Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Genealogia
Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!
Cristo è nato per noi! Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama. A tutti giunga l’eco dell’annuncio di Betlemme, che la Chiesa Cattolica fa risuonare in tutti i continenti, al di là di ogni confine di nazionalità, di lingua e di cultura. Il Figlio di Maria Vergine è nato per tutti, è il Salvatore di tutti.
Così lo invoca un’antica antifona liturgica: “O Emmanuele, nostro re e legislatore, speranza e salvezza dei popoli: vieni a salvarci, o Signore nostro Dio”. Veni ad salvandum nos! Vieni a salvarci! Questo è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sente di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli. Ha bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte, una mano che dall’alto si tenda verso di lui. Cari fratelli e sorelle, questa mano è Cristo, nato a Betlemme dalla Vergine Maria. Lui è la mano che Dio ha teso all’umanità, per farla uscire dalle sabbie mobili del peccato e metterla in piedi sulla roccia, la salda roccia della sua Verità e del suo Amore (cfr Sal 40,3).
Sì, questo significa il nome di quel Bambino, il nome che, per volere di Dio, gli hanno dato Maria e Giuseppe: si chiama Gesù, che significa “Salvatore” (cfr Mt 1,21; Lc 1,31). Egli è stato inviato da Dio Padre per salvarci soprattutto dal male profondo, radicato nell’uomo e nella storia: quel male che è la separazione da Dio, l’orgoglio presuntuoso di fare da sé, di mettersi in concorrenza con Dio e sostituirsi a Lui, di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di essere il padrone della vita e della morte (cfr Gen 3,1-7). Questo è il grande male, il grande peccato, da cui noi uomini non possiamo salvarci se non affidandoci all’aiuto di Dio, se non gridando a Lui: “Veni ad salvandum nos! - Vieni a salvarci!”.
Il fatto stesso di elevare al Cielo questa invocazione, ci pone già nella giusta condizione, ci mette nella verità di noi stessi: noi infatti siamo coloro che hanno gridato a Dio e sono stati salvati (cfr Est [greco] 10,3f). Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati. Riconoscerlo, è il primo passo verso la salvezza, verso l’uscita dal labirinto in cui noi stessi ci chiudiamo con il nostro orgoglio. Alzare gli occhi al Cielo, protendere le mani e invocare aiuto è la via di uscita, a patto che ci sia Qualcuno che ascolta, e che può venire in nostro soccorso.
Gesù Cristo è la prova che Dio ha ascoltato il nostro grido. Non solo! Dio nutre per noi un amore così forte, da non poter rimanere in Se stesso, da uscire da Se stesso e venire in noi, condividendo fino in fondo la nostra condizione (cfr Es 3,7-12). La risposta che Dio ha dato in Gesù al grido dell’uomo supera infinitamente la nostra attesa, giungendo ad una solidarietà tale che non può essere soltanto umana, ma divina. Solo il Dio che è amore e l’amore che è Dio poteva scegliere di salvarci attraverso questa via, che è certamente la più lunga, ma è quella che rispetta la verità sua e nostra: la via della riconciliazione, del dialogo, della collaborazione.
Perciò, cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero, in questo Natale 2011, rivolgiamoci al Bambino di Betlemme, al Figlio della Vergine Maria, e diciamo: “Vieni a salvarci!”. Lo ripetiamo in unione spirituale con tante persone che vivono situazioni particolarmente difficili, e facendoci voce di chi non ha voce.
Insieme invochiamo il divino soccorso per le popolazioni del Corno d’Africa, che soffrono a causa della fame e delle carestie, talvolta aggravate da un persistente stato di insicurezza. La Comunità internazionale non faccia mancare il suo aiuto ai numerosi profughi provenienti da tale Regione, duramente provati nella loro dignità.
Il Signore doni conforto alle popolazioni del Sud-Est asiatico, particolarmente della Thailandia e delle Filippine, che sono ancora in gravi situazioni di disagio a causa delle recenti inondazioni.
Il Signore soccorra l’umanità ferita dai tanti conflitti, che ancora oggi insanguinano il Pianeta. Egli, che è il Principe della Pace, doni pace e stabilità alla Terra che ha scelto per venire nel mondo, incoraggiando la ripresa del dialogo tra Israeliani e Palestinesi. Faccia cessare le violenze in Siria, dove tanto sangue è già stato versato. Favorisca la piena riconciliazione e la stabilità in Iraq ed in Afghanistan. Doni un rinnovato vigore nell’edificazione del bene comune a tutte le componenti della società nei Paesi nord africani e mediorientali.
La nascita del Salvatore sostenga le prospettive di dialogo e di collaborazione in Myanmar, nella ricerca di soluzioni condivise. Il Natale del Redentore garantisca stabilità politica ai Paesi della Regione africana dei Grandi Laghi ed assista l’impegno degli abitanti del Sud Sudan per la tutela dei diritti di tutti i cittadini.
Cari fratelli e sorelle, rivolgiamo lo sguardo alla Grotta di Betlemme: il Bambino che contempliamo è la nostra salvezza! Lui ha portato al mondo un messaggio universale di riconciliazione e di pace. Apriamogli il nostro cuore, accogliamolo nella nostra vita. Ripetiamogli con fiducia e speranza: “Veni ad salvandum nos!”.
[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2011]
Oggi è nato per voi
Cari fratelli e sorelle,
“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio” (Is 9, 5). Ciò che Isaia, guardando da lontano verso il futuro, dice a Israele come consolazione nelle sue angustie ed oscurità, l’Angelo, dal quale emana una nube di luce, lo annuncia ai pastori come presente: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2, 11). Il Signore è presente. Da questo momento, Dio è veramente un “Dio con noi”. Non è più il Dio distante, che, attraverso la creazione e mediante la coscienza, si può in qualche modo intuire da lontano. Egli è entrato nel mondo. È il Vicino. Il Cristo risorto lo ha detto ai suoi, a noi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Per voi è nato il Salvatore: ciò che l’Angelo annunciò ai pastori, Dio ora lo richiama a noi per mezzo del Vangelo e dei suoi messaggeri. È questa una notizia che non può lasciarci indifferenti. Se è vera, tutto è cambiato. Se è vera, essa riguarda anche me. Allora, come i pastori, devo dire anch’io: Orsù, voglio andare a Betlemme e vedere la Parola che lì è accaduta. Il Vangelo non ci racconta senza scopo la storia dei pastori. Essi ci mostrano come rispondere in modo giusto a quel messaggio che è rivolto anche a noi. Che cosa ci dicono allora questi primi testimoni dell’incarnazione di Dio?
Dei pastori è detto anzitutto che essi erano persone vigilanti e che il messaggio poteva raggiungerli proprio perché erano svegli. Noi dobbiamo svegliarci, perché il messaggio arrivi fino a noi. Dobbiamo diventare persone veramente vigilanti. Che significa questo? La differenza tra uno che sogna e uno che sta sveglio consiste innanzitutto nel fatto che colui che sogna si trova in un mondo particolare. Con il suo io egli è rinchiuso in questo mondo del sogno che, appunto, è soltanto suo e non lo collega con gli altri. Svegliarsi significa uscire da tale mondo particolare dell’io ed entrare nella realtà comune, nella verità che, sola, ci unisce tutti. Il conflitto nel mondo, l’inconciliabilità reciproca, derivano dal fatto che siamo rinchiusi nei nostri propri interessi e nelle opinioni personali, nel nostro proprio minuscolo mondo privato. L’egoismo, quello del gruppo come quello del singolo, ci tiene prigionieri dei nostri interessi e desideri, che contrastano con la verità e ci dividono gli uni dagli altri. Svegliatevi, ci dice il Vangelo. Venite fuori per entrare nella grande verità comune, nella comunione dell’unico Dio. Svegliarsi significa così sviluppare la sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui Egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza. Ci sono persone che dicono di essere “religiosamente prive di orecchio musicale”. La capacità percettiva per Dio sembra quasi una dote che ad alcuni è rifiutata. E in effetti – la nostra maniera di pensare ed agire, la mentalità del mondo odierno, la gamma delle nostre varie esperienze sono adatte a ridurre la sensibilità per Dio, a renderci “privi di orecchio musicale” per Lui. E tuttavia in ogni anima è presente, in modo nascosto o aperto, l’attesa di Dio, la capacità di incontrarlo. Per ottenere questa vigilanza, questo svegliarsi all’essenziale, vogliamo pregare, per noi stessi e per gli altri, per quelli che sembrano essere “privi di questo orecchio musicale” e nei quali, tuttavia, è vivo il desiderio che Dio si manifesti. Il grande teologo Origene ha detto: se io avessi la grazia di vedere come ha visto Paolo, potrei adesso (durante la Liturgia) contemplare una grande schiera di Angeli (cfr in Lc 23, 9). Infatti – nella Sacra Liturgia, gli Angeli di Dio e i Santi ci circondano. Il Signore stesso è presente in mezzo a noi. Signore, apri gli occhi dei nostri cuori, affinché diventiamo vigilanti e veggenti e così possiamo portare la tua vicinanza anche ad altri!
Torniamo al Vangelo di Natale. Esso ci racconta che i pastori, dopo aver ascoltato il messaggio dell’Angelo, si dissero l’un l’altro: “'Andiamo fino a Betlemme' … Andarono, senza indugio” (Lc 2, 15s.). “Si affrettarono” dice letteralmente il testo greco. Ciò che era stato loro annunciato era così importante che dovevano andare immediatamente. In effetti, ciò che lì era stato detto loro andava totalmente al di là del consueto. Cambiava il mondo. È nato il Salvatore. L’atteso Figlio di Davide è venuto al mondo nella sua città. Che cosa poteva esserci di più importante? Certo, li spingeva anche la curiosità, ma soprattutto l’agitazione per la grande cosa che era stata comunicata proprio a loro, i piccoli e uomini apparentemente irrilevanti. Si affrettarono – senza indugio. Nella nostra vita ordinaria le cose non stanno così. La maggioranza degli uomini non considera prioritarie le cose di Dio, esse non ci incalzano in modo immediato. E così noi, nella stragrande maggioranza, siamo ben disposti a rimandarle. Prima di tutto si fa ciò che qui ed ora appare urgente. Nell’elenco delle priorità Dio si trova spesso quasi all’ultimo posto. Questo – si pensa – si potrà fare sempre. Il Vangelo ci dice: Dio ha la massima priorità. Se qualcosa nella nostra vita merita fretta senza indugio, ciò è, allora, soltanto la causa di Dio. Una massima della Regola di san Benedetto dice: “Non anteporre nulla all’opera di Dio (cioè all’ufficio divino)”. La Liturgia è per i monaci la prima priorità. Tutto il resto viene dopo. Nel suo nucleo, però, questa frase vale per ogni uomo. Dio è importante, la realtà più importante in assoluto nella nostra vita. Proprio questa priorità ci insegnano i pastori. Da loro vogliamo imparare a non lasciarci schiacciare da tutte le cose urgenti della vita quotidiana. Da loro vogliamo apprendere la libertà interiore di mettere in secondo piano altre occupazioni – per quanto importanti esse siano – per avviarci verso Dio, per lasciarlo entrare nella nostra vita e nel nostro tempo. Il tempo impegnato per Dio e, a partire da Lui, per il prossimo non è mai tempo perso. È il tempo in cui viviamo veramente, in cui viviamo lo stesso essere persone umane.
Alcuni commentatori fanno notare che per primi i pastori, le anime semplici, sono venuti da Gesù nella mangiatoia e hanno potuto incontrare il Redentore del mondo. I sapienti venuti dall’Oriente, i rappresentanti di coloro che hanno rango e nome, vennero molto più tardi. I commentatori aggiungono: questo è del tutto ovvio. I pastori, infatti, abitavano accanto. Essi non dovevano che “attraversare” (cfr Lc 2, 15) come si attraversa un breve spazio per andare dai vicini. I sapienti, invece, abitavano lontano. Essi dovevano percorrere una via lunga e difficile, per arrivare a Betlemme. E avevano bisogno di guida e di indicazione. Ebbene, anche oggi esistono anime semplici ed umili che abitano molto vicino al Signore. Essi sono, per così dire, i suoi vicini e possono facilmente andare da Lui. Ma la maggior parte di noi uomini moderni vive lontana da Gesù Cristo, da Colui che si è fatto uomo, dal Dio venuto in mezzo a noi. Viviamo in filosofie, in affari e occupazioni che ci riempiono totalmente e dai quali il cammino verso la mangiatoia è molto lungo. In molteplici modi Dio deve ripetutamente spingerci e darci una mano, affinché possiamo trovare l’uscita dal groviglio dei nostri pensieri e dei nostri impegni e trovare la via verso di Lui. Ma per tutti c’è una via. Per tutti il Signore dispone segnali adatti a ciascuno. Egli chiama tutti noi, perché anche noi si possa dire: Orsù, “attraversiamo”, andiamo a Betlemme – verso quel Dio, che ci è venuto incontro. Sì, Dio si è incamminato verso di noi. Da soli non potremmo giungere fino a Lui. La via supera le nostre forze. Ma Dio è disceso. Egli ci viene incontro. Egli ha percorso la parte più lunga del cammino. Ora ci chiede: Venite e vedete quanto vi amo. Venite e vedete che io sono qui. Transeamus usque Bethleem, dice la Bibbia latina. Andiamo di là! Oltrepassiamo noi stessi! Facciamoci viandanti verso Dio in molteplici modi: nell’essere interiormente in cammino verso di Lui. E tuttavia anche in cammini molto concreti – nella Liturgia della Chiesa, nel servizio al prossimo, in cui Cristo mi attende.
Ascoltiamo ancora una volta direttamente il Vangelo. I pastori si dicono l’un l’altro il motivo per cui si mettono in cammino: “Vediamo questo avvenimento”. Letteralmente il testo greco dice: “Vediamo questa Parola, che lì è accaduta”. Sì, tale è la novità di questa notte: la Parola può essere guardata. Poiché si è fatta carne. Quel Dio di cui non si deve fare alcuna immagine, perché ogni immagine potrebbe solo ridurlo, anzi travisarlo, quel Dio si è reso, Egli stesso, visibile in Colui che è la sua vera immagine, come dice Paolo (cfr 2 Cor 4, 4; Col 1, 15). Nella figura di Gesù Cristo, in tutto il suo vivere ed operare, nel suo morire e risorgere, possiamo guardare la Parola di Dio e quindi il mistero dello stesso Dio vivente. Dio è così. L’Angelo aveva detto ai pastori: “Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2, 12; cfr 16). Il segno di Dio, il segno che viene dato ai pastori e a noi, non è un miracolo emozionante. Il segno di Dio è la sua umiltà. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo; diventa bambino; si lascia toccare e chiede il nostro amore. Quanto desidereremmo noi uomini un segno diverso, imponente, inconfutabile del potere di Dio e della sua grandezza. Ma il suo segno ci invita alla fede e all’amore, e pertanto ci dà speranza: così è Dio. Egli possiede il potere ed è la Bontà. Ci invita a diventare simili a Lui. Sì, diventiamo simili a Dio, se ci lasciamo plasmare da questo segno; se impariamo, noi stessi, l’umiltà e così la vera grandezza; se rinunciamo alla violenza ed usiamo solo le armi della verità e dell’amore. Origene, seguendo una parola di Giovanni Battista, ha visto espressa l’essenza del paganesimo nel simbolo delle pietre: paganesimo è mancanza di sensibilità, significa un cuore di pietra, che è incapace di amare e di percepire l’amore di Dio. Origene dice dei pagani: “Privi di sentimento e di ragione, si trasformano in pietre e in legno” (in Lc 22, 9). Cristo, però, vuole darci un cuore di carne. Quando vediamo Lui, il Dio che è diventato un bambino, ci si apre il cuore. Nella Liturgia della Notte Santa Dio viene a noi come uomo, affinché noi diventiamo veramente umani. Ascoltiamo ancora Origene: “In effetti, a che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge fin nella tua anima? Preghiamo che venga quotidianamente a noi e che possiamo dire: vivo, però non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal 2, 20)” (in Lc 22, 3).
Sì, per questo vogliamo pregare in questa Notte Santa. Signore Gesù Cristo, tu che sei nato a Betlemme, vieni a noi! Entra in me, nella mia anima. Trasformami. Rinnovami. Fa’ che io e tutti noi da pietra e legno diventiamo persone viventi, nelle quali il tuo amore si rende presente e il mondo viene trasformato. Amen.
[Papa Benedetto, omelia della Notte 24 dicembre 2009]
I pastori trovarono
“Un giorno santo è spuntato per noi:
venite tutti ad adorare il Signore;
oggi una splendida luce è discesa sulla terra”
(Messa del giorno di Natale, Acclamazione al Vangelo).
Cari fratelli e sorelle! “Un giorno santo è spuntato per noi”. Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell’umanità! La nascita di un bambino porta normalmente una luce di speranza a quanti lo attendono trepidanti. Quando nacque Gesù nella grotta di Betlemme, una “grande luce” apparve sulla terra; una grande speranza entrò nel cuore di quanti lo attendevano: “lux magna”, canta la liturgia di questo giorno di Natale. Non fu certo “grande” alla maniera di questo mondo, perché a vederla, dapprima, furono solo Maria, Giuseppe e alcuni pastori, poi i Magi, il vecchio Simeone, la profetessa Anna: coloro che Dio aveva prescelto. Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: “il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,14)
“Dio è luce – afferma san Giovanni – e in lui non ci sono tenebre” (1 Gv 1,5). Nel Libro della Genesi leggiamo che quando ebbe origine l’universo, “la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”. “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu” (Gn 1,2-3). La Parola creatrice di Dio è Luce, sorgente della vita. Tutto è stato fatto per mezzo del Logos e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (cfr Gv 1,3). Ecco perchè tutte le creature sono fondamentalmente buone, e recano in sé l’impronta di Dio, una scintilla della sua luce. Tuttavia, quando Gesù nacque dalla Vergine Maria, la Luce stessa è venuta nel mondo: “Dio da Dio, Luce da Luce”, professiamo nel Credo. In Gesù Dio ha assunto ciò che non era rimanendo ciò che era: “l’onnipotenza entrò in un corpo infantile e non fu sottratta al governo dell’universo” (cfr Agostino, Serm 184, 1 sul Natale). Si è fatto uomo Colui che è il creatore dell’uomo per recare al mondo la pace. Per questo, nella notte di Natale, le schiere degli Angeli cantano: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli / e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14).
“Oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. La Luce di Cristo è portatrice di pace. Nella Messa della notte la liturgia eucaristica si è aperta proprio con questo canto: “Oggi la vera pace è scesa a noi dal cielo” (Antifona d’ingresso). Anzi, solo la “grande” luce apparsa in Cristo può donare agli uomini la “vera” pace: ecco perchè ogni generazione è chiamata ad accoglierla, ad accogliere il Dio che a Betlemme si è fatto uno di noi.
Questo è il Natale! Evento storico e mistero di amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. E’ il giorno santo in cui rifulge la “grande luce” di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà. L’umiltà di Maria, che ha creduto alla parola del Signore, e ha adorato per prima, china sulla mangiatoia, il Frutto del suo grembo; l’umiltà di Giuseppe, uomo giusto, che ebbe il coraggio della fede e preferì obbedire a Dio piuttosto che tutelare la propria reputazione; l’umiltà dei pastori, dei poveri ed anonimi pastori, che accolsero l’annuncio del messaggero celeste e in fretta raggiunsero la grotta dove trovarono il bambino appena nato e, pieni di stupore, lo adorarono lodando Dio (cfr Lc 2,15-20). I piccoli, i poveri in spirito: ecco i protagonisti del Natale, ieri come oggi; i protagonisti di sempre della storia di Dio, i costruttori infaticabili del suo Regno di giustizia, di amore e di pace.
Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto e orante? Chi attende l’aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? Sì! È per tutti il suo messaggio di pace; è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza.
La luce di Cristo, che viene ad illuminare ogni essere umano, possa finalmente rifulgere, e sia consolazione per quanti si trovano nelle tenebre della miseria, dell'ingiustizia, della guerra; per coloro che vedono ancora negata la loro legittima aspirazione a una più sicura sussistenza, alla salute, all'istruzione, a un'occupazione stabile, a una partecipazione più piena alle responsabilità civili e politiche, al di fuori di ogni oppressione e al riparo da condizioni che offendono la dignità umana. Vittime dei sanguinosi conflitti armati, del terrorismo e delle violenze di ogni genere, che infliggono inaudite sofferenze a intere popolazioni, sono particolarmente le fasce più vulnerabili, i bambini, le donne, gli anziani. Mentre le tensioni etniche, religiose e politiche, l’instabilità, le rivalità, le contrapposizioni, le ingiustizie e le discriminazioni, che lacerano il tessuto interno di molti Paesi, inaspriscono i rapporti internazionali. E nel mondo va sempre più crescendo il numero dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati anche a causa delle frequenti calamità naturali, conseguenza spesso di preoccupanti dissesti ambientali.
In questo giorno di pace, il pensiero va soprattutto laddove rimbomba il fragore delle armi: alle martoriate terre del Darfur, della Somalia e del nord della Repubblica Democratica del Congo, ai confini dell'Eritrea e dell'Etiopia, all'intero Medio Oriente, in particolare all'Iraq, al Libano e alla Terrasanta, all'Afghanistan, al Pakistan e allo Sri Lanka, alla regione dei Balcani, e alle tante altre situazioni di crisi, spesso purtroppo dimenticate. Il Bambino Gesù porti sollievo a chi è nella prova e infonda ai responsabili di governo la saggezza e il coraggio di cercare e trovare soluzioni umane, giuste e durature. Alla sete di senso e di valore che avverte il mondo oggi, alla ricerca di benessere e di pace che segna la vita di tutta l’umanità, alle attese dei poveri Cristo, vero Dio e vero Uomo, risponde con il suo Natale. Non temano gli individui e le nazioni di riconoscerlo e di accoglierlo: con Lui “una splendida luce” rischiara l’orizzonte dell’umanità; con Lui si apre “un giorno santo” che non conosce tramonto. Questo Natale sia veramente per tutti un giorno di gioia, di speranza e di pace!
“Venite tutti ad adorare il Signore”. Con Maria, Giuseppe e i pastori, con i Magi e la schiera innumerevole di umili adoratori del neonato Bambino, che lungo i secoli hanno accolto il mistero del Natale, anche noi, fratelli e sorelle di ogni continente, lasciamo che la luce di questo giorno si diffonda dappertutto: entri nei nostri cuori, rischiari e riscaldi le nostre case, porti serenità e speranza nelle nostre città, dia al mondo la pace. E’ questo il mio augurio per voi che mi ascoltate. Augurio che si fa preghiera umile e fiduciosa al Bambino Gesù, perché la sua luce disperda ogni tenebra dalla vostra vita e vi ricolmi dell’amore e della pace. Il Signore, che ha fatto risplendere in Cristo il suo volto di misericordia, vi appaghi della sua felicità e vi renda messaggeri della sua bontà. Buon Natale!
[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2007]
Il Logos si fece Carne
“Verbum caro factum est” - “Il Verbo si fece carne” (Gv 1,14).
Cari fratelli e sorelle, che mi ascoltate da Roma e dal mondo intero, con gioia vi annuncio il messaggio del Natale: Dio si è fatto uomo, è venuto ad abitare in mezzo a noi. Dio non è lontano: è vicino, anzi, è l’“Emmanuele”, Dio-con-noi. Non è uno sconosciuto: ha un volto, quello di Gesù.
E’ un messaggio sempre nuovo, sempre sorprendente, perché oltrepassa ogni nostra più audace speranza. Soprattutto perché non è solo un annuncio: è un avvenimento, un accadimento, che testimoni credibili hanno veduto, udito, toccato nella Persona di Gesù di Nazareth! Stando con Lui, osservando i suoi atti e ascoltando le sue parole, hanno riconosciuto in Gesù il Messia; e vedendolo risorto, dopo che era stato crocifisso, hanno avuto la certezza che Lui, vero uomo, era al tempo stesso vero Dio, il Figlio unigenito venuto dal Padre, pieno di grazia e di verità (cfr Gv 1,14).
“Il Verbo si fece carne”. Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo.
In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà (cfr Es 3,14-15; 34,6). Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. E’ in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio.
“Il Verbo si fece carne”. La luce di questa verità si manifesta a chi la accoglie con fede, perché è un mistero d’amore. Solo quanti si aprono all’amore sono avvolti dalla luce del Natale. Così fu nella notte di Betlemme, e così è anche oggi. L’incarnazione del Figlio di Dio è un avvenimento che è accaduto nella storia, ma nello stesso tempo la oltrepassa. Nella notte del mondo si accende una luce nuova, che si lascia vedere dagli occhi semplici della fede, dal cuore mite e umile di chi attende il Salvatore. Se la verità fosse solo una formula matematica, in un certo senso si imporrebbe da sé. Se invece la Verità è Amore, domanda la fede, il “sì” del nostro cuore.
E che cosa cerca, in effetti, il nostro cuore, se non una Verità che sia Amore? La cerca il bambino, con le sue domande, così disarmanti e stimolanti; la cerca il giovane, bisognoso di trovare il senso profondo della propria vita; la cercano l’uomo e la donna nella loro maturità, per guidare e sostenere l’impegno nella famiglia e nel lavoro; la cerca la persona anziana, per dare compimento all’esistenza terrena.
“Il Verbo si fece carne”. L’annuncio del Natale è luce anche per i popoli, per il cammino collettivo dell’umanità. L’“Emmanuele”, Dio-con-noi, è venuto come Re di giustizia e di pace. Il suo Regno – lo sappiamo – non è di questo mondo, eppure è più importante di tutti i regni di questo mondo. E’ come il lievito dell’umanità: se mancasse, verrebbe meno la forza che manda avanti il vero sviluppo: la spinta a collaborare per il bene comune, al servizio disinteressato del prossimo, alla lotta pacifica per la giustizia. Credere nel Dio che ha voluto condividere la nostra storia è un costante incoraggiamento ad impegnarsi in essa, anche in mezzo alle sue contraddizioni. E’ motivo di speranza per tutti coloro la cui dignità è offesa e violata, perché Colui che è nato a Betlemme è venuto a liberare l’uomo dalla radice di ogni schiavitù.
La luce del Natale risplenda nuovamente in quella Terra dove Gesù è nato e ispiri Israeliani e Palestinesi nel ricercare una convivenza giusta e pacifica. L’annuncio consolante della venuta dell’Emmanuele lenisca il dolore e consoli nelle prove le care comunità cristiane in Iraq e in tutto il Medio Oriente, donando loro conforto e speranza per il futuro ed animando i Responsabili delle Nazioni ad una fattiva solidarietà verso di esse. Ciò avvenga anche in favore di coloro che ad Haiti soffrono ancora per le conseguenze del devastante terremoto e della recente epidemia di colera. Così pure non vengano dimenticati coloro che in Colombia ed in Venezuela, ma anche in Guatemala e in Costa Rica, hanno subito le recenti calamità naturali.
La nascita del Salvatore apra prospettive di pace duratura e di autentico progresso alle popolazioni della Somalia, del Darfur e della Costa d’Avorio; promuova la stabilità politica e sociale del Madagascar; porti sicurezza e rispetto dei diritti umani in Afghanistan e in Pakistan; incoraggi il dialogo fra Nicaragua e Costa Rica; favorisca la riconciliazione nella Penisola Coreana.
La celebrazione della nascita del Redentore rafforzi lo spirito di fede, di pazienza e di coraggio nei fedeli della Chiesa nella Cina continentale, affinché non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza e, perseverando nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, mantengano viva la fiamma della speranza. L’amore del “Dio con noi” doni perseveranza a tutte le comunità cristiane che soffrono discriminazione e persecuzione, ed ispiri i leader politici e religiosi ad impegnarsi per il pieno rispetto della libertà religiosa di tutti.
Cari fratelli e sorelle, “il Verbo si fece carne”, è venuto ad abitare in mezzo a noi, è l’Emmanuele, il Dio che si è fatto a noi vicino. Contempliamo insieme questo grande mistero di amore, lasciamoci illuminare il cuore dalla luce che brilla nella grotta di Betlemme! Buon Natale a tutti!
[Papa Benedetto, Messaggio Urbi et Orbi 25 dicembre 2010]
1. "Oggi è nato per noi il Salvatore" (Rit. Salmo resp.).
Risuona in questa notte, antico e sempre nuovo, l'annuncio del Natale del Signore. Risuona per chi veglia, come i pastori di Betlemme duemila anni or sono; risuona per chi ha seguito il richiamo dell'Avvento e, vigilante nell'attesa, è pronto ad accogliere il lieto messaggio, che nella liturgia si fa canto: "Oggi è nato per noi il Salvatore".
Veglia il popolo cristiano; veglia il mondo intero, in questa notte di Natale che si riallaccia a quella memorabile di un anno fa, quando fu aperta la Porta Santa del Grande Giubileo, Porta della grazia spalancata per tutti.
2. In ogni giorno dell'Anno giubilare è come se la Chiesa non avesse mai cessato di ripetere: "Oggi è nato per noi il Salvatore". Quest'annuncio, che possiede un'inesauribile carica di rinnovamento, riecheggia in questa notte santa con forza singolare: è il Natale del Grande Giubileo, memoria viva dei duemila anni di Cristo, della sua nascita prodigiosa, che ha segnato il nuovo inizio della storia. Oggi "il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi" (Gv 1,14).
"Oggi". In questa notte, il tempo si apre all'eterno, perché Tu, o Cristo, sei nato tra noi sorgendo dall'alto. Sei venuto alla luce dal grembo di una Donna tra tutte benedetta, Tu, il "Figlio dell'Altissimo". La tua santità ha santificato una volta per sempre il nostro tempo: i giorni, i secoli, i millenni. Con la tua nascita hai fatto del tempo un "oggi" di salvezza.
3. "Oggi è nato per noi il Salvatore".
Celebriamo in questa notte il mistero di Betlemme, il mistero di una notte singolare che sta, in un certo senso, nel tempo e oltre il tempo. Nel grembo della Vergine è nato un Bambino, una mangiatoia è stata culla per la Vita immortale.
Natale è la festa della vita, perché Tu, Gesù, venendo alla luce come ognuno di noi, hai benedetto l'ora della nascita: un'ora che simbolicamente rappresenta il mistero dell'umana esistenza, unendo il travaglio alla speranza, il dolore alla gioia. Tutto questo è avvenuto a Betlemme: una Madre ha partorito; "è venuto al mondo un uomo" (Gv 16,21), il Figlio dell'uomo. Mistero di Betlemme!
4. Con interiore commozione ripenso ai giorni del mio pellegrinaggio giubilare in Terra Santa. Torno con la mente a quella grotta nella quale mi è stata concessa la grazia di sostare in preghiera. Bacio nello spirito quella terra benedetta in cui è sbocciata per il mondo la gioia imperitura.
Penso con apprensione ai Luoghi santi e, in modo speciale, alla città di Betlemme, dove, purtroppo, a causa della difficile situazione politica, non potranno svolgersi con la consueta solennità i suggestivi riti del Santo Natale. Vorrei che in questa notte quelle comunità cristiane sentissero la piena solidarietà di tutta la Chiesa.
Vi siamo vicini, carissimi Fratelli e Sorelle, con una preghiera particolarmente intensa. Insieme con voi trepidiamo per le sorti dell'intera regione medio-orientale. Voglia il Signore ascoltare la nostra invocazione! Da questa Piazza, centro del mondo cattolico, risuoni ancora una volta con rinnovato vigore l'annuncio degli angeli ai pastori: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama" (Lc 2, 14).
Non può vacillare la nostra fiducia, come non può venir meno la meraviglia per quanto stiamo commemorando. Nasce oggi Colui che dona al mondo la pace.
5. "Oggi è nato per noi il Salvatore".
Il Verbo vagisce in una mangiatoia. Si chiama Gesù, che significa "Dio salva", perché "salverà il suo popolo dai suoi peccati" (Mt 1,21).
Non è una reggia quella in cui nasce il Redentore, destinato ad instaurare il Regno eterno e universale. Nasce in una stalla e, venendo fra noi, accende nel mondo il fuoco dell'amore di Dio (cfr Lc 12,49). Questo fuoco non si spegnerà mai più.
Possa questo fuoco ardere nei cuori come fiamma di carità fattiva, che diventi accoglienza e sostegno per tanti fratelli provati dal bisogno e dalla sofferenza!
6. Signore Gesù, che contempliamo nella povertà di Betlemme, rendici testimoni del tuo amore, di quell'amore che Ti ha spinto a spogliarTi della gloria divina, per venire a nascere fra gli uomini e a morire per noi.
Mentre il Grande Giubileo entra nella sua fase finale, infondi in noi il tuo Spirito, perché la grazia dell'Incarnazione susciti in ogni credente l'impegno di una più generosa corrispondenza alla vita nuova ricevuta nel Battesimo.
Fa' che la luce di questa notte più splendente del giorno si proietti sul futuro ed orienti i passi dell'umanità sulla via della pace.
Tu, Principe della pace, Tu Salvatore nato oggi per noi, cammina con la tua Chiesa sulla strada che le si apre dinanzi nel nuovo millennio!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia di mezzanotte 24 dicembre 2000]
1. «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1).
Questa profezia di Isaia non finisce mai di commuoverci, specialmente quando la ascoltiamo nella Liturgia della Notte di Natale. E non è solo un fatto emotivo, sentimentale; ci commuove perché dice la realtà profonda di ciò che siamo: siamo popolo in cammino, e intorno a noi – e anche dentro di noi – ci sono tenebre e luce. E in questa notte, mentre lo spirito delle tenebre avvolge il mondo, si rinnova l’avvenimento che sempre ci stupisce e ci sorprende: il popolo in cammino vede una grande luce. Una luce che ci fa riflettere su questo mistero: mistero del camminare e del vedere.
Camminare. Questo verbo ci fa pensare al corso della storia, a quel lungo cammino che è la storia della salvezza, a cominciare da Abramo, nostro padre nella fede, che il Signore chiamò un giorno a partire, ad uscire dal suo paese per andare verso la terra che Lui gli avrebbe indicato. Da allora, la nostra identità di credenti è quella di gente pellegrina verso la terra promessa. Questa storia è sempre accompagnata dal Signore! Egli è sempre fedele al suo patto e alle sue promesse. Perché fedele, «Dio è luce, e in lui non c’è tenebra alcuna» (1 Gv 1,5). Da parte del popolo, invece, si alternano momenti di luce e di tenebra, fedeltà e infedeltà, obbedienza e ribellione; momenti di popolo pellegrino e momenti di popolo errante.
Anche nella nostra storia personale si alternano momenti luminosi e oscuri, luci e ombre. Se amiamo Dio e i fratelli, camminiamo nella luce, ma se il nostro cuore si chiude, se prevalgono in noi l’orgoglio, la menzogna, la ricerca del proprio interesse, allora scendono le tenebre dentro di noi e intorno a noi. «Chi odia suo fratello – scrive l’apostolo Giovanni – è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1 Gv 2,11). Popolo in cammino, ma popolo pellegrino che non vuole essere popolo errante.
2. In questa notte, come un fascio di luce chiarissima, risuona l’annuncio dell’Apostolo: «È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (Tt 2,11).
La grazia che è apparsa nel mondo è Gesù, nato dalla Vergine Maria, vero uomo e vero Dio. Egli è venuto nella nostra storia, ha condiviso il nostro cammino. È venuto per liberarci dalle tenebre e donarci la luce. In Lui è apparsa la grazia, la misericordia, la tenerezza del Padre: Gesù è l’Amore fattosi carne. Non è soltanto un maestro di sapienza, non è un ideale a cui tendiamo e dal quale sappiamo di essere inesorabilmente lontani, è il senso della vita e della storia che ha posto la sua tenda in mezzo a noi.
3. I pastori sono stati i primi a vedere questa “tenda”, a ricevere l’annuncio della nascita di Gesù. Sono stati i primi perché erano tra gli ultimi, gli emarginati. E sono stati i primi perché vegliavano nella notte, facendo la guardia al loro gregge. E’ legge del pellegrino vegliare, e loro vegliavano. Con loro ci fermiamo davanti al Bambino, ci fermiamo in silenzio. Con loro ringraziamo il Signore di averci donato Gesù, e con loro lasciamo salire dal profondo del cuore la lode della sua fedeltà: Ti benediciamo, Signore Dio Altissimo, che ti sei abbassato per noi. Tu sei immenso, e ti sei fatto piccolo; sei ricco, e ti sei fatto povero; sei l’onnipotente, e ti sei fatto debole.
In questa Notte condividiamo la gioia del Vangelo: Dio ci ama, ci ama tanto che ha donato il suo Figlio come nostro fratello, come luce nelle nostre tenebre. Il Signore ci ripete: «Non temete» (Lc 2,10). Come hanno detto gli angeli ai pastori: «Non temete». E anch’io ripeto a tutti voi: Non temete! Il nostro Padre è paziente, ci ama, ci dona Gesù per guidarci nel cammino verso la terra promessa. Egli è la luce che rischiara le tenebre. Egli è la misericordia: il nostro Padre ci perdona sempre. Egli è la nostra pace. Amen.
[Papa Francesco, omelia di mezzanotte 24 dicembre 2013]
(Lc 1,67-79)
L’inno è una preghiera di lode delle prime comunità, e ci dà un’idea di come erano vissute la vita di fede e la liturgia: insieme celebrazione del mistero, professione, animazione della speranza e catechesi.
Il Cantico di Zaccaria si mantiene a un livello teologico giudaizzante che esprime il compimento del Patto, e sprizza letizia per la consapevolezza di essere stati visitati da Dio.
Nel Figlio, l’Eterno Padre ‘viene’ a coronare le Promesse.
Il componimento risponde al medesimo schema dell’inno di Maria (vv.46-55) che loda Dio perché rivela il suo potere in modo convergente e decisivo, donandoci il passo d’una vita liberata dalle oppressioni.
Nella nascita di Giovanni è annunciato il Cristo: l’attesa d’Israele - qui ancora vagamente confusa con un Germoglio dominante (davidico) dalle venature culturali vincolate, particolari.
Ora però l’aspettativa dei cuori si rende viva in una realtà di unione umana - imprevedibile per culture targate: in modo diverso da quello che ci si aspetterebbe.
Tutto un popolo è sacerdotale.
Giunge finalmente il mondo della verità e della pienezza nel vivere: della presenza divina non ingessata, bensì ‘in mezzo’.
Certezza precisata nelle forme tradizionali della “nazione eletta”, sulla quale però si eleva la fiducia generata dall’esperienza di un nuovo assetto fraterno.
L’intervento di Giovanni e Gesù sostanzia l’invocata pienezza dei tempi. Così «il Dio d’Israele ha visitato e fatto la redenzione per il suo popolo, e ha suscitato per noi un corno di salvezza» (vv.68-69).
In questo passaggio dalla Prima alla Nuova Alleanza le comunità di Lc esprimono una voglia di testimoniare convinzioni di Fede ormai «senza paura» (v.74), con senso di Presenza: «dinanzi» (vv.75.76).
Ciò per consapevolezza di «perdono» incondizionato e «conoscenza»: «Via di Pace» (vv.77.79).
Un’esperienza che evolve armonizzando le Scritture antiche, lasciando avanzare una nuova Liberazione.
Riscatto per opera intrinseca, non accessoria: azione della Luce che evita condanne; solo concilia.
L’unità della storia della salvezza produce l’affrancamento delle sue esigenze spirituali, sociali e di criterio, senza più contese convenzionali - nell’Aurora del Messia atteso.
[Feria propria del 24 dicembre]
Cari fratelli e sorelle,
la celebrazione del Santo Natale è ormai imminente. L’odierna vigilia ci prepara a vivere intensamente il mistero che questa Notte la liturgia ci inviterà a contemplare con gli occhi della fede. Nel divino Neonato, che deporremo nel presepe, si rende manifesta la nostra salvezza. Nel Dio che si fa uomo per noi, ci sentiamo tutti amati ed accolti, scopriamo di essere preziosi e unici agli occhi del Creatore. Il Natale di Cristo ci aiuta a prendere coscienza di quanto valga la vita umana, la vita di ogni essere umano, dal suo primo istante al suo naturale tramonto. A chi apre il cuore a questo "bambino avvolto in fasce" e giacente "in una mangiatoia" (cfr Lc 2,12), egli offre la possibilità di guardare con occhi nuovi le realtà di ogni giorno. Potrà assaporare la potenza del fascino interiore dell’amore di Dio, che riesce a trasformare in gioia anche il dolore.
Prepariamoci, cari amici, ad incontrare Gesù, l’Emmanuele, Dio con noi. Nascendo nella povertà di Betlemme, Egli vuole farsi compagno di viaggio di ciascuno. In questo mondo, da quando Lui stesso ha voluto porvi la sua "tenda", nessuno è straniero. È vero, siamo tutti di passaggio, ma è proprio Gesù a farci sentire a casa in questa terra santificata dalla sua presenza. Egli ci chiede però di renderla casa accogliente per tutti. Il dono sorprendente del Natale è proprio questo: Gesù è venuto per ciascuno di noi e in lui ci ha resi fratelli. L’impegno corrispondente è quello di superare sempre più i preconcetti e i pregiudizi, abbattere le barriere ed eliminare i contrasti che dividono, o peggio, contrappongono gli individui e i popoli, per costruire insieme un mondo di giustizia e di pace.
Con questi sentimenti, cari fratelli e sorelle, viviamo le ultime ore che ci separano dal Natale, preparandoci spiritualmente ad accogliere il Bambino Gesù. Nel cuore della notte Egli verrà per noi. È suo desiderio però anche venire in noi, ad abitare cioè nel cuore di ognuno di noi. Perché ciò avvenga, è indispensabile che siamo disponibili e ci apprestiamo a riceverlo, pronti a fargli spazio dentro di noi, nelle nostre famiglie, nelle nostre città. Che la sua nascita non ci colga impegnati a festeggiare il Natale, dimenticando che il protagonista della festa è proprio Lui! Ci aiuti Maria a mantenere il raccoglimento interiore indispensabile per gustare la gioia profonda che apporta la nascita del Redentore. A Lei ci rivolgiamo ora con la nostra preghiera, pensando particolarmente a quanti si apprestano a trascorrere il Natale nella tristezza e nella solitudine, nella malattia e nella sofferenza: a tutti la Vergine arrechi conforto e consolazione.
[Papa Benedetto, Angelus 24 dicembre 2006]
(Lettura: Lc 1,68-69.76.78-79)
1. Giunti al termine del lungo itinerario all’interno dei Salmi e dei Cantici della Liturgia delle Lodi, vogliamo sostare su quella preghiera che, ogni mattina, scandisce il momento orante della lode. Si tratta del Benedictus, il Cantico intonato dal padre di Giovanni Battista, Zaccaria, allorché la nascita di quel figlio aveva mutato la sua vita, cancellando il dubbio che l’aveva reso muto, una punizione significativa per la sua mancanza di fede e di lode.
Ora, invece, Zaccaria può celebrare Dio che salva e lo fa con questo inno, riportato dall’evangelista Luca in una forma che certamente ne riflette l’uso liturgico all’interno della comunità cristiana delle origini (cfr Lc 1,68-79).
Lo stesso evangelista lo definisce come un canto profetico, sbocciato attraverso il soffio dello Spirito Santo (cfr 1,67). Siamo, infatti, di fronte ad una benedizione che proclama le azioni salvifiche e la liberazione offerta dal Signore al suo popolo. E’, quindi, una lettura «profetica» della storia, ossia la scoperta del senso intimo e profondo dell’intera vicenda umana, guidata dalla mano nascosta ma operosa del Signore, che s’intreccia con quella più debole e incerta dell’uomo.
2. Il testo è solenne e, nell’originale greco, si compone di due sole frasi (cfr vv. 68-75; 76-79). Dopo l’introduzione, segnata dalla benedizione laudativa, possiamo identificare nel corpo del Cantico quasi tre strofe, che esaltano altrettanti temi, destinati a scandire tutta la storia della salvezza: l’alleanza davidica (cfr vv. 68-71), l’alleanza abramitica (cfr vv. 72-75), il Battista che ci introduce nella nuova alleanza in Cristo (cfr vv. 76-79). La tensione di tutta la preghiera è, infatti, verso quella meta che Davide e Abramo indicano con la loro presenza.
Il vertice è appunto in una frase quasi conclusiva: «Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge» (v. 78). L’espressione a prima vista paradossale col suo unire «l’alto» e il «sorgere», è in realtà significativa.
3. Infatti nell’originale greco il «sole che sorge» è anatolè, un vocabolo che in sé significa sia la luce solare che brilla sul nostro pianeta, sia il germoglio che spunta. Entrambe le immagini nella tradizione biblica hanno un valore messianico.
Da un lato, Isaia ci ricorda, parlando dell’Emmanuele, che «il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1). D’altro lato, ancora riferendosi al re-Emmanuele, lo raffigura come il «germoglio spuntato dal tronco di Iesse», cioè dalla dinastia davidica, un virgulto avvolto dallo Spirito di Dio (cfr Is 11,1-2).
Con Cristo, dunque, appare la luce che illumina ogni creatura (cfr Gv 1,9) e fiorisce la vita, come dirà l’evangelista Giovanni unendo proprio queste due realtà: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4).
4. L’umanità che è avvolta «nelle tenebre e nell’ombra della morte» è rischiarata da questo fulgore di rivelazione (cfr Lc 1,79). Come aveva annunziato il profeta Malachia, «per voi cultori del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (3,20). Questo sole «dirigerà i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79).
Ci muoviamo, allora, avendo come punto di riferimento quella luce; e i nostri passi incerti, che durante il giorno spesso deviano su strade oscure e scivolose, sono sostenuti dal chiarore della verità che Cristo diffonde nel mondo e nella storia.
Vorremmo, a questo punto, lasciare la parola a un maestro della Chiesa, a un suo Dottore, il britannico Beda il Venerabile (VII-VIII sec.) che nella sua Omelia per la nascita di san Giovanni Battista, così commentava il Cantico di Zaccaria: «Il Signore… ci ha visitati come un medico i malati, perché per sanare l’inveterata infermità della nostra superbia, ci ha offerto il nuovo esempio della sua umiltà; ha redento il suo popolo, perché ha liberato a prezzo del suo sangue noi che eravamo diventati servi del peccato e schiavi dell’antico nemico… Cristo ci ha trovato che giacevamo "nelle tenebre e nell’ombra della morte", cioè oppressi dalla lunga cecità del peccato e dell’ignoranza… Ci ha portato la vera luce della sua conoscenza e, rimosse le tenebre dell’errore, ci ha mostrato il sicuro cammino per la patria celeste. Ha diretto i passi delle nostre opere per farci camminare nella via della verità, che ci ha mostrato, e per farci entrare nella casa della pace eterna, che ci ha promesso».
5. Infine, attingendo ad altri testi biblici, il Venerabile Beda così concludeva, rendendo grazie per i doni ricevuti: «Dato che siamo in possesso di questi doni della bontà eterna, fratelli carissimi, …benediciamo anche noi il Signore in ogni tempo (cfr Sal 33,2), perché "ha visitato e redento il suo popolo". Sulla nostra bocca ci sia sempre la sua lode, conserviamo il suo ricordo e a nostra volta proclamiamo la virtù di colui che "dalle tenebre ci ha chiamato alla sua ammirabile luce" (1Pt 2,9). Chiediamo continuamente il suo aiuto, perché conservi in noi la luce della conoscenza che ci ha portato, e ci conduca fino al giorno della perfezione» (Omelie sul Vangelo, Roma 1990, pp. 464-465).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 1 ottobre 2003]
Il Vangelo che è stato appena proclamato è il prologo di due grandi cantici: quello di Maria noto come il “Magnificat” e quello di Zaccaria, il “Benedictus”, che mi piace chiamare “il cantico di Elisabetta o della fecondità”. Migliaia di cristiani in tutto il mondo cominciano la giornata cantando: “Benedetto il Signore” e la concludono “proclamando la sua grandezza perché ha guardato con bontà l’umiltà della sua serva”. In tal modo i credenti di diversi popoli, giorno per giorno, cercano di fare memoria; di ricordare che, di generazione in generazione, la misericordia di Dio si diffonde su tutto il popolo come aveva promesso ai nostri padri. E da questo contesto di memoria grata sgorga il canto di Elisabetta sotto forma di domanda: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?”. Troviamo Elisabetta, la donna marcata dal segno della sterilità, che canta sotto il segno della fecondità e dello stupore.
Vorrei sottolineare proprio questi due aspetti. Elisabetta, la donna sotto il segno della sterilità e sotto il segno della fecondità.
1. Elisabetta la donna sterile, con tutto ciò che implicava per la mentalità religiosa della sua epoca, che considerava la sterilità come un castigo divino frutto del proprio peccato o di quello dello sposo. Un segno di vergogna impresso nella propria carne, o perché si considera colpevole di un peccato che non ha commesso o perché si sente poco cosa, non essendo all’altezza di ciò che ci si aspettava da lei. Immaginiamo, per un istante, gli sguardi dei suoi familiari, dei suoi vicini, di se stessa... sterilità che penetra a fondo e finisce col paralizzare tutta la vita. Sterilità che può assumere molti nomi e forme ogni volta che una persona prova nella propria carne la vergogna vedendosi stigmatizzata o sentendosi poca cosa (…)
2. E, insieme a Elisabetta, la donna sterile, contempliamo Elisabetta la donna feconda-stupita. È lei la prima a riconoscere e benedire Maria. È lei che in vecchiaia ha sperimentato nella propria vita, nella propria carne, il compimento della promessa fatta da Dio. Colei che non poteva avere figli ha portato nel suo grembo il precursore della salvezza. In lei capiamo che il sogno di Dio non è né sarà la sterilità, e neppure di stigmatizzare o riempire di vergogna i propri figli, ma di far sgorgare in loro e da loro un canto di benedizione. Allo stesso modo lo vediamo in Juan Diego. È stato proprio lui, e non un altro, a recare impressa sul suo mantello, la tilma, l’immagine della Vergine: la Vergine dalla carnagione scura e il volto meticcio, sostenuta da un angelo con ali di quetzal, pellicano e ara; la madre capace di assumere i tratti dei propri figli per farli sentire parte della sua benedizione.
Sembrerebbe che Dio si ostini continuamente a mostrarci che «la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo» (Sal 117, 22).
[Papa Francesco, omelia 12 dicembre 2017]
Ardore profetico, Salvezza che non ripete
(Lc 1,57-66)
La Salvezza - lo spunto per un’esistenza piena - percorre spazi sempre più vasti e irrompe in modo perentorio, senza mai ripetersi.
Non chiede permessi autorevoli, né aspetta una dimora bella spazzata e adorna.
Entra persino nella Casa (Israele) in cui non si faceva altro che commemorare, senza possibilità di rinnovamento e progresso.
La trasforma, sebbene profumata d’incenso e purezze.
In quell’ambito, purtroppo, l’Attesa si era trasformata in un’abitudine [ad attendere] che ormai non attendeva più nulla.
L’annuncio dei tempi nuovi suscita viceversa gioie contagiose, una voglia di fare e intaccare l’antico recinto abitudinario - sotto tutti gli aspetti della mentalità, d’improvviso non più conforme.
Il cambiamento inaugura un’era di redenzione: concretamente, una vita da salvati.
Traiettoria ora in grado di aprire pertugi sulla grande muraglia delle convenzioni che imbrigliano la libertà di essere e di fare.
Zaccaria [«Dio fa memoria»: il solito Dio e il solito ricordo] genera una Promessa che si sta compiendo sotto gli occhi.
Parola-evento che visita realmente il popolo - qui e ora, ogni alba - imponendo il «nessuno della tua parentela» (v.61) ossia del costume: ecco Johanan [«Dio ha fatto Grazia»].
Il Vivente misericordioso non è più esattamente quello dei culti cruenti e propiziatori al Tempio - bensì delle prospettive, dei dispiegati orizzonti.
Si ritrova leggerezza. Nessun blocco condizionante, né senso di colpa per aver deviato. Nelle sue proposte di vita dilatata, Egli è e resta «Favorevole».
Il Nome da imporre per antica consuetudine veicolava una cultura e un ruolo (persino) dalle venature sacrali, rassicuranti.
Cambiandolo si muta destino. Non ci si cala in una veste, in una parte da recitare; si coglie l’essenza del Volto atteso.
L’Eterno non è Colui che invita a una serie di consuetudini identificate da ricalcare senza tregua: le sue iniziative senza condizioni porgono ogni giorno una decisiva apertura di campo.
L’Altissimo crea e chiama per lo sviluppo, per il meglio e l’ulteriore sovreminente: le categorie di possibilità sono sorvolate!
Le antiche barriere fra Cielo e Terra, fra Tradizione e Manifestazione, stanno per cadere, in favore d’un mondo incline alla vita.
La Redenzione inizia a fare scintille con le scelte da manuale: non si sopportano più.
Anche nel nostro percorso, accettando orizzonti differenti dal previsto consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita.
Ciò affinché l’essenza dei nostri stati profondi si distacchi dal giudizio comune, e risintonizzi su quant’è ancora Sconosciuto ma sentiamo ci appartiene.
In ogni spostamento di sguardo troveremo un altro cosmo, una Bellezza discreta, riservata - nella quale si annida il Segreto per ciascuno, una tappa della piena realizzazione per tutti.
Il Compimento è ora «fortificato in Spirito e nei deserti» invece che secondo usanza, misurata - in luoghi deputati (v.80) dai quali ci si può spingere fuori, perfino in modo irregolare.
[Feria propria del 23 dicembre]
Ardore profetico, Salvezza che non ripete
(Lc 1,57-66.80)
La nuova Creazione annunciata in periferia investe il territorio che ancora tergiversa su ciò ch’è certificato, comprovato e tranquillizzante - perché ritenuto (attorno) puro e quotato.
La Salvezza - lo spunto per un’esistenza piena - percorre spazi sempre più vasti e irrompe in modo perentorio, senza mai ripetersi.
Non chiede permessi autorevoli, né aspetta una dimora bella spazzata e adorna.
Entra persino nella Casa (Israele) in cui non si faceva altro che commemorare, senza possibilità di rinnovamento e progresso.
La trasforma, sebbene già profumata d’incenso e purezze.
In quell’ambito, purtroppo, l’Attesa si era trasformata in un’abitudine [ad attendere] che ormai non attendeva più nulla. Ci si tratteneva e basta, senza granché nelle aspettative.
L’annuncio dei tempi nuovi suscita viceversa gioie contagiose, una voglia di fare e intaccare l’antico recinto abitudinario - sotto tutti gli aspetti della mentalità, d’improvviso non più conforme.
Il cambiamento inaugura un’era di redenzione: concretamente, una vita da salvati.
Traiettoria ora in grado di aprire pertugi sulla grande muraglia delle convenzioni che imbrigliano la libertà di essere e di fare.
Zaccaria [«Dio fa memoria»: il solito Dio e il solito ricordo] genera una Promessa che si sta compiendo sotto gli occhi.
Parola-evento che visita realmente il popolo - qui e ora, ogni alba - imponendo il «nessuno della tua parentela» (v.61) ossia del costume - addirittura sacerdotale: ecco Johanan [«Dio ha fatto Grazia»].
Il Vivente misericordioso non è più esattamente quello dei culti cruenti e propiziatori al Tempio, bensì delle prospettive, dei dispiegati orizzonti.
Si ritrova leggerezza. Nessun blocco condizionante, né senso di colpa per aver deviato. Nelle sue proposte di vita dilatata, Egli è e resta «Favorevole».
Il Nome da imporre per antica consuetudine veicolava una cultura e un ruolo (persino) dalle venature sacrali, rassicuranti.
Cambiandolo si muta destino. Non ci si cala in una veste, in una parte da recitare; si coglie l’essenza del Volto atteso.
L’Eterno non è Colui che invita a una serie di pie e arcinote consuetudini rituali identificate, da ricalcare senza tregua. Le sue iniziative senza condizioni porgono ogni giorno una decisiva apertura di campo.
L’Altissimo crea e chiama per lo sviluppo, per il meglio e l’ulteriore sovreminente: le categorie di possibilità sono sorvolate!
Le antiche barriere fra Cielo e Terra, fra Tradizione e Manifestazione, stanno per cadere, in favore d’un mondo incline alla vita.
La Redenzione inizia a fare scintille con le scelte da manuale: non si sopportano più.
Scrive il Tao Tê Ching (xix), che reputa esteriori le più celebrate virtù:
«Insegna che v’è altro cui attenersi: mostrati semplice e mantieniti grezzo».
Commenta il maestro Wang Pi: «Le qualità formali sono del tutto insufficienti».
E il maestro Ho-shang Kung aggiunge: «Tralascia il regolare e il creare dei santi, torna a quel che era al Principio».
Anche nel nostro percorso, accettando orizzonti differenti dal previsto consentiamo all’anima divina della storia della salvezza di farci visita.
Ciò affinché l’essenza dei nostri stati profondi si distacchi dal giudizio comune, e risintonizzi su quant’è ancora Sconosciuto invece che utile - ma sentiamo ci appartiene.
In ogni spostamento di sguardo troveremo un altro cosmo, una Bellezza discreta, riservata.
Essa riconduce al nostro Nucleo naturale, alla Chiamata per Nome nella quale si annida il Segreto per ciascuno, e una tappa della piena realizzazione per tutti.
Il Compimento è ora «fortificato in Spirito e nei deserti» invece che secondo usanza, misurata - in luoghi deputati della liturgia sacerdotale (v.80) dai quali bisogna spingersi fuori, perfino in modo irregolare.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quante volte hai sentito ripetere che non vai bene?
Come ti accorgi dei tempi del Cambiamento di Dio?
Quale sbalordimento hai provato nel tuo cammino spirituale?
Quale differenza hai misurato con le tue aspettative e propositi?
Come pensi di costruire la tua dignità da battistrada?
Quale principio di discernimento viene usato nella tua comunità? Si parte dalla tua irripetibile Vocazione o esiste un cliché assuefatto e omologante, altri nomi che devi ripetere e copiare?
«Cosa pensate che diverrà, questo mio figlio?» [di Teresa Girolami]
Il Vangelo odierno ci presenta la nascita di Giovanni, il profeta di Cristo, e lo stupore degli astanti:
«Che sarà mai questo bambino? E davvero la mano del Signore era con lui» (Lc 1,66).
Nella vita di Francesco, fin dalla nascita, si manifestò su di lui e sulla madre Monna Pica un segno visibile della predilezione di Dio.
Le Fonti evidenziano con chiarezza tutto questo:
“Infatti, fu resa partecipe, come privilegio, di una certa somiglianza con l’antica Santa Elisabetta, sia per il nome imposto al figlio, sia anche per lo spirito profetico.
Quando i vicini manifestavano la loro ammirazione per la generosità d’animo e l’integrità morale di Francesco ripeteva, quasi divinamente ispirata:
«Cosa pensate che diverrà, questo mio figlio? Sappiate, che per i suoi meriti diverrà figlio di Dio».
In realtà, era questa l’opinione anche di altri, che apprezzavano Francesco già grandicello per alcune sue inclinazioni molto buone.
Allontanava da sé tutto ciò che potesse suonare offesa a qualcuno e, crescendo con animo gentile, non sembrava figlio di quelli che erano detti suoi genitori.
Perciò il nome di Giovanni conviene alla missione che poi svolse, quello invece di Francesco alla sua fama, che ben presto si diffuse ovunque, dopo la sua piena conversione a Dio.
Al di sopra della festa di ogni altro santo, riteneva solennissima quella di Giovanni Battista, il cui nome insigne gli aveva impresso nell’animo un segno di arcana potenza.
Tra i nati di donna non sorse alcuno maggiore di quello, e nessuno più perfetto di questo tra i fondatori di ordini religiosi. È una coincidenza degna di essere sottolineata” (FF 583).
[Teresa Girolami]
Secondo quale immagine e somiglianza?
Il nostro sguardo va al quadro di Giulio Romano, sopra all’altare maggiore di questa Chiesa: esso presenta la Sacra Famiglia, con Giovanni il Battista ancora piccolo, l’Apostolo Giacomo e l’Evangelista Marco, questi ultimi già adulti.
Il Battista indica vivacemente con la sinistra il Bambino Gesù, rappresentato nella sua debolezza infantile. Alla domanda dei familiari e dei vicini di Elisabetta e di Zaccaria: “Cosa ne sarà di questo bambino?” il quadro sembra darci questa risposta: Giovanni il Battista indica con tutto il suo atteggiamento Gesù al visitatore Giacomo che gli è vicino; si inchina profondamente nella consapevolezza della sua piccolezza: Non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo a colui che viene dopo di me, ma che è prima di me. Questa parola non ha nulla a che vedere con una falsa umiltà. Il Battista è troppo retto, troppo sobrio per questo. Ha certamente riconosciuto l’impotenza umana meglio della maggior parte degli uomini.
Il predicatore della penitenza che interpella gli uomini nel loro intimo, che li scuote nelle loro certezze e li trasforma, li strappa dalla superficialità di un atteggiamento materialistico puramente terreno, appartiene ancora all’Antica Alleanza, è solo colui che indica la via verso il Regno di Dio; e questo Regno di Dio è vicino, si ode la voce di colui che chiama nel deserto. L’umiltà del Battista è autentica. Ma Dio ha esaltato la piccolezza del Battista con la grandezza del compito affidatogli, anzi, lo aveva già esaltato nel grembo di sua madre: prima ancora di nascere, era infatti già “rinato” dallo Spirito di Cristo. La grandezza umana è niente in confronto alla piccolezza che è chiamata a partecipare della grandezza e della santità di Dio.
Per noi sacerdoti, Giovanni è un modello. Non cerca niente per sé, ma tutto per colui che ora addita. Il bambino rappresenta già in certo qual modo la parola trasmessaci nel quarto Vangelo: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3, 30). Giovanni doveva condurre gli uomini a Gesù e rendere testimonianza […].
Giovanni e la storia della sua vita sono come una diapositiva sulla quale sono indicati un nome e una verità. Resta oscura finché una fonte luminosa non viene accesa dietro ad essa. Così dice il Vangelo di Giovanni: “Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce” (Gv 1, 8). La luce di Dio è determinante nella sua vita e nella sua missione. Per la sua luce noi diventiamo veggenti, per riconoscere la volontà di Dio. Questa è spesso contraria ai nostri desideri e alla nostra propria volontà. Quando si trattò di dare un nome al neonato Giovanni in occasione della sua circoncisione, era determinante la tradizione: avrebbe ricevuto il nome del padre. Ma Elisabetta decise altrimenti. Conosceva la volontà di Dio e diede al bambino il nome di “Giovanni”, che significa “Dio si dimostra misericordioso”.
Perché dovrebbe essere stato così solo allora?
Tutti possiamo sperimentare nella vita la potenza e la bontà di Dio, quando abbiamo fiducia in lui e ci sforziamo seriamente di compiere la sua volontà. Ma questo richiede da noi umiltà e la consapevolezza che l’uomo non possiede la misura di tutte le cose. Non possiamo considerarci come metro di ogni pensiero, di ogni morale e di ogni diritto. Cediamo troppo facilmente alla convinzione che tutto possa essere fatto, il cielo come la terra, anzi l’uomo stesso, sempre secondo la nostra propria immagine e somiglianza.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia s. Maria dell’Anima 24 giugno 1990]
Se si eccettua la Vergine Maria, il Battista è l’unico santo di cui la liturgia festeggia la nascita, e lo fa perché essa è strettamente connessa al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Fin dal grembo materno, infatti, Giovanni è precursore di Gesù: il suo prodigioso concepimento è annunciato dall’Angelo a Maria come segno che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37), sei mesi prima del grande prodigio che ci dà salvezza, l’unione di Dio con l’uomo per opera dello Spirito Santo. I quattro Vangeli danno grande risalto alla figura di Giovanni il Battista, quale profeta che conclude l’Antico Testamento e inaugura il Nuovo, indicando in Gesù di Nazaret il Messia, il Consacrato del Signore. In effetti, sarà lo stesso Gesù a parlare di Giovanni in questi termini: «Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, / davanti a te egli preparerà la via. In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,10-11).
Il padre di Giovanni, Zaccaria – marito di Elisabetta, parente di Maria –, era sacerdote del culto dell’Antico Testamento. Egli non credette subito all’annuncio di una paternità ormai insperata, e per questo rimase muto fino al giorno della circoncisione del bambino, al quale lui e la moglie dettero il nome indicato da Dio, cioè Giovanni, che significa «il Signore fa grazia». Animato dallo Spirito Santo, Zaccaria così parlò della missione del figlio: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo / perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, / per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza / nella remissione dei suoi peccati» (Lc 1,76-77). Tutto questo si manifestò trent’anni dopo, quando Giovanni si mise a battezzare nel fiume Giordano, chiamando la gente a prepararsi, con quel gesto di penitenza, all’imminente venuta del Messia, che Dio gli aveva rivelato durante la sua permanenza nel deserto della Giudea. Per questo egli venne chiamato «Battista», cioè «Battezzatore» (cfr Mt 3,1-6). Quando un giorno, da Nazaret, venne Gesù stesso a farsi battezzare, Giovanni dapprima rifiutò, ma poi acconsentì, e vide lo Spirito Santo posarsi su Gesù e udì la voce del Padre celeste che lo proclamava suo Figlio (cfr Mt 3,13-17). Ma la missione del Battista non era ancora compiuta: poco tempo dopo, gli fu chiesto di precedere Gesù anche nella morte violenta: Giovanni fu decapitato nel carcere del re Erode, e così rese piena testimonianza all’Agnello di Dio, che per primo aveva riconosciuto e indicato pubblicamente.
Cari amici, la Vergine Maria aiutò l’anziana parente Elisabetta a portare a termine la gravidanza di Giovanni. Ella aiuti tutti a seguire Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, che il Battista annunciò con grande umiltà e ardore profetico.
[Papa Benedetto, Angelus 24 giugno 2012]
Raw life is full of powers: «Be grateful for everything that comes, because everything was sent as a guide to the afterlife» [Gialal al-Din Rumi]
La vita grezza è colma di potenze: «Sii grato per tutto quel che arriva, perché ogni cosa è stata mandata come guida dell’aldilà» [Gialal al-Din Rumi]
It is not enough to be a pious and devoted person to become aware of the presence of Christ - to see God himself, brothers and things with the eyes of the Spirit. An uncomfortable vision, which produces conflict with those who do not want to know
Non basta essere persone pie e devote per rendersi conto della presenza di Cristo - per vedere Dio stesso, i fratelli e le cose con gli occhi dello Spirito. Visione scomoda, che produce conflitto con chi non ne vuol sapere
An eloquent and peremptory manifestation of the power of the God of Israel and the submission of those who did not fulfill the Law was expected. Everyone imagined witnessing the triumphal entry of a great ruler, surrounded by military leaders or angelic ranks...
Ci si attendeva una manifestazione eloquente e perentoria della potenza del Dio d’Israele e la sottomissione di coloro che non adempivano la Legge. Tutti immaginavano di assistere all’ingresso trionfale d’un condottiero, circondato da capi militari o schiere angeliche…
May the Holy Family be a model for our families, so that parents and children may support each other mutually in adherence to the Gospel, the basis of the holiness of the family (Pope Francis)
La Santa Famiglia possa essere modello delle nostre famiglie, affinché genitori e figli si sostengano a vicenda nell’adesione al Vangelo, fondamento della santità della famiglia (Papa Francesco)
John is the origin of our loftiest spirituality. Like him, ‘the silent ones' experience that mysterious exchange of hearts, pray for John's presence, and their hearts are set on fire (Athinagoras)
Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma (Atenagora)
Stephen's story tells us many things: for example, that charitable social commitment must never be separated from the courageous proclamation of the faith. He was one of the seven made responsible above all for charity. But it was impossible to separate charity and faith. Thus, with charity, he proclaimed the crucified Christ, to the point of accepting even martyrdom. This is the first lesson we can learn from the figure of St Stephen: charity and the proclamation of faith always go hand in hand (Pope Benedict)
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme (Papa Benedetto)
“They found”: this word indicates the Search. This is the truth about man. It cannot be falsified. It cannot even be destroyed. It must be left to man because it defines him (John Paul II)
“Trovarono”: questa parola indica la Ricerca. Questa è la verità sull’uomo. Non la si può falsificare. Non la si può nemmeno distruggere. La si deve lasciare all’uomo perché essa lo definisce (Giovanni Paolo II)
don Giuseppe Nespeca
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