don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Domenica, 09 Novembre 2025 04:40

Le nostre cecità, tra senso religioso e Fede

Il movimento del sacerdozio di Cristo

(Lc 18,35-43)

 

L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che non si adatta.

Papa Francesco propone visuali che suscitano decisione e azione: occhi nuovi, energetici, visionari, temerari, ricolmi di “passaggio” e Speranza.

Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55) [cit. da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015].

Affranto, Paolo VI ammetteva:

«Sì, vi sono molti cristiani mediocri; e non solo perché sono deboli o mancanti di formazione, ma perché vogliono essere mediocri e perché hanno le loro così dette buone ragioni del giusto mezzo, del ne quid nimis, quasi che il Vangelo fosse una scuola d’indolenza morale, o quasi che esso autorizzasse servire al conformismo. Non è ipocrisia? Incoerenza? Relativismo secondo il vento che tira?» [passim].

 

Sembra il ritratto della vita scadente e cieca che talora ci coglie: “nulla di troppo”, “mai l’eccessivo”.

Una sorta di esistenza alla don Abbondio, a contrasto del quale Manzoni delinea l’icona dell’uomo di Fede - che appunto spicca sul mediocre devoto - nella solenne e decisa figura del cardinal Federigo.

Prelato che invece «ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti».

Non il qualunquismo rassicurato d’un pio vigliacco e situazionalista, che finge di non vedere, si accontenta della sua nicchia da mezza tacca; si siede nell’aia scadente del minimo sindacale, si barcamena e non s’espone.

 

Il passo di Lc è un insegnamento che trae spunto dalle primissime forme di liturgia battesimale riservate ai nuovi credenti, chiamati photismòi-illuminati [coloro che dal buio della vita pagana aprivano finalmente gli occhi alla Luce].

Il brano illustra cosa accade a una persona quando incontra Cristo e ne riceve l’orientamento esistenziale: abbandona le posizioni consolidate ma non personalmente rielaborate, e diviene testimone critico.

La narrazione è impostata sul confronto tra sguardi materiali verso il basso (come quelli dei pagani o dei seguaci arroganti) e sguardi aperti, in grado di sollevare l’occhio dell’uomo da pastoie di sembianti, abitudinarietà e potenze esteriori o interiori distruttive.

La comparazione fa affiorare ciò che conta nella vita, quel che ha peso e non viene spazzato via dagli impedimenti d’una spiritualità vuota, rapita o attratta da brame epidermiche; imbrigliate su falsarighe di ruoli sociali o conformismi culturali e spirituali - da consuetudini ereditate ma non vagliate.

Insomma: il Signore ci vuol far comprendere che il conformismo all’ambiente e la vuota devozione inculcano un intendere paludoso, esanime, poco rilevante.

Cosa dunque è necessario per «vedere» con la percezione di Dio, oltre le apparenze, e risollevarsi da una grigia vita di elemosine, letteralmente a terra? E come curare la visuale di chi non si raccapezza?

Anche i “vicini” hanno aspettative più o meno chiare su come entrare nel Movimento del sacerdozio di Cristo.

I discepoli stessi sono suggestionati da una folla spesso qualunquista attorno che si attende ben poco, se non quiete, svago e favori; e che preme perché si entri «ne’ loro limiti».

 

Il cieco senza nome e accovacciato ai bordi ci rappresenta: non è biologicamente cieco, ma uno che si regola a casaccio.

Non riesce a «guardare in su» [il verbo-chiave ai vv.41-43 è «aná-blèpein»] perché non coltiva ideali; si accontenta di quel che passa il contorno, che lo anestetizza.

Condizionato da falsi maestri e guide spirituali approssimative, anch’egli è bloccato da uno spirito di letargo che punta la sua esistenza a ribasso.

Conseguenza: le vittime di un’ideologia indolente possono confondere il Figlio di Dio che dona tutto di sé e trasmette vitalità, con il figlio di Davide (v.38) - che non dà, bensì toglie vita.

 

Gesù somiglia e rimanda al Padre, non a un sovrano abile e svelto, che sa addomesticare le masse [figura di uno stile di dominio subdolo o violento, e di continua rivalsa].

L’equivoco ha pesanti conseguenze.

Inizialmente ogni cercatore di Dio rischia di scambiare il Signore con un superuomo e capitano fenomenale che benedice e favorisce gli amici nelle loro aspettative di tranquillità, noncuranza e stasi mediocre.

Un bel difetto di vista, perché s’invertono affatto i criteri dell’esistenza sapiente e solida - rischiando di conficcarla in una pozzanghera; al massimo, trascinarla rasoterra.

Se ci si ritrova a questo livello di miopia, meglio «sollevare lo sguardo» ripiegato sul proprio ombelico, per piccinerie da tornaconto a breve.

 

Chi non “vede bene” diventa uomo abitudinario, viene accompagnato agli stessi posti ogni giorno dalle medesime persone.

Sta fermo, «seduto» (v.35) ai margini di una strada dove la gente procede e non si limita come lui a sopravvivere rassegnata, senza scatti.

[Mentre scrivevo un mio prof del liceo, persona di gran fede e dinamismo - mi ha inviato un proverbio indiano: «se davanti a te vedi tutto grigio, sposta l’elefante»].

Tali impacciati per scelta - tutto si attendono dal riconoscimento altrui; vivono solo di questua. E non fanno che ripetere parole e gesti sempre identici.

Il loro orizzonte a portata di mano non consente di entrare nel flusso della Via, dove le persone si danno da fare edificando, evolvendo, esprimendo se stesse, provvedendo ai fratelli meno fortunati.

Una esistenza trascinata ai margini di qualsiasi interesse che non sia il proprio neghittoso sacchetto.

Eppure sono dotati d’uno spiccato senso religioso antico; ma proprio per questo - mancando del balzo di Fede - centrati su di sé e sulle idee che sono state trasmesse.

Vivono del movimento altrui; campano di piccole benevolenze e opinioni barattate da chi passa, per svogliatezza mai riesaminate e fatte proprie.

 

La Parola del Nazareno [nel linguaggio dei Vangeli l’epiteto “essere di Nazaret” significava “rivoluzionario, testa calda, sovversivo”] fa scattare lo svogliato.

La sua nuova attitudine diventa piuttosto quella del “neonato”. Si adopera in un modello di vita industrioso, creativo, pratico - avveniristico.

Risorge dinamico, sbarazzandosi degli stracci sui quali si attendeva che altri deponessero qualcosa in suo favore.

L’abito vecchio finisce nella polvere - gettato lontano come nelle antiche liturgie battesimali: a qualsiasi età intraprende, surclassando sicurezze di piccolo cabotaggio.

Cambia vita, la guarda in faccia; sebbene sappia di complicarsela, rendendola impegnativa e controcorrente.

Il contatto personale con Gesù ha corretto lo sguardo, gli ha fatto recuperare l’ottica ideale.

In tal guisa, egli comprendere il senso primordiale e rigenerante - anzi, ricreante - della Novità di Dio.

L’Incontro faccia a faccia gli ha trasmesso un modello diametralmente opposto di uomo riuscito; non sottomesso al tatticismo.

Insomma, Gesù corregge la miopia inerte di chi è affezionato al suo posto.

 

“Il vento che tira” c’infonde un letale veleno: quello rinunciatario dell’identificarci-e-assomigliare, che fa rima con l’arrenderci e invecchiare.

La guarigione da tale cecità non può essere un... Miracolo! Religiosità o Fede: è scelta dirimente.

Significa adattarsi pigramente alle mode di circostanza o al vestito vecchio dei comportamenti già “detti” e solite amicizie, aspettando solo qualche soluzione-fulmine che non coinvolga troppo...

Ovvero partire via da lì, reinventarsi la vita, abbandonare il mantello [cf. Mc 10,50] sul quale si raccoglievano commenti e oboli comuni.

Aprendo gli occhi e «sollevandoli», come farebbe un uomo già divino. Intascando null’altro che perle di luce, invece di elemosine.

Su strade fangose ci si può sporcare e si è incerti, ma vi possiamo procedere in contezza: sulla via che ci appartiene; nel movimento del sacerdozio di Cristo. Con percezione sana.

Infatti - come in questo episodio - non di rado i Vangeli insistono sul criterio (devotamente assurdo) che il nemico di Dio non sia il peccato, bensì la vita media e passiva dell’ormai identificato e piazzato.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

L’incontro con Cristo ti ha tolto come un velo dagli occhi? Hai colto l’occasione per nascere come uomo nuovo, e sollevare lo sguardo? O rimani miope e inerte?

 

 

Il Passaggio della Pasqua

Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr Lc 18,35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr v. 35). Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata, assorta nei propri pensieri e in tante cose...E la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa...E lui è solo.

E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15,7.11). E’ stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere, come se non avesse diritto di parlare. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada – gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”.

Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr Es 12,23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione: quando passa Gesù, sempre c’è liberazione, sempre c’è salvezza! Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr Is 35,5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche noi, quando siamo stati in situazioni brutte, anche situazioni di peccato, com’è stato proprio Gesù a prenderci per mano e a toglierci dal margine della strada e donarci la salvezza. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, Il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione. Anche nella nostra vita Gesù passa; e quando passa Gesù, e io me ne accorgo, è un invito ad avvicinarmi a Lui, a essere più buono, a essere un cristiano migliore, a seguire Gesù.

Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Lui, Gesù, Dio, dice: “Ma cosa vuoi che io ti faccia? Come tu vuoi che io ti serva?” Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo. Da mendicante a discepolo, anche questa è la nostra strada: tutti noi siamo mendicanti, tutti. Abbiamo bisogno sempre di salvezza. E tutti noi, tutti i giorni, dobbiamo fare questo passo: da mendicanti a discepoli. E così, il cieco si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li fa venire a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso. Lasciamoci anche noi chiamare da Gesù, e lasciamoci guarire da Gesù, perdonare da Gesù, e andiamo dietro Gesù lodando Dio. Così sia!

[Papa Francesco, Udienza Generale 15 giugno 2016]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:36

L’uomo è fatto per vedere la luce

Questi figli prediletti del Padre celeste sono come il cieco del Vangelo, Bartimeo, che “sedeva lungo la strada a mendicare” (Mc 10,46), alle porte di Gerico. Proprio per quella strada passa Gesù Nazareno. E’ la strada che conduce a Gerusalemme, dove si consumerà la Pasqua, la sua Pasqua sacrificale, alla quale il Messia va incontro per noi. E’ la strada del suo esodo che è anche il nostro: l’unica via che conduce alla terra della riconciliazione, della giustizia e della pace. Su quella via il Signore incontra Bartimeo, che ha perduto la vista. Le loro vie si incrociano, diventano un’unica via. “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”, grida il cieco con fiducia. Replica Gesù: “Chiamatelo!”, e aggiunge: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio è luce e creatore della luce. L’uomo è figlio della luce, fatto per vedere la luce, ma ha perso la vista, e si trova costretto a mendicare. Accanto a lui passa il Signore, che si è fatto mendicante per noi: assetato della nostra fede e del nostro amore. “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. Dio sa, ma chiede; vuole che sia l’uomo a parlare. Vuole che l’uomo si alzi in piedi, che ritrovi il coraggio di domandare ciò che gli spetta per la sua dignità. Il Padre vuole sentire dalla viva voce del figlio la libera volontà di vedere di nuovo la luce, quella luce per la quale lo ha creato. “Rabbunì, che io veda di nuovo!”. E Gesù a lui: “Va’, la tua fede ti ha salvato. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada” (Mc 10,51-52).

“Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52). Sì, la fede in Gesù Cristo – quando è bene intesa e praticata – guida gli uomini e i popoli alla libertà nella verità, o, per usare le tre parole del tema sinodale, alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Bartimeo che, guarito, segue Gesù lungo la strada, è immagine dell’umanità che, illuminata dalla fede, si mette in cammino verso la terra promessa. Bartimeo diventa a sua volta testimone della luce, raccontando e dimostrando in prima persona di essere stato guarito, rinnovato, rigenerato. Questo è la Chiesa nel mondo: comunità di persone riconciliate, operatrici di giustizia e di pace; “sale e luce” in mezzo alla società degli uomini e delle nazioni.

La Chiesa, comunità che segue Cristo sulla via dell’amore, ha una forma sacerdotale. La categoria del sacerdozio, come chiave interpretativa del mistero di Cristo e, di conseguenza, della Chiesa, è stata introdotta nel Nuovo Testamento dall’Autore della Lettera agli Ebrei. La sua intuizione prende origine dal Salmo 110, citato nel brano odierno, là dove il Signore Dio, con solenne giuramento, assicura al Messia: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (v. 4). Riferimento che ne richiama un altro, tratto dal Salmo 2, nel quale il Messia annuncia il decreto del Signore che dice di lui: “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (v. 7). Da questi testi deriva l’attribuzione a Gesù Cristo del carattere sacerdotale, non in senso generico, bensì “secondo l’ordine di Melchisedek”, vale a dire il sacerdozio sommo ed eterno, di origine non umana ma divina. Se ogni sommo sacerdote “è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1), solo Lui, il Cristo, il Figlio di Dio, possiede un sacerdozio che si identifica con la sua stessa Persona, un sacerdozio singolare e trascendente, da cui dipende la salvezza universale. Questo suo sacerdozio Cristo l’ha trasmesso alla Chiesa mediante lo Spirito Santo; pertanto la Chiesa ha in se stessa, in ogni suo membro, in forza del Battesimo, un carattere sacerdotale. Ma – qui c’è un aspetto decisivo – il sacerdozio di Gesù Cristo non è più primariamente rituale, bensì esistenziale. La dimensione del rito non viene abolita, ma, come appare chiaramente nell’istituzione dell’Eucaristia, prende significato dal Mistero pasquale, che porta a compimento i sacrifici antichi e li supera. Nascono così contemporaneamente un nuovo sacrificio, un nuovo sacerdozio ed anche un nuovo tempio, e tutti e tre coincidono con il Mistero di Gesù Cristo. Unita a Lui mediante i Sacramenti, la Chiesa prolunga la sua azione salvifica, permettendo agli uomini di essere risanati mediante la fede, come il cieco Bartimeo. Così la Comunità ecclesiale, sulle orme del suo Maestro e Signore, è chiamata a percorrere decisamente la strada del servizio, a condividere fino in fondo la condizione degli uomini e delle donne del suo tempo, per testimoniare a tutti l’amore di Dio e così seminare speranza.

[Papa Benedetto, omelia per la chiusura del Sinodo speciale per l’Africa 25 ottobre 2009]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:33

Gettare luce, riacquistare senso

L’odierna lettura del Vangelo […] ci ricorda l’episodio della guarigione del cieco di Gerico. Il Vangelo rivela anche il suo nome: Bartimeo, e ricostruisce la sua supplica-grido: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me” (Mc 10, 47). Infine riferisce la sua commovente supplica: “Rabbuni, che io riabbia la vista” (Mc 10,51). E la risposta di Gesù non si fa attendere: “Va’, la tua fede ti ha salvato” (Mc 10,52).

Ecco, uno di quei segni che Gesù di Nazaret compiva durante il suo ministero pubblico. È, questo, un segno particolarmente eloquente: ridonando la vista al cieco, Gesù getta luce sulla sua vita. L’intera missione di Cristo è piena di questo senso: Egli getta luce divina sulla vita umana per mezzo del Vangelo. Alla luce delle parole di Cristo la vita umana acquista senso: il senso ultimo, che illumina anche le diverse sfere di questa vita terrena.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 27 ottobre 1991]

Domenica, 09 Novembre 2025 04:24

Non mettere all’asta la carta d’identità

Un invito a non mettere «all’asta la nostra carta d’identità» cristiana, a non uniformarci allo spirito del mondo, che quando riesce a prevalere porta all’apostasia e alla persecuzione. Lo ha individuato Papa Francesco commentando la liturgia della parola di lunedì mattina, 16 novembre, durante la consueta celebrazione della messa nella cappella di Casa Santa Marta.

Il Pontefice ha dedicato la sua riflessione interamente alla prima lettura, tratta dal primo libro dei Maccabei (1,10-15.41-43.54-57 62-64), riassumendone i contenuti «con tre parole: mondanità, apostasia, persecuzione». Rileggendolo, Francesco ha fatto notare «che il brano incomincia così: “In quei giorni uscì una radice perversa”». E ha spiegato come «l’immagine della radice che è sotto terra, non si vede, sembra non fare male, ma poi cresce e mostra, fa vedere, la propria realtà» negativa, sia presente anche nella lettera agli Ebrei, il cui «autore ammoniva i suoi nello stesso modo: “Che non spunti né cresca in mezzo a voi alcuna radice velenosa, che provochi mali e ne contagi tanti”».

In proposito il Papa ha descritto «la fenomenologia della radice», la quale «cresce, sempre cresce», anche quando — come nel caso del brano preso in esame — può sembrare una «radice ragionevole: “Andiamo e stringiamo un’alleanza con le nazioni che ci stanno attorno; perché tante differenze? Perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali. Andiamo da loro, siamo uguali”». E così, ha proseguito nella descrizione, «alcuni del popolo presero l’iniziativa e andarono dal re che diede loro facoltà di introdurre le istituzioni delle nazioni. Dove? Nel popolo eletto, cioè nella Chiesa di quel momento».

Ma, ha subito avvertito Francesco, in quell’azione «c’è la mondanità. Facciamo ciò che fa il mondo, lo stesso: mettiamo all’asta la nostra carta d’identità; siamo uguali a tutti». Proprio come gli uomini di Israele, i quali «incominciarono a fare questo: costruirono un ginnasio a Gerusalemme, secondo le usanze delle nazioni, le usanze pagane; cancellarono i segni della circoncisione, cioè rinnegarono la fede, e si allontanarono dalla santa alleanza; si unirono alle nazioni e si vendettero per fare il male». Ma, ha messo in guardia il Pontefice, proprio «questo, che sembrava tanto ragionevole, — “siamo come tutti, siamo normali” — diventò la distruzione». Perché, ha ribadito, «questa è la mondanità. Questo è il cammino della mondanità, di quella radice velenosa, perversa».

Al riguardo Francesco ha confidato come lo abbia sempre colpito il fatto «che il Signore, nell’ultima cena pregasse per l’unità dei suoi e chiedesse al Padre che li liberasse da ogni spirito del mondo, da ogni mondanità, perché la mondanità distrugge l’identità; la mondanità porta al pensiero unico, non c’è differenza».

E la prima conseguenza di ciò è l’apostasia. Il Papa lo ha dimostrato proseguendo la rilettura del brano: «Poi il re prescrisse in tutto il suo regno che tutti formassero un solo popolo — il pensiero unico, la mondanità — e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re; anche molti israeliti accettarono il suo culto: sacrificarono agli idoli e profanarono il sabato». Dunque «l’apostasia. Cioè, la mondanità ti porta al pensiero unico e all’apostasia. Non sono permesse, non ci sono permesse le differenze». Finiamo col diventare «tutti uguali. E nella storia della Chiesa, nella storia abbiamo visto, penso a un caso, che alle feste religiose è stato cambiato il nome — il Natale del Signore ha un altro nome — per cancellare l’identità».

Inoltre non bisogna dimenticare, sembra voler dire la lettura, che all’apostasia segue la persecuzione. «Il re — ha continuato il Pontefice — innalzò sull’altare un abominio di devastazione. Anche nelle vicine città di Giuda eressero altari e bruciarono incenso sulle porte delle case e nelle piazze; stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco. Se, presso qualcuno, veniva trovato il libro dell’alleanza e se qualcuno obbediva alla legge, la sentenza del re lo condannava a morte». Ecco appunto «la persecuzione», che «incomincia da una radice» anche «piccola, e finisce nell’abominazione della desolazione». Del resto, «questo è l’inganno della mondanità». E perciò nell’ultima cena Gesù domandava al Padre: «Non ti chiedo di toglierli dal mondo, ma custodiscili dal mondo», ovvero «da questa mentalità, da questo umanismo, che viene a prendere il posto dell’uomo vero, Gesù Cristo»; da questa mondanità «che viene a toglierci l’identità cristiana e ci porta al pensiero unico: “Tutti fanno così, perché noi no?”».

Ecco allora l’attualità del brano odierno, che «di questi tempi, ci deve far pensare» a com’è la nostra identità. Occorre chiedersi: «È cristiana o mondana? O mi dico cristiano perché da bambino sono stato battezzato o sono nato in un Paese cristiano, dove tutti sono cristiani?». Secondo Francesco è necessario trovare una risposta a tali domande, poiché «la mondanità che entra lentamente», poi «cresce, si giustifica e contagia». Come? «Cresce come quella radice» citata nella lettura; «si giustifica — “facciamo come tutta la gente, non siamo tanto differenti” — cerca sempre una giustificazione, e alla fine contagia, e tanti mali vengono da lì».

Al termine dell’omelia il Papa ha evidenziato come tutta «la liturgia, in questi ultimi giorni dell’anno liturgico», ci faccia pensare a queste cose, e in particolare oggi ci dica «nel nome del Signore: guardatevi dalle radici velenose, dalle radici perverse che ti portano lontano dal Signore e ti fanno perdere la tua identità cristiana». Si tratta insomma di un’esortazione a tenersi alla larga «dalla mondanità» e a chiedere nella preghiera, in particolare, che la Chiesa sia custodita «da ogni forma di mondanità. Che la Chiesa sempre abbia l’identità disposta da Gesù Cristo; che tutti noi abbiamo l’identità» ricevuta nel battesimo; «e che questa identità non venga buttata fuori» solo per voler «essere come tutti, per motivi di “normalità». In definitiva, ha concluso Francesco, «che il Signore ci dia la grazia di mantenere e custodire la nostra identità cristiana contro lo spirito di mondanità che sempre cresce, si giustifica e contagia».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 16-17/11/2015]

(Lc 21,5-19)

 

Valori e indipendenza emotiva

 

Collocarsi negli eventi di persecuzione

 

Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.

In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.

Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.

Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.

L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.

Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.

Non saremo sull’altro lato. Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.14-15).

 

Lc intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.

Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (v.13).

I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.

Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.

Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.

Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che ‘si rivela’.

In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.

Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco.

 

Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e controsenso.

Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei paradossi d’altro versante.

È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.

Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.18).

La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.

Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione? 

Sei consapevole che gli intoppi non ‘vengono’ per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?

 

 

[33.a Domenica (anno C), 16 Novembre 2025]

(Lc 21,5-19)

 

Pietra su pietra, a tinte fosche?

 

Istanze del mondo, idea di ‘perfezione’, senso del Cristo

(Lc 21,5-11)

 

Nel suo Discorso Apocalittico Lc vuol farci meditare sul senso della storia e su ‘ciò che permane’... ma quante condizioni avverse e opposizioni!

Quindi mira a sostenere la speranza [non fittizia e tuttavia frustrata] della gente povera e sotto persecuzione delle sue comunità.

Certo, la Fede volge al Dio che guida la storia. Egli ne è Signore; però l’oggi rimane oscuro e incerto; in tal guisa restiamo come braccati da istanze che non ci corrispondono - ma sopravanzano.

Anche alcuni credenti iniziavano a dubitare: Dio ha davvero il controllo dei fatti e del cosmo? È la stessa domanda che ci poniamo oggi: in mezzo a tante sciagure, dove andremo a finire?

Come mordere la vita e realizzarsi pur nell’emergenza? In che modo vivere i conflitti e lo sconcerto, senza lasciarsi travolgere dagli eventi? Come mai affiorano tante oscurità, che non ci piacciono?

In tempi di mutamento, insicurezza globale e inquietudine politica, continuano a spuntare carie parassite, che accentuano il disorientamento, sentimenti d’inadeguatezza; forse i sensi di colpa.

Ecco gli astuti del quartierino che (pure nel sottobosco ecclesiale) vogliono trarre vantaggio dal turbamento e dalla confusione, ingannando le anime deboli e spaesate - perfino i giovani.

Per non farsi abbindolare, confondere e plagiare, deve subentrare una migliore consapevolezza, un affinamento della percezione, onde discernere il senso dei “regni” che si avvicendano e passano.

La sovranità di Dio propugna una maturazione della ‘messe’ con la luce e il calore dello Spirito, un più approfondito discernimento sul genio e i fatti del secolo.

Non escluse le brutture: anch’esse hanno il potere di attivarci, per cercare nuove armonie.

 

La Chiesa autentica ha una nuova Visione, che appunto caldeggia questi terremoti e calamità, ossia gli sconquassi del mondo antico - esso che, oggi come sempre, traballa e volge alla fine.

D’altro canto i sommovimenti non disintegrano la creazione: ne preparano una radicalmente nuova.

Bisogna resistere dentro e applicarsi - forse avendo più cura del carattere del tempo, degli amici inconsueti dell’anima, e trascurando l’idea ereditata [o imposta] di “perfezione”.

Tanti mondi costruiti dalla mente e dalle mani dell’uomo s’immaginavano perpetui, addirittura il Fine di tutto.

Invece continuano a crollare, trascinando via antiche espressioni, convinzioni, costumi, egemonie, visioni delle cose…

Ogni era porta con sé lo sgretolamento delle umane edificazioni e dei suoi imperi - fragili e inconsistenti, nonostante le apparenze contrarie (e il senso di permanenza con cui li interpretavamo).

Quindi anche il Tempio di mattoni e stucchi - centro della vita e dell’identità del popolo - è destinato all’agonia, alla frantumazione, alla più miserevole rovina, a essere raso al suolo... malgrado la sua imponente magnificenza.

Ci disorienta, certo. Ma se unilaterale, non più rende presente, bensì dissolve il Mistero - concentrazione di novità e amore.

Quando ad esempio si chiudono le frontiere culturali [e la ricerca di profondità] per timore dei “problemi”, e ci si fa intransigenti, il presente devoto diviene una pura realtà del mondo, che presto o tardi sarà smantellata.

 

Le funzioni della terra non hanno altra legge che quella di perire: sono minate alla base, destinate a evaporare. In un attimo passano dal controllo allo sfaldamento e dal predominio all’insignificanza.

Bellezza radiosa e “spessore” della città eterna e santa - coi suoi gelosi privilegi, nonché dottrine minute o generaliste (e terrificanti) - si tramutano in un sorpasso e rovesciamento: in un profilo di morte.

Basta un capovolgimento.

Futile immaginarla duratura e tenerla in piedi a tutti i costi.

Viceversa, il Regno nuovo si presenta intimo e sottovoce: per questo non rimane scheggiato da eventi esterni.

Ad alcuni sconvolgimenti non bisogna tanto resistere, quanto stare con essi.

L’obbiettivo è ‘ri-nascere’ - come figli, ancora rigenerati, che percorrono un altro Eros fondante [cui abbandonarsi, altrimenti non potrà svolgere la sua alta funzione].

Esso si stabilisce nei cuori e li trasforma; li cementa, senza clamore: con una potenza grandissima, sovversiva, che fa scattare nuove forme - ma con virtù segreta.

Ha un altro passo, accogliente, e un diverso tempo.

Così non perdiamo alcuna parte di noi, anzi facciamo crescere tutti i lati della personalità e delle relazioni.

 

È la Fede plurale che accoglie gli opposti, a solidificare le pietre.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come vivi gli sconvolgimenti?

Appalti la tua libertà e insegui ciarlatani che fissano e peggiorano l’esistenza di tutti - o in Cristo li osteggi, accendendo Speranza e le tue potenze segrete più sfolgoranti (anche opposte)?

 

 

Il Roveto

 

Fede eccezionale, Conversione ardente

(Es 3,2-4)

 

Conversione in senso biblico non è tornare indietro, ma entrare dentro sé per non estraniarsi, e ritrovare la propria radice onde saper intervenire, liberando la vampa della propria Relazione essenziale.

La conversione non ha a che fare col tatticismo disinteressato di chi si chiude al mondo, evitando di farsi coinvolgere sino al momento in cui gli eventi non abbiano ripercussioni negative sui propri interessi.

Ma come prendere le misure della realtà, come comprenderla? Come capire se stessi? E da dove attingere orientamento, sapienza e forza per proporre soluzioni sagge e azioni efficaci?

Mosè è un fuoriuscito perché precipitoso. Il suo fare impulsivo lo ha costretto a fuggire nel deserto. Qui combina altri pasticci, ancora a causa del suo temperamento focoso. Così decide di darsi una calmata e una sistemazione.

Ma la soluzione non è quella di non immischiarsi in favore degli altri, scegliendo forzosamente una vita quieta. Quel suo Fuoco che gli brucia il petto e la mente non si estingue; anche sopito, lo porta sempre con sé.

Solo Dio capisce che proprio il suo lato oscuro e la sua carica irascibile - come nessun’altra energia - può renderlo protagonista d’’un disegno assurdo, in favore del popolo, e gli farà calcare situazioni e territori impervi.

Un compito rischioso, che obbligherà a tirar fuori la grinta, le pulsioni, la convinzione; ogni risorsa anche poco virtuosa. Una Missione unicamente sua, impossibile per altri animi più equilibrati e tranquilli.

 

Come spiegare la passione per la libertà degli umiliati?

Ce la troviamo dentro, come una fiamma che arde e non dà tregua. Essa risorge spontaneamente, malgrado i prudenti tentativi di soffocarla.

Per i suoi pazzeschi disegni di redenzione, Dio ha bisogno di qualcuno esattamente come noi, così come siamo. Con le nostre immense Risorse inespresse, celate persino dietro individuali puntigli sanguigni.

Qualità che sorgono spontanee e hanno un loro cammino di conversione, ma che prima o poi devono scendere in campo così come sono.

Esprimono noi stessi profondamente, e il Richiamo del Padre.

 

Diversi condizionamenti possono creare errori di percezione della nostra unicità personale; altrettanto, del suo sviluppo e destinazione.

Il grande rischio è quello di spendere la vita dissipando l’identità caratteriale alla ricerca d’illusioni indotte e riflessi condizionati: di ciò che non siamo e neanche vogliamo.

Non solo le distrazioni, ma anche il troppo ragionare può farci smarrire la via di quella dimora ch’è davvero nostra.

Continuare a insistere su ciò che danneggia lo sviluppo dell’anima e la sua piena fioritura, la rende indecisa o astuta e cocciuta - soprattutto se suggestionabile, timorosa, o anche ricettiva e indifesa.

Il nostro Eros fondante scende in campo quando si accorge che la realtà o il suo paradigma culturale (definito) possono farci perdere la strada.

La Vocazione allora si manifesta alla personale ‘visione’ in una sorta d’Immagine energetica, riservata e unica, che fa pensare coi sogni, ci fa da guida, trascina non si sa già perché e dove.

 

I credenti che sperimentano questo Fuoco interiore che non si estingue non sono introdotte in un mondo che vuole solo perdurare, tutto già cesellato e che ben conosce la mèta.

La Fiamma del Padre non si esprime attraverso artificiosità da recitare: vuole recuperare e condurre a casa tutte le risorse, la nostra essenza e i suoi monili - da esaltare invece che nascondere.

Gioielli tutti da estrarre dal mondo delle certezze disattente e rinchiuse. Fiori all’occhiello - non di rado celati dietro versanti e propensioni che (per l’occhio logorato da luoghi comuni) appaiono oscuri.

Spesso è proprio il nostro lato sconosciuto agli schemi la ‘scintilla’ che incalza e fa da terapia all’anima malata; la prende per mano, e con dovuta energia diventa guida alla scoperta rilevante di sé - e grande servizio altrui.

Il Roveto ardente nella carne - Rivelazione divina - si accende affinché realizziamo il Sogno dei nostri stessi sogni. Non perché l’anima diventi sempre più uguale e legata, o fondamentalista.

E solo il nostro Nucleo Fiaccola-che-non-si-consuma continuamente in atto, può evitare che chi nasce rivoluzionario dello spirito, poi [ma anche in fretta] sopravviva da poltronista.

Capita nella banalità delle ideologie come nel conformismo delle religioni, però non può succedere nella sfera della vita di Fede.

In tal guisa, la danza non è condotta da estraneità di controllo: fini, intenzioni, idee, progetti, o codici... bensì da potenze passionali e pulsive, che ogni giorno c’interrogano sulla marea che viene a trovarci.

 

La Provvidenza fa da regista, corteggia e dirige misteriosamente strategie irripetibili, che solcano la storia attraendo e trascinando, sbloccando meccanismi e potenziando energie - persino facendoci cambiare, rimodulare, o accentuare caratteri.

A tali linee personalissime ci si deve abbandonare. Non per bisogno, dovere, calcolo, né solo per capire qualcosa in più, bensì per goderne la Luce spirituale; i raggi d’Amore, vicini e lontani, creativi dell’interiore e di forze geniali [al contorno].

La Fiamma torna a speronarci per riaccendere il balsamo personale dell’istintività, le possibilità di realizzazione della nostra natura.

Il desiderio assurdo ch’esplode dentro vuole espandere le possibilità di Linfa - sia dell’albero che delle stesse radici - per farci diventare persone a tutto tondo.

Così non cercheremo più di assomigliare ai nostri “modelli”:

Il principio di tale trasmutazione che irrompe sullo scenario placido e convenzionale ha riproposto il motivo per cui siamo al mondo.

È il nostro compito che salva la vita... o l’aridità stessa dei “tipi” cui adeguarsi.

Eccoci allora ad azzerare e sorprendere il nostro lato nostalgico e morto, o il male oscuro di vivere - e lo sfiancarsi per una saggezza che non ha il di più della Sapienza.

Spento il fulgore e il bello della Fiaccola, la sua virtù energetica sulla nostra carne affievolisce, smorzando l’entusiasmo dell’anima - estinguendo l’agire (come in una posizione d’inedia).

 

Lo stato passionale è la forza del pensiero e dell’intelletto pratico.

Il coinvolgimento intimo fa volare la nostra identità-carattere, e ha ripercussioni significative sul prossimo.

È custodia dell’indipendenza. E ci integra, surclassando il senso d’imperfezione - o vuoto esistenziale.

L’Energia primordiale intelligente riconosce la nostra essenza; e riporta l’anima dalle vicende esterne al Nucleo: dalle vicissitudini, dalle cose, dalle ferite, al nostro essere intimo e più ricco.

Sa che dallo stimolo di tale centro sorgivo - legame intimo d’origine, primordiale - sprizzeranno eventi sbalorditivi, propensioni sconosciute, magie di accadimenti imprevisti.

Una nuova Creazione.

Da questa Casa della nuova vita e dei differenti inni, si sprigiona tutto un mondo di relazioni... nuovi impegni, intuizioni geniali; attitudini pratiche, che tessono la magia dell’anima sposa corrisposta.

È tale Fonte che subentra ancora, quando si accorge che non siamo compiuti, o che ci sentiamo da essa stessa traditi - ovvero per sorvolare le paure, il senso di desolazione, gli abbandoni amari. Come una potenza che richiama a noi stessi, ai nostri talenti inespressi, all’energia dello sguardo che coglie il senso di una storia, del genio del nostro territorio o tempo. E li varca, facendoci sporgere.

Diventa la bussola quotidiana della vita e delle trasformazioni. Ma sopporta male l’interferenza dei giudizi esterni, che non abitano nel profondo ma contribuiscono a creare l’atmosfera che circuisce attorno.

Sembra una forza che accade, un’energia che non può essere diretta né spiegata da un universo di significati pronti all’uso, da emozioni e simboli pianificanti, o manipolata per ottenere sottomissioni.

Pronta a risorgere come, quando e perché non ci aspettiamo; solo per rigenerare e rendere esponenziale l’inconsueta, autonoma semenza dell’anima. Così com’è: lo sforzo ascetico darebbe risultati scadenti.

 

La Sorgente nascosta si esprime in eventi impregnati di futuro, inzuppati da un’atmosfera di Presenza.

Accadimenti intrisi d’un intero versante della nostra personalità, e non solo di qualche propaggine del suo senso sociale [a nomenclatura].

Le Radici si manifestano in azioni che contengono saperi ancora inespressi ma fortemente potenziali, affettivamente vitali. Esse risolvono i problemi agendo a modo loro.

Proprio ciò che non conosciamo ancora di noi stessi (attitudini, desideri) può essere il segreto, la molla della nostra fioritura. Una scoperta che sgorga innata, non un strada insegnata e riconosciuta maestra.

La vera misura è più profonda.

Ci si smarrisce nelle banalità, se non si scopre il seme personale - e si presuppone di sapere già la direzione: cosa amare, come dire e fare secondo istruzioni.

Il mondo dei saperi acquisiti è viceversa spesso nemico del processo nascosto, il quale continua a voler svolgere il suo tema, e ripudiare ciò che non vuole assorbire, perché lo controbatterebbe.

Ed è questa tutta la partita: non affievolire, bensì intuire le attitudini e lasciare che siano, persino contraddittorie.

E danzino senza collocarle, identificarle, metterle in riga secondo costume o ideale - così inebetirle.

 

La caratteristica peculiare ha il sapore dell’Eterno.

Fa nascere incessantemente uno sguardo rinnovato, che si forma spontaneamente, strada facendo.

Preparando al Nuovo, che non sopporta le aspettative.

Quindi la scintilla imprevista del cuore [che mai combacia] non può essere umiliata, minacciata, frantumata, rimossa, o alienata.

 

È la nostra Inclinazione consistente, che libera un nitido fulgore d’Unicità.

 

 

Valori e indipendenza emotiva

 

Collocarsi negli eventi di persecuzione

(Lc 21,12-19)

 

Il corso della storia è tempo in cui Dio compone il confluire della nostra libertà e delle circostanze.

In tali pieghe c’è spesso un vettore di vita, un aspetto essenziale, una sorte definitiva, che ci sfugge.

Ma all’occhio non mediocre della persona di Fede, anche i soprusi e perfino il martirio sono un dono.

Per imparare le lezioni importanti della vita, ogni giorno il credente si avventura in ciò che ha paura di fare, superando i timori.

L’amore sponsale e gratuito ricevuto colloca in una condizione di reciprocità, d’attivo desiderio di unire la vita al Cristo - sebbene nell’esiguità delle nostre risposte.

Continuando invece a lamentarsi degli insuccessi, pericoli, calamità, tutti vedranno in noi donne come le altre e uomini comuni - e ogni cosa terminerà a questo livello.

Non saremo sull’altro lato.

Al massimo tenteremo di sottrarci alle asprezze, o si finirà per cercare alleati di circostanza (vv.14-15).

 

Lc intende aiutare le sue comunità a urtare la logica mondana e collocarsi negli eventi di persecuzione in maniera fervente.

Le angherie sociali non sono fatalità, bensì occasioni per la missione; luoghi di alta testimonianza eucaristica (v.13).

I perseguitati non hanno bisogno di stampelle esterne, né devono vivere nell’angoscia del crollo.

Essi hanno il compito di essere segni del Regno di Dio, che man mano porta i lontani e gli stessi usurpatori a una diversa consapevolezza.

Nessuno è arbitro della realtà e tutti sono fuscelli soggetti a rovesci, ma nella condizione umanizzante degli apostoli traluce un’indipendenza emotiva.

Ciò avviene per il senso intimo, vivo, di una Presenza, e la lettura delle vicende esterne come azione eccezionale del Padre che si rivela.

In tale magma energetico plasmabile, ecco affiorare percorsi unici, inedite opportunità di crescita... anche nelle avversità.

Atteggiamento senz’alibi né certezze granitiche: con la sola convinzione che tutto verrà rimesso in gioco [non per sforzo: per aver spostato lo sguardo, semplicemente].

Tempo sacro e profano vengono a coincidere in un Patto fervente, che si annida e cova frutti persino nei momenti del travaglio e paradosso.

Qui unica risorsa necessaria è la forza spirituale di andare sino in fondo… nei controsensi d’altro versante.

 

Così anche la famiglia o il “clan” di appartenenza vanno condotti a un differente mondo di convinzioni; non senza contrasti laceranti (v.16).

La Torah stessa obbligava alla denuncia degli infedeli alla religione dei padri - perfino parenti strettissimi - sino a metterli a morte (Dt 13,7-12) [nei fatti, solo per designare la gravità di quel tipo di trasgressione].

L’Annuncio non poteva che causare divisioni estreme, e su temi di fondo come il successo, o il progresso in questa vita - la visione di un mondo nuovo, dell’utopia di altre e altrui esigenze.

Tutto sembrerà congiurare e farsi beffe del nostro ideale (v.17).

 

Il riferimento al Nome allude alla vicenda storica di Gesù di Nazaret, col suo carico non solo di bontà ideale ed esplicita, ma pure di attività di denuncia contro l’istituzione ufficiale e le false guide che avevano messo sotto sequestro il Dio dell’Esodo.

Malgrado le interferenze, l’essere fraintesi, calunniati, messi in ridicolo, ricattati e odiati... ancorati a Cristo sperimenteremo che le tappe della storia e della vita procedono verso la Speranza.

La “protezione” di Dio non preserva da tinte cupe, né dal subire danni, ma garantisce che nulla vada perduto, neppure un capello (v.18).

Anche questo esempio spontaneo che Gesù trae dalla natura - eco della vita conciliante sognata per noi dal Padre - introduce alla Felicità che fa consapevoli di esistere in tutta la personale realtà.

L’espressione mostra infatti il valore delle cose genuine, silenti, poco eclatanti, le quali però ci abitano - non sono “ombre”. E le percepiamo senza sforzo né impegno cerebrale.

Nel tempo delle scelte epocali, dell’emergenza che sembra mettere tutto in scacco - ma vuole farci meno artificiali - tale consapevolezza può rovesciare il nostro giudizio di sostanza, sul piccolo e il grande.

Infatti, per l’avventura d’amore non c’è contabilità né clamore.

È nel Signore e nella realtà insidiosa o sommaria il “posto” per ciascuno di noi. Non senza lacerazioni.

Eppure traiamo energia spirituale dalla conoscenza del Cristo, dal senso di legame profondo con Lui e la realtà anche minuta e variegata, o temibile - sempre personale (v.18).

 

E (appunto) l’aldilà non è impreciso.

Non bisogna snaturarsi per avere consenso… tantomeno per il “Cielo” che vince la morte.

Il destino dell’unicità non va in rovina: è prezioso e caro, come lo è in natura.

Bisogna scorgerne la Bellezza, futura e già attuale.

Neppure conterà collocarsi sopra e davanti: piuttosto sullo sfondo, già ricchi e perfetti, nel senso intimo della pienezza di essere.

Così non dovremo calpestarci a vicenda (Lc 12,1)... anche per incontrare Gesù.

 

«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale».

(Rabindranath Tagore)

 

Gesù ci mette in guardia: non potremo contare su amicizie inattaccabili, né su potenze umane schierate a difesa della trama terrestre.

Anche colui che credevamo vicino ci scruterà con sospetto: il prezzo della verità sta sempre nella scelta contraria al mondo della menzogna [anche sacrale, datata o effimera] tutto coalizzato contro.

La nostra vicenda non sarà come un romanzo facile e a lieto fine.

Ma avremo possibilità di testimoniare nel presente le più genuine radici antiche: che in ogni istante Dio chiama, si manifesta - e ciò che sembra fallimento diviene Cibo e sorgente di Vita.

Ostinati solo nel cambio di proporzioni, tra spogliamento ed elevazione. Nella contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Che tipo di lettura fai, e come ti collochi negli eventi di persecuzione? 

Sei consapevole che gli intoppi non vengono per la disperazione, bensì per liberarti dalla chiusura in schemi culturali stagnanti (e non tuoi)?

 

 

Sull’altro versante del mondo

 

I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’“altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti; non venditori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti.

Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”. C’erano tante altre possibilità, offerte dal vocabolario: lo si poteva chiamare eroismo, abnegazione, sacrificio di sé. E invece i cristiani della prima ora lo hanno chiamato con un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo. Il martirio non è nemmeno l’ideale supremo della vita cristiana, perché al di sopra di esso vi è la carità, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’apostolo Paolo nell’inno alla carità, intesa come l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’Apostolo Paolo nell’inno alla carità: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Ripugna ai cristiani l’idea che gli attentatori suicidi possano essere chiamati “martiri”: non c’è nulla nella loro fine che possa essere avvicinato all’atteggiamento dei figli di Dio.

A volte, leggendo le storie di tanti martiri di ieri e di oggi - che sono più numerosi dei martiri dei primi tempi -, rimaniamo stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo (cfr Rm 8,38-39).

Che Dio ci doni sempre la forza di essere suoi testimoni. Ci doni di vivere la speranza cristiana soprattutto nel martirio nascosto di fare bene e con amore i nostri doveri di ogni giorno. Grazie.

[Papa Francesco, Udienza Generale 28 giugno 2017]

 

 

Il Senso e il Fine, non la fine

 

È tempo di gioia per la festa di Pasqua, che risveglia attese e speranze di liberazione. Gesù entra nel tempio di Gerusalemme, ovunque ricoperto di marmi perfettamente profilati e stracolmo d’oro.

«Queste cose che osservate, verranno giorni nei quali non sarà lasciata pietra su pietra, che non sarà distrutta»:

Per un ebreo significava la fine del mondo. Era impensabile che un luogo di tale estensione, lusso e magnificenza potesse venire scalzato da qualche teoria utopica.

Gesù voleva dire: se non cambiate mentalità e continuate a ragionare in termini di potere e aggressività, distruggerete voi stessi e rovinerete per sempre la casa di Dio, segno della sua presenza e centro della vostra identità.

Così avvenne - per opera delle truppe di Vespasiano guidate dal figlio prediletto e successore, Tito: tabula rasa (anno 70).

Lc invita a smettere di rincorrere l’opinione altrui - e riflettere invece sull’unica cosa interessante: come porre fine al mondo antico e dare inizio a una società guidata dal disegno del Padre, per il nostro bene integrale.

Anzitutto bisogna non lasciarsi ingannare dagli imbonitori che ripetono ossessivamente: “Questo è il momento da non perdere, mi raccomando! Sarai un grande se segui me e il mio gruppo...”.

Tanti i moralizzatori, altrettante le cocenti delusioni. Anche il credere ridotto a un’ideologia e codicilli confezionati: lo constatiamo ogni giorno.

Speranze deluse anche al contrario, per il desiderio di scapricciarsi... e anche se propugnate da scienza e tecnica: risultano disumanizzanti.

Lc vuole aiutare le sue comunità a non rimanere ai margini della storia di Dio.

Ovviamente, è da mettere in conto la persecuzione: esito perfettamente prevedibile per chi va contromano, e che non ci deve sorprendere, né gettare nello sconforto.

Chiunque desidera anche per interesse venale perpetuare il mondo antico che lo ha portato a galleggiare sugli altri, non si farà certo da parte spontaneamente. È solo infastidito dai progetti dei Figli.

Nessun terrore! Tra contorsioni e terremoti, l’assetto antiquato sta tirando le cuoia. Ma nasce un mondo nuovo: quello dal sisma di Pentecoste.

È un Vangelo, ossia un annuncio di gioia: il mondo competitivo ha avuto il suo colpo di grazia. Sta germogliando l’aurora di un nuovo splendido giorno: bisogna che sappiamo collocarci.

Si sta realizzando il passaggio fra due ere - proprio come avviene per noi oggi: non abbassiamo gli occhi, non spaventiamoci; piuttosto alziamo lo sguardo (v.28)!

Il messaggio mette in causa tre poteri: religioso, politico e famigliare.

Il mondo ripetitivo dei riti e dell’interesse sacrale chiuso viene sostituito dalla Fede [adesione a una proposta sponsale, d’amore] che valica i tatticismi e l’ideologia del potere.

E sua patria è un regno senza confini.

Il mondo famigliare delle società religiose tende alla difesa dell’interesse ristretto dei membri, della casa e del clan. Gesù crea un universo aperto.

La sua Famiglia non è limitata agli steccati del sangue di vecchia data; apre il cuore al pensiero senza limiti, all’incontro senza pregiudizi.

Perché l’essenziale non è prevalere e vincere, ma dare testimonianza non aggressiva che la mentalità dell’interesse è perdente (nel senso che non costruisce vita), e che l’idea di uomo-Dio antica è sì impressionante, ma bacata, inautentica, e non reggerà alla prova dei fatti.

Quindi non c’è bisogno di preparare difese, ossia agire come farebbe un qualsiasi pagano: cercare l’appoggio di chi conta, vendersi, diventare omertosi, aggregarsi a gruppi di potere e al normale stile di menzogna. Tutto per difendersi con artifizi o affermarsi con astuzie.

Qui è in gioco la Fede. Non perché scende in campo una preghiera in più o un maggiore adempimento di devozioni. E non per calcolo, sforzo e strategia, ma per il motivo che la Visione della realtà (opposta) nascente ci corrisponde in modo spontaneo.

È in ballo l’innamoramento: il discepolo di Cristo ne assimila la Visione, la riconosce propria - perché l’autentico innamorato finisce per vedere le cose come la Persona amata.

Quindi, ieri come oggi, gli innocenti continuano a non sapere che il Progetto cui collaborano spontaneamente è irrealizzabile... per questo lo realizzano.

È il mondo dei figli.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come leggi le realtà enigmatiche del mondo? È “la” fine o emerge «il» Fine?

Sabato, 08 Novembre 2025 04:19

Ciò per cui vale vivere

Nell'odierna pagina evangelica, san Luca ripropone alla nostra riflessione la visione biblica della storia e riferisce le parole di Gesù, che invitano i discepoli a non avere paura, ma ad affrontare difficoltà, incomprensioni e persino persecuzioni con fiducia, perseverando nella fede in Lui. "Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni - dice il Signore -, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine" (Lc 21, 9). Memore di questo ammonimento, sin dall'inizio la Chiesa vive nell'attesa orante del ritorno del suo Signore, scrutando i segni dei tempi e mettendo in guardia i fedeli da ricorrenti messianismi, che di volta in volta annunciano come imminente la fine del mondo. In realtà, la storia deve fare il suo corso, che comporta anche drammi umani e calamità naturali. In essa si sviluppa un disegno di salvezza a cui Cristo ha già dato compimento nella sua incarnazione, morte e risurrezione. Questo mistero la Chiesa continua ad annunciare ed attuare con la predicazione, con la celebrazione dei sacramenti e la testimonianza della carità.

Cari fratelli e sorelle, raccogliamo l'invito di Cristo ad affrontare gli eventi quotidiani confidando nel suo amore provvidente. Non temiamo per l'avvenire, anche quando esso ci può apparire a tinte fosche, perché il Dio di Gesù Cristo, che ha assunto la storia per aprirla al suo compimento trascendente, ne è l'alfa e l'omega, il principio e la fine (cfr Ap 1, 8). Egli ci garantisce che in ogni piccolo ma genuino atto di amore c'è tutto il senso dell'universo, e che chi non esita a perdere la propria vita per Lui, la ritrova in pienezza (cfr Mt 16, 25).

A tener viva tale prospettiva ci invitano con singolare efficacia le persone consacrate, che hanno posto senza riserve la loro vita a servizio del Regno di Dio […] Tanto dobbiamo a queste persone che vivono di ciò che la Provvidenza procura loro mediante la generosità dei fedeli. Il monastero, "come oasi spirituale, indica al mondo di oggi la cosa più importante, anzi alla fine l'unica cosa decisiva: esiste un'ultima ragione per cui vale la pena vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile" (Heiligenkreuz, 9 settembre 2007). La fede che opera nella carità è il vero antidoto contro la mentalità nichilista, che nella nostra epoca va sempre più estendendo il suo influsso nel mondo.

Ci accompagna nel pellegrinaggio terreno Maria, Madre del Verbo incarnato. A Lei chiediamo di sostenere la testimonianza di tutti i cristiani, perché poggi sempre su una fede salda e perseverante.

[Papa Benedetto, Angelus 18 novembre 2007]

Sabato, 08 Novembre 2025 04:10

Già e non ancora

1. Dopo aver meditato sul traguardo escatologico della nostra esistenza, cioè sulla vita eterna, vogliamo ora riflettere sul cammino che ad esso conduce. Sviluppiamo per questo la prospettiva presentata nella Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente: “Tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre, di cui si riscopre ogni giorno l’amore incondizionato per ogni creatura umana, ed in particolare per il ‘figlio perduto’ (cfr Lc 15, 11-32). Tale pellegrinaggio coinvolge l’intimo della persona allargandosi poi alla comunità credente per raggiungere l’intera umanità” (n. 49).

In realtà, ciò che il cristiano vivrà un giorno in pienezza è già in qualche modo anticipato oggi. La Pasqua del Signore è infatti inaugurazione della vita del mondo che verrà.

2. L'Antico Testamento prepara l'annuncio di questa verità attraverso la complessa tematica dell'Esodo. Il cammino del popolo eletto verso la terra promessa (cfr Es 6, 6) è come una magnifica icona del cammino del cristiano verso la casa del Padre. Ovviamente la differenza è fondamentale: mentre nell’antico Esodo la liberazione era orientata al possesso della terra, dono provvisorio come tutte le realtà umane, il nuovo “Esodo” consiste nell'itinerario verso la casa del Padre, in prospettiva di definitività ed eternità, che trascende la storia umana e cosmica. La terra promessa dell’Antico Testamento fu perduta di fatto con la caduta dei due regni e con l’esilio babilonese, in seguito al quale si sviluppò l'idea di un ritorno come nuovo Esodo. Tuttavia questo cammino non si risolse unicamente in un altro insediamento di tipo geografico o politico, ma si aprì ad una visione “escatologica” che ormai preludeva alla piena rivelazione in Cristo. In questa direzione si muovono appunto le immagini universalistiche, che nel Libro di Isaia descrivono il cammino dei popoli e della storia verso una nuova Gerusalemme, centro del mondo (cfr Is 56-66).

3. Il Nuovo Testamento annuncia il compimento di questa grande attesa, additando in Cristo il Salvatore del mondo: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Gal 4, 4-5). Alla luce di questo annuncio la vita presente è già sotto il segno della salvezza. Questa si realizza nell’evento di Gesù di Nazaret che culmina nella Pasqua, ma avrà la sua piena realizzazione nella “parusia”, nell’ultima venuta di Cristo.

Secondo l’apostolo Paolo questo itinerario di salvezza che collega il passato al presente proiettandolo nell'avvenire è frutto di un disegno di Dio, tutto incentrato nel mistero di Cristo. Si tratta del “mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle sulla terra” (Ef 1, 9-10; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1042s).

In questo disegno divino, il presente è il tempo del “già e non ancora”, tempo della salvezza già realizzata e del cammino verso la sua perfetta attuazione: “Finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13).

4. La crescita verso una tale perfezione in Cristo, e perciò verso l’esperienza del mistero trinitario, implica che la Pasqua si realizzerà e celebrerà pienamente solo nel regno escatologico di Dio (cfr Lc 22, 16). Ma l’evento dell’incarnazione, della croce e della risurrezione costituisce già la rivelazione definitiva di Dio. L’offerta di redenzione che tale evento implica si inscrive nella storia della nostra libertà umana chiamata a rispondere all'appello di salvezza.

La vita cristiana è partecipazione al mistero pasquale, come cammino di croce e risurrezione. Cammino di croce, perché la nostra esistenza è continuamente sotto il vaglio purificatore che porta al superamento del vecchio mondo segnato dal peccato. Cammino di risurrezione, perché risuscitando Cristo, il Padre ha sconfitto il peccato, per cui nel credente il “giudizio della croce” diventa “giustizia di Dio”, vale a dire trionfo della sua Verità e del suo Amore sulla perversità del mondo.

5. La vita cristiana è in definitiva una crescita verso il mistero della Pasqua eterna. Essa esige pertanto di tenere fisso lo sguardo alla meta, alle realtà ultime, ma al tempo stesso di impegnarsi nelle realtà ‘penultime’: tra queste e il traguardo escatologico non vi è opposizione, ma al contrario un rapporto di mutua fecondazione. Se va affermato sempre il primato dell’Eterno, ciò non impedisce che viviamo rettamente alla luce di Dio, le realtà storiche (cfr CCC, 1048s).

Si tratta di purificare ogni espressione dell’umano e ogni attività terrena, perché in esse traspaia sempre più il Mistero della Pasqua del Signore. Come infatti ci ha ricordato il Concilio, l’attività umana, che porta sempre con sé il segno del peccato, è purificata ed elevata a perfezione dal mistero pasquale, cosicché “i beni quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale” (Gaudium et spes, 39).

Questa luce d’eternità illumina la vita e l’intera storia dell’uomo sulla terra.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 11 agosto 1999]

 

La venerazione verso il martirio

1. Ci ha fatto venire oggi qui ad Otranto il ricordo dei martiri. Ci ha fatto venire qui la venerazione verso il martirio, sul quale, sin dall’inizio, si costruisce il regno di Dio, proclamato ed iniziato nella storia umana da Gesù Cristo.

La verità sul martirio ha nel Vangelo un’eloquenza piena di penetrante profondità ed insieme di trasparente semplicità. Cristo non promette ai suoi discepoli successi terreni o prosperità materiale; egli non presenta davanti ai loro occhi alcuna “utopia”, come è capitato più di una volta e come capita sempre nella storia delle ideologie umane. Egli semplicemente dice ai suoi discepoli: “vi perseguiteranno”. Vi consegneranno agli organi delle diverse autorità, vi metteranno in prigione, vi chiameranno davanti ai diversi tribunali. Tutto ciò “a causa del mio nome” (Lc 21,12).

La sostanza del martirio è legata, dall’inizio e nel corso di tutti i secoli, con questo nome! Noi qualifichiamo come martiri quei cristiani che, nel corso della storia, hanno subìto sofferenze, spesso terrificanti, per la loro crudeltà “in odium fidei”. Coloro ai quali “in odium fidei” veniva infine inflitta la morte. Quindi coloro che accettando, in questo mondo, le sofferenze e subendo la morte hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.

Mettendo davanti agli occhi dei suoi discepoli l’immagine delle sofferenze che li aspettano a causa del suo nome, il maestro dice: “Questo vi darà occasione di render testimonianza” (Lc 21,13).

2. Cinquecento anni fa qui, ad Otranto, 800 discepoli di Cristo hanno reso appunto una tale testimonianza, accettando la morte per il nome di Cristo. Ad essi si riferiscono le parole che il Signore Gesù ha pronunciato sul martirio: “Sarete odiati da tutti per causa del mio nome” (Lc 21,17). Sì. Sono stati oggetto d’odio. Hanno bevuto per il nome di Cristo il calice di quest’odio fino in fondo, a somiglianza del loro maestro, il quale dalla cena pasquale si recò direttamente al Getsemani e lì pregava: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice” (Lc 22,42). Tuttavia il calice dell’odio umano, della crudeltà e della croce non si è allontanato. Cristo, obbediente al Padre, l’ha vuotato fino in fondo: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).

La testimonianza del Getsemani e della croce è un sigillo definitivo, impresso su tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Egli, accettando la morte, ha dato la propria vita per la salvezza del mondo. I martiri di Otranto, accettando la morte, hanno dato la loro vita per Cristo. E in questo modo hanno reso una particolare testimonianza a Cristo.

La testimonianza dei martiri li introduce in modo particolare anche nel suo mistero pasquale. “Con la vostra perseveranza - dice Gesù - salverete le vostre anime” (Lc 21,19). Come egli stesso conquistò la nuova vita, accettando la morte, così i martiri accettando la morte, conquistano la vita, a cui Cristo ha dato inizio nella sua risurrezione.

3. “Quella” vita: la vita nuova e piena smentisce, in certo senso, l’esperienza della morte. Smentisce soprattutto la certezza di coloro che, infliggendo la morte, ritenevano di aver tolto la vita ai martiri, di averli privati della vita e di averli strappati in maniera definitiva dalla terra dei viventi.

“Agli occhi degli stolti parve che morissero; / la loro fine fu ritenuta una sciagura, / la loro dipartita da noi una rovina”.

Così proclamava l’autore del libro della Sapienza (Sap 3,2-3) già molto tempo prima che Cristo pronunciasse le sue parole sul martirio.

“...ma essi sono nella pace” (Sap 3,3). Ma essi sono nella pace!

Nell’atto del martirio ha quindi luogo una radicale, per così dire, contrapposizione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare. La morte umana dei martiri, la morte legata alla sofferenza e al tormento - così come la morte di Cristo sulla croce - cede, in un certo senso, dinanzi ad un’altra realtà superiore. L’autore del libro della Sapienza scrive:
“Le anime dei giusti... sono nelle mani di Dio / nessun tormento le toccherà” (Sap 3,1).

Quest’altra realtà superiore non annulla il fatto del tormento e della morte, così come non annullò il fatto della passione e della morte di Cristo. Essa, la “mano” invisibile di Dio trasforma soltanto questo fatto umano. Lo trasforma già perfino nella sua trama terrestre, mediante la potenza della fede che si rivela nelle anime dei martiri dinanzi al tormento ed alla sofferenza:
“Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità” (Sap 3,4).

La forza di questa fede e la forza della speranza che proviene da Dio sono più potenti del castigo e della morte stessa. I martiri rendono testimonianza a Cristo proprio per questa forza della fede e della speranza. Essi, difatti, simili a Lui nella passione e nella morte, proclamano contemporaneamente la potenza della sua risurrezione. Basta ricordare qui come moriva il primo martire di Cristo, il diacono Stefano; egli si spense gridando: “Ecco io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At 7,56).

Così dunque, grazie alla forza della fede ed alla potenza della speranza, cambiano in un certo senso le proporzioni: le proporzioni della vita e della morte, della sconfitta e della vittoria, dello spogliamento e dell’elevazione. L’autore del libro della Sapienza scrive in seguito:
“In cambio d’una breve pena / riceveranno grandi benefici, / perché Dio li ha provati / e li ha trovati degni di sé” (Sap 3,5).

4. Qui tocchiamo un punto particolarmente importante nel fatto del martirio. Il martirio è una grande prova, in un certo senso è la prova definitiva e radicale. È la più grande prova dell’uomo, la prova della dignità dell’uomo al cospetto di Dio stesso. È difficile dire a questo proposito più di quanto afferma proprio il libro della Sapienza: “Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé” (Sap 3,5). Non esiste una misura più grande della dignità dell’uomo di quella che si trova in Dio stesso: negli occhi di Dio. Il martirio è dunque “la” prova dell’uomo che ha luogo agli occhi di Dio, una prova nella quale l’uomo, aiutato dalla potenza di Dio, riporta la vittoria.

Attraverso tale prova sono passati, nel corso della storia, numerosi confessori e discepoli di Cristo. Attraverso tale prova sono passati i martiri d’Otranto cinquecento anni fa. Attraverso tale prova sono passati e passano i martiri del nostro secolo, martiri spesso sconosciuti, oppure poco conosciuti, anche se si trovano non lontani da noi.

E così nell’odierna circostanza non posso non volgere il mio sguardo, oltre il mare, alla non distante eroica Chiesa in Albania, sconvolta da dura e prolungata persecuzione ma arricchita dalla testimonianza dei suoi martiri: Vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e semplici fedeli.

Oltre che a loro, il mio pensiero va anche agli altri fratelli cristiani e a tutti i credenti in Dio i quali subiscono una simile sorte di privazioni in quella nazione.

Essere spiritualmente vicini a tutti coloro che soffrono violenza a causa della loro fede è un dovere speciale di tutti i cristiani, secondo la tradizione ereditata dai primi secoli. Direi di più: qui si tratta anche di una solidarietà dovuta alle persone ed alle comunità, i cui diritti fondamentali sono violati o perfino totalmente conculcati. Dobbiamo pregare perché il Signore sostenga questi nostri fratelli con la sua grazia in tali difficili prove. E vogliamo pregare anche per chi li perseguita ripetendo l’invocazione di Cristo sulla croce, rivolta al Padre: “Perdona loro perché non sanno ciò che fanno”.

Molto spesso si cerca di qualificare i martiri come “colpevoli di reati politici”. Anche Cristo è stato condannato a morte apparentemente per questo motivo: perché affermava di essere re (cf. Lc 23,2). Non dimentichiamo, perciò, i martiri dei nostri tempi. Non comportiamoci come se essi non esistessero. Ringraziamo Dio che essi hanno superato vittoriosamente la prova. Imploriamo la forza dello Spirito Santo per i perseguitati che ancora devono misurarsi con tale prova. Si compiano su di essi le parole del maestro: “Io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere né combattere” (Lc 21,15).

Restiamo in comunione con i martiri. Essi scavano l’alveo più profondo del fiume divino nella storia.

Essi costruiscono i fondamenti più consistenti di quella città divina che si eleva verso l’eternità.

L’autore del libro della Sapienza proclama: “(Dio) li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto” (Sap 3,6).

5. Nella Chiesa in terra permane il ricordo e la venerazione dei santi martiri, come qui a Otranto, e in tanti altri luoghi d’Italia, d’Europa e del mondo. Nel regno di Dio essi ricevono insieme a Cristo una particolare forza e potere nel mistero della comunione dei santi e in tutta l’economia divina della verità e dell’amore.

“Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro.

Quanti confidano in lui comprenderanno la verità; coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’amore, perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti” (Sap 3,8-9).

I martiri, dinanzi alla maestà della divina giustizia, potrebbero gridare così come leggiamo nell’Apocalisse: “Fino a quando, sovrano, tu che sei santo e verace, non farai, giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” (Ap 6,10). Tuttavia nella luce eterna della santissima Trinità, uniti nella suprema verità e nel perfetto amore, essi diventano portavoce della grazia e della misericordia per i loro fratelli e sorelle sulla terra. Lo diventano anzi per i loro stessi persecutori. Lo diventano soprattutto per la Chiesa, che secondo i disegni misericordiosi di Dio deve essere la “città divina” elevata tra i popoli, deve essere: “in Cristo come un sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1).

È perciò proprio questa Chiesa, riunita oggi a Otranto sulla grande tomba dei martiri, desidera nello spirito della missione che le è propria elevare, per il loro tramite, la sua preghiera a Dio. In questa preghiera si collocano al primo posto i problemi che noi oggi, da questa grande tomba dei martiri di Otranto, dopo 500 anni, vediamo in modo nuovo e con una nuova chiarezza, nella prospettiva della croce di Cristo e della missione della Chiesa.

6. Il Concilio Vaticano II, il quale ha affermato che “la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1), ha manifestato anche il suo atteggiamento coerente con tale professione nei confronti di quegli avvenimenti che, nel passato, hanno contrapposto reciprocamente musulmani e cristiani come nemici: “Se nel corso dei secoli tra cristiani e musulmani sono sorte non poche contese e inimicizie, questo sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare ciò che è passato, a praticare sinceramente la comprensione reciproca e a promuovere insieme i beni morali, la pace e la libertà” (Nostra Aetate, 3).

Per noi, queste parole hanno una importanza decisiva. Nel medesimo spirito ho già avuto occasione di parlare più di una volta: ad Ankara, capitale della Turchia, nella mia visita in quel paese l’anno scorso, ed anche a Nairobi, ad Accra, ad Ouagadougou e ad Abidjan durante il mio recente viaggio in terra africana.

Oggi, presso le tombe gloriose dei martiri d’Otranto, invoco l’intercessione di coloro le cui “anime sono nelle mani di Dio”, e, insieme con tutta la Chiesa, elevo fervida preghiera affinché le parole dell’insegnamento del Concilio Vaticano II diventino sempre più una realtà.

Va, in questo momento, un pensiero deferente e cordiale alla Chiesa in Bisanzio che ebbe storici legami con la Chiesa locale di Otranto.

Da questa antica terra di Puglia, protesa come una testa di ponte verso il levante, noi guardiamo con attenzione e simpatia alle regioni dell’oriente e particolarmente là dove ebbero origine storica le tre grandi religioni monoteistiche, cioè il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam. Abbiamo presente nella memoria ciò che il Concilio dice di “quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cf. Rm 9,4-5); popolo, in virtù dell’elezione, carissimo per ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili (cf. Rm 11,28-29)”. E in seguito leggiamo nella medesima pagina del Concilio Vaticano II: “Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale” (Lumen Gentium, 16).

In pari tempo non possiamo chiudere gli occhi dinanzi a situazioni particolarmente delicate che colà si sono create e tuttora sussistono. Sono scoppiati durissimi conflitti; la regione del medio oriente è pervasa da tensioni e contese, col rischio sempre incombente del riesplodere di nuove guerre. È doloroso rilevare che spesso gli scontri si sono avuti seguendo le linee di divisione fra gruppi confessionali diversi, sicché è stato possibile per alcuni, purtroppo, alimentarli artificiosamente facendo leva sul sentimento religioso.

I termini del dramma medio-orientale sono noti: il popolo ebraico, dopo esperienze tragiche, legate allo sterminio di tanti figli e figlie, spinto dall’ansia di sicurezza, ha dato vita allo stato di Israele; nello stesso tempo si è creata la condizione dolorosa del popolo palestinese, in cospicua parte escluso dalla sua terra. Sono fatti che stanno sotto gli occhi di tutti. Ed altri paesi, come il Libano, soffrono per una crisi che minaccia di essere cronica. In questi giorni, infine, un aspro conflitto è in corso in una regione vicina, fra Iraq e Iran.

Riuniti oggi qui, presso le tombe dei martiri di Otranto, meditiamo sulle parole della liturgia che proclamano la loro gloria e la loro potenza nel regno di Dio: “Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro”. Quindi in unione con questi martiri, noi presentiamo al Dio unico, al Dio vivente, al Padre di tutti gli uomini i problemi della pace in medio oriente ed anche il problema, che tanto ci è caro, dell’avvicinamento e del vero dialogo con coloro ai quali ci unisce - nonostante le differenze - la fede in un solo Dio, la fede ereditata da Abramo. Lo spirito di unità, di reciproco rispetto e di intesa si dimostri più potente di ciò che divide e contrappone.

Libano, Palestina, Egitto, penisola arabica, Mesopotamia nutrirono da millenni le radici di tradizioni sacre per ciascuno dei tre gruppi religiosi; là ancora, per secoli, hanno convissuto sugli stessi territori comunità cristiane, ebraiche ed islamiche; in quelle regioni, la Chiesa cattolica vanta comunità insigni per antichità di storia, vitalità, varietà di riti, proprie caratteristiche spirituali.

Sovrasta alta su tutto questo mondo, come un centro ideale, uno scrigno prezioso che custodisce i tesori delle memorie più venerande, ed è essa stessa il primo di questi tesori, la città santa, Gerusalemme, oggi oggetto di una disputa che sembra senza soluzione, domani - se lo si vuole! - domani crocevia di riconciliazione e di pace.

Sì, noi preghiamo perché Gerusalemme, anziché essere, come è oggi, oggetto di contesa e di divisione, divenga il punto d’incontro, verso cui continueranno a volgersi gli sguardi dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani, come al proprio focolare comune; intorno a cui essi si sentiranno fratelli, nessuno superiore, nessuno debitore agli altri; verso cui torneranno a dirigere i loro passi i pellegrini, seguaci di Cristo, o fedeli della legge mosaica, o membri della comunità dell’islam.

7. E adesso il nostro pensiero si rivolge ancora una volta verso la liturgia dei martiri. Noi guardiamo con gli occhi dell’autore dell’Apocalisse e vediamo nel grande cimitero di Otranto e, al tempo stesso, nella prospettiva dell’eterna Gerusalemme... vediamo: “sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa... venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli” (Ap 6,9.11).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Otranto 5 ottobre 1980]

Sabato, 08 Novembre 2025 03:56

Mai abbandona

L’odierno brano evangelico (Lc 21,5-19) contiene la prima parte del discorso di Gesù sugli ultimi tempi, nella redazione di san Luca. Gesù lo pronuncia mentre si trova di fronte al tempio di Gerusalemme, e prende spunto dalle espressioni di ammirazione della gente per la bellezza del santuario e delle sue decorazioni (cfr v. 5). Allora Gesù dice: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» (v. 6). Possiamo immaginare l’effetto di queste parole sui discepoli di Gesù! Lui però non vuole offendere il tempio, ma far capire, a loro e anche a noi oggi, che le costruzioni umane, anche le più sacre, sono passeggere e non bisogna riporre in esse la nostra sicurezza. Quante presunte certezze nella nostra vita pensavamo fossero definitive e poi si sono rivelate effimere! D’altra parte, quanti problemi ci sembravano senza uscita e poi sono stati superati!

Gesù sa che c’è sempre chi specula sul bisogno umano di sicurezze. Perciò dice: «Badate di non lasciarvi ingannare» (v. 8), e mette in guardia dai tanti falsi messia che si sarebbero presentati (v. 9). Anche oggi ce ne sono! E aggiunge di non farsi terrorizzare e disorientare da guerre, rivoluzioni e calamità, perché anch’esse fanno parte della realtà di questo mondo (cfr vv. 10-11). La storia della Chiesa è ricca di esempi di persone che hanno sostenuto tribolazioni e sofferenze terribili con serenità, perché avevano la consapevolezza di essere saldamente nelle mani di Dio. Egli è un Padre fedele, è un Padre premuroso, che non abbandona i suoi figli. Dio non ci abbandona mai! Questa certezza dobbiamo averla nel cuore: Dio non ci abbandona mai!

Rimanere saldi nel Signore, in questa certezza che Egli non ci abbandona, camminare nella speranza, lavorare per costruire un mondo migliore, nonostante le difficoltà e gli avvenimenti tristi che segnano l’esistenza personale e collettiva, è ciò che veramente conta; è quanto la comunità cristiana è chiamata a fare per andare incontro al “giorno del Signore”. Proprio in questa prospettiva vogliamo collocare l’impegno che scaturisce da questi mesi in cui abbiamo vissuto con fede il Giubileo Straordinario della Misericordia, che oggi si conclude nelle Diocesi di tutto il mondo con la chiusura delle Porte Sante nelle chiese cattedrali. L’Anno Santo ci ha sollecitati, da una parte, a tenere fisso lo sguardo verso il compimento del Regno di Dio e, dall’altra, a costruire il futuro su questa terra, lavorando per evangelizzare il presente, così da farne un tempo di salvezza per tutti.

Gesù nel Vangelo ci esorta a tenere ben salda nella mente e nel cuore la certezza che Dio conduce la nostra storia e conosce il fine ultimo delle cose e degli eventi. Sotto lo sguardo misericordioso del Signore si dipana la storia nel suo fluire incerto e nel suo intreccio di bene e di male. Ma tutto quello che succede è conservato in Lui; la nostra vita non si può perdere perché è nelle sue mani. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti, attraverso le vicende liete e tristi di questo mondo, a mantenere salda la speranza dell’eternità e del Regno di Dio. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti a capire in profondità questa verità: Dio mai abbandona i suoi figli!

[Papa Francesco, Angelus 13 novembre 2016]

Venerdì, 07 Novembre 2025 02:54

Preghiera: Fede Appropriazione

Lo scandalo dell’attesa

(Lc 18,1-8)

 

Negli anni 80 le comunità dell’Asia Minore subiscono persecuzione per il fatto che l’imperatore di Roma [il divo Domiziano] pretendeva farsi venerare.

L’istituzione religiosa ufficiale - servile e adulatrice - si adegua. I cristiani no - consapevoli della propria dignità e progetto di mondo alternativo.

Lc intende incoraggiare fedeli e comunità vittime di soprusi mettendo in evidenza come giungere alla disposizione più efficace, in grado d’intaccare i ricatti dell’allontanamento sociale.

 

Il ‘silenzio di Dio’ sugli abusi e il dominio dei prepotenti poneva quesiti e faceva avanzare riserve di fede.

Ma nella parabola, il giudice irresponsabile non è il Padre! L’ingiusto è un’icona che drammatizza la condizione in cui si vengono a trovare i discepoli privati del Maestro, in un mondo di astuti.

Ecco la «vedova»: la comunità dei nuovi ‘Anawim, poveri di Yahweh [nei Vangeli «ptōchôis»] ossia indifesi, esposti a soprusi - che hanno quale unica speranza il Signore.

Essi non restano alla scorza delle situazioni. Colgono i segni del nuovo Regno - di un’umanità alternativa - e li bramano.

Dice Lc: unico mezzo per ritrovarsi e non perdere la propria energia fondante è la Preghiera. Essa non è un ripiegamento (vv.3.7).

L’orazione dei figli è piuttosto un’azione in avanti. Una sorta di balzo che diventa magnetico e infine s’impadronisce con forza del suo desiderio profondo.

Un’appropriazione indebita. Come diceva s. Bernardo: «Quanto mi manca lo usurpo dal costato di Cristo».

 

Insomma, la preghiera cristiana ha il medesimo passo della Fede, e le sue poliedriche sfaccettature.

Quindi non ci pianta sul posto: diventa una Fonte che induce gesti temerari.

Perché? In certi momenti le cose cambiano. Nel “mondo”, solo per calcolo - ma detto questo, anche i più banali interessi muovono qualcosa (vv.4-5).

Vi sono aspetti del nostro Dialogo con Dio caratterizzati da tratti di assenso. Ma la parte “colorata” dell’orazione giunge quando si entra in clima sponsale - di ascolto, intuizione; anche di lotta e litigio personale.

Essi sfociano in una sorta di lettura del peso della propria vicenda, del genio del tempo e degli appigli per un’attualizzazione, che ci porta fuori dalla mediocrità: prendere o lasciare.

Insomma, l’orazione è un gesto concreto. Pone in contatto con una ‘visione’ che dona indicazioni. Vocazione a tutti i costi.

Una sorta di energia primordiale, che si riaffaccia per curare e dirigere situazioni.

Non solo è il grande strumento per non perdere la testa, e un mezzo per non scoraggiare.

Piuttosto, un’azione pungente e seccante, con effetto attrattivo - ‘calamita’.

 

Il nido dinamico, poco rassicurante, dell’orazione, ci riporta al Nucleo dell’essenza, al Sé eminente; nel regno della Chiamata per Nome.

Si fa Lettura e Intuizione che incontra gli stati profondi.

È in tale spostamento di sguardo e Visione che attualizziamo il futuro.

In tal guisa, la preghiera stessa ci guida alla realizzazione del nostro essere individuale e ministeriale-ecclesiale.

Essa infatti crea: pone d’improvviso (v.8) le condizioni calzanti, i momenti acuti della svolta - perché vive Altrove, e nella base dell’anima.

Scorge Dio nei solchi della storia, perciò attiva le energie del divenire: trascina la realtà, l’attira.

Sancisce e attualizza ciò che ‘viene’; interroga e smuove l’istituzione che tende a inaridire.

Col suo Timone, anche fra troppe nebbie solca i marosi delle tossine invecchianti, sorvola le angherie, dischioda il mondo e tutta la nostra vita.

 

 

[Sabato 32.a sett. T.O.  15 novembre 2025]

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The Church, which is ceaselessly born from the Eucharist, from Jesus' gift of self, is the continuation of this gift, this superabundance which is expressed in poverty, in the all that is offered in the fragment (Pope Benedict)
La Chiesa, che incessantemente nasce dall’Eucaristia, dall’autodonazione di Gesù, è la continuazione di questo dono, di questa sovrabbondanza che si esprime nella povertà, del tutto che si offre nel frammento (Papa Benedetto)
He is alive and wants us to be alive; he is our hope (Pope Francis)
È vivo e ci vuole vivi. Cristo è la nostra speranza (Papa Francesco
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Ecclesial life is made up of exclusive inclinations, and of tasks that may seem exceptional - or less relevant. What matters is not to be embittered by the titles of others, therefore not to play to the downside, nor to fear the more of the Love that risks (for afraid of making mistakes)
La vita ecclesiale è fatta di inclinazioni esclusive, e di incarichi che possono sembrare eccezionali - o meno rilevanti. Ciò che conta è non amareggiarsi dei titoli altrui, quindi non giocare al ribasso, né temere il di più dell’Amore che rischia (per paura di sbagliare).
Zacchaeus wishes to see Jesus, that is, understand if God is sensitive to his anxieties - but because of shame he hides (in the dense foliage). He wants to see, without being seen by those who judge him. Instead the Lord looks at him from below upwards; Not vice versa
Zaccheo desidera vedere Gesù, ossia capire se Dio è sensibile alle sue ansie - ma per vergogna si nasconde nel fitto fogliame. Vuole vedere, senza essere visto da chi lo giudica. Invece il Signore lo guarda dal basso in alto; non viceversa
The story of the healed blind man wants to help us look up, first planted on the ground due to a life of habit. Prodigy of the priesthood of Jesus
La vicenda del cieco risanato vuole aiutarci a sollevare lo sguardo, prima piantato a terra a causa di una vita abitudinaria. Prodigio del sacerdozio di Gesù.
Firstly, not to let oneself be fooled by false prophets nor to be paralyzed by fear. Secondly, to live this time of expectation as a time of witness and perseverance (Pope Francis)
Primo: non lasciarsi ingannare dai falsi messia e non lasciarsi paralizzare dalla paura. Secondo: vivere il tempo dell’attesa come tempo della testimonianza e della perseveranza (Papa Francesco)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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