Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Al centro della liturgia della Parola di questa Domenica sta un’espressione del profeta Osea che Gesù riprende nel Vangelo: "Voglio l’amore e non il sacrificio, / la conoscenza di Dio più degli olocausti" (Os 6,6). Si tratta di una parola-chiave, una di quelle che ci introducono nel cuore della Sacra Scrittura. Il contesto, in cui Gesù la fa propria, è la vocazione di Matteo, di professione "pubblicano", vale a dire esattore delle tasse per conto dell’autorità imperiale romana: per ciò stesso, egli veniva considerato dai Giudei un pubblico peccatore. Chiamatolo proprio mentre era seduto al banco delle imposte – illustra bene questa scena un celeberrimo dipinto del Caravaggio –, Gesù si recò a casa di lui con i discepoli e si pose a mensa insieme con altri pubblicani. Ai farisei scandalizzati rispose: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati… Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mt 9,12-13). L’evangelista Matteo, sempre attento al legame tra l’Antico e il Nuovo Testamento, a questo punto pone sulle labbra di Gesù la profezia di Osea: "Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio".
E’ tale l’importanza di questa espressione del profeta che il Signore la cita nuovamente in un altro contesto, a proposito dell’osservanza del sabato (cfr Mt 12,1-8). Anche in questo caso Egli si assume la responsabilità dell’interpretazione del precetto, rivelandosi quale "Signore" delle stesse istituzioni legali. Rivolto ai farisei aggiunge: "Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato persone senza colpa" (Mt 12,7). Dunque, in questo oracolo di Osea Gesù, Verbo fatto uomo, si è, per così dire, "ritrovato" pienamente; l’ha fatto proprio con tutto il suo cuore e l’ha realizzato con il suo comportamento, a costo persino di urtare la suscettibilità dei capi del suo popolo. Questa parola di Dio è giunta a noi, attraverso i Vangeli, come una delle sintesi di tutto il messaggio cristiano: la vera religione consiste nell’amore di Dio e del prossimo. Ecco ciò che dà valore al culto e alla pratica dei precetti.
Rivolgendoci ora alla Vergine Maria, domandiamo per sua intercessione di vivere sempre nella gioia dell’esperienza cristiana. Madre di Misericordia, la Madonna susciti in noi sentimenti di filiale abbandono nei confronti di Dio, che è misericordia infinita; ci aiuti a fare nostra la preghiera che sant’Agostino formula in un noto passo delle sue Confessioni: "Abbi pietà di me, Signore! Ecco, io non nascondo le mie ferite: tu sei il medico, io il malato; tu sei misericordioso, io misero… Ogni mia speranza è posta nella tua grande misericordia" (X, 28.39; 29.40).
[Papa Benedetto, Angelus 8 giugno 2008]
Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà!
Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera!
Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia inizio pontificato 22 ottobre 1978]
Preghiera per le vocazioni
Gesù, Figlio di Dio, in cui dimora la pienezza della divinità,
Tu chiami tutti battezzati "a prendere il largo", percorrendo la via della santità.
Suscita nel cuore dei giovani il desiderio di essere nel mondo di oggi
testimoni della potenza del tuo amore.
Riempili con il tuo Spirito di fortezza e di prudenza che li conduca nel profondo del mistero umano perché siano capaci di scoprire la piena verità di sé e della propria vocazione.
Salvatore nostro, mandato dal Padre per rivelarne l'amore misericordioso, fa' alla tua Chiesa il dono di giovani pronti a prendere il largo,
per essere tra i fratelli manifestazione della tua presenza che rinnova e salva.
[Giovanni Paolo II]
Con la sua misericordia Gesù sceglie gli apostoli anche «dal peggio», tra i peccatori e i corrotti. Ma sta a loro conservare «la memoria di questa misericordia», ricordando «da dove si è stati scelti», senza montarsi la testa o pensare a far carriera come funzionari, sistematori di piani pastorali e affaristi. È la testimonianza concreta della conversione di Matteo che Papa Francesco ha riproposto celebrando la messa a Santa Marta venerdì 21 settembre, nel giorno della festa dell’apostolo ed evangelista.
«Nell’orazione colletta abbiamo pregato il Signore e abbiamo detto che nel suo disegno di misericordia ha scelto Matteo, il pubblicano, per costituirlo apostolo» ha subito ricordato il Pontefice, che ha indicato come chiave di lettura «tre parole: disegno di misericordia, scelto-scegliere, costituire».
«Mentre andava via — ha spiegato Francesco riferendosi proprio al passo evangelico di Matteo (9, 9-13) — Gesù vide un uomo chiamato Matteo seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Era un pubblicano, cioè un corrotto, perché per i soldi tradiva la patria. Un traditore del suo popolo: il peggio».
In realtà, ha fatto presente il Papa, qualcuno potrebbe obiettare che «Gesù non ha buon senso per scegliere la gente»: «perché ha scelto fra tanti altri» questa persona «dal peggio, proprio dal niente, dal posto più disprezzato»? Del resto, ha spiegato il Pontefice, nello stesso modo il Signore «ha scelto la samaritana per andare ad annunciare che lui era il messia: una donna scartata dal popolo perché non era proprio una santa; e ha scelto tanti altri peccatori e li ha costituiti apostoli». E poi, ha aggiunto, «nella vita della Chiesa, tanti cristiani, tanti santi che sono stati scelti dal più basso».
Francesco ha ricordato che «questa coscienza che noi cristiani dovremmo avere — da dove sono stato scelto, da dove sono stata scelta per essere cristiano — deve permanere per tutta la vita, rimanere lì e avere la memoria dei nostri peccati, la memoria che il Signore ha avuto misericordia dei miei peccati e mi ha scelto per essere cristiano, per essere apostolo».
Dunque «il Signore sceglie». L’orazione colletta è chiara: «Signore, che hai scelto il pubblicano Matteo e lo hai costituito apostolo»: cioè, ha insistito, «dal peggio al posto più alto». In risposta a questa chiamata, ha fatto notare il Papa, «cosa ha fatto Matteo? Si vestì di lusso? Incominciò a dire “io sono il principe degli apostoli, con voi”, con gli apostoli? Qui comando io? No! Ha lavorato tutta la vita per il Vangelo, con quanta pazienza ha scritto il Vangelo in aramaico». Matteo, ha spiegato il Pontefice, «ha sempre avuto in mente da dove era stato scelto: dal più basso».
Il fatto è, ha rilanciato il Papa, che «quando l’apostolo dimentica le sue origini e incomincia a fare carriera, si allontana dal Signore e diventa un funzionario; che fa tanto bene, forse, ma non è apostolo». E così «sarà incapace di trasmettere Gesù; sarà un sistematore di piani pastorali, di tante cose; ma alla fine, un affarista, un affarista del regno di Dio, perché ha dimenticato da dove era stato scelto».
Per questo, ha affermato Francesco, è importante avere «la memoria, sempre, delle nostre origini, del posto nel quale il Signore mi ha guardato; quel fascino dello sguardo del Signore che mi ha chiamato a essere cristiano, a essere apostolo. Questa memoria deve accompagnare la vita dell’apostolo e di ogni cristiano».
«Noi infatti siamo abituati sempre a guardare i peccati altrui: guarda questo, guarda quello, guarda quell’altro», ha proseguito il Papa. Invece «Gesù ci ha detto: “per favore, non guardare la pagliuzza negli occhi altrui; guarda cosa hai tu nel tuo cuore”». Ma, ha insistito il Pontefice, «è più divertente sparlare degli altri: è una cosa bellissima, sembra». Tanto che «sparlare degli altri» appare un po’ «come le caramelle al miele, che sono buonissime: tu prendi una, è buona; prendi due, è buona; tre... prendi mezzo chilo e ti fa male lo stomaco e stai male».
Invece, ha suggerito Francesco, «parla male di te stesso, accusa te stesso, ricordando i tuoi peccati, ricordando da dove il Signore ti ha scelto. Sei stato scelto, sei stata scelta. Ti ha preso per mano e ti ha portato qui. Quando il Signore ti ha scelto non ha fatto le cosa a metà: ti sceglie per qualcosa di grande, sempre».
«Essere cristiano — ha affermato — è una cosa grande, bella. Siamo noi ad allontanarci e a voler rimanere a metà cammino, perché quello è molto difficile; e a negoziare con il Signore» dicendo: «Signore, no, soltanto fino a qui». Ma «il Signore è paziente, il Signore sa tollerare le cose: è paziente, ci aspetta. Ma a noi manca generosità: a lui no. Lui sempre ti prende dal più basso al più alto. Così ha fatto con Matteo e ha fatto con tutti noi e continuerà a fare».
In riferimento all’apostolo, il Pontefice ha spiegato come lui abbia «sentito qualcosa di forte, tanto forte, al punto di lasciare sul tavolo l’amore della sua vita: i soldi». Matteo «lasciò la corruzione del suo cuore, per seguire Gesù. Lo sguardo di Gesù, forte: “Seguimi!”. E lui lasciò», nonostante fosse «così attaccato» ai soldi. «E sicuramente — non c’era telefono, a quel tempo — avrà inviato qualcuno a dire ai suoi amici, a quelli della cricca, del gruppo dei pubblicani: “venite a pranzo con me, perché farò festa per il maestro”».
Dunque, come racconta il brano del Vangelo, «erano a tavola tutti, questi: il peggio del peggio della società di quel tempo. E Gesù con loro. Gesù non è andato a pranzo con i giusti, con quelli che si sentivano giusti, con i dottori della legge, in quel momento. Una volta, due volte è andato anche con quest’ultimi, ma in quel momento è andato con loro, con quel sindacato di pubblicani».
Ed ecco che, ha proseguito Francesco, «i dottori della legge si sono scandalizzati. Chiamarono i discepoli e dissero: “come mai il tuo maestro fa questo, con questa gente? Diventa impuro!”: mangiare con un impuro ti contagia, non sei più puro». Udito questo, è Gesù stesso che «dice questa terza parola: “Andate a imparare cosa vuol dire: ‘misericordia io voglio e non sacrifici’”». Perché «la misericordia di Dio cerca tutti, perdona tutti. Soltanto, ti chiede di dire: “Sì, aiutami”. Soltanto quello».
«Quando gli apostoli andavano tra i peccatori, pensiamo a Paolo, nella comunità di Corinto, alcuni si scandalizzavano» ha spiegato il Papa. Essi dicevano: «Ma perché va da quella gente che è gente pagana, è gente peccatrice, perché ci va?». La risposta di Gesù è chiara: «Perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: “Misericordia voglio e non sacrifici”».
«Matteo scelto! Sceglie sempre Gesù» ha rilanciato il Pontefice. Il Signore sceglie «tramite persone, tramite situazioni o direttamente». Matteo è «costituito apostolo: chi costituisce nella Chiesa e dà la missione è Gesù. L’apostolo Matteo e tanti altri ricordavano le loro origini: peccatori, corrotti. E questo perché? Per la misericordia. Per il disegno di misericordia».
Francesco ha riconosciuto che «capire la misericordia del Signore è un mistero; ma il mistero più grande, più bello, è il cuore di Dio. Se tu vuoi arrivare proprio al cuore di Dio, prendi la strada della misericordia e lasciati trattare con misericordia». È esattamente la storia di «Matteo, scelto dal banco del cambiavalute dove si pagavano le tasse. Scelto dal basso. Costituito nel posto più alto. Perché? Per misericordia». In questa prospettiva, ha concluso il Papa, «impariamo noi cosa vuol dire “misericordia voglio, e non sacrifici”».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/09/2018]
Festa dei Santi Pietro e Paolo apostoli [29 giugno 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Un ricordo particolare in questa domenica per Papa Leone XIV e per il suo ministero non facile in questo tempo di gravi crisi umane e spirituali nel mondo
*Prima lettura dagli Atti degli Apostoli (12, 1–11)
Gesù fu probabilmente giustiziato nell’aprile del 30. All’inizio, i suoi discepoli erano pochissimi e non davano fastidio, ma la situazione si complica quando iniziano a operare guarigioni e miracoli. Pietro fu imprigionato due volte dalle autorità religiose: la prima con Giovanni e si concluse con una comparizione davanti al tribunale e con minacce; la seconda con altri apostoli che Luca non nomina, liberati in modo miracoloso da un angelo (At 5, 17-20). In seguito le autorità religiose fanno uccidere Stefano e scatenano una vera persecuzione che spinge i più minacciati tra i cristiani chiamati “ellenisti” a lasciare Gerusalemme per la Samaria e la costa mediterranea. Giacomo, Pietro e Giovanni e l’insieme dei Dodici rimasero a Gerusalemme. Nell’episodio odierno il potere politico fa imprigionare Pietro sotto Erode Agrippa che regnò dal 41 al 44 d.C. Nipote di Erode il Grande, che regnava al momento della nascita di Gesù, Erode Agrippa era attento a non scontentare né il potere romano, né gli ebrei, tanto che si diceva che era romano a Cesarea e giudeo a Gerusalemme. Cercando però di piacere agli uni o agli altri, non poteva che essere nemico dei cristiani ed è in tale contesto che per farsi benvolere dagli ebrei, fece giustiziare Giacomo (figlio di Zebedeo) e imprigionò Pietro. Pietro scampa ancora miracolosamente, ma ciò che interessa a Luca, molto più del destino personale di Pietro, è la missione di evangelizzazione: se gli angeli vengono a liberare gli apostoli è perché il mondo ha bisogno di loro e Dio non permetterà che un potere ostacoli l’annuncio del vangelo. Una nota storica: Gli ebrei, ridotti in schiavitù e minacciati da un vero e proprio genocidio, vennero più volte liberati miracolosamente e nel corso dei secoli hanno annunciato al mondo che questa liberazione è sempre opera di Dio. Purtroppo, in un misterioso rovesciamento, può capitare che coloro che sono incaricati di annunciare e compiere essi stessi l’opera liberatrice di Dio, finiscano per farsi complici di una nuova forma di dominio, come avvenne per Gesù, vittima della perversione del potere religioso del suo tempo. Luca, nel racconto della sua morte e resurrezione, mise bene in luce questo paradosso: fu nel contesto della Pasqua ebraica, memoriale del Dio liberatore, che il Figlio di Dio venne soppresso dai difensori di Dio. Tuttavia l’amore e il perdono del Dio “mite e umile di cuore” ebbero l’ultima parola: Gesù è risorto. Ed ecco che, a sua volta, la giovane Chiesa si trova ad affrontare la persecuzione dei poteri religiosi e politici, proprio come Gesù e anche questa volta, avviene nel contesto della Pasqua ebraica, a Gerusalemme. Pietro fu arrestato durante la settimana di Pasqua che inizia con il pasto pasquale e continua con la settimana degli Azzimi. Le parole che l’angelo dice a Pietro somigliano agli ordini dati al popolo la notte dell’uscita dall’Egitto (Es 12, 11): “Alzati in fretta! Mettiti la cintura, e legati i sandali” . Luca fa capire che Dio prosegue la sua opera di liberazione e l’intero racconto di questo miracolo è scritto sul modello e con il vocabolario della passione e resurrezione di Cristo. Simili gli scenari: è notte, c’è la prigione, ci sono i soldati, Pietro dorme a differenza di Gesù, ma per entrambi si leva nella notte la luce di Dio che agisce. Nell’oscurità della prova non viene meno la promessa di Cristo a Pietro perché le forze della morte e del male non prevarranno. La Chiesa nel travaglio della storia ripete spesso con Pietro la sua professione di fede: “Ora so veramente che il Signore ha mandato un angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode” (v.11)
*Salmo responsoriale (33/34, 2-9)
“L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono, e li libera”. Cantiamo questo salmo dopo aver ascoltato il racconto della liberazione di Pietro e sappiamo che tutta la giovane Chiesa era in preghiera per lui. “Questo povero grida; il Signore lo ascolta”: la fede è gridare a Dio e sapere che ci ascolta, come ascoltò il grido della comunità, e Pietro fu liberato. Gesù però sulla croce non è sfuggito alla morte e anche Pietro di nuovo prigioniero a Roma sarà ucciso. Si dice spesso che con la preghiera tutto si risolverà e invece non è così perché anche chi prega e fa novene e pellegrinaggi non sempre ottiene la grazia domandata. Dunque Dio a volte non ascolta oppure, quando non veniamo esauditi come vorremmo è perché abbiamo pregato male o non abbastanza? La risposta sta in tre punti: 1. Sì,Dio ascolta sempre il nostro grido; 2. risponde donandoci il suo Spirito; 3. suscita accanto a noi dei fratelli. 1.Dio sempre ascolta il nostro grido. Nell’episodio del roveto ardente (Es 3) leggiamo: “Dio disse a Mosè: Sì, davvero, ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, e ho udito il suo grido sotto i colpi dei suoi sorveglianti. Sì, conosco le sue sofferenze”. Il vero credente sa che il Signore ci è vicino nella sofferenza perché è “dalla nostra parte”, come leggiamo qui nel salmo 33/34: Ho cercato il Signore: mi ha risposto…mi ha liberato…ascolta…salva… il suo angelo si accampa attorno e libera quelli che lo temono, è un rifugio. 2. Dio ci risponde donandoci il suo Spirito come si capisce quando si ascolta ciò che Gesù dice nel vangelo di Luca: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto. Chiunque infatti chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi bussa, sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà invece un serpente? O se chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono. » (Lc 11, 9-13). Dio non fa sparire ogni preoccupazione per magia, ma ci riempie del suo Spirito e la preghiera ci apre all’azione dello Spirito che suscita in noi la forza per modificare la situazione e superare la prova. Non siamo più soli: leggiamo nel salmo responsoriale che “Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo salva da tutte le sue angosce… Ho cercato il Signore, mi ha risposto e da ogni paura mi ha liberato” (vv. 6-7). Credere che il Signore ci ascolta fa spegnere la paura e svanire l’angoscia. 3.Dio suscita accanto a noi dei fratelli. Quando nell’episodio del roveto ardente Dio dice che ha visto la miseria del popolo in Egitto e udito il suo grido, suscita in Mosè l’impulso a liberare il popolo: “E ora, poiché il grido degli Israeliti è giunto fino a me… va’ dunque; io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo” (Es 3, 9-10). Quante volte nell’esperienza dalla sofferenza, Dio ha suscitato i profeti e i capi di cui il popolo aveva bisogno per prendere in mano il proprio destino. Infondo il salmo responsoriale esprime l’esperienza storica di Israele dove la fede appare come un duplice grido: l’uomo grida la sua angoscia come Giobbe e sempre Dio ascolta e lo libera. L’uomo poi prega rendendo grazie come Israele che, pur fra mille vicissitudini, mai ha perso la speranza cantando: “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino!”(vv. 2-3)
*Seconda lettura dalla seconda Lettera di san Paolo a Timoteo (4, 6 -8.17-18)
Si pensa che le due lettere a Timoteo furono forse scritte qualche anno dopo da un discepolo di Paolo, invece tutti concordano nel riconoscere che è suo il testo che oggi leggiamo; anzi rappresenta il suo testamento e l’ultimo saluto a Timoteo. Prigioniero a Roma, Paolo è consapevole che sarà giustiziato ed è arrivato il momento della grande partenza, certo di dover comparire davanti a Dio. Guarda quindi retrospettivamente al passato da quando sulla via di Damasco Cristo l’ha impugnato come una spada e traccia un bilancio utilizzando in flashback quattro immagini che ben disegnano l’itinerario della sua missione. 1. La prima immagine è legata al culto: “Io sto già per essere versato in offerta” (v.6), allude a un’antica usanza cultuale chiamata libazione che consisteva nel versare un liquido (vino, olio, acqua latte o miele) come offerta sacra, simbolo del dono totale della vita alla divinità. Paolo usa quest’immagine per dire che la sua esistenza è un totale sacrificio a Cristo. 2. La seconda immagine é legata alla navigazione: “è giunto il momento che io lasci questa vita” (v.6). Paolo sa che il suo viaggio è quasi giunto al porto dopo tempeste e problemi d’ogni genere. Ha scelto la parola greca “analusis” (scioglimento, liberazione) usata in ambito nautico e militare sia per indicare lo scioglimento delle corde che tengono la nave ancorata per salpare verso mare aperto; sia in ambito militare per indicare lo smontaggio delle tende di un accampamento quando i soldati partono per una nuova missione. Paolo vuol dire che la sua vita sta per essere liberata dai legami terreni per salpare verso la patria, la casa del Padre. 3. La terza immagine è legata alla lotta, non violenta ma interiore e spirituale, per evangelizzare: “Ho combattuto la buona battaglia” (v.7). La sua vita è segnata da combattimenti, persecuzioni, aspri confronti e tradimenti, eppure, come scrive più avanti, è sempre stata liberato “dalla bocca del leone” (v.17). 4.La quarta immagine è connessa allo sport: “Ho terminato la corsa” (v.7). La corsa praticata negli stadi nell’antichità è simbolo del cristiano che mai abbandona il percorso missionario e al termine, se conserva la fede, riceve la “corona” che il Signore riserva ai veri discepoli di Cristo. Questa corsa non è competizione fra atleti perché ognuno al suo ritmo avanza verso Cristo e “la sua manifestazione”. Ed allora, come Gesù e Stefano, al momento dell’esecuzione, Paolo perdona coloro che lo hanno abbandonato certo della forza del Signore liberatrice da ogni male. E il pericolo vero da cui Dio lo ha preservato è quello di rinunciare alla sua missione fino alla morte. Non è però questo un motivo di vanto perché sa che Dio l’ha salvato e per questo intona il canto di gloria mentre nasce alla vera vita: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”
*Dal Vangelo secondo Matteo (16, 13 –19)
Questo episodio segna una svolta nella vita di Gesù e di Pietro perché appena Simone proclama chi è Gesù, riceve da lui la missione per la Chiesa. Cristo costruisce la sua Chiesa su un uomo la cui unica virtù è quella di aver proclamato ciò che il Padre gli ha rivelato: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”(v16) . Questo significa che l’unico vero pilastro della Chiesa è sua la fede in Cristo, il quale subito risponde: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (v.18). Questo celebre testo “petrino” è costruito su tre simboli: Il primo è la “pietra” che si lega al nome aramaico Kefa: “Tu sei Pietro”. In greco: “Σὺ εἶ Πέτρος (Petros)” significa “tu sei Pietra” o “Roccia”. Gesù cambia il nome di Simone in Pietro, dandogli una missione e un’identità nuova. In ambito semitico cambiare il nome indica cambiamento del destino e della realtà della persona. Simone diventa così la roccia sulla quale Cristo pone la base della Chiesa che resta sua e di cui è per sempre la “pietra angolare” insostituibile. Nell’antichità, la pietra era simbolo di stabilità e sicurezza per cui edificare sulla pietra significa costruire su un fondamento saldo e inamovibile e su Pietro il Signore inizia a dare una forma visibile alla sua comunità. Promette che la sua Chiesa, fondata su questa pietra- la fede e la sua missione di Pietro(v. 6),- resisterà alle forze del male e Pietro diventa così il primo pastore visibile della comunità, anche se il vero fondamento ed eterno Pastore è Cristo (cfr. 1 Cor 3,11). Secondo simbolo, le chiavi: “A te darò le chiavi del regno dei cieli”. Le chiavi, segno di autorità e responsabilità su una casa, rendono un’immagine efficace della potestà che Cristo trasmette a Pietro. Affidare le chiavi equivale a conferire il potere di aprire e chiudere, di permettere o vietare l’accesso. Pietro non è il fondatore e il sovrano di un regno, ma il responsabile immediato che esercita il potere in modo delegato guidando la comunità dei credenti, insegnando e prendendo decisioni vincolanti in materia di fede e di morale. Il terzo simbolo s’esprime nel binomio legare e sciogliere: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto in cielo” (v19). Le espressioni “legare” e “sciogliere” erano comuni nel linguaggio rabbinico e indicavano il potere di dichiarare qualcosa lecito o illecito, di permettere o proibire determinate azioni. Applicate a Pietro, sottolineano la sua autorità nel prendere decisioni dottrinali e disciplinari in piena fedeltà alla parola di Dio (Gv 20,23), autorità che condivide nella Chiesa con gli altri apostoli (Mt. 18,18), anche se Pietro conserva un ruolo di unico e preminente rilievo. Infine Gesù dice: “Io edificherò la mia Chiesa”: è dunque lui che costruisce e guida la Chiesa che resta per sempre sua, per cui possiamo camminare sicuri perché “le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.” (v.18)
+ Giovanni D’Ercole
Vittoria del Risorto, senza isterismi
(Gv 20,24-29)
Il brano ha un sapore liturgico, ma la domanda che scorgiamo in filigrana è cruda. Anche noi vogliamo «vederlo».
Come credere senza avere visto?
È il quesito più diffuso a partire dalla terza generazione di credenti, i quali non solo non avevano conosciuto gli Apostoli, ma molti di essi neppure i loro allievi.
In particolare: come passare dal «vedere»… al «credere» in uno sconfitto, addirittura sottoposto a supplizio?
Esiste una Chiesa autentica, ma tenuta insieme dalla paura (v.19).
Non solo perché il mandato di cattura pende sempre sui veri testimoni. Anche per timore del confronto col mondo, o per incapacità di dialogo.
Tommaso non si spaventa a stare fuori dalle porte sbarrate.
Non si ripiega; non teme l’incontro, il confronto con la vita che pulsa e viene.
In tal senso è «detto gemello» [δίδυμο] di ciascuno - e di Gesù.
Il nostro contesto somiglia a quello delle piccole realtà giovannee dell’Asia Minore, sperdute nell’immensità dell’impero romano; talora sedotte dalle sue attrattive.
Efeso in particolare contava centinaia di migliaia di abitanti. Emporio commerciale, centro bancario e città cosmopolita di rilievo [il cui fulcro era naturalmente il grande Tempio di Artemide - meraviglia del mondo antico] era la quarta città dell’impero.
Le distrazioni erano molte.
E già dalle prime generazioni di fedeli iniziava a subentrare la routine: il fervore degli inizi si andava spegnendo; la partecipazione diventava saltuaria.
Sotto Domiziano, i credenti subivano emarginazione sociale, discriminazioni.
Anche oggi, uno degli elementi decisivi della capacità di manifestare il Risorto Presente resta l’incontro diretto con i fratelli, all’interno di una fraternità viva.
Persone che accolgono sorprese e sollecitano la capacità di pensiero e dibattito; che sono se stesse e fanno respirare gli altri.
Donne e uomini che spendono le loro risorse materiali e di saggezza, secondo storia e sensibilità particolari.
Dove ciascuno così com’è e dov’è - reale a tutto tondo, non dissociato da sé - si rende alimento altrui con le briciole che ha.
Ecco allora il «riconoscimento»: è una questione non di obbedienza a un mondo astratto, bensì di Somiglianza personale.
Si tratta di sintonizzare la fisionomia e le nostre piccole «azioni» con la Sorgente dell’Amore consumato sino in fondo [il nostro «dito» e le sue «Mani»; la nostra «mano» e il suo «Costato trafitto»].
Pur col nostro limite, ‘entrando nelle piaghe’. Per attrazione, la Fede sgorgherà spontanea (v.28).
In tal guisa (vv.29-31 e 21,25) Gv invita ciascuno a scrivere un suo personale Vangelo.
Quando le nostre opere saranno almeno un poco le medesime di Cristo, tutti lo ‘vedranno’.
Ci sono dunque prove che Gesù vive?
Certo, Egli si manifesta concretamente in una assemblea di persone non conformiste, che sono se stesse; dotate di capacità di pensiero autonomo.
«Gemelli» suoi e di Tommaso.
Persone Libere di starsene nel mondo; fuori degli usci chiusi a chiave - per ascoltare, scendere, servire.
E farlo con convinzione: personalmente, senza forzature, né isterismi.
Anche noi vogliamo «vederlo».
[San Tommaso Apostolo, 3 luglio]
Tommaso: senza isterismi
(Gv 20,19-31)
La Manifestazione, lo Spirito, la remissione
(Gv 20,19-23)
La Pentecoste giovannea non subisce ritardo temporale alcuno (v.22) tuttavia anche il racconto lucano evidenzia il legame con la Pasqua, di cui in filigrana non è che ulteriore specificazione.
Pentecoste non è questione di data, bensì evento che accade senza posa, nell’assemblea riunita; dove si fa presente una Pace-pienezza di gioia colma di conciliazione, che fonda la Missione.
Gesù non aveva assicurato vita facile. Ma le «porte chiuse» stanno a indicare che il Risorto non è ritornato all’esistenza di prima: è stato introdotto nella condizione divina, in una forma di vita totale.
La configurazione completa del suo essere non è nell’ordine di carne e ossa; sfugge ai nostri sensi.
“Risurrezione della carne” non equivale al miglioramento delle condizioni precedenti. Da un uomo [come da un seme] è sbocciata una forma di vita che sussiste in Dio stesso.
I discepoli gioiscono nel vedere le piaghe (v.20). La reazione non sorprende: si tratta della percezione-vertigine di Presenza, che sgorga e si riversa da sensi interiori.
Il Risorto che si rivela è lo stesso Gesù che ha consegnato in dono la vita, nello Spirito.
Il Mondo del Padre porta il suo Nome - ossia l’intera sua storia, tutta reale.
Il Mondo celeste non resta più quello delle religioni. Non è esclusivo, né fantasioso o astratto; neppure sterilizzato.
La Manifestazione è collocata ne «l’uno dei sabati» (v.19) a dire che i discepoli possono incontrare e vedere il Risorto ogni volta che si ritrovano insieme nel giorno del Signore.
Grazie al Dono dello Spirito (v.22) i suoi sono inviati in Missione, per continuare e dilatare l’azione del Maestro - insistendo in particolare sull’opera di remissione dei peccati (v.23).
Al tempo era diffusa la concezione che gli uomini agissero male e si lasciassero contaminare dagli idoli, perché mossi da un istinto immondo che iniziava a manifestarsi già in tenera età.
Ci si illudeva che si potesse riuscire a vincere o almeno tenere a bada tale spirito maligno con lo studio della Torah - ma era facile verificarne gli insuccessi: le indicazioni della Legge, pur giuste, non davano la Forza di percorrere quel sentiero.
Dopo tanti fallimenti anche di Re e dell’intera classe sacerdotale, si attendeva che Dio stesso venisse, proprio per liberarci dalle impurità, attraverso l’effusione di un impulso buono.
In tutto il mondo antico [anche nella cultura classica: in particolare Ovidio] ci si chiedeva il senso di questo blocco creaturale.
Dentro, nell’intimo, l'umanità si trovava accomunata e lacerata tra intuizione e desiderio del bene, e incapacità di attuarlo (cf. Rm 7, 15-19).
Nessuna religione o filosofia aveva mai intuito che è nel disagio e nella imperfezione che covano le più preziose energie plasmabili, la nostra unicità, e la soluzione non conformista dei problemi.
Per bocca dei Profeti, Dio aveva promesso il dono di un cuore nuovo - di carne e non di pietra (Ez 36,25-27).
Un’effusione di Spirito che avrebbe rinnovato il mondo, vivificato e reso fecondo il deserto.
Nel giorno di Pasqua si compirono le profezie.
Il «soffio» di Cristo richiama il momento della Creazione (Gn 2,7; cf. Ez 37,7-14).
Siamo all’origine di una nuova umanità di madri e padri che generano - ora in grado di far apparire solo vita, eliminando la morte dalla faccia della terra.
Gesù crea l’uomo nuovo, non più vittima delle forze invincibili che lo portano al male, malgrado le sue aspirazioni profonde.
Egli trasmette un’energia intraprendente, nitida, alternativa, sicura di sé, che spinge spontaneamente al bene.
Dove giunge questo Spirito, il peccato viene annientato.
Fu la prima esperienza ecclesiale: l’azione inequivocabile della Potenza divina, che si faceva presente e operante in persone timorose e non tenute in conto alcuno.
In tutto il libro di Atti degli Apostoli il protagonista è appunto il Vento impetuoso dello Spirito.
Fin qui, in Gv mancava il concetto di perdono dei peccati. Ma il senso dell’espressione al v.23 non è strettamente sacramentale.
Neutralizzare e sconfiggere le inadempienze riguarda ciascuno che si coinvolga nell’opera di miglioramento della vita nel mondo.
Insomma, siamo chiamati a creare le condizioni affinché dissodando il terreno dei cuori, tutti si aprano all’azione divina.
Viceversa, l’incapacità al bene si trascina: in tal guisa, il peccato non viene ‘rimesso’.
Lo Shalôm ricevuto dai discepoli va da essi stessi annunciato e trasmesso al mondo.
È una Pace non frutto mondano di compromessi soppesati e astuti: unico mezzo potente da utilizzare è il perdono.
Non tanto per la tranquillità e la “permanenza”, bensì per introdurre potenze sconosciute, accentuare vita, far affiorare gli aspetti cui non abbiamo dato spazio; trasmettere senso di adeguatezza e libertà.
In ciascuno e per tutti i tempi, la Chiesa è chiamata a rendere efficace il Gratis completo e personale del Signore.
Come un Dono nello Spirito: senza mai «ritenere» (v.23) i problemi, né renderli paradossali protagonisti della vita [perfino di assemblea].
Tale la dimensione sacerdotale, regale e profetica della Comunità fraterna. Tale la sua Novità.
Vittoria del Risorto, Chiesa di persone libere
Senza isterismi
(Gv 20,24-31)
Il brano ha un sapore liturgico, ma la domanda che scorgiamo in filigrana è cruda. Anche noi vogliamo «vederlo».
Come credere senza avere visto?
E addirittura come poteva andare da sé l’identificazione del sottoposto a supplizio con la beatitudine vissuta, e la stessa divinità?
È il quesito più diffuso a partire dalla terza generazione di credenti, i quali non solo non avevano avuto modo di conoscere gli Apostoli, ma molti di essi neppure i loro allievi.
L’evangelista assicura: rispetto ai primi testimoni della Risurrezione, la nostra condizione non è per nulla sfavorita, anzi: più aperta e meno soggetta a condizionamenti o circostanze particolari.
Bisogna andare più a fondo dell’esperienza immediata.
Anche i discepoli diretti hanno fatto una gran fatica, cercando di passare ad un altro vocabolario e grammatica della rivelazione; e dal “vedere”, al ‘credere’.
Ci sono purtroppo tratti comuni, come ad es. la ricerca della Maddalena nei luoghi della morte. O qui le porte accuratamente sbarrate, dove non si entra senza forzare le chiusure - ma soprattutto scarti significativi.
In particolare, ribadiamo il quesito più bruciante. Come passare dal «vedere»… al «credere» in uno sconfitto, addirittura sottoposto a supplizio?
Non crediamo, solo perché ci sono testimoni veritieri.
Siamo certi che la vita soppianta la morte, perché abbiamo «veduto» in prima persona; perché siamo passati attraverso un riconoscimento personale.
Infatti Egli non si fa condottiero, bensì ripetutamente «in mezzo»(vv.19.26).
Nella raccolta delle Manifestazioni del Risorto [cosiddetto “Libro della risurrezione”] Gv designa le condizioni della Fede pasquale.
Egli espone le esperienze di testimonianza delle prime chiese (mattina e sera, e otto giorni dopo) nonché dei discepoli che accettano il mandato missionario.
Allora come oggi, percepire le realtà nascoste al semplice sguardo, interiorizzare la disponibilità a fare esodo verso le periferie, dipende dalla profondità della Fede.
Né consegue la disponibilità a giocarsi la vita, per edificare un regno dai valori capovolti rispetto a quelli religiosi comuni, antichi, imperiali.
Nel momento in cui viene redatto l’episodio di Tommaso, la dimensione dell’ottavo giorno [Dies Domini] aveva già una configurazione prevalente, rispetto al sabato dei primi Messianici radicalmente giudaizzanti.
«Shalôm» è inteso però ancora in senso antico: non si tratta di un augurio, ma del compimento presente delle Promesse divine.
La «Pace» messianica avrebbe evocato la disfatta delle paure, la liberazione dalla morte; la conciliazione con la propria vita, il mondo, e Dio.
«Shalôm» - qui - viene a sorprenderci: giunge dal dono di sé portato sino in fondo; oltre, le capacità.
Le piaghe sono parte del carattere del Risorto.
È fuorviante ogni immagine che non espliciti i segni della gratuità eccessiva del nuovo regno inaugurato da Cristo [perfino la scultura in bronzo dorato della Sala Nervi].
La Gioia viene dalla percezione della Presenza ‘oltre’ la vita biologica.
La nostra felicità si attenua e smarrisce, se perdiamo il Testimone della vita - grazie al quale ogni minimo gesto o stato d’animo (anche il timore) diventa svelamento, senso, intensità di relazione.
Riversandosi nel mondo, gli Inviati abbracciano la medesima missione di Gesù: che tutti si lascino salvare.
E il dono dello Spirito operante è appunto come l’inizio di una creazione nuova.
Infatti la Pentecoste giovannea scaturisce dalla prospettiva inedita e genuina di salvezza: amabile, serena, non “integra”, né forzata.
A ben vedere, secondo il libro degli Atti, la predicazione di Pietro suscita un putiferio di conversioni. In Gv tutto è viceversa discreto: nessun rombo né fuoco e tempesta; nulla appare di fuori, né permane esteriore.
Si tratta di apostoli abilitati ad aprire gli usci chiusi a chiave, e a disporre le condizioni della gratuità.
Ciò con virtù passive più che attive; ad es. il ‘perdono’, dov’esso non c’è.
In tal guisa, ogni Gratuità per risollevare gli uomini da qualsivoglia problematica, affinché il bene trionfi sul male e la vita sulla morte.
Tutto nel concreto, quindi attraverso un processo che chiede tempo; come percorrendo a piedi una Via.
Intensità di ben ‘altra’ natura, cui si addice da parte nostra la sola contemplazione - a paragone della letteratura più di propaganda e poco raccolta di At 2, dove scompaiono i riflessi d’incredulità e dubbi.
Come se l'identità del Gesù Crocifisso e del Risorto non facesse problema alcuno!
E nel quarto Vangelo mancava fin qui il concetto di «perdono dei peccati».
Ma appunto occorre passare dalla “visione” oculare alla Fede.
Il modo nuovo di vita del Figlio si conosce nella vita della Chiesa, ma è meglio e pienamente accessibile solo a chi sebbene un po’ dentro e un poco fuori, non permane nelle chiusure.
Tommaso è scelto da Gv come punto di congiunzione fra generazioni di credenti.
Come ognuno di noi, non è uno scettico indifferente: non ha paura del mondo, anzi vuol verificare, vagliare bene.
In lui Gesù lancia il suo apprezzamento verso i credenti futuri, che ne riconosceranno la condizione divina sulla base della propria esperienza - tanto profonda quanto intensamente vissuta.
Esiste forse una parte élitaria di Chiesa autentica, eppur tenuta insieme dalla paura (v.19).
Non solo perché il mandato di cattura pende sempre sui veri testimoni. Anche per timore del confronto col mondo, o per incapacità di dialogo.
Anche oggi: timore della cultura, della scienza, degli studi biblici, dell’emancipazione, del confronto filosofico, ecumenico, interreligioso; così via.
Tommaso non si spaventa di stare fuori dalle porte sbarrate.
Non si ripiega e non teme l’incontro, il rapporto con la vita che pulsa e viene.
In tal senso è «detto gemello» [δίδυμο] di ciascuno - e di Gesù.
Il nostro contesto somiglia a quello delle piccole realtà giovannee dell’Asia Minore, sperdute nell’immensità dell’impero romano; talora sedotte dalle sue attrattive.
Efeso in particolare contava centinaia di migliaia di abitanti.
Emporio commerciale, centro bancario e città cosmopolita di rilievo [il cui fulcro era naturalmente il grande Tempio di Artemide - meraviglia del mondo antico] era la quarta città dell’impero.
Le distrazioni erano molte.
Già dalle prime generazioni di fedeli iniziava a subentrare la routine: il fervore degli inizi si andava spegnendo; la partecipazione diventava saltuaria.
Sotto Domiziano i credenti subivano anche emarginazione e discriminazioni.
Qualche fedele poi rimaneva deluso dall’atteggiamento di chiusura e monologo dei responsabili di comunità. Altri da ambigue zone d’ombra interne e dal frammisto di compromessi (in specie dei responsabili) che scoraggiavano i più sensibili.
Anche oggi, uno degli elementi discrimine della capacità di manifestare il Risorto Presente resta l’incontro diretto con i fratelli, all’interno di una solidarietà viva.
Coesistenza non tenuta in ostaggio da cerchie confinate, che integrano membri solo su designazione di quelli già in carica.
Persone che accolgono sorprese e sollecitano la capacità di pensiero e dibattito.
Donne e uomini che sono se stesse, e fanno respirare gli altri.
Non creduloni indottrinati e plagiati - o finti sofisticati, senza spina dorsale.
Sorelle e fratelli che spendono le loro risorse materiali e di saggezza, secondo storia e sensibilità particolari.
Dove ciascuno così com’è e dov’è - reale a tutto tondo, non dissociato da sé - si rende alimento altrui con le briciole che ha.
Ecco allora il «riconoscimento»: è una questione non di obbedienza a un mondo astratto, bensì di Somiglianza personale.
Si tratta di sintonizzare la fisionomia e le nostre piccole «azioni» con la Sorgente dell’Amore consumato sino in fondo [il nostro «dito» e le sue «Mani»; la nostra «mano» e il suo «Costato trafitto»].
Pur col nostro limite, ‘entrando nelle piaghe’. Per attrazione, la Fede sgorgherà spontanea (v.28).
Così (vv.29-31 e 21,25) Gv invita ciascuno a scrivere un suo personale Vangelo.
Quando le nostre opere saranno almeno un poco le medesime di Cristo, tutti lo ‘vedranno’.
Ci sono dunque prove che Gesù vive?
Certo, Egli si manifesta concretamente in una assemblea di persone non conformiste; che sono se stesse.
Anime dotate di capacità di pensiero autonomo. «Gemelli» suoi e di Tommaso.
Creature Libere di starsene nel mondo; fuori degli usci chiusi a chiave - per ascoltare, scendere, servire.
E farlo con convinzione: personalmente, senza forzature, né isterismi.
Anche noi vogliamo «vederlo».
Proverbiale è la scena di Tommaso incredulo, avvenuta otto giorni dopo la Pasqua. In un primo tempo, egli non aveva creduto a Gesù apparso in sua assenza, e aveva detto: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò!" (Gv 20, 25). In fondo, da queste parole emerge la convinzione che Gesù sia ormai riconoscibile non tanto dal viso quanto dalle piaghe. Tommaso ritiene che segni qualificanti dell'identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati. In questo l'Apostolo non si sbaglia. Come sappiamo, otto giorni dopo Gesù ricompare in mezzo ai suoi discepoli, e questa volta Tommaso è presente. E Gesù lo interpella: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente" (Gv 20, 27). Tommaso reagisce con la più splendida professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20, 28). A questo proposito commenta Sant'Agostino: Tommaso "vedeva e toccava l'uomo, ma confessava la sua fede in Dio, che non vedeva né toccava. Ma quanto vedeva e toccava lo induceva a credere in ciò di cui sino ad allora aveva dubitato" (In Iohann. 121, 5). L'evangelista prosegue con un'ultima parola di Gesù a Tommaso: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno" (Gv 20, 29). Questa frase si può anche mettere al presente: "Beati quelli che non vedono eppure credono". In ogni caso, qui Gesù enuncia un principio fondamentale per i cristiani che verranno dopo Tommaso, quindi per tutti noi. È interessante osservare come un altro Tommaso, il grande teologo medioevale di Aquino, accosti a questa formula di beatitudine quella apparentemente opposta riportata da Luca: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete" (Lc 10, 23). Ma l'Aquinate commenta: "Merita molto di più chi crede senza vedere che non chi crede vedendo" (In Johann. XX lectio VI 2566). In effetti, la Lettera agli Ebrei, richiamando tutta la serie degli antichi Patriarchi biblici, che credettero in Dio senza vedere il compimento delle sue promesse, definisce la fede come "fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (11, 1). Il caso dell'apostolo Tommaso è importante per noi per almeno tre motivi: primo, perché ci conforta nelle nostre insicurezze; secondo, perché ci dimostra che ogni dubbio può approdare a un esito luminoso oltre ogni incertezza; e, infine, perché le parole rivolte a lui da Gesù ci ricordano il vero senso della fede matura e ci incoraggiano a proseguire, nonostante la difficoltà, sul nostro cammino di adesione a Lui.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 27 settembre 2006]
Anche il Cenacolo di Gerusalemme fu per gli Apostoli una sorta di "laboratorio della fede". Tuttavia quanto lì avvenne con Tommaso va, in un certo senso, oltre quello che successe nei pressi di Cesarea di Filippo. Nel Cenacolo ci troviamo di fronte ad una dialettica della fede e dell'incredulità più radicale e, allo stesso tempo, di fronte ad una ancor più profonda confessione della verità su Cristo. Non era davvero facile credere che fosse nuovamente vivo Colui che avevano deposto nel sepolcro tre giorni prima.
Il Maestro divino aveva più volte preannunciato che sarebbe risuscitato dai morti e più volte aveva dato le prove di essere il Signore della vita. E tuttavia l'esperienza della sua morte era stata così forte, che tutti avevano bisogno di un incontro diretto con Lui, per credere nella sua resurrezione: gli Apostoli nel Cenacolo, i discepoli sulla via per Emmaus, le pie donne accanto al sepolcro... Ne aveva bisogno anche Tommaso. Ma quando la sua incredulità si incontrò con l'esperienza diretta della presenza di Cristo, l'Apostolo dubbioso pronunciò quelle parole in cui si esprime il nucleo più intimo della fede: Se è così, se Tu davvero sei vivo pur essendo stato ucciso, vuol dire che sei "il mio Signore e il mio Dio".
Con la vicenda di Tommaso, il "laboratorio della fede" si è arricchito di un nuovo elemento. La Rivelazione divina, la domanda di Cristo e la risposta dell'uomo si sono completate nell'incontro personale del discepolo col Cristo vivente, con il Risorto. Quell'incontro divenne l'inizio di una nuova relazione tra l'uomo e Cristo, una relazione in cui l'uomo riconosce esistenzialmente che Cristo è Signore e Dio; non soltanto Signore e Dio del mondo e dell'umanità, ma Signore e Dio di questa mia concreta esistenza umana.
[Papa Giovanni Paolo II, veglia a Tor Vergata, 19 agosto 2000]
Bisogna uscire da noi stessi e andare sulle strade dell’uomo per scoprire che le piaghe di Gesù sono visibili ancora oggi sul corpo di tutti quei fratelli che hanno fame, sete, che sono nudi, umiliati, schiavi, che si trovano in carcere e in ospedale. E proprio toccando queste piaghe, accarezzandole, è possibile «adorare il Dio vivo in mezzo a noi».
La ricorrenza della festa di san Tommaso apostolo ha offerto a Papa Francesco l’occasione di tornare su un concetto che gli è particolarmente a cuore: mettere le mani nella carne di Gesù. Il gesto di Tommaso che mette il dito nelle piaghe di Gesù risorto è stato infatti il tema centrale dell’omelia tenuta durante la messa celebrata questa mattina, mercoledì 3 luglio, nella cappella della Domus Sanctae Marthae. Con il Papa ha concelebrato tra gli altri il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, che accompagnava un gruppo di dipendenti del dicastero.
Dopo le letture (Efesini 2,19-22; Salmo 116; Giovanni 20,24-29) il Santo Padre si è innanzitutto soffermato sul diverso atteggiamento assunto dai discepoli «quando Gesù, dopo la risurrezione, si è fatto vedere»: alcuni erano felici e allegri, altri dubbiosi.
Incredulo era anche Tommaso al quale il Signore si è mostrato solo otto giorni dopo quella prima apparizione. «Il Signore — ha detto il Papa spiegando questo ritardo — sa quando e perché fa le cose. A ciascuno dà il tempo che lui crede più opportuno». A Tommaso ha concesso otto giorni; e ha voluto che sul proprio corpo apparissero ancora le piaghe, nonostante fosse «pulito, bellissimo, pieno di luce», proprio perché l’apostolo, ha ricordato il Papa, aveva detto che se non avesse messo il dito nelle piaghe del Signore non avrebbe creduto. «Era un testardo! Ma il Signore — ha commentato il Pontefice — ha voluto proprio un testardo per farci capire una cosa più grande. Tommaso ha visto il Signore, è stato invitato a mettere il suo dito nella piaga dei chiodi, a mettere la mano nel fianco. Ma poi non ha detto: “È vero, il Signore è risorto”. No. È andato oltre, ha detto: “Mio Signore e mio Dio”. È il primo dei discepoli che fa la confessione della divinità di Cristo dopo la risurrezione. E l’ha adorato».
Da questa confessione, ha spiegato il vescovo di Roma, si capisce quale era l’intenzione di Dio: sfruttando l’incredulità ha portato Tommaso non tanto ad affermare la risurrezione di Gesù, quanto piuttosto la sua divinità. «E Tommaso — ha detto il Papa — adora il Figlio di Dio. Ma per adorare, per trovare Dio, il Figlio di Dio ha dovuto mettere il dito nelle piaghe, mettere la mano al fianco. Questo è il cammino». Non ce n’è un altro.
Naturalmente «nella storia della Chiesa — ha proseguito nella sua spiegazione il Pontefice — ci sono stati alcuni sbagli nel cammino verso Dio. Alcuni hanno creduto che il Dio vivente, il Dio dei cristiani» si potesse trovare andando «più alto nella meditazione». Ma questo è «pericoloso; quanti si perdono in quel cammino e non arrivano?», ha detto il Papa. «Arrivano sì, forse, alla conoscenza di Dio, ma non di Gesù Cristo, Figlio di Dio, seconda Persona della Trinità — ha precisato —. A quello non ci arrivano. È il cammino degli gnostici: sono buoni, lavorano, ma quello non è il cammino giusto, è molto complicato» e non porta a buon fine.
Altri, ha continuato il Santo Padre «hanno pensato che per arrivare a Dio dobbiamo essere buoni, mortificati, austeri e hanno scelto la strada della penitenza, soltanto la penitenza, il digiuno. Neppure questi sono arrivati al Dio vivo, a Gesù Cristo Dio vivo». Questi, ha aggiunto, «sono i pelagiani, che credono che con il loro sforzo possono arrivare. Ma Gesù ci dice questo: “Nel cammino abbiamo visto Tommaso”. Ma come posso trovare le piaghe di Gesù oggi? Io non le posso vedere come le ha viste Tommaso. Le piaghe di Gesù le trovi facendo opere di misericordia, dando al corpo, al corpo e anche all’anima, ma sottolineo al corpo del tuo fratello piagato, perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è umiliato, perché è schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale. Quelle sono le piaghe di Gesù oggi. E Gesù ci chiede di fare un atto di fede a lui tramite queste piaghe».
Non è sufficiente, ha aggiunto ancora il Papa, costituire «una fondazione per aiutare tutti», né fare «tante cose buone per aiutarli». Tutto questo è importante, ma sarebbe solo un comportamento da filantropi. Invece, ha detto Papa Francesco, «dobbiamo toccare le piaghe di Gesù, dobbiamo accarezzare le piaghe di Gesù. Dobbiamo curare le piaghe di Gesù con tenerezza. Dobbiamo letteralmente baciare le piaghe di Gesù». La vita di san Francesco, ha ricordato, è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché «ha toccato il Dio vivo e ha vissuto in adorazione». «Quello che Gesù ci chiede di fare con le nostre opere di misericordia — ha concluso il Pontefice — è quello che Tommaso aveva chiesto: entrare nelle piaghe».
[Papa Francesco a s. Marta, in L’Osservatore Romano del 04.07.2013]
(Mt 8,28-34)
In tutte le religioni l’uomo è invitato a legarsi al beneplacito divino per ricevere luce e forza, sottomettendosi alla sua autorità.
Il dilemma delle assemblee giudaizzanti di Galilea e Siria - qui riflesso - è se chiudersi o viceversa aprire il circuito del sacro.
E se personalizzare, o indietreggiare e ripetere.
Il brano associa le icone del mare (vv.27.32) e degli indemoniati che vagano, separati da Dio e dagli uomini; privi di una forza interna rigenerante.
L’ottica è quella della nostra purificazione battesimale in Cristo, la quale affoga impurità e germi di morte.
In tal guisa: coloro che non hanno ancora incontrato Gesù procedono a casaccio, sono «furiosi» (v.28); senza criterio né mèta.
L’unica costante che accomuna queste anime è mettere paura agli altri: vivono in situazione belluina, disordinata, pre-umana, impedita in se stessa e d’impaccio per tutti (v.28).
Ma il fatto appariva nella norma (v.29).
Nella letteratura semitica l’immagine del «mare» allude alle forze disordinate, senza meta e non conformi al progetto di Dio sull’uomo.
Potenze che generano caos nella nostra esistenza.
È l’amaro panorama di un mondo che smarrisce il fondamento del suo essere e divenire.
Circolo assiduamente costretto a tentoni… per risolvere problemi e non perdere definitivamente l’onda vitale.
Il «porco» è figura di quel genere d’irrimediabile contaminazione [simbolo del paganesimo] che impediva all’essere umano il rapporto con Dio - e sentirne l’accoglienza.
Il momento critico è la Presenza del Signore: d’improvviso il male si sgretola completamente, svelando il suo vuoto - inopinatamente privo d’ogni solidità.
Subentra una sproporzione: fra ciò che sembra pauroso e invincibile, e il nulla che le apparenze stavano mascherando (v.31).
L’ideologia imperiale era minacciosa e distruttrice. Faceva leva sulle paure della gente, al fine di sottomettere le coscienze.
Questa la situazione delle persone - sgretolate dentro - prima dell’arrivo di Gesù.
Il potere poi manipolava in modo ideologico le credenze popolari relative ai demoni - per frantumare le personalità singolari, e accentuare l’arrendevolezza delle masse già oppresse.
Viceversa, nell’esperienza della vittoria della vita sulla morte, le prime comunità cristiane sperimentavano respiro di Fede e il tornare in sé - come una terapia dell’anima.
Vivevano una sorta di sproporzione e autocontrollo, malgrado le sconfitte nella predicazione.
L’antica assemblea che un tempo aveva orrore delle contaminazioni iniziava ad aprire le porte del ghetto purista, rendendo tutti partecipi.
La chiesa si distaccava dalle credenze comuni, le quali trasmettevano competizioni perverse, e ai deboli un senso di mortificante soggezione - mancanza di autonomia e coscienza.
Certo, i primi annunciatori si rendevano subito conto che il nuovo senso di libertà produceva un duplice sentimento: non sempre gli uomini oppressi vogliono essere liberati dalle loro alienazioni e tormenti.
Gesù affascina e costerna. Fa precipitare i legami inconsistenti, e gli idoli comuni.
Il suo Messaggio è decisivo e benefico. Ma obbliga a sconvolgere abitudini, finalità, e ogni chiusura.
[Mercoledì 13.a sett. T.O. 2 luglio 2025]
"The girl is not dead, but asleep". These words, deeply revealing, lead me to think of the mysterious presence of the Lord of life in a world that seems to succumb to the destructive impulse of hatred, violence and injustice; but no. This world, which is yours, is not dead, but sleeps (Pope John Paul II)
“La bambina non è morta, ma dorme”. Queste parole, profondamente rivelatrici, mi inducono a pensare alla misteriosa presenza del Signore della vita in un mondo che sembra soccombere all’impulso distruttore dell’odio, della violenza e dell’ingiustizia; ma no. Questo mondo, che è vostro, non è morto, ma dorme (Papa Giovanni Paolo II)
Today’s Gospel passage (cf. Lk 10:1-12, 17-20) presents Jesus who sends 72 disciples on mission, in addition to the 12 Apostles. The number 72 likely refers to all the nations. Indeed, in the Book of Genesis 72 different nations are mentioned (cf. 10:1-32) [Pope Francis]
L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 10,1-12.17-20) presenta Gesù che invia in missione settantadue discepoli, in aggiunta ai dodici apostoli. Il numero settantadue indica probabilmente tutte le nazioni. Infatti nel libro della Genesi si menzionano settantadue nazioni diverse (cfr 10,1-32) [Papa Francesco]
Christ reveals his identity of Messiah, Israel's bridegroom, who came for the betrothal with his people. Those who recognize and welcome him are celebrating. However, he will have to be rejected and killed precisely by his own; at that moment, during his Passion and death, the hour of mourning and fasting will come (Pope Benedict)
Cristo rivela la sua identità di Messia, Sposo d'Israele, venuto per le nozze con il suo popolo. Quelli che lo riconoscono e lo accolgono con fede sono in festa. Egli però dovrà essere rifiutato e ucciso proprio dai suoi: in quel momento, durante la sua passione e la sua morte, verrà l'ora del lutto e del digiuno (Papa Benedetto)
Peter, Andrew, James and John are called while they are fishing, while Matthew, while he is collecting tithes. These are unimportant jobs, Chrysostom comments, "because there is nothing more despicable than the tax collector, and nothing more common than fishing" (In Matth. Hom.: PL 57, 363). Jesus' call, therefore, also reaches people of a low social class while they go about their ordinary work [Pope Benedict]
Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo - “poiché non c'è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario [Papa Benedetto]
The invitation given to Thomas is valid for us as well. We, where do we seek the Risen One? In some special event, in some spectacular or amazing religious manifestation, only in our emotions and feelings? [Pope Francis]
L’invito fatto a Tommaso è valido anche per noi. Noi, dove cerchiamo il Risorto? In qualche evento speciale, in qualche manifestazione religiosa spettacolare o eclatante, unicamente nelle nostre emozioni e sensazioni? [Papa Francesco]
A life without love and without truth would not be life. The Kingdom of God is precisely the presence of truth and love and thus is healing in the depths of our being. One therefore understands why his preaching and the cures he works always go together: in fact, they form one message of hope and salvation (Pope Benedict)
Una vita senza amore e senza verità non sarebbe vita. Il Regno di Dio è proprio la presenza della verità e dell’amore e così è guarigione nella profondità del nostro essere (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.