Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Una delle parabole narrate da Gesù sulla crescita del Regno di Dio sulla terra ci fa scoprire con molto realismo il carattere di lotta che il regno comporta, per la presenza e l’azione di un “nemico”, che “semina la zizzania (o gramigna) in mezzo al grano”. Dice Gesù che, quando “la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania”. I servi del padrone del campo vorrebbero strapparla, ma il padrone non glielo consente, “perché non succeda che . . . sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio” (Mt 13, 24-30). Questa parabola spiega la coesistenza e spesso l’intreccio del bene e del male nel mondo, nella nostra vita, nella stessa storia della Chiesa. Gesù ci insegna a veder le cose con realismo cristiano e a trattare ogni problema con chiarezza di principi, ma anche con prudenza e con pazienza. Ciò suppone una visione trascendente della storia, nella quale si sa che tutto appartiene a Dio e ogni esito finale è opera della sua Provvidenza. Non è però nascosta la sorte finale - di dimensione escatologica - dei buoni e dei cattivi: la simboleggiano la raccolta del grano nel deposito e la bruciatura della zizzania.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 25 settembre 1991]
L’odierna pagina evangelica propone tre parabole con le quali Gesù parla alle folle del Regno di Dio. Mi soffermo sulla prima: quella del grano buono e della zizzania, che illustra il problema del male nel mondo e mette in risalto la pazienza di Dio (cfr Mt 13,24-30.36-43). Quanta pazienza ha Dio! Anche ognuno di noi può dire questo: “Quanta pazienza ha Dio con me!”. Il racconto si svolge in un campo con due opposti protagonisti. Da una parte il padrone del campo che rappresenta Dio e sparge il buon seme; dall’altra il nemico che rappresenta Satana e sparge l’erba cattiva.
Col passare del tempo, in mezzo al grano cresce anche la zizzania, e di fronte a questo fatto il padrone e i suoi servi hanno atteggiamenti diversi. I servi vorrebbero intervenire strappando la zizzania; ma il padrone, che è preoccupato soprattutto della salvezza del grano, si oppone dicendo: «Non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano» (v. 29). Con questa immagine, Gesù ci dice che in questo mondo il bene e il male sono talmente intrecciati, che è impossibile separarli ed estirpare tutto il male. Solo Dio può fare questo, e lo farà nel giudizio finale. Con le sue ambiguità e il suo carattere composito, la situazione presente è il campo della libertà, il campo della libertà dei cristiani, in cui si compie il difficile esercizio del discernimento fra il bene e il male.
E in questo campo si tratta dunque di congiungere, con grande fiducia in Dio e nella sua provvidenza, due atteggiamenti apparentemente contradditori: la decisione e la pazienza. La decisione è quella di voler essere buon grano - tutti lo vogliamo -, con tutte le proprie forze, e quindi prendere le distanze dal maligno e dalle sue seduzioni. La pazienza significa preferire una Chiesa che è lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una Chiesa di “puri”, che pretende di giudicare prima del tempo chi sta nel Regno di Dio e chi no.
Il Signore, che è la Sapienza incarnata, oggi ci aiuta a comprendere che il bene e il male non si possono identificare con territori definiti o determinati gruppi umani: “Questi sono i buoni, questi sono i cattivi”. Egli ci dice che la linea di confine tra il bene e il male passa nel cuore di ogni persona, passa nel cuore di ognuno di noi, cioè: Siamo tutti peccatori. A me viene la voglia di chiedervi: “Chi non è peccatore alzi la mano”. Nessuno! Perché tutti lo siamo, siamo tutti peccatori. Gesù Cristo, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, ci ha liberato dalla schiavitù del peccato e ci dà la grazia di camminare in una vita nuova; ma con il Battesimo ci ha dato anche la Confessione, perché abbiamo sempre bisogno di essere perdonati dai nostri peccati. Guardare sempre e soltanto il male che sta fuori di noi, significa non voler riconoscere il peccato che c’è anche in noi.
E poi Gesù ci insegna un modo diverso di guardare il campo del mondo, di osservare la realtà. Siamo chiamati a imparare i tempi di Dio - che non sono i nostri tempi - e anche lo “sguardo” di Dio: grazie all’influsso benefico di una trepidante attesa, ciò che era zizzania o sembrava zizzania, può diventare un prodotto buono. E’ la realtà della conversione. E’ la prospettiva della speranza!
Ci aiuti la Vergine Maria a cogliere nella realtà che ci circonda non soltanto la sporcizia e il male, ma anche il bene e il bello; a smascherare l’opera di Satana, ma soprattutto a confidare nell’azione di Dio che feconda la storia.
[Papa Francesco, Angelus 23 luglio 2017]
(Mt 20,20-28)
L’Impero soggiogava il bacino mediterraneo con la forza delle Legioni.
Attraverso una vasta base di schiavi e tributi, esso concentrava titoli e ricchezze in mano a piccole cerchie - con abuso di potere e coercizioni.
Il nuovo Regno dev’essere germe di società alternativa.
Il perno sarà riappropriarsi di una sorta di sintesi della vita di Gesù per farla propria, come espressa nel v.28.
Sono qui enunciati tre titoli che hanno dato inizio alla Cristologia:
«Figlio dell’uomo» è Colui che ha manifestato l’uomo nella condizione divina: pienezza di umanità che riflette e rivela la stessa vita intima di Dio.
Figura di una “santità” accessibile e trasmissibile, tutta incarnata - perfino sommaria.
Figlio dell’uomo è infatti lo sviluppo autentico e pieno della persona secondo il Sogno attivo del Padre, che spazza via il «Giogo» ossessivo della Religione comune - dilatando la vita (e i confini dell’ego).
Nell’adesione al «Figlio dell’uomo» siamo introdotti come protagonisti nella storia della salvezza.
Collaboratori nell’apice della Creazione - ossia nel processo dell’amore. E veniamo distaccati dal pre-umano delle competizioni [condizione belluina per brama di supremazie].
«Servo» di Yahweh: Giusto che patisce pene d’Amore, per farci salvi - icona della forza dimessa e sapiente del Padre che attraverso i figli si esprime non come vincitore, ma al pari di agnello mansueto.
Icona sacrificale - nel senso antico di «sacrum facere», rendere Sacro - per risollevare un popolo incapace di andare a Dio attraverso i fratelli.
Nel giudaismo la ‘morte del giusto’ - persino nella dimensione giuridica della Torah - era pari a un riscatto, già inteso come riparazione-espiazione per la moltitudine (v.28) dei colpevoli (cf. Is 53,11-12).
In Cristo svanisce il meccanismo vicario: il Padre invia il Figlio non come vittima esterna o propiziatoria, necessaria e predestinata, bensì per farci riflettere, primo passo della umanizzazione.
Così recuperando la dimensione di consapevolezza e Comunione [ossia convivialità delle differenze].
Quindi: unico titolo di “preminenza” resta quello di «Go’el»: farsi (ciascuno) «Parente prossimo» che si accolla ogni debito per il riscatto altrui, per il ripristino in dignità personale - e totale possesso di sé.
Piena fraternità con la donna e l’uomo di ogni condizione: dovrebbe essere il programma crescente dell’apostolo.
Malgrado la sproporzione, solo questo rivolgimento di Volto sta al centro della storia e non abbassa Dio al livello del banale ‘dominio’.
Capovolgimento e Libertà che si fa programma permanente di solidarietà fattiva, e stimola il fervore.
Principio determinante del nuovo Regno, dove non si rincorrono ambizioni.
Piuttosto, si condivide la sorte del Maestro, ossia «bere il medesimo Calice» (vv.22-23) e il destino di realizzazione altrui; anche paradossale.
In Cristo, il popolo della Chiesa-Famiglia procede verso Gerusalemme, senza meriti né funzioni che accampino un diritto - ma con le chiavi della ‘vita’.
È così che ci si trova concretamente «a destra e sinistra» (vv.21.23) del regale Crocifisso - e nell’Unione mistica col Risorto piagato.
Salendo assieme.
[S. Giacomo Apostolo, 25 luglio]
L’anti-ambizione o la prima fila nel modello dei satrapi
(Mt 20,20-28)
In via non ufficiale, Pio VII ci provò a sollevare il triregno (stile neoclassico, inusuale) regalato da Napoleone, ma i suoi paggi quasi non riuscivano a tirarlo su... per il peso.
Figuriamoci sopportare in testa 8 chili e 200 grammi! Provò tuttavia anche a infilarselo, mentre ovviamente qualcuno lo sosteneva anche di lato [immagina se fosse caduto sulle pantofole rosse].
Ma risultava pure troppo stretto: impossibile ficcarci la testa!
Per dispetto, Bonaparte novello imperatore glielo aveva fatto confezionare in modo che nessun Papa potesse mai fregiarsene; e così fu, l’ironico pezzo da museo.
La formula d’imposizione era: «Ricevi la Tiara ornata di tre corone, e sappi che Tu sei Padre dei Principi e dei Re, Reggitore del mondo, Vicario in terra del Salvatore Nostro Gesù Cristo, cui è onore e gloria nei secoli dei secoli». Amen.
Mentre tra sinfonie e cori qualcuno attendeva proprio il momento della tiara per lagrimare un poco sugli antichi fasti, alla celebrazione della riapertura del Concilio - dopo l’incoronazione - Paolo VI depose definitivamente il triregno sull’altare papale.
Se lo tolse con soddisfazione, non perché fosse poco confortevole (aveva sul capo ben 4 chili e mezzo): in seguito fece anche altri gesti d’inattesa rinuncia con pretese a farsi ossequiare.
Dopo di lui nessun Papa ebbe il coraggio di adornarsene.
Occasione ghiotta: imperdibile per chi aveva vasta esperienza degli ambienti curiali e diplomatici.
Con in pugno le chiavi del Cielo, le briglie della terra e il comando del Purgatorio [le tre corone], il pontefice decise di far salire diverse vampe da sottoterra - per surriscaldare gli strapuntini di qualche carrierista da strascico, abituato a dirigere le anime stando sopra un qualsiasi purchessia tronetto.
Papa Francesco parla esplicitamente del clericalismo come radice di tutti i mali morali della Chiesa [se non ci capita la grazia del principato, non sarebbe male aspirare almeno ai ruoli di coloro che stanno a fianco dei capi: v.21].
Al pari dell’ambizione dei figli di Zebedeo, fra noi è tutto uno sgomitare per un posto al sole - gravissima e radicale carenza, incapace di qualsiasi attività di profezia critica.
Un falso concetto del Regno: per questo l’aereo è spesso fuori rotta, e ciò non depone a favore dei dirigenti ambiziosi, sempre stranamente in gara.
(Mai ridimensionarsi e lasciare che fedeli o confratelli ci considerino degli idioti che non “mietono” e quindi non sanno stare al mondo).
Ufficialmente uniti all’Offerta del Figlio Servitore, di fatto non tutti credono che nella debolezza del credente risalti la Potenza divina e l’autentica Stima che edifica la trama del presente e lancia il futuro.
Altro che sognatori dell’isola che non c’è: a moltissimi sembra più dignitoso presumere di sé.
Meglio pensare che la Croce gloriosa del Cristo sia una parentesi momentanea e tutta unicamente sua, frutto d’un piano prestabilito o di un destino cieco, affinché l’umiliazione del farsi piccoli non ci tocchi.
Dietro le buone maniere, ecco serpeggiare pessime abitudini - e la bramosia, che attraverso privilegi fissi guida le chiese alla perdita di senso e coesione.
Con strascico di vitalizi [prebende e titoli a vita, senza possibilità di ricambio ministeriale, né controlli e riassetto].
Chi mira alla visibilità e ai tronetti non ha alcun interesse reale per le persone, salvo per la sua élite di cooptati.
Pensa calcolando e agisce secondo vanità: mostrando il proprio rango “spirituale”, con artificioso senso dell’onore, e preminenze, arroganza, tornaconto di giro.
Figuriamoci la qualità imperscrutabile di proposte pastorali private della convinzione di un’altra Attesa, illuminante. Talora allestite per un maggior brillare esterno, e autocompiacersi; promuovere numeri, mostrarsi in vetrina, e passerelle.
L’Impero soggiogava il bacino mediterraneo con la forza delle Legioni. Attraverso una vasta base di schiavi e tributi, esso concentrava titoli e ricchezze in mano a piccole cerchie - con abuso di potere e coercizioni.
Il nuovo Regno dev’essere germe di società alternativa.
E quando l’archetipo della Chiesa piramidale salterà, vittima delle sue contraddizioni interne, dovremo essere pronti a porgere alle persone un modello di convivenza che non si disintegri più [coi suoi stessi boomerang].
Il perno sarà riappropriarsi di una sorta di sintesi della vita di Gesù per farla propria, come espressa nel v.28.
Sono qui enunciati tre titoli che hanno dato inizio alla Cristologia:
«Figlio dell’uomo» è Colui che ha manifestato l’uomo nella condizione divina: pienezza di umanità che riflette e rivela la stessa vita intima di Dio.
Figura di una “santità” accessibile e trasmissibile, tutta incarnata - perfino sommaria.
Figlio dell’uomo è infatti lo sviluppo autentico e pieno della persona secondo il Sogno attivo del Padre, che spazza via il «Giogo» ossessivo della Religione comune - dilatando la vita (e i confini dell’ego).
Nell’adesione al «Figlio dell’uomo» siamo introdotti come protagonisti nella storia della salvezza.
Collaboratori nell’apice della Creazione - ossia nel processo dell’amore. E veniamo distaccati dal pre-umano delle competizioni [condizione belluina per brama di supremazie].
«Servo» di Yahweh: Giusto che patisce pene d’Amore, per farci salvi - icona della forza dimessa e sapiente del Padre che attraverso i figli si palesa non come vincitore, ma al pari di agnello mansueto.
Icona sacrificale - nel senso antico di «sacrum facere», rendere Sacro - per risollevare un popolo incapace di andare a Dio attraverso i fratelli.
Nel giudaismo la morte del giusto - persino nella dimensione giuridica della Torah - era pari a un riscatto, già inteso come riparazione-espiazione per la moltitudine (v.28) dei colpevoli (cf. Is 53,11-12).
In Cristo svanisce il meccanismo vicario: il Padre invia il Figlio non come vittima esterna o propiziatoria, necessaria e predestinata, bensì per farci riflettere, primo passo della umanizzazione.
Così recuperando la dimensione di consapevolezza e Comunione [ossia convivialità delle differenze].
Quindi: unico titolo di “preminenza” resta quello di «Go’el»: farsi (ciascuno) «Parente prossimo» che si accolla ogni debito per il riscatto altrui, per il ripristino in dignità personale e totale possesso di sé.
Piena fraternità con la donna e l’uomo di ogni condizione dovrebbe essere il programma crescente dell’apostolo.
Insolito strumento di “eccellenza“ o “eminenza” - eppure francamente sapienziale, secondo natura:
Anche il Tao Tê Ching (LII) afferma: «Illuminazione, è vedere il piccolo; forza, è attenersi alla mollezza».
Malgrado la sproporzione, solo questo rivolgimento di Volto sta al centro della storia e non abbassa Dio al livello del banale dominio.
Capovolgimento e Libertà che si fa programma permanente di solidarietà fattiva, e stimola il fervore.
Principio determinante del nuovo Regno, dove non si rincorrono ambizioni.
Piuttosto, si condivide la sorte del Maestro, ossia «bere il medesimo Calice» (vv.22-23) e il destino di realizzazione altrui, anche paradossale.
In Cristo, il popolo della Chiesa-Famiglia procede verso Gerusalemme, senza meriti né funzioni che accampino un diritto - ma con le chiavi della vita.
È così che ci si trova concretamente «a destra e sinistra» (vv.21.23) del regale Crocifisso - e nell’Unione mistica col Risorto piagato.
Salendo assieme.
Gesù si presenta come servo, offrendosi quale modello da imitare e da seguire. Dallo sfondo del terzo annuncio della passione, morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, si stacca con stridente contrasto la scena dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che inseguono ancora sogni di gloria accanto a Gesù. Essi gli chiesero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Folgorante è la replica di Gesù e inatteso il suo interrogativo: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo?» (v. 38). L’allusione è chiarissima: il calice è quello della passione, che Gesù accetta per attuare la volontà del Padre. Il servizio a Dio e ai fratelli, il dono di sé: questa è la logica che la fede autentica imprime e sviluppa nel nostro vissuto quotidiano e che non è invece lo stile mondano del potere e della gloria.
Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che - secondo il Maestro - deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni. E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche «gli altri dieci» apostoli che «cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca, san Cirillo di Alessandria aggiunge: «I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri … Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà» (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e «chiamarli a sé», quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-44).
Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita a indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua stessa carne.
[Papa Benedetto, allocuzione al Concistoro 18 febbraio 2012]
San Giacomo!
Sono qui, nuovamente, presso il tuo sepolcro
al quale mi avvicino oggi,
pellegrino da tutte le strade del mondo,
per onorare la tua memoria ed implorare la tua protezione.
Giungo dalla Roma luminosa e perenne,
fino a te che ti sei fatto pellegrino sulle orme di Cristo
ed hai portato il suo nome e la sua voce
fino a questo confine dell’universo.
Vengo dai luoghi di Pietro
e, quale suo successore, porto a te
che sei con lui colonna della Chiesa,
l’abbraccio fraterno che viene dai secoli
ed il canto che risuona fermo ed apostolico nella cattolicità.
Viene con me, san Giacomo, un immenso fiume giovanile
nato dalle sorgenti di tutti i paesi della terra.
Qui lo trovi, unito e sereno alla tua presenza,
ansioso di rinnovare la sua fede nell’esempio vibrante della tua vita.
Veniamo a questa soglia benedetta in animato pellegrinaggio.
Veniamo immersi in questo copioso esercito
che sin dalle viscere dei secoli è venuto portando le genti fino a questa Compostela
dove tu sei pellegrino ed ospite, apostolo e patrono.
E giungiamo qui al tuo cospetto perché andiamo uniti nel cammino.
Camminiamo verso la fine di un millennio
che desideriamo sigillare con il sigillo di Cristo.
Camminiamo ancora oltre, verso l’inizio di un millennio nuovo
che desideriamo aprire nel nome di Dio.
San Giacomo,
abbiamo bisogno per il nostro pellegrinaggio
del tuo ardore e del tuo coraggio.
Per questo veniamo a chiederteli
fino a questo “finis-terrae” delle tue imprese apostoliche.
Insegnaci, Apostolo ed amico del Signore,
la via che porta a lui.
Aprici, predicatore delle Spagne,
alla verità che hai imparato dalle labbra del Maestro.
Dacci, testimone del Vangelo,
la forza di amare sempre la vita.
Mettiti tu, patrono dei pellegrini,
alla testa del nostro pellegrinaggio di cristiani e di giovani.
E come i popoli all’epoca camminarono verso di te,
vieni tu in pellegrinaggio con noi incontro a tutti i popoli.
Con te, san Giacomo apostolo e pellegrino,
desideriamo insegnare alle genti d’Europa e del mondo
che Cristo è - oggi e sempre -
la via, la verità e la vita.
[Papa Giovanni Paolo II, preghiera alla tomba di s. Giacomo, Santiago 19 agosto 1989]
[Ha preso il via a Santiago di Compostela, nella regione della Galizia, in Spagna, l'Anno giubilare 2021 dedicato all'Apostolo Giacomo le cui spoglie, conservate nella Cattedrale, sono visitate da innumerevoli pellegrini. Nel messaggio inviato da Francesco l'invito ad un cammino di conversione e di solidarietà con i propri compagni di strada].
Si è aperto il 31 dicembre 2020, l'Anno Compostelano, un giubileo che si indice per l'anno in cui il giorno 25 luglio, memoria di san Giacomo martire, cade di domenica. Così, infatti, accadrà nel 2021. Il tema dell'evento è "Esci dalla tua terra! L'apostolo ti aspetta". L'annuncio dell'arcivescovo di Santiago de Compostela, monsignor Julián Barrio Barrio a tutti i fedeli, parla di "un anno di grazia e di perdono" per tutti coloro che vorranno partecipare. "In questo terzo Anno Santo compostelano del terzo millennio del cristianesimo - prosegue l'arcivescovo - la coraggiosa testimonianza dell'apostolo San Giacomo è un'occasione per riscoprire la vitalità della fede e della missione, ricevuta al Battesimo.
Il messaggio di Papa Francesco all'apertura della Porta Santa
Ed è a monsignor Julián Barrio Barrio che si rivolge il messaggio che Papa Francesco ha inviato in occasione dell'apertura della Porta Santa, per esprimere l’affetto e la vicinanza “a tutti coloro che partecipano a questo momento di grazia per tutta la Chiesa, e in particolare per la Chiesa in Spagna e in Europa”. “Seguendo le orme dell'Apostolo – scrive Papa Francesco - lasciamo il nostro sé, quelle sicurezze a cui ci aggrappiamo, ma con un obiettivo chiaro in mente, non siamo esseri erranti, che ruotano sempre intorno a se stessi senza arrivare da nessuna parte. È la voce del Signore che ci chiama e, come pellegrini, la accogliamo in atteggiamento di ascolto e di ricerca, intraprendendo questo viaggio per incontrare Dio, gli altri e noi stessi”.
La misericordia di Dio accompagna il nostro cammino
La meta, sottolinea il Papa, è importante quanto il cammino verso di essa, che è un cammino di conversione seguendo Gesù Via, Verità e Vita. Citando la Lettera apostolica "Misericordia et misera" del 20 novembre 2016, il testo prosegue con un messaggio che rassicura: “In questo cammino la misericordia di Dio ci accompagna e anche se la condizione di debolezza dovuta al peccato rimane, essa viene superata dall'amore che ci permette di guardare al futuro con speranza e di essere pronti a rimettere la nostra vita sulla strada giusta”.
Si cammina leggeri e in compagnia
Per mettersi in cammino bisogna prima di tutto staccarsi dalle cose che appesantiscono, ma poi nella vita non si cammina da soli e affidarsi ai nostri compagni senza sospetti e diffidenza “ci aiuta a riconoscere nel prossimo un dono che Dio ci fa per accompagnarci in questo viaggio”. Si tratta di “uscire da se stessi per unirsi agli altri”, di aspettarsi e sostenersi a vicenda, condividendo fatiche e conquiste. Al termine del viaggio, scrive il Papa, ci troveremo con lo zaino vuoto, ma con “un cuore pieno di esperienze forgiate in contrasto e in sintonia con la vita di altri nostri fratelli e sorelle che provengono da contesti esistenziali e culturali diversi”. E riscoprendo il nostro dover essere discepoli missionari “per chiamare tutti in quella patria verso la quale ci stiamo muovendo”.
Il pellegrino comunica la fede con la sua vita
Francesco descrive il pellegrino come di uno che è capace di mettersi nelle mani di Dio, consapevole che la patria promessa è già presente in Cristo che gli è vicino e così “tocca il cuore del fratello, senza artifici, senza propaganda, nella mano tesa pronta a dare e a prendere”. I tre gesti che i pellegrini compiono arrivando alla Porta Santa, ricordano il motivo del viaggio, scrive ancora il Papa: il primo “è contemplare nel Portico della Gloria lo sguardo sereno di Gesù, il giudice misericordioso”, che ci accoglie nella sua casa. Il secondo è l'abbraccio che ci arriva dall'immagine dell'Apostolo Giacomo che ci mostra la via della fede. La partecipazione alla celebrazione eucaristica, il terzo gesto, ci invita “a sentire che siamo il popolo di Dio”, chiamato “a condividere la gioia del Vangelo”.
Fermento nella città dell'Apostolo
Era il 1122 quando ebbe origine l'Anno Santo che viene celebrato, da allora, ogni 6, 5, 6 e 11 anni. Questo porta a circa 14 anni giubilari ogni secolo. L'apertura della porta della Cattedrale di Santiago, dove sono custodite le reliquie dell'Apostolo Giacomo, artefice dell'evangelizzazione ispanica, sta creando un fermento trattenuto nella città galiziana. Proprio a questa terra e alle sue coste riconduce la sagoma della capasanta raffigurata nel logo dell'evento, simbolo universale del cammino di Compostela. Campeggia anche la croce emblematica di Santiago e un ventaglio di raggi a rappresentare la fratellanza tra i popoli di ogni razza e cultura. Ad intraprendere il pellegrinaggio lungo il cammino - primo itinerario culturale europeo e patrimonio della umanita, una delle più antiche e importanti vie della cristianità - sono milioni di persone ogni anno.
Nella Cattedrale una rinnovata bellezza
Nel 2020 i pellegrinaggi sono stati sospesi a causa della pandemia, ma si è potuto sfruttare il periodo del lockdown per realizzare dei lavori di restauro alla Cattedrale che ora risplende di una illuminazione più ideonea e tutto rifulge di una rinnovata bellezza. Ed è sotto il segno della contemplazione della bellezza e della speranza, mentre i pellegrinaggi ufficialmente sono ripresi ma l'emergenza sanitaria ancora in corso impedisce, di fatto, l'arrivo dei camminanti, che l'Anno Santo apre i battenti.
[Adriana Masotti e Antonella Palermo -
https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-01/il-papa-per-l-anno-compostelano.html]
Smarrirsi, per la trasformazione
(Mt 13,10-17)
San Paolo esprime il senso del “mistero della cecità” che gli fa contrasto nel cammino con la celebre espressone «spina nel fianco»: dovunque andasse, erano già pronti i nemici; e disaccordi inattesi.
Così anche per noi: eventi funesti, catastrofi, emergenze, disgregazione delle antiche certezze rassicuranti - tutte esterne e paludose; sino a poco prima valutate con senso di permanenza.
Forse nell’arco della nostra esistenza, già ci siamo resi conto che le incomprensioni sono state i modi migliori per riattivarci, e introdurre le energie della Vita rinnovata.
Si tratta di quelle risorse o situazioni che forse mai avremmo immaginato alleate della nostra e altrui realizzazione.
Dice Erich Fromm:
«Vivere significa nascere in ogni istante. La morte si produce quando si cessa di nascere. La nascita non è quindi un atto; è un processo ininterrotto. Lo scopo della vita è di nascere pienamente, ma la tragedia è che la maggior parte di noi muore prima di essere veramente nato».
Infatti, nel clima dei disordini o delle divergenze assurde [che ci obbligano a rigenerare] si affacciano talora le più trascurate virtù intime.
Energie nuove - che cercano spazio - e potenze esterne. Entrambi plasmabili; inconsuete, inimmaginabili, eterodosse.
Ma che trovano le soluzioni, la vera via d’uscita ai nostri problemi; la strada per un futuro che non sia un semplice riassetto della situazione precedente, o di come abbiamo immaginato “si sarebbe dovuti essere e fare”.
Concluso un ciclo, iniziamo una nuova fase; forse con maggiore rettitudine e franchezza - più luminosa e naturale, umanizzante, vicina al ‘divino’.
Il contatto autentico e coinvolgente con i nostri stati dell’essere profondi viene generato in modo acuto proprio dai distacchi.
Essi ci portano al dialogo dinamico con le riserve eterne di forze trasmutatrici che ci abitano, e più ci appartengono.
Esperienza primordiale che arriva dritta al cuore.
Dentro di noi tale via “pesca” l’opzione creativa, fluttuante, inedita.
In tal guisa il Signore trasmette e apre la sua proposta servendosi di ‘immagini’.
Freccia di Mistero che va oltre i frammenti della coscienza, della cultura, delle procedure, di ciò che è comune.
Per una conoscenza di se stessi e del mondo che travalica quella della storia e della cronaca; per la consapevolezza attiva di altri contenuti.
Sino a che il travaglio e il caos stesso guidano l’anima e la obbligano a un Altro inizio, a un differente sguardo (tutto spostato), a un’inedita comprensione di noi stessi e del mondo.
Ebbene, la trasformazione dell’universo non può esser frutto di un insegnamento cerebrale o dirigista; piuttosto, di una esplorazione narrativa - che non allontana la gente da se stessa.
E Gesù lo sa.
[Giovedì 16.a sett. T.O. 24 luglio 2025]
Questo Vangelo insiste anche sul “metodo” della predicazione di Gesù, cioè, appunto, sull’uso delle parabole. “Perché a loro parli con parabole?” – domandano i discepoli (Mt 13,10). E Gesù risponde ponendo una distinzione tra loro e la folla: ai discepoli, cioè a coloro che si sono già decisi per Lui, Egli può parlare del Regno di Dio apertamente, invece agli altri deve annunciarlo in parabole, per stimolare appunto la decisione, la conversione del cuore; le parabole, infatti, per loro natura richiedono uno sforzo di interpretazione, interpellano l’intelligenza ma anche la libertà. Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato: l’amore, infatti, rispetta sempre la libertà.
[Papa Benedetto, Angelus 10 luglio 2011]
1. “Uscì di casa e si sedette in riva al mare” (Mt 13, 1).
Gesù è il Maestro; lo è anche nel modo di guardare la natura. Nei Vangeli sono numerosi i passi che lo presentano immerso nell’ambiente naturale e, se si presta attenzione, si può cogliere nel suo comportamento un chiaro invito ad un atteggiamento contemplativo di fronte alle meraviglie del creato. Così avviene, ad esempio, nel racconto evangelico di questa Domenica. Vediamo Gesù seduto in riva al lago di Tiberiade, quasi assorto in meditazione.
Il divino Maestro, prima dell’alba o dopo il tramonto, e in altri momenti decisivi della sua missione, amava ritirarsi in un luogo solitario e silenzioso, in disparte (cf. Mt 14, 23; Mc 1, 35; Lc 5, 16), per poter rimanere a tu per tu col Padre celeste e dialogare con lui. In quei momenti Egli non mancava certo di contemplare anche il creato, per raccogliervi un riflesso della bellezza divina.
2. Sulla sponda del lago lo raggiungono i suoi discepoli e molta gente. “Egli parlò loro di molte cose in parabole” (Mt 13, 3). Gesù parla “in parabole”, cioè utilizzando vicende dell’esperienza quotidiana ed elementi tratti dalla contemplazione del creato.
Ma perché Gesù parla “in parabole”? È ciò che si domandano i discepoli, e noi con loro. Il Maestro risponde, riecheggiando Isaia: Perché guardino e non vedano, ascoltino e non intendano (cf. Mt 13, 13-15). Che significa tutto ciò? Perché parlare in parabole e non invece “apertamente” (cf. Gv 16, 29)?
3. Carissimi Fratelli e Sorelle! In realtà, la creazione stessa è come una grande parabola. Quanto esiste – il cosmo, la terra, i viventi, l’uomo – non costituisce forse una sola, immensa parabola? E chi ne è l’Autore, se non Dio Padre, con cui Gesù dialoga nel silenzio della natura? Gesù parla in parabole perché questo è lo “stile” di Dio. Il Figlio unigenito ha lo stesso modo di fare e di parlare del Padre celeste. Chi vede Lui vede il Padre (cf. Gv 14, 9), chi ascolta Lui ascolta il Padre. E ciò concerne non solo i contenuti, ma anche i modi; non solo il che cosa Egli dice, ma pure il come lo dice.
Sì, il “come” è importante, perché manifesta l’intenzione profonda di chi parla. Se il rapporto intende essere dialogico, il modo di parlare deve rispettare e promuovere la libertà dell’interlocutore. Ecco la ragione per la quale il Signore parla in parabole: perché chi ascolta sia libero di accogliere il suo messaggio; libero non solo di ascoltarlo, ma soprattutto di comprenderlo, di interpretarlo e di riconoscervi l’intenzione di Colui che parla. Dio si rivolge all’uomo in modo che sia possibile incontrarlo nella libertà.
4. Il creato è, per così dire, il grande racconto divino. Il significato profondo di questo meraviglioso libro della creazione, tuttavia, sarebbe rimasto per noi difficilmente decifrabile, se Gesù – Verbo fatto uomo – non fosse venuto a “spiegarcelo”, rendendo i nostri occhi capaci di riconoscere più agevolmente nelle creature l’impronta del Creatore.
Gesù è la Parola che custodisce il significato di tutto ciò che esiste. È il Verbo in cui riposa il “nome” di ogni cosa, dalla particella infinitesimale alle immense galassie. Egli stesso è allora la “Parabola” piena di grazia e di verità (cf. Gv 1, 14), con la quale il Padre rivela se stesso e la sua volontà, il suo misterioso disegno d’amore e il senso ultimo della storia (cf. Ef 1, 9-10). In Gesù, Dio ci ha detto tutto ciò che aveva da dirci.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia a s. Stefano di Cadore, 11 luglio 1993]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]
St John Chrysostom explained: “And this he [Jesus] says to draw them unto him, and to provoke them and to signify that if they would covert he would heal them” (cf. Homily on the Gospel of Matthew, 45, 1-2). Basically, God's true “Parable” is Jesus himself, his Person who, in the sign of humanity, hides and at the same time reveals his divinity. In this manner God does not force us to believe in him but attracts us to him with the truth and goodness of his incarnate Son [Pope Benedict]
Spiega San Giovanni Crisostomo: “Gesù ha pronunciato queste parole con l’intento di attirare a sé i suoi ascoltatori e di sollecitarli assicurando che, se si rivolgeranno a Lui, Egli li guarirà” (Comm. al Vang. di Matt., 45,1-2). In fondo, la vera “Parabola” di Dio è Gesù stesso, la sua Persona che, nel segno dell’umanità, nasconde e al tempo stesso rivela la divinità. In questo modo Dio non ci costringe a credere in Lui, ma ci attira a Sé con la verità e la bontà del suo Figlio incarnato [Papa Benedetto]
This belonging to each other and to him is not some ideal, imaginary, symbolic relationship, but – I would almost want to say – a biological, life-transmitting state of belonging to Jesus Christ (Pope Benedict)
Questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale (Papa Benedetto)
She is finally called by her name: “Mary!” (v. 16). How nice it is to think that the first apparition of the Risen One — according to the Gospels — took place in such a personal way! [Pope Francis]
Viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16). Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i Vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! [Papa Francesco]
Jesus invites us to discern the words and deeds which bear witness to the imminent coming of the Father’s kingdom. Indeed, he indicates and concentrates all the signs in the enigmatic “sign of Jonah”. By doing so, he overturns the worldly logic aimed at seeking signs that would confirm the human desire for self-affirmation and power (Pope John Paul II)
Gesù invita al discernimento in rapporto alle parole ed opere, che testimoniano l'imminente avvento del Regno del Padre. Anzi, Egli indirizza e concentra tutti i segni nell'enigmatico "segno di Giona". E con ciò rovescia la logica mondana tesa a cercare segni che confermino il desiderio di autoaffermazione e di potenza dell'uomo (Papa Giovanni Paolo II)
Without love, even the most important activities lose their value and give no joy. Without a profound meaning, all our activities are reduced to sterile and unorganised activism (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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