don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Mercoledì, 20 Agosto 2025 03:08

Fede Attesa Vigilanza

1. “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”(Eb 11, 1).
Con queste parole ci parla l’autore della lettera agli Ebrei nella seconda lettura della messa di oggi.

La fede, che fa passare l’uomo dal mondo delle cose visibili alla realtà invisibile di Dio e alla vita eterna, rassomiglia a quel cammino, al quale fu chiamato da Dio Abramo - qualificato perciò come “padre di tutti coloro che credono” (cf. Rm 4, 11.12). In seguito leggiamo nella lettera agli Ebrei: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa . . .” (Eb 11, 8-9). Sì, è così. La fede è il pellegrinaggio spirituale in cui l’uomo s’incammina, seguendo la parola del Dio vivente, per arrivare alla terra della pace promessa e della felicità, all’unione con Dio “faccia a faccia”; a quella unione che riempirà, nel cuore umano, la fame e la sete più profonda: la fame della verità e la sete dell’amore.

Perciò, come ascoltiamo in seguito nella liturgia dell’odierna domenica, l’atteggiamento di spirito, che si addice al credente, è l’atteggiamento di vigilanza: “Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate” (Lc 12, 40). Una simile vigilanza è anche l’espressione dell’aspirazione spirituale a Dio mediante la fede.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 10 agosto 1980]

Mercoledì, 20 Agosto 2025 02:53

Non per la noia, semmai per la pazienza

Oggi vorrei soffermarmi su quella dimensione della speranza che è l’attesa vigilante. Il tema della vigilanza è uno dei fili conduttori del Nuovo Testamento. Gesù predica ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito» (Lc 12,35-36). In questo tempo che segue la risurrezione di Gesù, in cui si alternano in continuazione momenti sereni e altri angosciosi, i cristiani non si adagiano mai. Il Vangelo raccomanda di essere come dei servi che non vanno mai a dormire, finché il loro padrone non è rientrato. Questo mondo esige la nostra responsabilità, e noi ce la assumiamo tutta e con amore. Gesù vuole che la nostra esistenza sia laboriosa, che non abbassiamo mai la guardia, per accogliere con gratitudine e stupore ogni nuovo giorno donatoci da Dio. Ogni mattina è una pagina bianca che il cristiano comincia a scrivere con le opere di bene. Noi siamo già stati salvati dalla redenzione di Gesù, però ora attendiamo la piena manifestazione della sua signoria: quando finalmente Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28). Nulla è più certo, nella fede dei cristiani, di questo “appuntamento”, questo appuntamento con il Signore, quando Lui verrà. E quando questo giorno arriverà, noi cristiani vogliamo essere come quei servi che hanno passato la notte con i fianchi cinti e le lampade accese: bisogna essere pronti per la salvezza che arriva, pronti all’incontro. Avete pensato, voi, come sarà quell’incontro con Gesù, quando Lui verrà? Ma, sarà un abbraccio, una gioia enorme, una grande gioia! Dobbiamo vivere in attesa di questo incontro!

Il cristiano non è fatto per la noia; semmai per la pazienza. Sa che anche nella monotonia di certi giorni sempre uguali è nascosto un mistero di grazia. Ci sono persone che con la perseveranza del loro amore diventano come pozzi che irrigano il deserto. Nulla avviene invano, e nessuna situazione in cui un cristiano si trova immerso è completamente refrattaria all’amore. Nessuna notte è così lunga da far dimenticare la gioia dell’aurora. E quanto più oscura è la notte, tanto più vicina è l’aurora. Se rimaniamo uniti a Gesù, il freddo dei momenti difficili non ci paralizza; e se anche il mondo intero predicasse contro la speranza, se dicesse che il futuro porterà solo nubi oscure, il cristiano sa che in quello stesso futuro c’è il ritorno di Cristo. Quando questo succederà, nessuno lo sa ma il pensiero che al termine della nostra storia c’è Gesù Misericordioso, basta per avere fiducia e non maledire la vita. Tutto verrà salvato. Tutto. Soffriremo, ci saranno momenti che suscitano rabbia e indignazione, ma la dolce e potente memoria di Cristo scaccerà la tentazione di pensare che questa vita è sbagliata.

Dopo aver conosciuto Gesù, noi non possiamo far altro che scrutare la storia con fiducia e speranza. Gesù è come una casa, e noi ci siamo dentro, e dalle finestre di questa casa noi guardiamo il mondo. Perciò non ci richiudiamo in noi stessi, non rimpiangiamo con malinconia un passato che si presume dorato, ma guardiamo sempre avanti, a un futuro che non è solo opera delle nostre mani, ma che anzitutto è una preoccupazione costante della provvidenza di Dio. Tutto ciò che è opaco un giorno diventerà luce.

E pensiamo che Dio non smentisce sé stesso. Mai. Dio non delude mai. La sua volontà nei nostri confronti non è nebulosa, ma è un progetto di salvezza ben delineato: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). Per cui non ci abbandoniamo al fluire degli eventi con pessimismo, come se la storia fosse un treno di cui si è perso il controllo. La rassegnazione non è una virtù cristiana. Come non è da cristiani alzare le spalle o piegare la testa davanti a un destino che ci sembra ineluttabile.

Chi reca speranza al mondo non è mai una persona remissiva. Gesù ci raccomanda di attenderlo senza stare con le mani in mano: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli» (Lc 12,37). Non c’è costruttore di pace che alla fine dei conti non abbia compromesso la sua pace personale, assumendo i problemi degli altri. La persona remissiva, non è un costruttore di pace ma è un pigro, uno che vuole stare comodo. Mentre il cristiano è costruttore di pace quando rischia, quando ha il coraggio di rischiare per portare il bene, il bene che Gesù ci ha donato, ci ha dato come un tesoro.

In ogni giorno della nostra vita, ripetiamo quell’invocazione che i primi discepoli, nella loro lingua aramaica, esprimevano con le parole Marana tha, e che ritroviamo nell’ultimo versetto della Bibbia: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20). È il ritornello di ogni esistenza cristiana: nel nostro mondo non abbiamo bisogno di altro se non di una carezza del Cristo. Che grazia se, nella preghiera, nei giorni difficili di questa vita, sentiamo la sua voce che risponde e ci rassicura: «Ecco, io vengo presto» (Ap 22,7)!

[Papa Francesco, Udienza Generale 11 ottobre 2017]

(Mt 23,27-32)

 

Giovanni Crisostomo scrive nel Commento al Vangelo di Mt:

«Se si potesse aprire la coscienza di ciascuno, quanti vermi, quanta putredine e quale lezzo inimmaginabile vi troveremmo dentro. Desideri turpi e perversi, più sudici degli stessi vermi» (73,2).

Nel puntuale Commento al Vangelo di Mt, s. Girolamo scrive:

«I sepolcri all’esterno sono candidi di calce, adorni di marmi e d’oro, splendenti nei loro colori; ma all’interno sono pieni di ossa di morti. Così anche i maestri perversi, che una cosa dicono e l’altra fanno: nell’abito mostrano la purezza e nella parola l’umiltà; ma dentro sono pieni d’ogni marciume e di ogni desiderio impuro» (4).

 

Gesù prende posizione contro l’ipocrisia e l’estrinsecismo incoerente. Lo fa nei confronti delle autorità che salvano le vesti, le idee e l’immagine, ma radicalmente infedeli.

Si duole del loro apparire fittizio e corretto, mentre dentro sono la negazione totale del rispetto verso Dio che allestiscono in vetrina.

Così fanno stagnare il lato oscuro del mondo, invece di aiutarci a rimuoverlo.

La pietà ostentata per i grandi antenati denuncia un complesso di colpa (vv.29-32), non una cifra intima profonda - ambito unificatore dell’essere e dell’agire.

I maestri spirituali sono in campo non per fare mostra di sé - bensì per beneficare, dare colore, nuova linfa; promuovere situazioni autentiche e rallegranti, creative.

Il Signore propone un rinnovamento che giunga in profondità, più intimo dell’agitarsi epidermico; che tocchi il luogo e la dimensione dell’incontro col Padre.

Egli non si accontenta di ‘monumenti’ con la sorpresina dentro.

 

Siamo sempre tentati di rimanere sul piano d’una superficie abbellita, alla ricerca di facili e immediate soddisfazioni, stima, onore - soprattutto noi preti, che non di rado amiamo cullarci nei riconoscimenti.

Ci appaghiamo di cose epidermiche, perché? Incontrare se stessi, gli altri e la realtà richiede un impegno gravoso: quello di mettersi in discussione; uscire dalle forme, e dalle mode esterne.

Le tombe imbiancate appaiono sacre e graziose, ma si sa cosa talora contengono.

Non sempre diamanti cristallini; non sempre espressioni di filo diretto con gli altri e con Dio.

Insomma, la vistosità di fastigi e parvenze, o di patinature che strizzano sempre l’occhiolino, è una sorta di proiezione.

Artificio che non consente di elaborare pensieri; solo allontana gli incubi faticosi - nel modo più puerile.

L’Amore invece vive di scintille reali - non le varca indenne accontentandosi di autorappresentarsi nei segni decorativi, o nell’ideologia che adesca gli ingenui.

Paraventi d’incredibile vuoto.

 

Pur riconoscendo lecite le sfaccettature di grandi espressioni artistiche e le opinioni difformi, Gesù avrebbe sottoscritto un principio dei laici puritani: «Maggiori sono le cerimonie, minore è la Verità».

 

 

[Mercoledì 21.a sett. T.O. 27 agosto 2025]

Martedì, 19 Agosto 2025 01:53

Imbiancati: belli fuori, putridi dentro

Parvenze: vuoto

(Mt 23,27-32)

 

Giovanni Crisostomo scrive nel Commento al Vangelo di Mt:

«Se si potesse aprire la coscienza di ciascuno, quanti vermi, quanta putredine e quale lezzo inimmaginabile vi troveremmo dentro. Desideri turpi e perversi, più sudici degli stessi vermi» (73,2).

Forse ci ha spiazzato il severo impegno del Papa contro forme allegre, disinvolte e ambigue di gestione dei beni, e in campo di moralità interna alla Chiesa Cattolica - una vera e propria opera di bonifica clericale, che si è spinta sino alla riapertura delle carceri.

Ma prendendo posizione contro il sistema delle grandi parvenze [l’ipocrisia e l’estrinsecismo incoerente] Gesù rincara la dose.

Lo fa nei confronti delle autorità antiche, dei capi religiosi e mestieranti del sacro - leaders che salvano le vesti, le idee e l’immagine, ma radicalmente infedeli.

Si duole del loro apparire fittizio e corretto, mentre dentro sono la negazione totale del rispetto verso Dio che allestiscono in vetrina.

Così fanno stagnare il lato oscuro del mondo, invece di aiutarci a rimuoverlo.

La pietà ostentata per i grandi antenati denuncia un complesso di colpa (vv.29-32), non una cifra intima profonda - ambito unificatore dell’essere e dell’agire.

Isterismo che esorcizza il vizio degli “eletti” di sempre: togliersi dai piedi chi smaschera il loro esistere vuoto; nonché il loro ascendente ben adornato, cerebrale o legalista, che ancora costringe la vita di tanta gente nei sepolcri.

 

I maestri spirituali sono in campo non per fare mostra di sé - né incarnarsi a mo’ di guide minacciose.

Essi devono agire per beneficare, dare colore, nuova linfa; promuovere situazioni autentiche e contenuti nuovi, rallegranti e creativi.

Nel puntuale Commento al Vangelo di Mt, s. Girolamo scrive:

«I sepolcri all’esterno sono candidi di calce, adorni di marmi e d’oro, splendenti nei loro colori; ma all’interno sono pieni di ossa di morti. Così anche i maestri perversi, che una cosa dicono e l’altra fanno: nell’abito mostrano la purezza e nella parola l’umiltà; ma dentro sono pieni d’ogni marciume e di ogni desiderio impuro» (4).

Il Signore propone un rinnovamento che giunga in profondità, più intimo dell’agitarsi epidermico; che tocchi il luogo e la dimensione dell’incontro col Padre.

Egli non si accontenta di ‘monumenti’ con la sorpresina dentro.

 

Siamo sempre tentati di rimanere sul piano d’una superficie abbellita, alla ricerca di facili e immediate soddisfazioni, stima, onore - soprattutto noi preti, che non di rado amiamo cullarci nei riconoscimenti futili.

E i nostri diversi teatri della religiosità vistosa ma sorda sono largamente disponibili a truccare con rango spirituale l’appartenenza dei grandi primattori alla civiltà delle fictions - pulita e ornata.

Ci appaghiamo di cose epidermiche, perché? Incontrare se stessi, gli altri e la realtà richiede un impegno gravoso: quello di mettersi in discussione; uscire dalle forme, e dalle mode esterne.

Ma non sono sufficienti le buone maniere, per coprire tante pessime abitudini.

Non basta più la falsa sicurezza di presentare la nostra facciata da soap opera: figura apparecchiata dal rango anche religioso e devoto che si vuol mostrare.

L’ipocrisia delle interpretazioni accomodate o delle caratterizzazioni plateali è un atteggiamento non di rado camuffato e perfino delittuoso.

Esso ci sta portando allegramente al male oscuro della più decadente vacuità, e diffusa tristezza.

 

Le tombe imbiancate del nostro camposanto anticipato appaiono sacre e graziose, ma si sa cosa talora contengono.

Non sempre diamanti cristallini; non sempre espressioni di filo diretto con gli altri e con Dio.

Quindi il sorprendente impegno delle attuali gerarchie per la purificazione interna resta un punto fermo, del tutto opportuno.

È la vita che conta e va promossa, non l’apparire in cartapesta di tutto ciò che di sconosciuto o coperto ci è cresciuto in casa.

Anzi, proprio i manieristi o modernisti, i moralizzatori di facciata, i più vanitosi protagonisti della bellezza rituale o à la page… si rivelano le peggiori persone - dalla doppia vita; amanti d’uno stile da satrapi [forse per riscatto sociale].

Ecco il confondere idee anche a se stessi, e la paradossale opera di disidentificazione.

Insomma, la vistosità di fastigi e parvenze, o di patinature che strizzano sempre l’occhiolino, è una sorta di proiezione.

Artificio che non consente di elaborare pensieri; solo allontana gli incubi faticosi - nel modo più puerile.

L’Amore invece vive di scintille reali - non le varca indenne accontentandosi di autorappresentarsi nei segni decorativi, o nell’ideologia che adesca gli ingenui.

Paraventi d’incredibile vuoto.

 

Pur riconoscendo lecite le sfaccettature di grandi espressioni artistiche e le opinioni difformi, Gesù avrebbe sottoscritto il principio dei laici puritani anglosassoni: «Maggiori sono le cerimonie, minore è la Verità».

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali ipocrisie clericali [o adesioni-scapicollo] ti danno fastidio, malgrado il loro fastigio?

Gli accusatori ipocriti, infatti, fingono di affidargli il giudizio, mentre in realtà è proprio Lui che vogliono accusare e giudicare. Gesù, invece, è “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): Egli sa che cosa c’è nel cuore di ogni uomo, vuole condannare il peccato, ma salvare il peccatore, e smascherare l’ipocrisia. L’evangelista san Giovanni dà risalto ad un particolare: mentre gli accusatori lo interrogano con insistenza, Gesù si china e si mette a scrivere col dito per terra. Osserva sant’Agostino che quel gesto mostra Cristo come il legislatore divino: infatti, Dio scrisse la legge col suo dito sulle tavole di pietra (cfr Comm. al Vang. di Giov., 33, 5). Gesù dunque è il Legislatore, è la Giustizia in persona. E qual è la sua sentenza? “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Queste parole sono piene della forza disarmante della verità, che abbatte il muro dell’ipocrisia.

[Papa Benedetto, Angelus 21 marzo 2010]

Martedì, 19 Agosto 2025 01:42

Opporsi al Dio di misericordia

2. La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia.

15. Eleviamo le nostre suppliche, guidati dalla fede, dalla speranza, dalla carità che Cristo ha innestato nei nostri cuori. Questo atteggiamento è parimenti amore verso Dio, che l'uomo contemporaneo a volte ha molto allontanato da sé, reso estraneo a se stesso, proclamando in vari modi che gli è «superfluo». Questo è quindi amore verso Dio, la cui offesa ripulsa da parte dell'uomo contemporaneo sentiamo profondamente, pronti a gridare con Cristo in croce: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Questo è, al tempo stesso, amore verso gli uomini, verso tutti gli uomini senza eccezione e divisione alcuna: senza differenza di razza, di cultura, di lingua, di concezione del mondo, senza distinzione tra amici e nemici. Questo è amore verso gli uomini - e desidera ogni vero bene per ciascuno di essi e per ogni comunità umana, per ogni famiglia, ogni nazione, ogni gruppo sociale, per i giovani, gli adulti, i genitori, gli anziani, gli ammalati - verso tutti senza eccezione. Questo è amore, ossia premurosa sollecitudine per garantire a ciascuno ogni autentico bene ed allontanare e scongiurare qualsiasi male.

[Papa Giovanni Paolo II, Dives in Misericordia]

Martedì, 19 Agosto 2025 01:32

Pastori ammalati: doppia vita

Quando, di qualcuno, si dice che è una persona dalla doppia vita, non è per farle un complimento. Anzi. Sono quelle persone che irritano, fanno indignare, o che spesso anche causano disgusto con comportamenti che contraddicono le cose che, invece, sostengono a parole. Che si tratti di un politico o di un vicino di casa fa poca differenza: scoprire, per così dire, una “doppia vita”, è un qualcosa che fa sempre male. E non parliamo della disillusione che può generare, soprattutto nei giovani.

Ma se il predicare bene e il razzolare male è sempre una cosa irritante, quando a farlo è un prete la cosa è ancora più intollerabile. Perché c'è in ballo qualche cosa di più. Papa Francesco l'ha detto molto chiaramente, e come sempre con uno stile molto diretto ed efficace, qualche giorno fa. Quando, nella omelia della Messa mattutina a Santa Marta, ha sottolineato come «è brutto vedere pastori di doppia vita», anzi è una vera e propria «ferita nella Chiesa». Per il Papa sono «pastori ammalati, che hanno perso l'autorità e vanno avanti in questa doppia vita»; e, ha aggiunto, «ci sono tanti modi di portare avanti la doppia vita: ma è doppia ... E Gesù è molto forte con loro. Non solo dice alla gente di non ascoltarli ma di non fare quello che fanno, ma a loro cosa dice? “Voi siete sepolcri imbiancati”: bellissimi nella dottrina, da fuori. Ma dentro, putredine. Questa è la fine del pastore che non ha vicinanza con Dio nella preghiera e con la gente nella compassione».

Perché è questo appunto che fa la differenza. Francesco lo ribadisce con fermezza: «Quello che a un pastore dà autorità o risveglia l'autorità che è data dal Padre, è la vicinanza: vicinanza a Dio nella preghiera e la vicinanza alla gente. Il pastore staccato dalla gente non arriva alla gente con il messaggio. Vicinanza, questa doppia vicinanza. Questa è l'unzione del pastore che si commuove davanti al dono di Dio nella preghiera, e si può commuovere davanti ai peccati, al problema, alle malattie della gente: lascia commuovere il pastore. Gli scribi... avevano perso la “capacità” di commuoversi proprio perché “non erano vicini né alla gente né a Dio”". E senza questa vicinanza, o quando per qualsivoglia motivo la si perde, «il pastore finisce nell'incoerenza di vita».

Sembra di rileggere le parole che Giovanni Paolo II, nella lettera del giovedì santo indirizzata ai sacerdoti di tutto il mondo nel 1986, dedicò al Santo curato d'Ars tornando a indicarlo, nel secondo centenario della nascita, come esempio per tutti i preti. «Non si tratta certo di dimenticare – ha scritto a sua volta Benedetto XVI, sempre a proposito di San Giovanni Maria Vianney, nella lettera di indizione dell'Anno sacerdotale del 2009 – che l'efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall'incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d'Ars iniziò subito quest'umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell'aurora e non ne usciva che dopo l'Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia». Coerenza, dunque. Non doppiezza. Perché di tutto il popolo di Dio ha bisogno, tranne che di sepolcri imbiancati.

[Papa Francesco, s. Marta; Salvatore Mazza in Avvenire 13 gennaio 2018]

(Mt 23,23-26)

 

Quando i capi di una religiosità equivoca vogliono accreditarsi, insistono sulle idee astratte o sui dettagli, e fanno finta di non vedere l’abnorme.

Anticamente, la doppiezza fra ciò che mostravano e ciò che coltivavano era proverbiale.

Per coprire il loro ignobile spirito di rapina (v.25), eccoli far spuntare ogni sorta di sottigliezze legalistiche, e mettere in ombra le esigenze sostanziali.

Anche in Israele, mai erano sulla linea dei Profeti: calcolavano di far soffrire Gesù che li smascherava, per scoraggiarlo con oltraggi beffardi e accuse - allo scopo di minarne l’audacia.

Eppure il nuovo Rabbi continuava nella sferzante condanna del formalismo religioso, che creava barriere a ogni ricerca profonda delle motivazioni dell’agire. 

Tuttavia la sua vicenda ci fa comprendere che anche le condizioni aspre  e gli atteggiamenti ambigui degli stessi leaders possono essere un’occasione e uno spunto.

Forse un dono, per agire.

L’uomo interiore vivifica anche rompendo una maschera, un ruolo, una mansione formale, un personaggio; un’icona consolidata del voler apparire e non essere.

Si tratta comunque anche per noi oggi, di correre il massimo rischio con Cristo, in favore di una lunga avventura dell’anima.

Qui si toccano quegli spazi ove l’Appello per Nome non somiglia a nessun altro.

Lì dove incontriamo noi stessi, la nostra identità vocazionale profonda, i  talenti inespressi, e la firma d’Autore divina, nell’Unicità.

Se non lo tacitiamo, ecco allora affiorare in noi il Seme vocazionale che non mente, e guida; il Risorto presente che si svela comprensivo, delicato, attento, assolutamente personale ma nitido.

 

La cura di dettagli e minuzie è buona e propulsiva (v.23) solo se si unisce a quest’intima scoperta della propria singolare Missione.

Qui il richiamo ai valori sostanziali non comporta noncuranza o disprezzo per ciò che sembra secondario: tale appello può celare un carattere irripetibile.

Privo di sollecitazioni estreme, il movente delle nostre azioni resterebbe forse il tornaconto e la preoccupazione della propria fama; così via.

Ciò che pervaderebbe l’anima dal non fare o dal non dirsi nulla, rendendo arido e screditato il vissuto di Fede.

In tal guisa, anche una contraddizione interna o esterna può contribuire a partorire il nostro lato più profondo.

Perfino la rabbia per un disordine può attivare lo sviluppo, affinché corrispondiamo al nostro Nome.

E così farci affondare le radici, rinsaldare il tronco; stimolare intima giovinezza. Avendo di mira il Seme nascosto, prima d’innalzare “rami”.

 

Il Maestro propone una risalita all’essenzialità - anche affinché possiamo seguire la «via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi» [Gaudete et Exsultate n.11].

Tutto in una grande voglia di nascere ancora, nel piccolo e nel grande, per partorire il nostro lato più profondo.

 

 

[Martedì 21.a sett. T.O.  26 agosto 2025]

Lunedì, 18 Agosto 2025 05:09

Dove riporre Sicurezza

Nella Liturgia della Parola […] emerge il tema della Legge di Dio, del suo comandamento: un elemento essenziale della religione ebraica e anche di quella cristiana, dove trova il suo pieno compimento nell’amore (cfr Rm 13,10). La Legge di Dio è la sua Parola che guida l’uomo nel cammino della vita, lo fa uscire dalla schiavitù dell’egoismo e lo introduce nella «terra» della vera libertà e della vita. Per questo nella Bibbia la Legge non è vista come un peso, una limitazione opprimente, ma come il dono più prezioso del Signore, la testimonianza del suo amore paterno, della sua volontà di stare vicino al suo popolo, di essere il suo Alleato e scrivere con esso una storia di amore. Così prega il pio israelita: «Nei tuoi decreti è la mia delizia, / non dimenticherò la tua parola. (…) Guidami sul sentiero dei tuoi comandi, / perché in essi è la mia felicità» (Sal 119,16.35). Nell’Antico Testamento, colui che a nome di Dio trasmette la Legge al popolo è Mosè. Egli, dopo il lungo cammino nel deserto, sulla soglia della terra promessa, così proclama: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi» (Dt 4,1).

Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo. E così la religione smarrisce il suo senso autentico che è vivere in ascolto di Dio per fare la sua volontà - che è la verità del nostro essere - e così vivere bene, nella vera libertà, e si riduce a pratica di usanze secondarie, che soddisfano piuttosto il bisogno umano di sentirsi a posto con Dio. Ed è questo un grave rischio di ogni religione, che Gesù ha riscontrato nel suo tempo, ma che si può verificare, purtroppo, anche nella cristianità. Perciò le parole di Gesù nel Vangelo di oggi contro gli scribi e i farisei devono far pensare anche noi. Gesù fa proprie le parole del profeta Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,6-7; cfr Is 29,13). E poi conclude: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,8).

Anche l’apostolo Giacomo, nella sua Lettera, mette in guardia dal pericolo di una falsa religiosità. Egli scrive ai cristiani: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Vergine Maria, alla quale ora ci rivolgiamo in preghiera, ci aiuti ad ascoltare con cuore aperto e sincero la Parola di Dio, perché orienti i nostri pensieri, le nostre scelte e le nostre azioni, ogni giorno. 

[Papa Benedetto, Angelus 2 settembre 2012]

Lunedì, 18 Agosto 2025 05:05

Convertitevi

1. “Signore, mostraci il Padre” (Gv 14, 8). Nell’ora culminante e conclusiva dell’attività messianica di Gesù di Nazaret, alla vigilia della sua passione e morte in croce, gli Apostoli riuniti nel cenacolo, e in particolare Filippo, domandano al Maestro: “Signore, mostraci il Padre”. Gesù risponde loro: “Chi ha visto me ha visto il Padre... Io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14, 9. 11). L’ultimo colloquio dei discepoli con il loro Maestro è denso di profondi contenuti; in esso convergono, e in qualche modo vengono racchiusi, gli elementi più profondi della buona Novella. Durante la sua missione terrena Gesù aveva continuamente parlato del Padre, era vissuto sempre unito a Lui, in tutto si era riferito a Lui. Egli, che è totalmente da Lui e per Lui, aveva comandato ai discepoli di pregarlo chiamandolo: “Padre nostro”. Al momento dell’ultima Cena, rispondendo alla domanda di Filippo, dice: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere... credetelo per le opere stesse” (Gv 14, 10-11).

2. Chi è Dio? La risposta a questo interrogativo è senz’altro prioritaria e fondamentale per la vita dell’uomo. Le risposte alle domande: “Esiste Dio?” e “Chi è Dio?” si possono trovare in sovrabbondanza nella Buona Novella enunciata da Cristo. “Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Egli ci ha rivelato Dio nella sua gloria infinita. Pur rimanendo per noi esseri umani sempre un mistero, questo Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo – ci permette di chiamarlo per nome. Già nell’Antica Alleanza fu rivelato il suo Nome agli uomini: Jahvè, “Colui che è”. Nella rivelazione evangelica questo Nome di Dio, senza perdere l’identità primordiale, è stato in certo senso ulteriormente aperto all’intelligenza dell’uomo: “Colui che è”, è Padre, Figlio e Spirito Santo. Ai credenti è stato dato così di conoscere mediante la fede l’unità imperscrutabile della Trinità.

3. Al tempo stesso, questo Dio infinito e misterioso nel suo Unigenito Figlio si è avvicinato all’uomo in modo ineffabile: in Lui, Verbo fatto carne, Dio è diventato uomo. Per questo ora l’uomo può vedere Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14, 9). Ma Dio ha fatto ancora di più: Cristo, il Figlio di Dio, è venuto in mezzo agli uomini come Via al Padre. Egli stesso, che proviene dal Padre e ritorna al Padre mediante la sua croce e la sua risurrezione, diventa per tutti noi la Via. Attraverso di Lui, anche noi “andiamo” al Padre: per Cristo nello Spirito Santo. Mediante Lui possiamo partecipare alla pienezza della Verità e della Vita propria di Dio: Jahvè, cioè “Colui che è” è appunto questa assoluta Pienezza divina, che in Cristo ci viene partecipata. “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14, 6), dice Gesù. In Lui la vita umana ritrova il suo fine ultimo in Dio, che si manifesta quale “dimora” eterna per l’uomo, la cui esistenza sulla terra è come un pellegrinaggio in cerca dell’Assoluto. “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti” (Gv 14, 2): dunque sono molti coloro che vi abiteranno. Agli interrogativi e alle difficoltà dell’umana intelligenza, che davanti a questa affermazione si domanda come ciò sarà possibile, Gesù risponde: “Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto...” (Gv 14, 2). Siamo così condotti al vertice della nostra fede e della nostra speranza: l’attività messianica di Cristo, che annuncia il Vangelo del Regno e realizza il mistero pasquale, costituisce un’unica preparazione alla definitiva comunione con Dio. Mediante tale missione salvifica, il Figlio ci prepara un posto nella casa del Padre. Siamo dunque tutti dei “chiamati”, siamo cioè invitati ad abitare nelle dimore eterne, a partecipare e godere di quella pienezza della Verità e della Vita che è Dio stesso.

4. L’invito ad abitare nelle dimore eterne è rivolto a tutti noi, carissimi Fratelli e Sorelle, raccolti in questa incantevole Valle, testimone dell’antica e gloriosa Chiesa di san Libertino. Ci troviamo dinanzi al più grande complesso di templi antichi ancor oggi esistente. Esso ci parla del profondo bisogno di Dio presente nel cuore dell’umanità in ogni epoca e in ogni cultura. E sono lieto di poter leggere ed interpretare con voi questo Vangelo giovanneo dell’odierna domenica. Sono lieto che queste colonne antiche dei templi greci possano ascoltare la viva voce del Vangelo, della Rivelazione cristiana, dopo tanti millenni. Stiamo vivendo, questa sera, al chiudersi della mia visita alla vostra Diocesi, una speciale esperienza di fede e di comunione. Provenienti dalle varie regioni dell’Isola, carissimi fedeli, vi siete raccolti insieme col Successore di Pietro, per rinnovare la vostra adesione a Cristo, “pietra angolare” che struttura l’intero edificio di Dio. Voi siete i testimoni di Gesù, Via, Verità e Vita dell’uomo in questa terra siciliana. La vostra esistenza è chiamata a divenire sempre più segno evangelico della riconciliazione e della risurrezione.

5. Quando l’uomo si apre alla fede, sperimenta che l’egoismo è sostituito dall’altruismo, l’odio dall’amore, la vendetta dal perdono, la cupidigia dal servizio amorevole, l’egoismo e l’individualismo dalla solidarietà, la divisione dalla concordia – così come è chiamato questo antico tempio vicino ad Agrigento –, la violenza dalla misericordia. Ciò avviene quando l’uomo si apre alla fede. Quando, invece, si rifiuta il Vangelo e il suo messaggio di salvezza, s’avvia un processo di logoramento dei valori morali, che facilmente ha contraccolpi negativi sulla stessa vita sociale. Non è forse da ravvisare in questo la ragione ultima del fallimento di una cultura impostata sul tornaconto personale, che non considera i reali bisogni delle persone, specialmente delle più povere, condannate a rimanere vittime delle ingiustizie di una società sempre più competitiva e sempre meno solidale? La vera forza in grado di vincere queste tendenze distruttive sgorga dalla fede. Questa, però, esige non solo un’intima adesione personale, ma anche una coraggiosa testimonianza esteriore, che si esprime in una convinta condanna del male. Essa esige qui, nella vostra terra, una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile.

6. Le gravi situazioni di povertà, che tanta sofferenza hanno provocato nella vostra gente, costringendo un gran numero di uomini e donne a separarsi dagli affetti più cari per emigrare in paesi lontani, hanno favorito l’insorgere e l’espandersi di vere e proprie malattie del tessuto sociale, come il latifondismo e i fenomeni mafiosi. Al tempo stesso, però, molte persone, proprio in simili condizioni di difficoltà, hanno imparato a soffrire con dignità, a lavorare con tenacia, a non perdere mai la speranza in Dio e nell’uomo. Come in anni trascorsi il popolo siciliano ha saputo superare prove lunghe e dolorose, così anche oggi esso dispone delle risorse necessarie, insieme con il sostegno solidale della Nazione italiana, per rimarginare le attuali ferite, molte delle quali sono il frutto di ataviche condizioni sociali. La Chiesa siciliana è chiamata, oggi come ieri, a condividere l’impegno, la fatica e i rischi di coloro che lottano, anche con discapito personale, per gettare le premesse di un futuro di progresso, di giustizia e di pace per l’intera Isola.

7. Vi sostenga, carissimi, in questo sforzo fraterno e concorde, la grazia divina. “Volgiti a noi, Signore; in te speriamo” (Salmo responsoriale): la liturgia ci ha fatto ripetere poc’anzi questa fiduciosa invocazione. Noi speriamo nel Signore: questa è la salda certezza che sorregge i passi di coloro che operano per la giustizia e la pace. Sia questo anche il conforto di tutti voi, pietre vive dell’antico edificio della Chiesa di Dio pellegrinante in Sicilia. Con tali sentimenti sono lieto di abbracciare nel Signore i carissimi Vescovi della Regione, qui presenti insieme col Cardinale Salvatore Pappalardo, Arcivescovo di Palermo. Saluto in particolare Monsignor Carmelo Ferraro, Pastore della Diocesi di Agrigento, che ospita questa solenne celebrazione. Lo ringrazio cordialmente per le cortesi espressioni, che ha voluto rivolgermi a vostro nome. Il mio pensiero si dirige poi al Clero secolare e regolare, ai sacerdoti, alle Religiose e ai Religiosi, ai Membri degli Istituti secolari e delle Società di vita apostolica, come pure ai Laici generosamente impegnati nella vita cristiana nei diversi campi, nelle diverse vocazioni, nei diversi impegni. Rivolgo infine uno speciale, affettuoso pensiero agli ammalati, quelli che sono qui presenti e tanti altri che voglio accomunare nella mia preghiera e nelle mie intenzioni. Rimangono poi i giovani. Hanno vegliato tutta la notte. Dovrebbero essere stanchi ed affaticati, ma non si vede. Si vede la forza. Da dove è venuta questa forza? Penso che sia venuta dallo Spirito che il Signore non nega a quanti lo pregano. E questi giovani hanno pregato tutta la notte. Vi auguro, carissimi, questa forza, la forza del bene, la forza per superare i disagi, le malattie morali della vostra terra. La forza per un futuro migliore della Sicilia. In questo contesto suonano bene le parole di Pietro Apostolo: “Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose” (1 Pt 2, 9) del Signore. Siate tutti apostoli di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce. Questa è la consegna che vi lascio. Specialmente a voi, giovani, e a tutti voi membri di questa splendida comunità cristiana di Agrigento.

8. “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6): come parlò un tempo agli apostoli, così Gesù parla a noi questa sera. Egli aggiunge ancora: “Vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Gv 14, 3-4), poiché: “Io vado al Padre”. Noi tutti, seguendo Cristo, la sua preghiera, il suo Vangelo, ripetiamo stasera “Padre nostro”. È la preghiera della nostra vita. Non solo ci sforziamo di far nostre le invocazioni di questa preghiera, ma vogliamo amare con tutto il cuore e con tutta la vita Cristo, unica Via al Padre.

Signore Gesù, “mostraci il Padre e ci basta” (Gv 14, 8).

Amen!

 

Al termine della Santa Messa, dopo la Benedizione finale, Giovanni Paolo II pronunciò queste parole a braccio (la trascrizione che segue è letterale, quindi con qualche imperfezione grammaticale):

Carissimi,

vi auguro, come ha detto il diacono, di andare in pace: di andare in pace di trovare la pace nella vostra terra.

Carissimi,

non si dimentica facilmente una tale celebrazione, in questa Valle, sullo sfondo dei templi: templi provenienti dal periodo greco che esprimono questa grande cultura e questa grande arte ed anche questa religiosità, i templi che sono testimoni oggi della nostra celebrazione eucaristica. E uno ha avuto nome di “Concordia”: ecco, sia questo nome emblematico, sia profetico. Che sia concordia in questa vostra terra! Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime! Che sia concordia! Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia! Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!

Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!

Carissimi,

vi ringrazio per la vostra partecipazione per questa preghiera così suggestiva, profonda, partecipata. Vi lascio con questo saluto: Sia lodato Gesù Cristo, via verità e vita! Amen.

 

[Papa Giovanni Paolo II, omelia nella Valle dei Templi, Agrigento 9 maggio 1993]

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Isn’t the family just what the world needs? Doesn’t it need the love of father and mother, the love between parents and children, between husband and wife? Don’t we need love for life, the joy of life? (Pope Benedict)
Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? (Papa Benedetto)
Thus in communion with Christ, in a faith that creates charity, the entire Law is fulfilled. We become just by entering into communion with Christ who is Love (Pope Benedict)
Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l'amore (Papa Benedetto)
From a human point of view, he thinks that there should be distance between the sinner and the Holy One. In truth, his very condition as a sinner requires that the Lord not distance Himself from him, in the same way that a doctor cannot distance himself from those who are sick (Pope Francis))
Da un punto di vista umano, pensa che ci debba essere distanza tra il peccatore e il Santo. In verità, proprio la sua condizione di peccatore richiede che il Signore non si allontani da lui, allo stesso modo in cui un medico non può allontanarsi da chi è malato (Papa Francesco)
The life of the Church in the Third Millennium will certainly not be lacking in new and surprising manifestations of "the feminine genius" (Pope John Paul II)
Il futuro della Chiesa nel terzo millennio non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del « genio femminile » (Papa Giovanni Paolo II)
And it is not enough that you belong to the Son of God, but you must be in him, as the members are in their head. All that is in you must be incorporated into him and from him receive life and guidance (Jean Eudes)
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida (Giovanni Eudes)
This transition from the 'old' to the 'new' characterises the entire teaching of the 'Prophet' of Nazareth [John Paul II]
Questo passaggio dal “vecchio” al “nuovo” caratterizza l’intero insegnamento del “Profeta” di Nazaret [Giovanni Paolo II]
The Lord does not intend to give a lesson on etiquette or on the hierarchy of the different authorities […] A deeper meaning of this parable also makes us think of the position of the human being in relation to God. The "lowest place" can in fact represent the condition of humanity (Pope Benedict)
Il Signore non intende dare una lezione sul galateo, né sulla gerarchia tra le diverse autorità […] Questa parabola, in un significato più profondo, fa anche pensare alla posizione dell’uomo in rapporto a Dio. L’"ultimo posto" può infatti rappresentare la condizione dell’umanità (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)

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