don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Riflessioni sul senso religioso.

Anche questa riflessione nasce da un dialogo con un signore della mia età circa.

Questo signore conosciuto e stimato nel suo paese incontrando una sua vecchia conoscenza, viene redarguito da quest’ultima perché non frequentava le  funzioni religiose;  secondo lei avrebbe dovuto farlo per il suo bene. Il signore ha risposto che non sentiva questo bisogno e che non gli sembrava che il suo comportamento potesse offendere il senso religioso generalmente inteso. 

Discussioni del genere ce ne sono spesso fra gli esseri umani, non è una novità. La riporto perché mi ha  fatto riflettere sul senso religioso nella vita dell’uomo. L’argomento tocca diverse discipline ed è complesso.     

Studi di Fiorenzo Facchini dicono che vari comportamenti dell’uomo preistorico vengono letti in senso religioso. I nostri antenati  davano sepoltura  ai loro morti e dipingevano raffigurazioni sulle pareti.      

Queste caverne avevano qualcosa di sacro. Manifestazioni religiose dell’antichità erano i canti e le danze.

In tutte le religioni troviamo un bisogno di rassicurazione sulla nostra vita e anche il bisogno di trovare delle risposte magiche ai nostri problemi.

Bettelheim sostiene che a livello individuale e soprattutto nell’infanzia la religione  può dare quelle basi di stabilità e sicurezza con cui il bambino potrà evolversi verso l’autonomia.

La società in cui viviamo ci impone di correre, di essere al passo con i tempi; vuole darci i suoi valori.

Oggi esiste la moda dell’effimero, della competitività - e allora è psicologicamente rassicurante credere in una “madre-ambiente” che ci vuole bene, o essere dentro un disegno che dà  significato alla nostra vita.

A differenza di Freud che non aveva una  visione positiva, o del filosofo Carlo Marx il quale sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli, Jung nell’undicesimo volume “Psicologia e religione”  dice testualmente:

“Poiché’ la religione è incontestabilmente una delle prime e universali espressioni dell’anima umana […] non è soltanto un fenomeno sociologico o storico, ma un’importante questione personale” (vol.XI, p.15).

Nella mia  lunga pratica professionale ho incontrato spesso persone che hanno dovuto fare i conti con questa tematica.

Compito del terapeuta non è condizionare  l’altro, ma chiarire le dinamiche sottostanti.

Ho incontrato persone che si definivano non credenti ma che a livello inconscio dovevano fare i conti con i loro sogni. Oppure individui che appartenevano a religioni diverse talmente rigide che inibivano il loro il senso vitale.

In tutti questi casi  cresceva la  conoscenza dell’animo umano, sia che esso si dichiarasse religioso o meno. Non stiamo discutendo della posizione filosofica di ciascuno.

Si notavano delle differenze tra la persona che si definiva religiosa da una che non lo era.

Tengo a precisare che tali differenze non costituiscono dei giudizi di valore, ma solo caratteristiche comportamentali.

lI religioso crede che esiste una realtà che è sacra e che va oltre questo mondo - e che la sua esistenza viene potenziata in base al suo credo.

Colui che si definiva non credente rifiutava la trascendenza, era uno il quale si fa da sé e crede che solamente lui si costruisce  il proprio destino.

Una preoccupazione costante è quella di negare qualsiasi riferimento o battuta di spirito venisse riferita ad argomenti religiosi.

Addirittura ho incontrato qualcuno più preoccupato  di quale fosse il mio credo più che dei suoi problemi personali. Ho sempre risposto che il mio ambito d’azione era la psiche in tutte le sue manifestazioni. Al di là di ogni manifestazione sacra o meno, il rispetto della persona è già un atteggiamento sacro.

“Desacralizzarsi“ del tutto non è neanche facile, poiché è difficile rinnegare del tutto la storia - sia per chi crede nella creazione e per chi crede nell’evoluzione.

Chissà se l’evoluzione include una creazione?

 

Dott. Francesco Giovannozzi Psicologo-psicoterapeuta                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

Mercoledì, 05 Marzo 2025 21:02

1a Domenica di Quaresima (anno C)

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Prima Domenica di Quaresima (anno C)  9 Marzo 2025 

 

*Prima Lettura dal Libro del Deuteronomio (26, 4 – 10)

Mosè ordina un gesto di offerta, come avviene in tutte le religioni, ma per Israele si tratta di una reale professione di fede: “Prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole”. Segue poi un intero discorso sull’opera di Dio a favore del suo popolo, che si potrebbe riassumere in una semplice frase: tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è dono di Dio. Questa è la grande novità di tutta la Bibbia specialmente del libro del Deuteronomio. Se nelle religioni il rito dell’offerta è un gesto di richiesta alle divinità di benefici che loro possiedono, per Israele avviene il ribaltamento del senso del rito perché quest’offerta è un atto di gratitudine. Offrire i doni non significa concedere a Dio qualcosa che ci appartiene, ma riconoscere che tutto è suo dono e non ci presentiamo a lui con le mani piene di ricchezze nostre; anzi riconosciamo che senza di Lui le nostre mani resterebbero vuote. In questo spirito, portare le proprie offerte diventa un gesto di memoria. Il libro del Deuteronomio insiste su questa pratica forse perché il popolo sembrava aver in parte dimenticato Dio e i suoi benefici. Nel deserto Israele aveva ben compreso che la sua sopravvivenza dipendeva da Dio e solo da Lui. Giunto però nella terra promessa (la terra di Canaan, l’Israele di oggi) correva il rischio di dimenticare il vero Dio essendovi diffusi culti delle popolazioni locali adoranti Baal e il serio rischio della contaminazione da parte dell’idolatria costituiva una minaccia alla vera fede. I profeti hanno sempre cercato di mantenere la fedeltà all’Alleanza del Sinai (cf Es 20,2), ripetendo che c’è un solo Dio, il Dio di Mosè, che ha liberato il suo popolo dalla mano degli Egiziani, lo ha accompagnato lungo tutta la sua storia e, infine, gli ha donato la terra promessa. Sembra proprio che la preoccupazione del nostro testo sia quella di conservare la memoria di quanto Dio ha compiuto e, in realtà, il libro del Deuteronomio potrebbe essere definito il libro della memoria. Il rito dell’offerta delle primizie è pertanto soprattutto un gesto di memoria, accompagnato dall’enumerazione delle opere compiute da Dio a favore del suo popolo. Nella parola “primizie” è contenuta l’idea di “primo”, i primi frutti del nuovo raccolto, i primi covoni di grano, i primi grappoli d’uva, il primo nato della nuova cucciolata. Tutto questo costituisce l’inizio e la promessa: pesando il primo covone, il primo grappolo, si poteva capire se il raccolto sarebbe stato abbondante e il rito di offerta esisteva già ai tempi di Caino e Abele per ottenere le benedizioni della divinità. Mosè ne aveva trasformato il significato: da quel momento in poi, tutto veniva vissuto in funzione dell’Alleanza e per questo si capisce il discorso che accompagna l’offerta. Non si domandano a Dio benefici per il futuro, ma si riconoscono quelli avuti sin dalla chiamata di Abramo e il rito diventa una professione di fede che costituisce un riassunto della storia di Israele: «Mio padre era un Arameo errante…». Tutto iniziò con Abramo, l’Arameo scelto da Dio per diventare il padre del popolo dell’Alleanza: un nomade “errante” nel senso che, prima della sua chiamata da parte di Dio, non aveva ancora scoperto l’unico Dio, errante quindi in senso spirituale. La frase che segue «Mio padre era un Arameo errante, che scese in Egitto», non si riferisce più ad Abramo, il capostipite, ma al suo discendente Giacobbe: lui e i suoi figli si stabilirono in Egitto. Segue tutta la storia, fino all’ingresso nella terra promessa. A questo punto, il gesto dell’offerta assume il suo pieno significato: offrendo il primo covone, il primo grappolo, è come se si presentasse a Dio tutto il raccolto.  L’ offertorio nella Messa ha lo stesso significato: riconoscere che tutto è dono di Dio: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questi doni: a ben vedere prepariamo e offriamo doni a Dio che non sono nostri ma suoi.

 

 * Salmo Responsoriale 90 (91), 1-2, 10-11, 12-13, 14-15

Il salmo si presenta come un dialogo a tre voci.  Israele dice: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio mia fortezza, mio Dio in cui confido”. I sacerdoti all’ingresso del Tempio proclamano: “Non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda”. Infine interviene Dio stesso: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.”.  Nei primi versetti, se si fa attenzione, vengono dati quattro nomi diversi a Dio: l’Altissimo (Elyôn), l’Onnipotente (El Shaddai), il Signore (YHWH) e infine Dio (Elohim). Le divinità degli altri popoli utilizzano tre di questi nomi: l’Altissimo, l’Onnipotente ed Elohim. Israele riprende questi termini comuni per designare il proprio Dio, ma è l’unico popolo al mondo a poterlo chiamare con il quarto, il famoso Nome rivelato a Mosè nel roveto ardente: YHWH. Come dice Dio stesso nel libro dell’Esodo: «Mi sono rivelato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe come Dio Onnipotente (El Shaddai), ma con il mio nome, YHWH, non mi sono fatto conoscere da loro» (Es 6,3). Questi primi versetti sviluppano il tema della sicurezza del credente con l’abbraccio dell’Altissimo all’ombra dell’Onnipotente.  Nel linguaggio dei salmi, l’abbraccio dell’Altissimo richiama il Tempio di Gerusalemme e l’ombra è quella delle ali delle statue dei cherubini che sovrastano l’arca dell’Alleanza. C’è però anche un’allusione alla presenza protettrice di Dio lungo tutto l’Esodo. Come annotano gli esegeti le «ali» richiamano quelle dell’aquila che incoraggia i primi voli dei suoi piccoli (Dt 32,10-11; cf. Es 19,4). E l’angelo Gabriele dirà alla Vergine di Nazaret: “Su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35). I termini “mio rifugio, mia fortezza, mio Dio in cui confido” esprimono una professione di fede e indicano una risoluzione contro l’idolatria che esige sempre l’impegno a non abbandonare l’abbraccio dell’Altissimo. Gesù è colui che non smette mai di rifugiarsi in Dio, come vediamo oggi nel vangelo delle tentazioni di Gesù. Insomma la lotta contro l’idolatria è un tema che attraversa tutta la Bibbia ed è un punto centrale della predicazione dei profeti. Anche in questo nostro tempo c’è da riflettere perché l’idolatria assume volti diversi e sempre nuovi. Nel salmo seguono due strofe che sono una sorta di catechesi rivolta dai sacerdoti a ogni pellegrino nel Tempio di Gerusalemme: “non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda” se tu resti sotto l’ombra dell’Altissimo perché Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi. Duplice è il messaggio: certa è la vittoria - calpesterai leoni e draghi - e a garantirla è Dio che non cesserà mai di proteggere il suo popolo che darà ordine agli angeli di custodire tutti i passi del pellegrino, anzi lo porteranno con le loro mani, perché il suo piede non inciampi nelle pietre. Alla fine, nell’ultima strofa parla Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta” Da notare il versetto finale “nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso” che mostra come Israele abbia compreso che Dio non elimina ogni prova con un colpo magico, ma è «con» noi nella difficoltà e nella prova. Nell’angoscia” sarò con lui” è esattamente il significato del nome «Emmanuele», che vuol dire Dio-con-noi. Proposto all’inizio della Quaresima, questo salmo c’invita a trovare rifugio nell’abbraccio dell’Altissimo, frequentando la liturgia nelle nostre chiese dove non c’è più l’arca dell’Alleanza, né le due statue dei cherubini – quegli esseri alati con testa d’uomo e corpo di leone, le cui ali unite formavano un trono per Dio -, ma qualcosa di molto più grande: la Presenza della Santissima Trinità

 

*Seconda lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (10,8-13)

San Paolo afferma una cosa importante: che siate giudei o pagani non c’è alcuna differenza perché ciò che vi accomuna è l’essere cristiani e invocate tutti lo stesso Signore, generoso verso coloro che lo cercano. Il problema esisteva a Roma come altrove e ci si chiedeva se occorreva trattare allo stesso modo giudei e pagani. Anche se Paolo desiderava che tutti i giudei accogliessero Gesù come il Messia, tuttavia soltanto una minoranza del popolo ebraico aderì a Gesù Cristo, mentre furono i pagani a costituire la parte più numerosa delle comunità cristiane. Si capisce allora che la convivenza tra cristiani di origini così diverse, ebraiche o pagane, poneva non poche difficoltà e nascevano interminabili discussioni su questioni come la Legge, la circoncisione e le norme alimentari. Il problema era più profondo dato che alcuni giudei convertiti al cristianesimo accettavano a malincuore l’ingresso di quelli che chiamavano «gli incirconcisi», essendo Israele il popolo eletto da cui sarebbe nato il Messia.  La domanda era la seguente: accogliere i non giudei non è forse tradire l’Alleanza e l’elezione del popolo ebraico? Per Paolo impedire ai pagani di ricevere il battesimo, voleva dire che Gesù salva solo i giudei, mentre nell’ Antico Testamento già il profeta Gioele aveva affermato del Messia: “Effonderò il mio Spirito su ogni uomo. I vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sui servi e sulle serve, in quei giorni, effonderò il mio Spirito… Allora chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.» (Gl 3,1-5). Inoltre i contemporanei di Paolo trovavano strano che per essere salvati bastasse invocare il nome di Gesù mentre ritenevano si doveva essere circoncisi e osservare scrupolosamente la Legge. L’Apostolo risponde che, poiché Gesù Cristo è Signore (Dio), d’ora in poi chiunque lo invoca è salvato come lo stesso Cristo disse a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”, precisando proprio chiunque: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.» (Gv 3,16-17) e il termine «mondo» significa chiaramente «tutta l’umanità». L’Apostolo non esita a ripetere: ”se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”.  Nell’Antico Testamento, «ottenere la giustizia» e «essere salvati» significavano la stessa cosa.  Inoltre il verbo «credere» non ha qui il senso di un’opinione personale e il parallelo tra «bocca» e «cuore» su cui insiste indica che la fede è un impegno profondo e totale della persona. Così, secondo Paolo, si compie quanto si legge nel libro del Deuteronomio: “Questa parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore.» Mentre nel Deuteronomio si parla della Legge da osservare, ora questa parola è il messaggio della fede in Gesù Cristo e Paolo ricorda a coloro che hanno ricevuto il battesimo: la salvezza ci è donata gratuitamente da Dio senza alcun nostro merito,; dobbiamo solo accoglierla con fede e libertà: «Se con la tua bocca proclami che Gesù è Signore e se con il tuo cuore credi che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza

 

* Dal Vangelo secondo san Luca (4, 1 – 13)

Se leggiamo questa pagina evangelica alla luce dell’odierno salmo responsoriale, riconosciamo l’attitudine interiore con cui Gesù inizia la sua missione pubblica: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido”.  Gesù si pone  all’ombra dell’Altissimo, mentre la tentazione lo spinge a lasciare questo rifugio, a dubitare della sua sicurezza e a cercare altrove ripari e sicurezze: sono proprio queste le tre tentazioni che hanno segnato sempre la storia di Israele e anche la nostra vita. Il diavolo - in greco «diabolos» cioè colui che divide – lo tenta insinuando il dubbio e la sfiducia. Se veramente tu sei il Figlio di Dio, tu puoi fare tutto quello che vuoi e sei in grado da solo di provvedere alla tua felicità. Dì a questa pietra che diventi pane e così sazi subito la tua fame dopo un così lungo digiuno (prima tentazione); adorami e sicuramente potrai realizzare tutti i tuoi disegni e progetti (seconda tentazione). Infine “se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e “ ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra (terza tentazione). Gesù però non cede alle lusinghe sataniche perché è certo che solamente Dio sazia la fame vera dell’uomo e ha scelto di fidarsi, in altri termini, di abitare al riparo dell’Altissimo, come dice il salmo. Più in dettaglio nella prima tentazione, quando il Tentatore lo provoca Gesù risponde: “Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l’uomo”, una espressione nota a tutto il popolo ebraico perché è contenuta nel capitolo 8 del Deuteronomio, come una meditazione sull’esperienza d’Israele durante l’esodo sotto la guida di Mosè: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito con la manna che né tu né i tuoi padri conoscevate, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di tutto ciò che esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,2-3). Il popolo sa per esperienza cosa significa la beatitudine della povertà: Beati coloro che hanno fame, perché confidano solo in Dio per essere saziati e il Deuteronomio prosegue: «Riconosci dunque nel tuo cuore che il Signore tuo Dio ti educava come un uomo educa suo figlio.» (Dt 8,5). In questo modo Il Figlio di Dio, che ora comincia a guidare il suo popolo, rivive nella sua carne l’esperienza di Israele nel deserto. In altre parole, quando il Tentatore sfida Gesù dicendo: «Se sei Figlio di Dio, dimostralo!», la sua risposta è chiara: Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere le sue opere, come dirà ai discepoli nell’incontro con la Samaritana (cf Gv 4,32-34). Nella seconda tentazione, al Tentatore che gli promette tutti i regni della terra, Gesù risponde: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”, citando questo testo fra i più conosciuti dell’Antico Testamento, che segue lo Shema Israel, la professione di fede ebraica (Dt 6,10-13). Nella terza tentazione il diavolo provoca Gesù a gettarsi giù essendo il Figlio di Dio, poiché sta scritto che verranno gli angeli a custodirlo portandolo sulle mani, ma risponde: “È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo (Dt 6,16). Il Cristo sa di essere sempre al riparo dell’Altissimo, qualunque cosa accada. Di fronte alle provocazioni del Tentatore Gesù trae dalla parola di Dio la forza per resistere a chi vuole separarlo dal Padre; non discute mai con lui e le tre risposte sono esclusivamente citazioni della Scrittura. In questo si mostra erede autentico del suo popolo e a lui si applica la frase del Deuteronomio, ripresa da san Paolo nella Lettera ai Romani (vedi la seconda lettura): «La Parola è vicino a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore.» (Dt 30,14). Le tre le risposte si richiamano al libro del Deuteronomio, scritto proprio per ricordare agli Israeliti che Dio è loro Padre. Gesù, nella sua vita, ripercorre l’esperienza del suo popolo nel deserto, dal Battesimo, in cui viene rivelato come il Figlio fino al Getsemani dove il Tentatore tornerà per l’ultimo attacco. Leggiamo alla fine del nostro testo: «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento opportuno, ma Gesù rimarrà sempre sotto l’ombra dell’Altissimo e, con questo episodio, Luca mostra che è Gesù l’unico vero modello da seguire.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 03 Marzo 2025 09:36

Mercoledì delle Ceneri

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.

Ecco il commento per le letture di Mercoledì delle Ceneri

5 Marzo 2025   (anno C)

 

La liturgia del mercoledì delle Ceneri, che apre la Quaresima, era segnata un tempo dall’inizio della penitenza pubblica che si svolgeva quest’oggi e dall’avvio dell’ultimo tratto della formazione dei catecumeni, che si preparavano a ricevere il battesimo nella Veglia Pasquale. A simboleggiare l’invito alla preghiera e alla conversione del cuore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, c’è il rito della cenere, segno di penitenza e di conversione.  Si tratta di un “simbolo austero” con cui iniziamo il cammino spirituale della Quaresima riconoscendo che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale e per questo siamo invitati a rendere la nostra esistenza un sacrificio Dio in unione con la morte di Cristo Gesù. Ciò che illumina il mercoledì delle Ceneri e l’intera Quaresima è l’evento della Risurrezione di Gesù, che celebreremo con rinnovata speranza in quest’anno giubilare. il mercoledì delle ceneri è giorno di penitenza, di digiuno e di elemosina che va intesa come condivisione di ciò che siamo e di ciò che possediamo con i nostri fratellil a gloria di Dio. Questo richiede il coraggio di rinunciare a qualcosa che ci costa per vivere la Quaresima come tempo di vera purificazione interiore 

 

*Prima Lettura dal Libero del profeta Gioele (Gl 2,12-18) 

Ritornate al Signore con tutto il cuore! Ecco l’invito che oggi ci lancia il profeta Gioele. Il suo libro è molto breve (contiene in totale settantatré versetti suddivisi in quattro capitoli) ed è collocato intorno all’anno 600 a.C., cioè poco prima dell’esilio a Babilonia. Ci sono tre temi che si intrecciano costantemente: la prospettiva di terribili flagelli, appelli accorati al digiuno e alla conversione, e l’annuncio della salvezza di Dio. Oggi è il secondo tema che la liturgia ci propone all’inizio della Quaresima. Il solenne appello alla conversione spinge a prendere sul serio ciò che segue, cioè l’invito: “Ritornate a me”, e il popolo risponde e supplica: “Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti”. I profeti insegnano sempre a non accontentarsi di manifestazioni esteriori e anche Gioele non manca di sottolinearlo: “Laceratevi il cuore e non le vesti e ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso”.  Questo afferma Isaia: “Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto: le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi. Allontanate dai miei occhi le vostre azioni malvagie cessate di fare il male. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia…” (Is 1,14-17). E il Salmo 50/51 commenta “Il sacrificio che piace a Dio è uno spirito contrito; un cuore affranto e umiliato, o Dio, tu non lo disprezzi”. Il profeta Ezechiele ci aiuta a comprendere cosa vuol dire il salmista: bisogna cioè spezzare i nostri cuori di pietra affinché possa emergere il cuore di carne e il profeta Gioele segue questa linea quando invita a lacerare i cuori e non le vesti per sfuggire a un castigo meritato. Scrive infatti: “chi sa che Dio non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?” E conclude annunciando che il perdono è già stato concesso. La traduzione liturgica dice: “Il Signore si mostra geloso per la sua terra” avendo avuto pietà del suo popol, ma la misericordia di Dio è destinata a tutti gli uomini, ed è proprio questo il messaggio che troviamo nel libro di Giona molto affine a quello di Gioele. Giona infatti narra la conversione di Ninive, la città pagana che aveva percorso un giorno di cammino proclamando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, e  gli abitanti credettero subito in Dio. Proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, grandi e piccoli. Persino il re di Ninive depose il manto regale, si coprì di sacco e si sedette sulla cenere e quindi proclamò lo stato d’allerta e fece annunciare che tutti in Ninive si dovevano coprire di sacco e invocare Dio con forza. Dio vide la loro conversione e revocò il castigo che aveva minacciato di infliggere (Gn 3,4-10). Il segreto  è che Dio trabocca di zelo e di amore, come ricorda Gioele, per tutti gli uomini, e san Paolo dirà: “Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

 

*Salmo responsoriale (50 (51).  Perdonaci, Signore: abbiamo peccato

Uniamoci anche noi al popolo d’Israele riunito nel Tempio di Gerusalemme per una grande celebrazione penitenziale. Sa di essere pieno di peccati, ma conosce per esperienza che la misericordia di Dio è inesauribile e allora chiede perdono con la certezza di essere esaudito. Fu proprio questa la scoperta del re Davide dopo aver peccato con Betsabea, sposa di un ufficiale, Uria, che in quel momento era in guerra. Betsabea fece sapere a Davide di essere incinta di lui e Davide organizzò la morte in battaglia del marito tradito, così da poter prendere definitivamente per sé la donna e il bambino che portava in grembo. Il profeta Natan non cercò subito di far ammettere a Davide il suo peccato, ma gli ricordò anzitutto i molti doni di Dio e gli annunciò il perdono prima ancora che Davide avesse il tempo di confessare la sua colpa (cf 2 Samuele 12). Oltre tutti i doni e privilegi che Dio gli aveva concesso, aggiunse pure che il Signore era pronto ad accordargli tutto ciò che desiderava. Nel corso della storia, Israele ha avuto occasione di registrare che Dio è davvero “il Signore misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e di lealtà”, come aveva rivelato a Mosè nel deserto (Es 34,6). Anche i profeti hanno ribadito questo messaggio, e i versetti del Salmo 50/51 ne sono pieni. Isaia, ad esempio, dice: “Io, io solo cancello le tue colpe per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25). L’annuncio del perdono gratuito di Dio ci sorprende sempre: ci sembra quasi troppo bello per essere vero. Per alcuni, addirittura, può sembrare ingiusto: se tutto è perdonabile, perché sforzarsi di vivere bene? Ma questo significa dimenticare che tutti, senza eccezione, abbiamo bisogno della misericordia di Dio e lui ci sorprende, poiché, come dice Isaia, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri. E proprio nel perdono Dio ci sorprende di più. Pensiamo alla parabola evangelica degli operai dell’ultima ora: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? O sei invidioso perché io sono buono?» (cf Mt 20,15), a quella del figliol prodigo (Lc 15): quando il figlio ingrato ritorna dal padre, animato da motivazioni tutt’altro che nobili, Gesù mette sulle sue labbra una frase del Salmo 50: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. E con questa sola frase, il legame spezzato viene riallacciato. Davanti all’annuncio sempre nuovo della misericordia di Dio, il popolo d’Israele, che nei Salmi parla a nome di tutti noi, si riconosce peccatore. Il suo pentimento non è dettagliato, non lo è mai nei Salmi penitenziali, ma esprime tutto in una semplice supplica: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”. E Dio, che è tutta misericordia, attratto dalla miseria dell’uomo, non aspetta altro che questa umile confessione della nostra povertà. Ed è utile ricordare che “pietà” ha la stessa radice di “elemosina” e questo ci ricorda che siamo mendicanti di amore e di perdono davanti a Dio. Cosa fare allora: ringraziare e perdonare. Ringraziare per il perdono che Dio ci offre continuamente. In ogni celebrazione penitenziale, la preghiera più importante è il riconoscimento dei doni e del perdono di Dio. Prima di tutto, dobbiamo contemplare Dio stesso, e solo dopo possiamo riconoscerci peccatori. Il rito della Riconciliazione  afferma chiaramente che confessiamo l’amore di Dio insieme al nostro peccato e la lode scaturirà spontanea dalle nostre labbra: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode” (questa è la frase che apre la Liturgia delle Ore, ogni mattina ed è tratta proprio dal Salmo 50/51) in cui viene ricordato che  la lode e la gratitudine nascono in noi solo se Dio apre il nostro cuore e le nostre labbra. E il secondo passo che Dio si aspetta da noi e costituisce il programma ascetico di tutta la vita è l’impegno a perdonare a nostra volta, senza indugi né condizioni. 

 

*Seconda Lettura dalla Seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5,20-6,2) 

“Lasciatevi riconciliare con Dio”! Paolo parla di riconciliazione ben consapevole della rottura dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’Antico Testamento il popolo sapeva che Dio non è in contrasto con gli uomini, come il Salmo 102/103 esprime chiaramente:”Il Signore non è sempre in lite, non conserva per sempre il suo sdegno; non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe… Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe… Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che siamo polvere”.  Ugualmente leggiamo in Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore, che avrà misericordia di lui, al nostro Dio, che largamente perdona” (Is 55,7), nel Libro della Sapienza: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, e chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento… La tua sovranità su tutti ti rende indulgente verso tutti” (Sap 11,23; 12,16). Davide fece questa esperienza quando uccise Uria, marito di Betsabea e Dio gli inviò il profeta Natan che in sostanza questo gli comunicò: Tutto ciò che hai, te l’ho dato io; e se non fosse ancora abbastanza, sarei pronto a darti ancora tutto ciò che desideri. Dio non ignorava neppure che Salomone aveva ottenuto il trono eliminando i suoi rivali, eppure ascoltò la sua preghiera a Gabaon ed esaudì le sue richieste ben oltre ciò che il giovane re aveva osato domandare (1 Re 3). Ma c’è di più: il Nome stesso di Dio, “Misericordioso”, significa che ci ama tanto più quanto più siamo miseri. Dunque, Dio non è in lite con l’uomo. Eppure Paolo parla di riconciliazione, perché fin dall’inizio del mondo (Paolo dice «da Adamo», ma è la stessa cosa), è l’uomo che è in conflitto con Dio. Il racconto della Genesi (Gn 2-3) attribuisce al serpente l’origine di questa accusa contro Dio perché è geloso dell’uomo e non vuole il suo bene.: “Dio sa che quando ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,4) La Bibbia lascia intendere che questo sospetto non è naturale nell’uomo—è la voce del serpente, e dunque può essere curato. È proprio questo afferma san Paolo: “Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. E che cosa ha fatto Dio per rimuovere dal nostro cuore questa diffidenza? Continua l’apostolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2 Cor 5,21). Gesù non ha conosciuto il peccato anzi, come leggiamo nella  lettera ai Filippesi, Gesù si fece obbediente (Fil 2,8), e rimase sempre fiducioso, anche nella sofferenza e nella morte. Per questo insegna agli uomini questa fiducia e rivela che Di è tutto amore e perdono: è Misericordia. Per un paradosso incredibile Gesù per questa rivelazione fu considerato un bestemmiatore, trattato da peccatore e giustiziato come un maledetto (cf Dt 21,23). L’odio e la cecità degli uomini si abbatterono su di lui e il Padre lasciò fare, perché questo era l’unico modo per farci toccare con mano fin dove “il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo” come afferma il profeta Gioele. Gesù ha affrontato il peccato degli uomini, la violenza, l’odio, il rifiuto di un Dio che è Amore e sulla croce appare fin dove arriva l’orrore del peccato umano e fin dove arrivano la dolcezza e il perdono di Dio. Ed è proprio da questa contemplazione che può nascere la nostra conversione, quella che Paolo chiama “giustificazione”. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, leggiamo nel libro del profeta Zaccaria (Zc 12,10), ripreso da Giovanni (Gv 19,37). In Gesù morente che perdona i suoi carnefici scopriamo il volto stesso di Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9) e, grazie a lui, siamo riconciliati da Dio. Compito dei battezzati è annunciare e testimoniare quest’amore, alla scuola di Paolo che grida: “Noi siamo ambasciatori di Cristo”, missione che coinvolge ognuno di noi. Chiude questo breve testo una citazione del profeta Isaia “Al momento favorevole ti ho esaudito

e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” che parlava agli esuli a Babilonia, annunciando loro che l’ora della salvezza era giunta. Mentre Israele doveva annunciare la liberazione, perché le false immagini di Dio imprigionano il cuore degli uomini, Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa la missione di annunciare al mondo la remissione dei peccati.

 

*Dal Vangelo secondo Matteo (6, 1-6. 16-18)

Il vangelo oggi riporta due brevi tratti del Discorso della Montagna, che occupa i capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo. Tutto il discorso ruota attorno a un nucleo centrale che è  il Padre Nostro (Mt 6,9-13), la preghiera che dà senso a tutto il resto. Questo indica che le esortazioni, qui riportate, non sono semplici consigli morali, bensì conducono al cuore della fede e il messaggio è il seguente: tutte le nostre azioni devono radicarsi nella scoperta che Dio è Padre. Preghiera, elemosina e digiuno non sono quindi solo pratiche religiose, ma strade per avvicinarci al Dio-Padre: Digiunare significa imparare a spostare il centro da noi stessi e con la preghiera centriamo la nostra vita su Dio mentre l’elemosina apre il nostro cuore ai fratelli. Per tre volte Gesù usa espressioni che invitano a non essere come coloro che amano mettersi in mostra. Avevano certamente grande importanza le pratiche religiose nella società ebraica dell’epoca e il rischio era quello di dare troppo valore alle manifestazioni esteriori come taluni facevano. Matteo ricorda i rimproveri di Gesù a coloro che badavano più alla lunghezza delle loro frange che alla misericordia e alla fedeltà (Mt 23,5ss). Qui, Gesù invita i suoi discepoli a un’autentica purificazione interiore perché per essere veramente giusti bisogna evitate di agire davanti agli uomini per essere ammirati da loro. La giustizia era un tema fondamentale per i credenti e nelle Beatitudinine Gesù ne parla due volte: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.” (Mt 5,6)  “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli.” (Mt 5,10) Ma nel linguaggio biblico, la vera giustizia non consiste nell’accumulare pratiche religiose, per quanto possano essere nobili. Vera giustizia è essere in armonia con il progetto di Dio come già leggiamo nella Genesi: “Abramo credette al Signore, e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15,6). Non quindi una giustizia che è moralismo, bensì una sintonia e un accordo profondo con Dio.  Preghiera, digiuno, elemosina diventano tre vie per vivere la giustizia: Nella preghiera, lasciamo che Dio ci plasmi secondo il suo progetto:“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà.”E proprio per questo, Gesù raccomanda: “Quando pregate, non sprecate parole come fanno i pagani; il Padre vostro sa di cosa avete bisogno prima ancora che glielo chiediate.” (Mt 6,7-8) Il digiuno è sulla stessa linea: ci libera dall’illusione di ciò che crediamo essenziale per essere felici, ma che spesso finisce per imprigionarci. Gesù stesso, digiunando nel deserto, risponde a satana:“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.” (Mt 4,4)  L’elemosina è il frutto del nostro cammino di giustizia, perché ci rende misericordiosi.Non a caso, il termine greco per elemosina deriva dalla stessa radice di eleison («abbi pietà») e fare elemosina significa aprire il cuore alla compassione. Poiché Dio ama tutti i suoi figli non ci può essere vera giustizia senza giustizia sociale. E questo lo vediamo chiaramente nel giudizio finale: “Venite, benedetti del Padre mio… Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…”E alla fine:“I giusti andranno alla vita eterna.” (Mt 25,31-46). In definitiva coloro che ostentano sono in contrasto con la vera giustizia perché mostrano una forma sottile di egoismo spirituale, un modo per rimanere centrati su sé stessi. E il vero dramma è che questo atteggiamento ci chiude il cuore all’azione santificatrice dello Spirito.

+Giovanni D’Ercole

Domenica, 02 Marzo 2025 03:46

Giudizio e giudizi

(Mt 25,31-46)

 

Il celebre brano del Giudizio presenta il Risorto ‘veniente’ (v.31) come «Figlio dell’uomo» ossia sviluppo autentico e completo del progetto divino sull’umanità: il suo genere di “verdetto” ne consegue.

Dio abbraccia la condizione di limite delle sue creature, quindi il comportamento che realizza la nostra vita non riguarda l’atteggiamento religioso in sé, ma quello che abbiamo avuto verso i nostri simili.

 

In tutte le credenze antiche l’anima del defunto veniva soppesata su base notarile e giudicata secondo il saldo positivo o negativo.

A parere dei rabbini, la misericordia divina interveniva a favore solo nel momento in cui le opere buone e cattive si bilanciavano.

Gesù non parla d’un tribunale che proclama sentenze negative immutabili sull’intera persona, ma dei suoi tratti umanizzanti.

«Vita dell’Eterno» (v.46 testo greco) allude a un genere di vita non biologico ma relazionale e di completezza di essere, che possiamo già sperimentare.

Si tratta di episodi in cui è affiorato il nostro DNA genuino, l’Oro che ci abita: quando abbiamo saputo corrispondere ai bisogni non di Dio, ma della vita stessa e dei nostri fratelli.

Sono i momenti in cui siamo stati ascoltatori profondi della natura, speranza e vocazione di tutti - sensibili alle necessità altrui. Opportunità che ci hanno consentito di avvicinare la condizione umana a quella celeste.

Comparando le ‘opere’ dichiarate “paradigma” con quelle degli elenchi di altre religioni - persino nell’antico Egitto - notiamo la differenza del v.36: «ero in prigione e siete venuti da me» (vv.39.43).

La differenza è notevole proprio sotto il criterio della Giustizia divina: essa sorvola le considerazioni forensi, perché crea giustizia dove non c’è.

Il Padre pone vita in ogni caso, perché non è buono [come si crede in tutte le persuasioni devote] ma esclusivamente buono.

I ‘giusti’ - poi - neppure si sono accorti di aver fatto chissà cosa: hanno corrisposto spontaneamente alla loro natura di figli (v.39).

Hanno avuto simpatia per la ‘carne’ nella sua realtà - valutandola famigliare. Hanno amato con e come Gesù, in Lui.

Gli altri invece, tutti presi da formalismi che a Dio non interessano, risultano sorpresi del fatto che il Padre non sia tutto lì dove lo avevano immaginato - stretto nelle sentenze della giustizia ordinaria: «Quando ti abbiamo visto [...] in prigione e non ti abbiamo servito?» (v.44).

La vocazione a venire incontro ci porta spontaneamente a trasgredire le divisioni: legaliste, di retribuzione, o pregiudizi e genere di culto.

Questa la Salvezza eminente, di peso - che si annida nell’aspetto diretto e genuino, non tanto nei propositi organizzati; né ha consistenza alcuna su base di opinioni.

Ci realizziamo nel corrispondere alla chiamata istintiva che sorge dalla nostra stessa impronta essenziale (altruista) anche minima, malconsiderata, o eccentrica e malferma - non straordinaria.

Senza condizioni troppo esteriori, essa si riconosce disseminata nell’anima e nella pienezza benefica divinizzante del «Figlio dell’uomo».

Insegnamento ultimo di Gesù: Giudizio insigne, globale e tutto umano; non responso a concetto e rendiconto.

Resta singolare l’identificazione di Gesù coi piccoli: la sua Persona ha un senso centrale, ‘senza distinzione fra amici e controlegge.

Qui l’uomo è un Soggetto diverso, ben più ricco - saldo in se stesso, ma che si dilata nel Tu divino e umano, anche indigente.

 

 

[Lunedì 1.a sett. Quaresima, 10 marzo 2025]

Domenica, 02 Marzo 2025 03:42

Giudizio vs giudizi

(Mt 25,31-46)

 

Il celebre brano del Giudizio presenta il Risorto veniente (v.31) come «Figlio dell’uomo» ossia sviluppo autentico e completo del progetto divino sull’umanità: il suo genere di “verdetto” ne consegue.

Dio abbraccia la condizione di limite delle sue creature, quindi il comportamento che realizza la nostra vita non riguarda l’atteggiamento religioso in sé, ma quello che abbiamo avuto verso i nostri simili.

È il richiamo evangelico della recente enciclica [ottobre 2020] sulla fraternità e l’amicizia sociale.

Consapevole della situazione, il Magistero si fa oggi pungolo d’ogni spiritualità di cerchia, ovvia e qualunquista; di qualsivoglia mistica da folklore, strapaesana... vuota, intimista, ancora seduta dentro armature da comodino.

 

In tutte le credenze antiche l’anima del defunto veniva soppesata su base notarile e giudicata secondo il saldo positivo o negativo.

Secondo i rabbini, la misericordia divina interveniva a favore, solo nel momento in cui le opere buone e cattive si bilanciavano.

Gesù non parla d’un tribunale che proclama sentenze negative immutabili sull’intera persona, ma dei tratti di esistenza completa che - essendo in sé indistruttibili perché umanizzanti - vengono salvati e assunti, introdotti nella esistenza definitiva.

«Vita dell’Eterno» (v.46 testo greco) allude a un genere di vita non biologico ma relazionale e di completezza di essere, che possiamo già sperimentare.

Si tratta di episodi in cui è affiorato il nostro DNA divino, l’Oro che ci abita: quando abbiamo saputo corrispondere ai bisogni non di Dio, ma della vita stessa e dei nostri fratelli.

Sono i momenti in cui siamo stati ascoltatori profondi della natura, della speranza e vocazione di tutti - sensibili alle necessità altrui.

Opportunità che ci hanno consentito di avvicinare la condizione umana a quella celeste.

 

Comparando le “opere” dichiarate “paradigma” con quelle degli elenchi del giudaismo classico (Is 58,6-7) e di altre religioni - persino dell’antico Egitto [Libro dei morti, c.125] - notiamo la differenza del v.36: «ero in prigione e siete venuti da me» (cf. vv.39.43).

La differenza è notevole proprio sotto il criterio della Giustizia divina: essa sorvola le considerazioni forensi, perché crea giustizia dove non c’è.

Il Padre pone vita in ogni caso, perché non è buono come si crede in tutte le persuasioni devote, bensì esclusivamente buono.

I “giusti” - poi - neppure si sono accorti di aver fatto chissà cosa: hanno corrisposto spontaneamente alla loro natura innata e trasparente di figli (v.39).

Hanno avuto simpatia per la “carne” nella realtà in cui si trova - e dove si trova - valutandola famigliare. Hanno amato con e come Gesù, in Lui.

Non hanno amato per Gesù - come se la condizione dell’altro potesse essere collocata fra parentesi, e sotto sotto considerata una seccatura sulla quale costruire una fiction, pur solidale.

Gli altri osservanti invece, tutti presi da formalismi di rito, dottrina e disciplina che a Dio non interessano, risultano sorpresi del fatto che il Padre non sia tutto lì dove lo avevano immaginato.

Ossia perbene ma vuoto e stagnante come loro, stretto nelle sentenze della giustizia ordinaria: «Quando ti abbiamo visto [...] in prigione e non ti abbiamo servito?» (v.44).

 

La vocazione a venire incontro ci porta spontaneamente a trasgredire le divisioni: legaliste, di retribuzione, o pregiudizi e genere di culto.

Questa la Salvezza eminente, di peso - che si annida nell’aspetto diretto e genuino. Non tanto nei propositi organizzati; né ha consistenza alcuna su base di opinioni.

 

Ci realizziamo nel corrispondere alla chiamata istintiva che sorge dalla nostra stessa impronta essenziale altruista: anche minima, malconsiderata, o eccentrica, malferma e poco adempiente - non straordinaria.

Senza condizioni troppo esteriori, essa si riconosce disseminata nell’anima e nella pienezza benefica, divinizzante, del «Figlio dell’uomo».

Insegnamento ultimo di Gesù: Giudizio insigne, globale e tutto umano. 

Non responso qualunquista o di contrabbando, a concetto e rendiconto.

 

Resta singolare l’identificazione di Gesù coi piccoli: «quanto avete fatto anche a uno solo di questi miei fratelli, quelli ultimi, avete fatto a me» (v.40).

Diversamente: «neppure a me avete fatto» (v.45).

La sua Persona ha un senso centrale, senza distinzione tra amici e controlegge, fra pii adempienti e non.

L’adesione a Cristo non si valuta sulla base di opere distanti dal Nucleo umanizzante.

Belle cose che possono essere compiute anche senza spirito di benevolenza [per dovere e cultura, o anche lustro e calcolo] - bensì sull’amore.

Dio non resta obbligato a premiare i meriti.

Le opere buone possono essere messe in mostra o adempiute anche contro il Padre: come per legargli le mani.

Un travisamento tipico delle religioni, che prevedono il premio ai devoti.

Fraintendimento estraneo all’esperienza di Fede, la cui unica sicurezza è nel rischio dell’esplorazione, nella crescita, nella qualità di relazioni - appunto, umanizzanti.

 

Vita e morte sono ben distinte [«destra e sinistra»: proverbialmente, fortuna e disgrazia] secondo le caratteristiche dell’autentica pietà verso Dio stesso... perché il suo onore si riflette nella promozione della donna e dell’uomo, colti nella loro situazione concreta.

Unico principio non negoziabile è il servizio al bene di ciascuna persona. 

Le opere d’amore sono espressione di Comunione vera col Cristo - in tal guisa liberate da tare cerebrali e di maniera: da ogni genere di limiti o giudizio che condizioni il loro valore.

Insomma, non c’è da fare cose mirate e straordinarie, o meccaniche, ma lasciar agire Dio - rispettando e valorizzando il fratello per quello che è.

Anche fuori dell’ambito visibile del regno degli apostoli (o di una dottrina-disciplina) v’è un autentico “cristianesimo”: civiltà dei figli.

Insomma, nessuna predestinazione alla condanna dei lontani o erranti e imperfetti, salvo per mancanza di fraternità che recupera l’impossibile - persino “controlegge”.

Autentica Regalità del Cristo e dei suoi.

 

In Palestina, di sera i pastori erano soliti separare le pecore dai capri che avevano bisogno di essere riparati dal freddo.

Allo scopo di sottolinearne l’importanza, la questione sollevata dall’evangelista fa propri i coloriti moduli di predicazione rabbinica.

Il problema non è quello di chi si salva e chi no.

La domanda è semmai: in quali occasioni siamo volentieri all’aperto anche di “notte”, e umanizziamo - e in quali ci comportiamo in modo più belluino, chiuso, però senza diventare... agnelli?

In Cristo la vittoria sull’egoismo perde il suo significato di annientamento delle possibilità di crescita individuale - che non si ottiene ostinandosi.

Il suo potere è tutt’altro che stagnante e divisivo. Non nasconde le capacità che non vediamo, o ciò che non sappiamo.

Le situazioni opposte sono i momenti gloriosi di una medesima vittoria. Lo si nota nel prosieguo del brano, che proclama l’altro estremo dell’amore: «il Figlio dell’uomo è consegnato per essere crocifisso» (Mt 26,2).

Quindi lo scopo di Mt non è quello di descrivere la fine del mondo, ma fornire indicazioni su come vivere saggiamente [oggi] per formare Famiglia e non rimanere affascinati dall’immediato luccichio di falsi monili - anche ben allestiti.

Il Richiamo dei Vangeli insiste sulla contrapposizione con una spiritualità frivola: unico distinguo opportuno.

L’uomo di Dio non soddisfa le brame di carriera neppure ecclesiastica, e ogni capriccio.

 

Suggerisce il Tao Tê Ching (iii) rivolgendosi persino al sapiente sovrano: «Non esaltare i più capaci, fa’ sì che il popolo non contenda; non pregiare i beni che con difficoltà s’ottengono, fa’ sì che il popolo non diventi ladro; non ottenere ciò che può bramarsi, fa’ sì che il cuore del popolo non si turbi».

Commenta il maestro Wang Pi: «Quando si esaltano i più capaci, si dà lustro al loro nome; la gloria va oltre il loro ufficio, ed essi stanno sempre ad abbaruffarsi, paragonando le loro capacità. Quando si fa pregio dei beni oltre la loro utilità, gli avidi vi si precipitano sopra, accapigliandosi; forano mura, scassinano forzieri, si fanno ladri a rischio della vita».

E il maestro Ho-shang Kung aggiunge, circa «coloro che il mondo giudica eccellenti»: «Con il loro eloquio specioso si adattano alle circostanze allontanandosi dal Tao, si attengono alla forma respingendo la sostanza».

 

L’Appello del Signore ribadisce gli aspetti qualitativi, di Persona in relazione: Egli illustra come vale la pena scommettere la vita.

Ciò affinché tutti possano sperimentare pienezza di essere - che non è il risultato dell’opportunismo.

E neppure dell’appartenenza: ogni discriminazione fra “chiamati” nella Chiesa visibile e lontani da essa viene sospesa.

 

Le immagini forti del brano di Vangelo servono a farci riflettere, aprire gli occhi, spostare l’orizzonte, imprimere nella nostra coscienza quanto vale la pena mettere in campo: tutto, circa le scelte da fare.

L’amore autentico che muove il cielo e la terra è quello che riesce a fare giusto il malvagio - nel Dono gratuito, privo di condizioni e forme di amor proprio. Persino esente da valutazioni sacrali.

Intuisce il Tao (xxxiii): «Chi opera queste cose? Il Cielo e la Terra [...] Chi si dà al Tao s’immedesima col Tao».

Il genuino sorge e fiorisce dal modo disinteressato e spontaneo, senza sforzo alcuno, né fine artificioso.

Qui l’uomo è un Soggetto diverso, ben più ricco - saldo in se stesso, ma che si dilata nel Tu divino e umano, anche indigente.

 

«Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone […] Dunque, il Signore, alla fine del mondo, passerà in rassegna il suo gregge, e lo farà non solo dalla parte del pastore, ma anche dalla parte delle pecore, con le quali Lui si è identificato. E ci chiederà: “Sei stato un po’ pastore come me?” […] E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me”».

(Papa Francesco)

Domenica, 02 Marzo 2025 03:37

Ha segnato la cultura cristiana

Il Vangelo odierno insiste proprio sulla regalità universale di Cristo giudice, con la stupenda parabola del giudizio finale, che san Matteo ha collocato immediatamente prima del racconto della Passione (25,31-46). Le immagini sono semplici, il linguaggio è popolare, ma il messaggio è estremamente importante: è la verità sul nostro destino ultimo e sul criterio con cui saremo valutati. "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto" (Mt 25,35) e così via. Chi non conosce questa pagina? Fa parte della nostra civiltà. Ha segnato la storia dei popoli di cultura cristiana: la gerarchia di valori, le istituzioni, le molteplici opere benefiche e sociali. In effetti, il regno di Cristo non è di questo mondo, ma porta a compimento tutto il bene che, grazie a Dio, esiste nell’uomo e nella storia. Se mettiamo in pratica l’amore per il nostro prossimo, secondo il messaggio evangelico, allora facciamo spazio alla signoria di Dio, e il suo regno si realizza in mezzo a noi. Se invece ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina.

Cari amici, il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma, come scrive san Paolo, è "giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14,17). Al Signore sta a cuore il nostro bene, cioè che ogni uomo abbia la vita, e che specialmente i suoi figli più "piccoli" possano accedere al banchetto che lui ha preparato per tutti. Perciò, non sa che farsene di quelle forme ipocrite di chi dice "Signore, Signore" e poi trascura i suoi comandamenti (cfr Mt 7,21). Nel suo regno eterno, Dio accoglie quanti si sforzano giorno per giorno di mettere in pratica la sua parola. Per questo la Vergine Maria, la più umile di tutte le creature, è la più grande ai suoi occhi e siede Regina alla destra di Cristo Re. Alla sua celeste intercessione vogliamo affidarci ancora una volta con fiducia filiale, per poter realizzare la nostra missione cristiana nel mondo.

[Papa Benedetto, Angelus 23 novembre 2008]

Il “cielo” come pienezza di intimità con Dio

Lettura: 1 Gv 3, 2-3

1. Quando sarà passata la figura di questo mondo, coloro che hanno accolto Dio nella loro vita e si sono sinceramente aperti al suo amore almeno al momento della morte, potranno godere di quella pienezza di comunione con Dio, che costituisce il traguardo dell’esistenza umana.

Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, “questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata 'il cielo'. Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva” (n. 1024).

Vogliamo oggi cercare di cogliere il senso biblico del “cielo”, per poter comprendere meglio la realtà cui questa espressione rimanda.

2. Nel linguaggio biblico il “cielo” quando è unito alla “terra”, indica una parte dell’universo. A proposito della creazione, la Scrittura dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1, 1).

Sul piano metaforico il cielo è inteso come abitazione di Dio, che in questo si distingue dagli uomini (cfr Sal 104, 2s.; 115,16; Is 66, 1). Egli dall’alto dei cieli vede e giudica (cfr Sal 113, 4-9), e discende quando lo si invoca (cfr Sal 18,7.10; 144,5). Tuttavia la metafora biblica fa bene intendere che Dio né si identifica con il cielo né può essere racchiuso nel cielo (cfr 1 Re 8, 27); e ciò è vero, nonostante che in alcuni passi del primo libro dei Maccabei “il Cielo” sia semplicemente un nome di Dio (1 Mac 3, 18.19.50.60; 4, 24.55).

Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell'Antico Testamento emerge dalle vicenda di Enoc (cfr Gn 5, 24) e di Elia (cfr 2 Re 2, 11). Il cielo diventa così figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5, 12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6, 20; cfr 19, 21).

3. Il Nuovo Testamento approfondisce l'idea del cielo anche in rapporto al mistero di Cristo. Per indicare che il sacrificio del Redentore assume valore perfetto e definitivo, la Lettera agli Ebrei afferma che Gesù “ha attraversato i cieli” (Eb 4, 14) e “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso” (Ivi 9, 24). I credenti, poi, in quanto amati in modo speciale da parte del Padre, vengono risuscitati con Cristo e sono resi cittadini del cielo. Vale la pena di ascoltare quanto in proposito l’apostolo Paolo ci comunica in un testo di grande intensità: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù” (Ef 2, 4-7). La paternità di Dio, ricco di misericordia, viene sperimentata dalle creature attraverso l’amore del Figlio di Dio crocifisso e risorto, il quale come Signore siede nei cieli alla destra del Padre.

4. La partecipazione alla completa intimità con il Padre, dopo il percorso della nostra vita terrena, passa dunque attraverso l’inserimento nel mistero pasquale del Cristo. San Paolo sottolinea con vivida immagine spaziale questo nostro andare verso Cristo nei cieli alla fine dei tempi: “Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro [i morti risuscitati] tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1 Ts 4, 17-18).

Nel quadro della Rivelazione sappiamo che il “cielo” o la “beatitudine” nella quale ci troveremo non è un’astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. È l’incontro con il Padre che si realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo.

Occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste ‘realtà ultime’, giacché la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata. Oggi il linguaggio personalistico riesce a dire meno impropriamente la situazione di felicità e di pace in cui ci stabilirà la comunione definitiva con Dio.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica sintetizza l’insegnamento ecclesiale circa questa verità affermando che “con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha ‘aperto’ il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della Redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui” (n. 1026).

5. Questa situazione finale può essere tuttavia anticipata in qualche modo oggi, sia nella vita sacramentale, di cui l’Eucaristia è il centro, sia nel dono di sé mediante la carità fraterna. Se sapremo godere ordinatamente dei beni che il Signore ci elargisce ogni giorno, sperimenteremo già quella gioia e quella pace di cui un giorno godremo pienamente. Sappiamo che in questa fase terrena tutto è sotto il segno del limite, tuttavia il pensiero delle realtà ‘ultime’ ci aiuta a vivere bene le realtà ‘penultime’. Siamo consapevoli che mentre camminiamo in questo mondo siamo chiamati a cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3, 1), per essere con lui nel compimento escatologico, quando nello Spirito egli riconcilierà totalmente con il Padre “le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1, 20).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 21 luglio 1999]

Ma il paradosso cristiano è che il Giudice non riveste una regalità temibile, ma è un pastore pieno di mitezza e di misericordia.

Gesù, infatti, in questa parabola del giudizio finale, si serve dell’immagine del pastore. Prende le immagini dal profeta Ezechiele, che aveva parlato dell’intervento di Dio in favore del popolo, contro i cattivi pastori d’Israele (cfr 34,1-10). Questi erano stati crudeli, sfruttatori, preferendo pascere sé stessi piuttosto che il gregge; pertanto Dio stesso promette di prendersi cura personalmente del suo gregge, difendendolo dalle ingiustizie e dai soprusi. Questa promessa di Dio per il suo popolo si è realizzata pienamente in Gesù Cristo, il Pastore: proprio Lui è il Buon Pastore. Anche Lui stesso dice di sé: «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14).

Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone, perché Lui stesso, il giudice, è presente in ciascuna di esse. Lui è giudice, Lui è Dio-uomo, ma Lui è anche il povero, Lui è nascosto, è presente nella persona dei poveri che Lui menziona proprio lì. Dice Gesù: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto (o non avete fatto) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete (o non l’avete) fatto a me» (vv. 40.45). Saremo giudicati sull’amore. Il giudizio sarà sull’amore. Non sul sentimento, no: saremo giudicati sulle opere, sulla compassione che si fa vicinanza e aiuto premuroso.

Io mi avvicino a Gesù presente nella persona dei malati, dei poveri, dei sofferenti, dei carcerati, di coloro che hanno fame e sete di giustizia? Mi avvicino a Gesù presente lì? Questa è la domanda di oggi.

Dunque, il Signore, alla fine del mondo, passerà in rassegna il suo gregge, e lo farà non solo dalla parte del pastore, ma anche dalla parte delle pecore, con le quali Lui si è identificato. E ci chiederà: “Sei stato un po’ pastore come me?”. “Sei stato pastore di me che ero presente in questa gente che era nel bisogno, o sei stato indifferente?”. Fratelli e sorelle, guardiamoci dalla logica dell’indifferenza, di quello che ci viene in mente subito: guardare da un’altra parte quando vediamo un problema. Ricordiamo la parabola del Buon Samaritano. Quel povero uomo, ferito dai briganti, buttato per terra, fra la vita e la morte, era lì solo. Passò un sacerdote, vide, e se ne andò, guardò da un’altra parte. Passò un levita, vide e guardò da un’altra parte. Io, davanti ai miei fratelli e sorelle nel bisogno, sono indifferente come questo sacerdote, come questo levita, e guardo da un’altra parte? Sarò giudicato su questo: su come mi sono avvicinato, di come ho guardato Gesù presente nei bisognosi. Questa è la logica, e non lo dico io, lo dice Gesù: “Quello che avete fatto a questo, a questo, a questo, lo avete fatto a me. E quello che non avete fatto a questo, a questo, a questo, non lo avete fatto a me, perché io ero lì”. Che Gesù ci insegni questa logica, questa logica della prossimità, dell’avvicinarsi a Lui, con amore, nella persona dei più sofferenti.

Chiediamo alla Vergine Maria di insegnarci a regnare nel servire. La Madonna, assunta in Cielo, ha ricevuto dal suo Figlio la corona regale, perché lo ha seguito fedelmente – è la prima discepola - nella via dell’Amore. Impariamo da lei a entrare fin da ora nel Regno di Dio, attraverso la porta del servizio umile e generoso. E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me”.

[Papa Francesco, Angelus 22 novembre 2020]

 

Ma viene a noi ogni giorno

 

La pagina evangelica si apre con una visione grandiosa. Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, dice: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31). Si tratta dell’introduzione solenne del racconto del giudizio universale. Dopo aver vissuto l’esistenza terrena in umiltà e povertà, Gesù si presenta ora nella gloria divina che gli appartiene, circondato dalle schiere angeliche. L’umanità intera è convocata davanti a Lui ed Egli esercita la sua autorità separando gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre.

A quelli che ha posto alla sua destra dice: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (vv. 34-36). I giusti rimangono sorpresi, perché non ricordano di aver mai incontrato Gesù, e tanto meno di averlo aiutato in quel modo; ma Egli dichiara: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40). Questa parola non finisce mai di colpirci, perché ci rivela fino a che punto arriva l’amore di Dio: fino al punto di immedesimarsi con noi, ma non quando stiamo bene, quando siamo sani e felici, no, ma quando siamo nel bisogno. E in questo modo nascosto Lui si lascia incontrare, ci tende la mano come mendicante.  Così Gesù rivela il criterio decisivo del suo giudizio, cioè l’amore concreto per il prossimo in difficoltà. E così si rivela il potere dell’amore, la regalità di Dio: solidale con chi soffre per suscitare dappertutto atteggiamenti e opere di misericordia.

La parabola del giudizio prosegue presentando il re che allontana da sé quelli che durante la loro vita non si sono preoccupati delle necessità dei fratelli. Anche in questo caso costoro rimangono sorpresi e chiedono: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?» (v. 44). Sottinteso: “Se ti avessimo visto, sicuramente ti avremmo aiutato!”. Ma il re risponderà: «Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me» (v. 45). Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, cioè sul nostro concreto impegno di amare e servire Gesù nei nostri fratelli più piccoli e bisognosi. Quel mendicante, quel bisognoso che tende la mano è Gesù; quell’ammalato che devo visitare è Gesù; quel carcerato è Gesù; quell’affamato è Gesù. Pensiamo a questo.

Gesù verrà alla fine dei tempi per giudicare tutte le nazioni, ma viene a noi ogni giorno, in tanti modi, e ci chiede di accoglierlo. La Vergine Maria ci aiuti a incontrarlo e riceverlo nella sua Parola e nell’Eucaristia, e nello stesso tempo nei fratelli e nelle sorelle che soffrono la fame, la malattia, l’oppressione, l’ingiustizia. Possano i nostri cuori accoglierlo nell’oggi della nostra vita, perché siamo da Lui accolti nell’eternità del suo Regno di luce e di pace.

[Papa Francesco, Angelus 26 novembre 2017]

Fede, Tentazioni: la nostra riuscita

(Mt 4,1-11; Mc 1,12-15; Lc 4,1-13)

 

Solo l’uomo di Dio è tentato.

Nella Bibbia la tentazione non è una sorta di pericolo o seduzione per la morte, ma un’opportunità per la vita. Anche più: un rilancio dai soliti lacci.

Quando l’esistenza fila via senza scossoni, ecco invece il ‘terremoto della lusinga’... cimento che ricolloca in bilico.

Spiritualità Quaresimale.

Nel disegno di Dio, la prova di Fede non viene per distruggere menti e vita, ma per disturbare la paludosa realtà degli obblighi contratti nella quiete del galateo conformista.

Infatti, nelle etichette non siamo noi stessi, ma un ruolo: qui è impossibile conformarci sul serio a Cristo.

Ogni periglio giunge per un salutare scossone anche d’immagine, e per smuoverci.

L’esodo stimola a fare un balzo in avanti; a non affossare l’esistenza nell’antologia dei meccanismi acritici sotto condizione.

Il passaggio è stretto e si fa pure obbligato; ferisce. Ma sperona affinché incontriamo di nuovo noi stessi, i fratelli e il mondo.

La Provvidenza incalza: ci sta educando a guardare in faccia sia ogni dettaglio che l’opzione fondamentale.

Per uscire da pericoli, ‘seduzioni’ o disturbi, siamo obbligati a guardare dentro e tirar fuori tutte le risorse, persino quelle ignote (o cui non abbiamo concesso credito).

La difficoltà e la crisi costringono a trovare soluzioni, dare spazio ai lati trascurati e in ombra; vedere bene, chiedere aiuto; informarsi, entrare in relazione qualitativa e confrontarci.

Di necessità, virtù: dopo l’attrazione e l’adescamento o la prova, il punto di vista rinnovato, ribadito da una nuova valutazione, interroga l’anima sul calibro delle scelte e sulle nostre stesse infermità.

Le situazioni malferme hanno qualcosa da dirci: vengono dagli strati profondi dell’essere, che dobbiamo incontrare - e si configurano come energie plasmabili, da investire.

Le chiamate a rivoluzionare le opinioni di sé e delle cose - le vocazioni a una ‘nuova nascita’ - non sono incitamenti al peggio, né umiliazioni spirituali.

Le “croci” e persino gli abbagli sono un territorio di doglie che guida al contatto intimo con la nostra Sorgente, che volta a volta ci ri-suscita.

 

L’uomo che sta sempre in ascolto del proprio Centro e permane fedele alla singolare dignità e unicità di Missione, deve però sostenere le pressioni di un genere di male che istiga solo morte.

Mt e Lc descrivono tali allettamenti (‘apparentemente amicali’, per il successo) in tre quadri simbolici:

il rapporto con le cose [pietre in pane]; con gli altri [tentazione dei regni]; con Dio [Fiducia nell’Azione del Padre].

 

Nelle Sacre Scritture emerge un dato curioso: le persone spiritualmente fiacche non sono mai tentate! E vale anche il viceversa.

È il modo di vivere e interiorizzare il fulmine o il tempo della Tentazione ciò che distingue la Fede dalla banalità della devozione qualsiasi.

 

 

[1.a Domenica di Quaresima, 9 marzo 2025]

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Lent is like a long "retreat" in which to re-enter oneself and listen to God's voice in order to overcome the temptations of the Evil One and to find the truth of our existence. It is a time, we may say, of spiritual "training" in order to live alongside Jesus not with pride and presumption but rather by using the weapons of faith: namely prayer, listening to the Word of God and penance (Pope Benedict)
La Quaresima è come un lungo “ritiro”, durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire, di “agonismo” spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza (Papa Benedetto)
Thus, in the figure of Matthew, the Gospels present to us a true and proper paradox: those who seem to be the farthest from holiness can even become a model of the acceptance of God's mercy and offer a glimpse of its marvellous effects in their own lives (Pope Benedict)
Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza (Papa Benedetto)
Man is involved in penance in his totality of body and spirit: the man who has a body in need of food and rest and the man who thinks, plans and prays; the man who appropriates and feeds on things and the man who makes a gift of them; the man who tends to the possession and enjoyment of goods and the man who feels the need for solidarity that binds him to all other men [CEI pastoral note]
Nella penitenza è coinvolto l'uomo nella sua totalità di corpo e di spirito: l'uomo che ha un corpo bisognoso di cibo e di riposo e l'uomo che pensa, progetta e prega; l'uomo che si appropria e si nutre delle cose e l'uomo che fa dono di esse; l'uomo che tende al possesso e al godimento dei beni e l'uomo che avverte l'esigenza di solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini [nota pastorale CEI]
The Cross is the sign of the deepest humiliation of Christ. In the eyes of the people of that time it was the sign of an infamous death. Free men could not be punished with such a death, only slaves, Christ willingly accepts this death, death on the Cross. Yet this death becomes the beginning of the Resurrection. In the Resurrection the crucified Servant of Yahweh is lifted up: he is lifted up before the whole of creation (Pope John Paul II)
La croce è il segno della più profonda umiliazione di Cristo. Agli occhi del popolo di quel tempo costituiva il segno di una morte infamante. Solo gli schiavi potevano essere puniti con una morte simile, non gli uomini liberi. Cristo, invece, accetta volentieri questa morte, la morte sulla croce. Eppure questa morte diviene il principio della risurrezione. Nella risurrezione il servo crocifisso di Jahvè viene innalzato: egli viene innalzato su tutto il creato (Papa Giovanni Paolo II)
In today’s Gospel passage, Jesus identifies himself not only with the king-shepherd, but also with the lost sheep, we can speak of a “double identity”: the king-shepherd, Jesus identifies also with the sheep: that is, with the least and most needy of his brothers and sisters […] And let us return home only with this phrase: “I was present there. Thank you!”. Or: “You forgot about me” (Pope Francis)
Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi […] E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me” (Papa Francesco)

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