questo era punito con la morte. “Sine dominico non possumus”. Nella parola dominicum/dominico sono indissolubilmente intrecciati due significati, la cui unità dobbiamo nuovamente imparare a percepire. C’è innanzitutto il dono del Signore – questo dono è Lui stesso: il Risorto, del cui contatto e vicinanza i cristiani hanno bisogno per essere se stessi. Questo, però, non è solo un contatto spirituale, interno, soggettivo: l’incontro col Signore si iscrive nel tempo attraverso un giorno preciso. E in questo modo si iscrive nella nostra esistenza concreta, corporea e comunitaria, che è temporalità. Dà al nostro tempo, e quindi alla nostra vita nel suo insieme, un centro, un ordine interiore. Per quei cristiani la Celebrazione eucaristica domenicale non era un precetto, ma una necessità interiore. Senza Colui che sostiene la nostra vita, la vita stessa è vuota. Lasciar via o tradire questo centro toglierebbe alla vita stessa il suo fondamento, la sua dignità interiore e la sua bellezza.

Ha rilevanza questo atteggiamento dei cristiani di allora anche per noi cristiani di oggi? Sì, vale anche per noi, che abbiamo bisogno di una relazione che ci sorregga e dia orientamento e contenuto alla nostra vita. Anche noi abbiamo bisogno del contatto con il Risorto, che ci sorregge fin oltre la morte. Abbiamo bisogno di questo incontro che ci riunisce, che ci dona uno spazio di libertà, che ci fa guardare oltre l’attivismo della vita quotidiana verso l’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino.

Se, tuttavia, prestiamo ora ascolto all’odierno brano evangelico, al Signore che in esso ci parla, ci spaventiamo. “Chi non rinuncia ad ogni sua proprietà e non lascia anche tutti i legami familiari, non può essere mio discepolo.” Vorremmo obiettare: ma cosa stai dicendo, Signore? Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? E non occorrono forse anche persone che investano nei beni di questo mondo ed edifichino la terra che ci è stata data, cosicché tutti possano aver parte dei suoi doni? Non ci è stato affidato forse anche il compito di provvedere allo sviluppo della terra e dei suoi beni? Se ascoltiamo meglio il Signore e soprattutto lo ascoltiamo nell’insieme di tutto ciò che Egli ci dice, allora comprendiamo che Gesù non esige da tutti la stessa cosa. Ognuno ha il suo compito personale e il tipo di sequela progettato per lui. Nel Vangelo di oggi Gesù parla direttamente di ciò che non è compito dei molti che gli si erano associati nel pellegrinaggio verso Gerusalemme, ma che è chiamata particolare dei Dodici. Questi devono innanzitutto superare lo scandalo della Croce e devono poi essere pronti a lasciare veramente tutto ed accettare la missione apparentemente assurda di andare sino ai confini della terra e, con la loro scarsa cultura, annunciare ad un mondo pieno di presunta erudizione e di formazione fittizia o vera – come certamente in particolare anche ai poveri e ai semplici – il Vangelo di Gesù Cristo. Devono essere pronti, sul loro cammino nella vastità del mondo, a subire in prima persona il martirio, per testimoniare così il Vangelo del Signore crocifisso e risorto. Se la parola di Gesù in questo pellegrinaggio verso Gerusalemme, in cui una gran folla lo accompagna, è rivolta anzitutto ai Dodici, la sua chiamata naturalmente raggiunge, al di là del momento storico, tutti i secoli. In tutti i tempi Egli chiama delle persone a contare esclusivamente su di Lui, a lasciare tutto il resto e ad essere totalmente a sua disposizione e così a disposizione degli altri: a creare delle oasi di amore disinteressato in un mondo, in cui tanto spesso sembrano contare solo il potere ed il denaro. Ringraziamo il Signore, perché in tutti i secoli ci ha donato uomini e donne che per amor suo hanno lasciato tutto il resto, rendendosi segni luminosi del suo amore!  Basti pensare a persone come Benedetto e Scolastica, come Francesco e Chiara di Assisi, Elisabetta di Turingia e Edvige di Slesia, come Ignazio di Loyola, Teresa di Avila fino a Madre Teresa di Calcutta e Padre Pio! Queste persone, con l’intera loro vita, sono diventate un’interpretazione della parola di Gesù, che in loro si rende vicina e comprensiva per noi. E preghiamo il Signore, affinché anche nel nostro tempo doni a tante persone il coraggio di lasciare tutto, per essere così a disposizione di tutti.

Se, però, ci dedichiamo ora di nuovo al Vangelo, possiamo accorgerci che il Signore non vi parla solo di alcuni pochi e del loro compito particolare; il nocciolo di ciò che Egli intende vale per tutti. Di che cosa si tratti in ultima istanza, lo esprime un’altra volta così: “Chi  vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9, 24s). Chi vuol soltanto possedere la propria vita, prenderla solo per se stesso, la perderà. Solo chi si dona riceve la sua vita. Con altre parole: solo colui che ama trova la vita. E l’amore richiede sempre l’uscire da se stessi, richiede sempre di lasciare se stessi. Chi si volge indietro per cercare se stesso e vuol avere l’altro solo per sé, perde proprio in questo modo se stesso e l’altro. Senza questo più profondo perdere se stesso non c’è vita. L’irrequieta brama di vita che oggi non dà pace agli uomini finisce nel vuoto della vita persa. “Chi perderà la propria vita per me…”, dice il Signore: un lasciare se stessi in modo più radicale è possibile solo se con ciò alla fine non cadiamo nel vuoto, ma nelle mani dell’Amore eterno. Solo l’amore di Dio, che ha perso se stesso per noi consegnandosi a noi, rende possibile anche a noi di diventare liberi, di lasciar perdere e così trovare veramente la vita. Questo è il centro di ciò che il Signore vuole comunicarci nel brano evangelico apparentemente così duro di questa Domenica. Con la sua parola Egli ci dona la certezza che possiamo contare sul suo amore, sull’amore del Dio fatto uomo. Riconoscere questo è la saggezza di cui ci ha parlato la prima lettura. Vale, infatti, anche qui che tutto il sapere del mondo non ci giova a nulla, se non impariamo a vivere, se non apprendiamo che cosa conta veramente nella vita.

Sine dominico non possumus!”. Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La Domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l’insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea. Il tempo libero necessita di un centro – l’incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di München und Freising, il Cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: “Dà all’anima la sua Domenica, dà alla Domenica la sua anima”.

Proprio perché nella Domenica si tratta in profondità dell’incontro, nella Parola e nel Sacramento, con il Cristo risorto, il raggio di tale giorno abbraccia la realtà intera. I primi cristiani hanno celebrato il primo giorno della settimana come Giorno del Signore, perché era il giorno della risurrezione. Ma molto presto la Chiesa ha preso coscienza anche del fatto che il primo giorno della settimana è il giorno del mattino della creazione, il giorno in cui Dio disse: “Sia la luce!” (Gn 1,3). Per questo la Domenica è nella Chiesa anche la festa settimanale della creazione – la festa della gratitudine e della gioia per la creazione di Dio. In un’epoca, in cui, a causa dei nostri interventi umani, la creazione sembra esposta a molteplici pericoli, dovremmo accogliere coscientemente proprio anche questa dimensione della Domenica. Per la Chiesa primitiva, il primo giorno ha poi assimilato progressivamente anche l’eredità del settimo giorno, dello šabbat. Partecipiamo al riposo di Dio, un riposo che abbraccia tutti gli uomini. Così percepiamo in questo giorno qualcosa della libertà e dell’uguaglianza di tutte le creature di Dio.

Nell’orazione di questa Domenica ricordiamo innanzitutto che Dio, mediante il suo Figlio, ci ha redenti e adottati come figli amati. Poi lo preghiamo di guardare con benevolenza i credenti in Cristo e di donarci la vera libertà e la vita eterna. Preghiamo per lo sguardo di bontà di Dio. Noi stessi abbiamo bisogno di questo sguardo di bontà, al di là della Domenica, fin nella vita di ogni giorno. Nel pregare sappiamo che questo sguardo ci è già stato donato, anzi, sappiamo che Dio ci ha adottato come figli, ci ha accolto veramente nella comunione con se stesso. Essere figlio significa – lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva – essere una persona libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora siamo senza paura e liberi, e allora siamo eredi. L’eredità che Egli ci ha lasciato è Lui stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa’ che questa consapevolezza ci penetri profondamente nell’anima e che impariamo così la gioia dei redenti. Amen.

[Papa Benedetto, omelia Vienna 9 settembre 2007]

Domenica, 31 Agosto 2025 01:45

Albero della Vita

Il Cristianesimo ha nella Croce il suo simbolo principale. Dovunque il Vangelo ha posto radici, la Croce sta ad indicare la presenza dei cristiani. Nelle chiese e nelle case, negli ospedali, nelle scuole, nei cimiteri la Croce è diventata il segno per eccellenza di una cultura che attinge dal messaggio di Cristo verità e libertà, fiducia e speranza.

Nel processo di secolarizzazione, che contraddistingue gran parte del mondo contemporaneo, è quanto mai importante che i credenti fissino lo sguardo su questo segno centrale della Rivelazione e ne colgano il significato originario e autentico.

2. Anche oggi, alla scuola degli antichi Padri, la Chiesa presenta al mondo la Croce quale "albero della vita", dal quale si può cogliere il senso ultimo e pieno di ogni singola esistenza e dell’intera storia umana.

Da quando Gesù ne ha fatto lo strumento della salvezza universale, la Croce non è più sinonimo di maledizione ma, al contrario, di benedizione. All’uomo tormentato dal dubbio e dal peccato, essa rivela che "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). In una parola, la Croce è il supremo simbolo dell’amore.

Per questo, i giovani cristiani la portano con fierezza per le strade del mondo, confidando a Cristo ogni loro preoccupazione ed ogni attesa di libertà, di giustizia, di pace.

[Papa Francesco, Angelus 15 settembre 2002]

Domenica, 31 Agosto 2025 01:28

Non vuole illudere

Nel Vangelo di oggi Gesù insiste sulle condizioni per essere suoi discepoli: non anteporre nulla all’amore per Lui, portare la propria croce e seguirlo. Molta gente infatti si avvicinava a Gesù, voleva entrare tra i suoi seguaci; e questo accadeva specialmente dopo qualche segno prodigioso, che lo accreditava come il Messia, il Re d’Israele. Ma Gesù non vuole illudere nessuno. Lui sa bene che cosa lo attende a Gerusalemme, qual è la via che il Padre gli chiede di percorrere: è la via della croce, del sacrificio di se stesso per il perdono dei nostri peccati. Seguire Gesù non significa partecipare a un corteo trionfale! Significa condividere il suo amore misericordioso, entrare nella sua grande opera di misericordia per ogni uomo e per tutti gli uomini. L’opera di Gesù è proprio un’opera di misericordia, di perdono, di amore! È tanto misericordioso Gesù! E questo perdono universale, questa misericordia, passa attraverso la croce. Gesù non vuole compiere questa opera da solo: vuole coinvolgere anche noi nella missione che il Padre gli ha affidato. Dopo la risurrezione dirà ai suoi discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi … A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,21.22). Il discepolo di Gesù rinuncia a tutti i beni perché ha trovato in Lui il Bene più grande, nel quale ogni altro bene riceve il suo pieno valore e significato: i legami familiari, le altre relazioni, il lavoro, i beni culturali ed economici e così via… Il cristiano si distacca da tutto e ritrova tutto nella logica del Vangelo, la logica dell’amore e del servizio.

Per spiegare questa esigenza, Gesù usa due parabole: quella della torre da costruire e quella del re che va alla guerra. Questa seconda parabola dice così: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace» (Lc 14,31-32). Qui Gesù non vuole affrontare il tema della guerra, è solo una parabola. Però, in questo momento in cui stiamo fortemente pregando per la pace, questa Parola del Signore ci tocca sul vivo, e in sostanza ci dice: c’è una guerra più profonda che dobbiamo combattere, tutti! È la decisione forte e coraggiosa di rinunciare al male e alle sue seduzioni e di scegliere il bene, pronti a pagare di persona: ecco il seguire Cristo, ecco il prendere la propria croce! Questa guerra profonda contro il male! A che serve fare guerre, tante guerre, se tu non sei capace di fare questa guerra profonda contro il male? Non serve a niente! Non va… Questo comporta, tra l’altro, questa guerra contro il male comporta dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve; dire no alla violenza in tutte le sue forme; dire no alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Ce n’è tanto! Ce n’è tanto! E sempre rimane il dubbio: questa guerra di là, quest’altra di là - perché dappertutto ci sono guerre - è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale? Questi sono i nemici da combattere, uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune.

[Papa Francesco, Angelus 8 settembre 2013]

Uno sguardo nel «buio».

Come ho già detto in precedenza molti poeti e scrittori hanno descritto il fluire dell’animo umano.

Eugenio Montale lo esprime in una sua poesia del 1925, sul male di vivere, fornendoci l’immagine di un ruscello che non riesce a far scorrere le sue acque, di una foglia accartocciata dal troppo calore, di un cavallo sfinito a terra.

Immagini che nella nostra mente non passano senza lasciare una riflessione e qualche interrogativo.

Momenti di “buio” nella nostra vita ce ne sono stati e forse ci saranno ancora.

Sensazioni di scoraggiamento e di non  sapere quale strada prendere - ognuno di noi lo ha sperimentato sulla propria pelle.

L’intensità e la durata del “buio” variano a seconda  delle circostanze e dalle capacità di reagire personali.

Di fronte a sconfitte o delusioni reagiamo in modo differente; ciò che disturba un soggetto, può lasciare un altro individuo del tutto indifferente.

Un incontro col “ buio” può essere usuale di fronte a gravi difficoltà come un lutto, la perdita del lavoro, l’insorgere di una malattia, la  fine di relazioni affettive, e altro.

Tale  stato d’animo è provvisorio e finisce spontaneamente, senza portare cambiamenti nella vita di una persona.

In casi diversi è bene non sottovalutare lo stato d’animo, perché potrebbe essere un segno di una sofferenza psicosomatica o psichica.

In questi casi spesso si provano delle sensazioni inspiegabili di preoccupazione, di apatia; e ci sentiamo più affaticati.

Ricordiamoci che la reazione al “buio” segue sovente un’esperienza traumatica, la quale in circostanze ordinarie della vita non avrebbe causato nessuna sensazione temporanea di cattivo umore.

Una reazione maggiore e più protratta nel tempo, una reazione che l’individuo non riesce a superare da solo, è una condizione non usuale.

Nelle persone anziane le scosse emotive possono far insorgere momenti di “buio” più facilmente che nei giovani.

Talora gli anziani vengono messi da parte, hanno meno relazioni sociali, e spesso ne viene a soffrire il loro prestigio; principalmente quando viene meno la speranza.

Ma anche gli adolescenti [con la loro precarietà] non sono immuni a questi momenti di inquietudine.

Non è vero che l’adolescenza è un periodo felice della vita; anzi, forse è uno dei più travagliati.

In questi momenti di “buio” che la clinica chiama «depressione», notiamo: le persone che attraversano questa fase riducono di molto le loro attività, hanno meno fiducia in se stessi, si intesseranno a poche cose.

Sono capaci di conservare il lavoro anche se devono intensificare gli sforzi. Di solito la memoria e il rapporto con la realtà non sono alterati - a meno che non è insorto uno stato grave («psicosi»).

Arieti parla della depressione che qui abbiamo chiamato “buio” come una combinazione di tristezza e pessimismo.

Quest’ultimo costituisce l’elemento essenziale della combinazione; l’idea non sana sta nel credere che ciò che è accaduto a una persona gli succederà sempre, o che lo stato d’animo in cui si trova non muterà mai.

Il disfattismo, l’illusione di saper cosa ci succederà in futuro, consolida la tristezza in “buio”.

Spesso il “buio” dell’anima viene scaricato sul corpo.

Possiamo subire perdita di peso, sensazioni di oppressione a livello cardiaco; diminuzione delle secrezioni corporee; insonnia; e sovente mal di testa.

Nel comportamento con gli altri il “buio” ci fa tendere a sfruttare e condizionare il prossimo; ci fa  essere poco inclini a essere persuasi. Difficilmente diamo soddisfazione al prossimo, e spesso l’ostilità ci invade.

Faber Andrew ha scritto una poesia intitolata ‘A chi sta attraversando il suo buio’…

Il poeta invita il lettore a «credere nella poesia. Negli occhi di chi quella strada l’ha già ritrovata».

Poi ancora: «C’è un cielo di qua che vi aspetta, con un panorama di sogni da togliere il fiato».

Per un poeta la poesia è la strada maestra, ma noi che non siamo poeti abbiamo qualcosa in cui Credere, e che costituisce il pilastro della nostra  realtà.

Ricordiamoci sempre che quando la notte raggiunge il suo punto più oscuro, lì inizia l’alba di un nuovo giorno.

 

Francesco Giovannozzi psicologo psicoterapeuta.

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«The Russian mystics of the first centuries of the Church gave advice to their disciples, the young monks: in the moment of spiritual turmoil take refuge under the mantle of the holy Mother of God». Then «the West took this advice and made the first Marian antiphon “Sub tuum Praesidium”: under your cloak, in your custody, O Mother, we are sure there» (Pope Francis)
«I mistici russi dei primi secoli della Chiesa davano un consiglio ai loro discepoli, i giovani monaci: nel momento delle turbolenze spirituali rifugiatevi sotto il manto della santa Madre di Dio». Poi «l’occidente ha preso questo consiglio e ha fatto la prima antifona mariana “Sub tuum praesidium”: sotto il tuo mantello, sotto la tua custodia, o Madre, lì siamo sicuri» (Papa Francesco)
The Cross of Jesus is our one true hope! That is why the Church “exalts” the Holy Cross, and why we Christians bless ourselves with the sign of the cross. That is, we don’t exalt crosses, but the glorious Cross of Christ, the sign of God’s immense love, the sign of our salvation and path toward the Resurrection. This is our hope (Pope Francis)
La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza (Papa Francesco)
The basis of Christian construction is listening to and the fulfilment of the word of Christ (Pope John Paul II)
Alla base della costruzione cristiana c’è l’ascolto e il compimento della parola di Cristo (Papa Giovanni Paolo II)
«Rebuke the wise and he will love you for it. Be open with the wise, he grows wiser still; teach the upright, he will gain yet more» (Prov 9:8ff)
«Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s)
These divisions are seen in the relationships between individuals and groups, and also at the level of larger groups: nations against nations and blocs of opposing countries in a headlong quest for domination [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia [Reconciliatio et Paenitentia n.2]
But the words of Jesus may seem strange. It is strange that Jesus exalts those whom the world generally regards as weak. He says to them, “Blessed are you who seem to be losers, because you are the true winners: the kingdom of heaven is yours!” Spoken by him who is “gentle and humble in heart”, these words present a challenge (Pope John Paul II)
È strano che Gesù esalti coloro che il mondo considera in generale dei deboli. Dice loro: “Beati voi che sembrate perdenti, perché siete i veri vincitori: vostro è il Regno dei Cieli!”. Dette da lui che è “mite e umile di cuore”, queste parole  lanciano una sfida (Papa Giovanni Paolo II)
The first constitutive element of the group of Twelve is therefore an absolute attachment to Christ: they are people called to "be with him", that is, to follow him leaving everything. The second element is the missionary one, expressed on the model of the very mission of Jesus (Pope John Paul II)

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