Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
“Rimanete” e “Osservate i miei comandamenti”. “Osservate” è solo il secondo livello; il primo è quello del “rimanere”, il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire e, nel contesto del suo Corpo, nel contesto dello stare in Lui, identificati con Lui, nobilitati con il suo Sangue, possiamo anche noi agire con Cristo.
L’etica è conseguenza dell’essere: prima il Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l’essere precede l’agire e da questo essere poi segue l’agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova identità. Quindi non è più un’obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del nuovo essere.
Lo dico ancora una volta: ringraziamo il Signore perché Lui ci precede, ci dà quanto dobbiamo dare noi, e noi possiamo essere poi, nella verità e nella forza del nostro nuovo essere, attori della sua realtà. Rimanere e osservare: l’osservare è il segno del rimanere e il rimanere è il dono che Lui ci dà, ma che deve essere rinnovato ogni giorno nella nostra vita.
(Papa Benedetto, Lectio al PSRM 12 febbraio 2010) [segue]
2. Il Dio che ama è un Dio che non se ne resta lontano, ma interviene nella storia. Quando a Mosè rivela il proprio nome, lo fa per garantire la sua assistenza amorevole nell’evento salvifico dell’Esodo, un’assistenza che durerà per sempre (cfr Es 3, 15). Attraverso le parole dei profeti, egli ricorderà continuamente al suo popolo questo suo gesto d’amore. Leggiamo ad esempio in Geremia: «Così dice il Signore: ‘Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada; Israele si avvia a una quieta dimora’. Da lontano gli è apparso il Signore: ‘Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà’» (Ger 31, 2-3).
È un amore che assume i toni di un’immensa tenerezza (cfr Os 11, 8s.; Ger 31, 20) e che normalmente si avvale dell’immagine paterna, ma si esprime talvolta anche con la metafora nuziale: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore” (Os 2, 21, cfr vv. 18-25).
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo, che lo mette in grado di accogliere senza riserva la legge che gli viene data, come leggiamo nel profeta Geremia: “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore” (Ger 31, 33). Analogamente si legge in Ezechiele: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36, 26).
3. Il Nuovo Testamento ci presenta questa dinamica dell’amore incentrata in Gesù, Figlio amato dal Padre (cfr Gv 3, 35; 5, 20; 10, 17), il quale si manifesta mediante lui. Gli uomini partecipano a questo amore conoscendo il Figlio, ossia accogliendo il suo insegnamento e la sua opera redentrice.
Non è possibile accedere all’amore del Padre se non imitando il Figlio nell’osservanza dei comandamenti del Padre: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Ivi 15, 9-10). Si diviene in tal modo partecipi anche della conoscenza che il Figlio ha del Padre: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Ivi v.15).
4. L’amore ci fa entrare pienamente nella vita filiale di Gesù, rendendoci figli nel Figlio (…)
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 6 ottobre 1999]
Gesù ci mostra la strada per seguirlo, la strada dell’amore. Il suo comandamento non è un semplice precetto, che rimane sempre qualcosa di astratto o di esteriore rispetto alla vita. Il comandamento di Cristo è nuovo perché Lui per primo lo ha realizzato, gli ha dato carne, e così la legge dell’amore è scritta una volta per sempre nel cuore dell’uomo (cfr Ger 31,33). E come è scritta? E’ scritta con il fuoco dello Spirito Santo. E con questo stesso Spirito, che Gesù ci dona, possiamo camminare anche noi su questa strada!
E’ una strada concreta, una strada che ci porta ad uscire da noi stessi per andare verso gli altri. Gesù ci ha mostrato che l’amore di Dio si attua nell’amore del prossimo. Tutti e due vanno insieme. Le pagine del Vangelo sono piene di questo amore: adulti e bambini, colti e ignoranti, ricchi e poveri, giusti e peccatori hanno avuto accoglienza nel cuore di Cristo.
Dunque, questa Parola del Signore ci chiama ad amarci gli uni gli altri, anche se non sempre ci capiamo, non sempre andiamo d’accordo… ma è proprio lì che si vede l’amore cristiano. Un amore che si manifesta anche se ci sono differenze di opinione o di carattere, ma l’amore è più grande di queste differenze! E’ questo l’amore che ci ha insegnato Gesù. E’ un amore nuovo perché rinnovato da Gesù e dal suo Spirito. E’ un amore redento, liberato dall’egoismo. Un amore che dona al nostro cuore la gioia, come dice Gesù stesso: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (v.11).
È proprio l’amore di Cristo, che lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori, a compiere ogni giorno prodigi nella Chiesa e nel mondo. Sono tanti piccoli e grandi gesti che obbediscono al comandamento del Signore: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (cfr Gv 15,12). Gesti piccoli, di tutti i giorni, gesti di vicinanza a un anziano, a un bambino, a un ammalato, a una persona sola e in difficoltà, senza casa, senza lavoro, immigrata, rifugiata… Grazie alla forza di questa Parola di Cristo, ognuno di noi può farsi prossimo verso il fratello e la sorella che incontra. Gesti di vicinanza, di prossimità. In questi gesti si manifesta l’amore che Cristo ci ha insegnato.
Ci aiuti in questo la nostra Madre Santissima, perché nella vita quotidiana di ognuno di noi l’amore di Dio e l’amore del prossimo siano sempre uniti.
[Papa Francesco, Regina Coeli 10 maggio 2015]
V Domenica di Pasqua [18 Maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Già in questa prima settimana papa Leone XIV ci sta dando in maniera pacata e profonda delle indicazioni di marcia da ben interiorizzare. Invito a non perdere nessuno dei suoi discorsi tutti sempre letti e mai pronunciati a braccio. Perché? Interessante cercare una risposta. Oggi poi ci sarà l’omelia dell’inizio del suo ministero petrino e quindi in un certo senso programmatica del pontificato di cui mostrerà lo stile.
*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (14,21b-27)
Da Antiochia di Siria, Paolo e Barnaba erano partiti in nave verso la costa sud di quella che oggi chiamiamo Turchia, passando per Cipro; avevano fatto tappa ad Antiochia di Pisidia, Iconio (oggi Konya), Listra e Derbe e ovunque, come abbiamo visto domenica scorsa, Paolo e Barnaba si rivolgevano dapprima ai giudei, ricevendo un’accoglienza piuttosto “contrastante”. Entusiasmo da parte di alcuni che si convertivano e rifiuto violento da parte di altri che si opponevano decisamente fino a scacciarli e fu ad Antiochia di Pisidia che decisero di rivolgere la parola non solo ai giudei, ma anche a coloro che venivano chiamati “timorati di Dio”, cioè praticanti della religione ebraica pur non ancora integrati mediante la circoncisione, e dunque, a rigor di termini, ancora pagani. Per questo Paolo dice che Dio per mezzo di loro aveva “aperto ai pagani la porta della fede” (v.27). Nel tragitto di ritorno di questo primo viaggio missionario Paolo e Barnaba ripercorrono lo stesso itinerario in senso inverso e visitano nuovamente le comunità da loro recentemente fondato che già subivano persecuzioni perché Luca precisa che Paolo e Barnaba li esortavano a restare saldi nella fede, dicendo che dobbiamo passare attraverso molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (v.22). Gesù aveva già usato espressioni simili: “bisogna che il Figlio dell’Uomo soffra molto e sia respinto da questa generazione” (Lc 17,25)… oppure, rivolgendosi ai discepoli di Emmaus: “Non doveva il Cristo patire queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26).Dio non ci impone prove o sofferenze in modo preventivo ma, a causa della durezza del cuore umano, i veri profeti incontrano persecuzione finché il mondo non si converte all’amore, alla giustizia, alla condivisione. Paolo e Barnaba si preoccupano dunque di rafforzare la fede e il coraggio dei nuovi convertiti vegliando anche sulla buona organizzazione delle comunità. Anzitutto designano dei responsabili, gli “anziani”, termine greco “presbyteros” (da cui deriva il nostro termine “prete”) e, dopo aver pregato e digiunato, li affidarono al Signore. Luca insiste sull’importanza della preghiera e del digiuno perché non si cura solo l’organizzazione, ma sono altrettanto importanti la preghiera e il digiuno. In effetti un evangelizzatore che non prega più, presto non evangelizzerà più. Luca annota che affidarono i responsabili delle nuove comunità al Signore perché agissero con coraggio e responsabilità come Paolo e Barnaba si erano affidati alla grazia di Dio e proseguivano il loro viaggio raccontando ai membri della comunità di Antiochia di Siria tutto ciò che Dio aveva fatto con loro. Luca parla sia dell’opera che gli apostoli avevano compiuto sia di ciò che Dio aveva fatto con loro e questo ci fa capire che la missione affidata da Dio ai credenti è un’opera di Dio affidata all’uomo e opera dell’uomo sostenuta, accompagnata, continuamente ispirata da Dio.
*Salmo responsoriale (144 (145), 8-13)
Del salmo 144 (145), scelto per questa quinta domenica di Pasqua, ci sono qui soltanto sei versetti, mentre in totale sono ventuno tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Si tratta di un salmo alfabetico, un acrostico e ogni versetto comincia con una delle lettere dell’alfabeto ebraico, in ordine alfabetico. E’ dunque un salmo di lode per l’Alleanza: un modo per dire che tutta la nostra vita, dalla A alla Z (in ebraico da aleph a tav), è immersa nell’Alleanza e tenerezza di Dio. Ma perché questo salmo 144 (145) proprio oggi e perché solo questi sei versetti? Anzitutto, questo salmo fa parte della preghiera ebraica di ogni mattino e l’alba di un nuovo giorno evoca per l’ebreo credente l’alba del giorno definitivo, del mondo futuro e della creazione rinnovata. Per noi cristiani, in questo tempo pasquale il salmo ricorda che il Giorno del regno definitivo di Dio è già cominciato, davanti ai nostri occhi, con la risurrezione di Cristo. Inoltre, nella spiritualità ebraica, il Talmud (cioè l’insegnamento dei rabbini dei primi secoli dopo Cristo) afferma che colui che recita questo salmo tre volte al giorno “può essere certo di essere un figlio del mondo futuro”. Per noi cristiani il mondo futuro di cui parla la fede ebraica è proprio la creazione rinnovata da Gesù Cristo e i sei versetti scelti per oggi costituiscono un condensato della rivelazione e il salmo si armonizza perfettamente con i toni del tempo pasquale, in particolare, con le altre letture di questa domenica. Il primo versetto“Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” è il miglior riassunto di tutta la rivelazione biblica: infatti è il nome che Dio ha dato di sé stesso a Mosè (Es 34,6).Il secondo versetto: “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature” è una scoperta enorme per l’umanità che dobbiamo proprio al popolo eletto; un tema già presente nell’Antico Testamento: Dio ama tutta l’umanità e il suo progetto d’amore, come dice san Paolo, riguarda l’intera umanità. Avvertiamo una risonanza particolare di questo negli Atti degli Apostoli e in modo speciale nella prima lettura di questa domenica di Pasqua che insiste sul fatto che l’annuncio dell’amore di Dio non è riservato agli ebrei, ma è per tutte le nazioni. Inoltre questo salmo, soprattutto nei versetti letti oggi, insiste sulla regalità di Dio: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno, il tuo regno è un regno eterno, il tuo dominio si estende per tutte le generazioni”. Quattro volte torna la parola “regno” (una volta “dominio”) e le parole “opere” e “imprese” che nella Bibbia fanno sempre riferimento alla liberazione dall’Egitto: Dio ha liberato il suo popolo allora e lo libera oggi e questo fino all’ultima liberazione che è la vittoria sulla morte. Un salmo dunque particolarmente adatto al tempo pasquale perché il Risorto sperimenta nella sua carne la regalità di Dio. Quando Israele componeva questo salmo, l’insistenza sulla regalità di Dio, o sul suo dominio, era un modo per affermare che mai si affideranno agli idoli perché l’unico loro Re e Signore è Dio, il Dio dell’amore. Quando i cristiani pregano questo salmo, sanno bene che in Cristo, re servo, umile nella Passione e trionfatore sulla morte, vedono la presenza del re dell’universo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” disse Gesù agli apostoli (Gv.14, 9).
NOTA. Leggendo l’intero salmo si nota una profonda somiglianza con il Padre Nostro: ci si rivolge a Dio come Padre – “Padre nostro… dacci… perdonaci… liberaci dal male…” – un Padre che è il Dio di misericordia e pietà come si esprime il salmo. Ci si rivolge a lui anche come Re: “venga il tuo Regno”. In realtà tutte le frasi che Gesù ha raccolto nel Padre Nostro facevano già parte delle preghiere abituali del popolo ebraico
Secondo che si conti come una o due lettere il segno Sin/Shin (lo stesso simbolo si pronuncia talvolta Sin, talvolta Shin), si conteranno 21 o 22 lettere nell’alfabeto ebraico. I grammatici distinguono le due lettere Sin e Shin e l’alfabeto conta 22 lettere, ma il salmista utilizza solo la lettera Shin e dunque il salmo conta 21 versetti.
*Seconda Lettura dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni (21, 1-5a)
“Ecco, io faccio nuove tutte le cose”: cielo nuovo, terra nuova, Gerusalemme nuova; questo è il nostro futuro, il nostro “a-venire”, cioè ciò che viene. Finite le lacrime, la morte, i lamenti, le grida, la tristezza… tutto questo appartiene al passato: il primo cielo e la prima terra sono scomparsi. In altre parole, il passato è passato, compiuto. Giovanni ci ha avvertiti: il suo libro è un libro di visioni, che svela il futuro per dare il coraggio di affrontare il presente. Il primo cielo e la prima terra rimandano al racconto biblico della creazione e per comprendere questo passo dell’Apocalisse occorre rifarsi al libro della Genesi che nel primo capitolo presenta “la prima creazione” di cui l’Apocalisse afferma che era totalmente buona: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn 1,31). Nonostante questo però ogni giorno vediamo lacrime, grida, tristezza, morte come ripete l’Apocalisse e la causa sta nel racconto del frutto proibito (Gn.3) spiegando cosa ha corrotto la bontà della creazione. Radice di tutte le sofferenze è la frattura creatasi tra Dio e l’umanità con il sospetto originario che distrugge l’Alleanza e spinge l’uomo a percorrere vie che lo portano solo al fallimento. Il popolo eletto ha ascoltato, tramite i profeti, il richiamo alla via dell’Alleanza che è l’unica via verso la vera felicità. Occorre che Dio abiti davvero in mezzo a noi perché siamo il suo popolo, e Lui sia il nostro Dio. Ristabilire l’Alleanza come un dialogo d’amore è la sete di Israele lungo tutta la sua storia e molti profeti annunciano ciò che l’autore dell’Apocalisse ora vede compiuto. Isaia scrive: “Ecco, io creo cieli nuovi e terra nuova… non ci si ricorderà più del passato, non tornerà più in mente… Non si udranno più in essa voci di pianto né grida di angoscia… Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che non completi i suoi giorni» (Is 65,17-20). Ma perché simbolicamente il rinnovamento di tutte le cose è rappresentato dalla scomparsa del mare anche se Israele non è un popolo di marinai? La ragione è che la creazione dell’universo, nella Bibbia, è letta a partire dalla nascita del popolo eletto e questa nascita, cioè l’uscita dalla schiavitù d’Egitto, è stata una vittoria sul mare: Dio ha fatto apparire la terra asciutta per permettere il passaggio del suo popolo; il popolo salvato ha attraversato il mare a piedi e le forze del male, della schiavitù e dell’oppressione sono state inghiottite. Più tardi, nel Nuovo Testamento, il Figlio di Dio fatto uomo ha manifestato la sua vittoria sul male e sulle sue forze camminando sulle acque. Ora la vittoria è totale, suggerisce l’Apocalisse: il mare è scomparso e con esso ogni forma di male: sofferenza, lacrima, grido, morte. L’umanità e l’intero universo attendono il compimento del progetto che Dio aveva quando creò il mondo: stabilire con l’umanità un’Alleanza senza ombre, un eterno dialogo d’amore come appare nel tema delle nozze tra Dio e l’umanità sempre presente nella Bibbia. Si pensi ai profeti Osea o Isaia e al Cantico dei Cantici e nel Nuovo Testamento, al racconto delle nozze di Cana, per citarne uno solo. Qui, nel nostro brano dell’Apocalisse, tale promessa emerge da due immagini: quella della Gerusalemme nuova, “pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (v.2) e dall’espressione “Dio con loro” (v.3) dove “con” esprime l’Alleanza d’amore, alleanza sponsale. “Udii allora una voce potente, che veniva dal trono, che diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio-con-loro” (v.3. ). Inoltre il centro della nuova creazione porta il nome della città santa – “ecco che la Gerusalemme nuova “discende da Dio” - la città che, da secoli, simboleggia l’attesa del popolo eletto e il nome stesso di Gerusalemme significa “Città della giustizia e della pace” “discendente Dio” e per questo detta “nuova”. La nuova Gerusalemme non è solo opera umana perché il regno di Dio, che attendiamo e a cui cerchiamo di collaborare, è allo stesso tempo in continuità e in rottura con questa terra. Siamo pertanto invitati a collaborare con Dio e il nostro impegno contribuisce al rinnovamento della creazione grazie all’intervento di Dio che trasfigurerà i nostri sforzi.Percepiamo questo pure nella lettera di san Paolo ai Romani: “Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione infatti è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio… poiché anche la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-22).
*Dal Vangelo secondo Giovanni (13, 31- 35)
Le prime frasi di questo testo sono come una sorta di variazioni sul tema della “gloria”:
“Quando Giuda fu uscito, Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà e lo glorificherà subito”: tutto questo può sembrarci un po’ complicato, ma in realtà è un modo molto ebraico di parlare: esprime la reciprocità del rapporto tra il Padre e il Figlio, o meglio la loro unione profonda: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, scrive Giovanni (14,8) e ancora: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (10,30). “Il Figlio dell’uomo è glorificato, o che Dio è glorificato in lui”, vuol dire che il Figlio è il riflesso del Padre e notiamo ancora una volta quanto sia necessario uno sforzo per comprendere il linguaggio di Gesù e dei suoi contemporanei. Proprio nel momento in cui Giuda esce nella notte del tradimento, Gesù porta a compimento la sua vocazione di essere il riflesso del Padre. Ma Giovanni non l’ha capito subito perché insieme agli apostoli hanno assistito impotenti alla sua passione e morte; hanno vissuto questa successione di eventi come un momento di orrore e solo dopo Giovanni comprenderà che quello era in realtà l’istante della gloria di Gesù: perché proprio lì il Figlio rivelava fino a che punto arriva l’amore del Padre. E dato che il Figlio tradito, abbandonato, perseguitato da tutti, continua lui solo contro tutti, a essere solo amore, benevolenza, perdono, rivela al mondo fino a dove arriva l’amore del Padre, un amore infinito. E allora – e questa è la seconda parte del nostro testo – coloro che contemplano questo mistero dell’amore folle di Dio diventano capaci a loro volta di amare come lui. Gesù infatti collega chiaramente le due cose: dice che ora rivelerà al mondo fino a che punto arriva l’amore del Padre e precisa: “ora vi do un comandamento nuovo, che vi amiate come io vi ho amati”, ma aggiunge anche che solo ora sarete capaci perché attingerete al mio stesso amore. In realtà, la novità non è il comandamento di amare; Gesù non inventa il comandamento dell’amore che esiste già nell’insegnamento dei rabbini del suo tempo. Ciò che è nuovo è l’amare come lui, ma non solo “alla sua maniera”, cioè fino a dare la propria vita rifiutando ogni potere, dominio e violenza. La vera novità è amare “davvero come lui”, cioè essendo completamente guidati dal suo Spirito. Solo così possiamo capire in modo del tutto nuovo la famosa frase: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Non si tratta solo di un comandamento, ma piuttosto di una constatazione: siamo davvero suoi discepoli perché è il suo stesso Spirito a guidare i nostri comportamenti. Dio sa bene quanto l’amore quotidiano sia difficile, e se riusciamo nelle nostre comunità ad amarci, il mondo sarà costretto ad ammettere questa evidenza: che lo Spirito di Cristo agisce in noi. Siamo dunque innanzitutto invitati a un atto di fede: credere che il suo Spirito d’amore abita in noi, che le sue risorse d’amore abitano in noi: che possediamo capacità d’amare insospettabili, perché sono le sue, e allora diventa possibile amare “come” lui, perché lasciamo il suo Spirito agire in noi. Sappiamo però per esperienza che non è affatto facile amare chi ci sta accanto, anzi con alcuni è persino impossibile parlare di amore e di perdono. Gesù certamente non ignora tutto ciò quando comanda l’amore reciproco ai suoi discepoli; ma non bisogna confondere amore e sensibilità. Gesù ha mostrato con i gesti di quale amore dobbiamo amarci quando durante l’ultima cena ha lavato i piedi degli apostoli e ha concluso dicendo: “Vi ho dato l’esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Ecco dunque cosa significa amare “come” lui ci ha amati! Se ci pensiamo bene, è possibile grazie al suo Spirito mettersi al servizio gli uni degli altri, anche di quelli per cui non proviamo alcuna simpatia. Ma la fedeltà a questo comandamento è per noi vitale perché è su questo che le nostre comunità sono giudicate. Per Gesù la cosa più importante non è la qualità dei nostri discorsi, della nostra teologia e delle nostre conoscenze, né la bellezza delle nostre celebrazioni, bensì la qualità dell’amore che ci offriamo gli uni agli altri. Gesù in quell’ultima drammatica sera gridò :”Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato (cioè rivelato come Dio), e Dio è stato glorificato in lui”. L’umanità è introdotta nella gloria, nella presenza, nella vita di Dio, attraverso l’evento della passione-morte-risurrezione di Cristo. E ormai introdotti nella “gloria” di Dio (cioè il sacrificio di Cristo), i suoi discepoli possono vivere interamente sotto il segno dell’amore, poiché Dio è amore e la sua presenza risplende anche attraverso di loro. Basta solo crederci e lasciare agire lo Spirito in noi.
+Giovanni D’Ercole
(Gv 15,1-8)
L’allegoria della vite e dei tralci descrive la Presenza del Signore in mezzo ai suoi. Egli è fonte della vita intima e delle opere.
L’imperativo di credere in Lui (c.14) diventa esigenza di ‘rimanere’ in Lui [cf. Gv 6,56: tema eucaristico del ‘corpo unico’].
Gesù si serve dell’immagine della vite e dei tralci per trasmettere un insegnamento sulla famigliarità con Lui e la fraternità tra discepoli, che ne illustri il legame profondo.
Unione intima, alimento comune, solidarietà, continuità del legame, richiedono un’opera attenta e costante, tra cui «taglio e mondatura» perché non tutti i pampini e i germogli recano fecondità.
Ma attenzione: l'Amore divino è impulso che chiede un “lasciarsi portare”. Esso trascina; ci prende e si fa linfa nutriente. C’investe purificando.
Non è dimensione da intendersi quale “sforzo” (sostanzialmente nostro) bensì come un... essere afferrati e farsi coinvolgere nel moto della vita di Grazia.
Gesù invita ad avere cura dei codici dell’interiorità: da essi assumere l’impulso risoluto cui affidare le scelte, e che già ci ha guidati a crescere.
Nel brano di Vangelo il Creatore-contadino «taglia e purifica», per riallacciare tale ‘intesa’ personale.
Gesù parla di «Vite quella vera» (v.1): è solo Lui il germe autentico del Popolo piantato dal Padre.
Vuol dire che in giro venivano inculcati insegnamenti devianti, e interrate o esposte false “viti” [come quella favolosa ricolma di pampini d’oro sulla porta del Santuario interno del Tempio di Gerusalemme].
La linfa vitale non scorre dalle ricchezze, né da dottrine e discipline - neppure dalle grandi, impressionanti magnificenze del vecchio culto.
E l’interesse dell’agricoltore è che la Vigna porti sempre più «Frutto» ossia Amore; null’altro.
Il «permanere» di Cristo nei discepoli, la sua ‘unione’ con ciascuno, è essenziale per vivere sulla terra la stessa vita divina.
La Fede-amore ‘incorpora’ ed è contagiosa.
Laddove incontrasse resistenza, sarà proprio tale ostacolo a incitarla a maggiore purezza, dunque a più vigore (v.2).
Per questo motivo prima «Taglia» ciò ch’è stato rigoglioso nel passato ma non darebbe più nulla.
Ce ne accorgiamo nel tempo della crisi, che smaschera e rovescia posizioni assillanti e importune, mortificanti lo sviluppo.
Poi «Purifica» (v.2: testo greco) ossia procede come fa il bravo villico, a una seconda sfrondatura leggera dei germogli della vite; staccando quelli che assorbono linfa ma si addensano troppo e non hanno giusta vitalità [onde non togliere nutrimento ai punti propulsivi].
Questo brano è stato spesso interpretato come invito per eccellenza ad abbracciare una spiritualità delle “potature” [il termine nei Vangeli non esiste] che non ha senso in ottica di Fede, ossia d’Amore.
Nelle religioni tradizionali è il soggetto - «tralcio» - a doversi centrare su se stesso, individuare le mancanze, i difetti e vizi, e “potarli”.
Invece solo il Padre-agricoltore sa riconoscere gli elementi nocivi, quelli parassiti e senza futuro, che non vale la pena continuare a sorreggere.
La vita in Cristo non c’insedia su un’immagine di sterile perfezione esterna, che a Dio non interessa.
Una Potenza spontanea, il mistero delle radici vocazionali, l’opera a più livelli di un’essenza radicale, innata, che ci accompagna, sono in grado di alimentare e correggere ogni geometria a tavolino.
Agli impedimenti pensa il Padre, non il singolo tralcio, né altri tralci.
In tal guisa - cedendo il dirigismo esterno - non produrremo danni irreparabili.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale Linfa ti sazia, quella esterna? Quale geometria mondana e normale segui? Qual è la tua idea di miglioramento nella Fede?
[Mercoledì 5.a sett. di Pasqua, 21 maggio 2025]
(Gv 15,1-8)
L’allegoria della vite e dei tralci descrive la Presenza del Signore in mezzo ai suoi. Egli è fonte della vita intima e delle opere.
L’imperativo di credere in Lui (c.14) diventa esigenza di rimanere in Lui [cf. Gv 6,56: tema eucaristico del “corpo unico”].
La vite è una pianta che esige molte attenzioni. Nei testi biblici è presa come simbolo delle cure di Dio verso il suo popolo, e viceversa la sua distruzione raffigurava le antiche calamità nazionali.
Gesù si serve dell’immagine della vite e dei tralci per trasmettere un insegnamento sulla famigliarità con Lui e la fraternità tra discepoli, che ne illustri il legame profondo.
Unione intima, alimento comune, solidarietà e continuità del legame richiedono un’opera attenta e costante, tra cui taglio e mondatura, perché non tutti i pampini e i germogli recano fecondità.
Ma attenzione: l'Amore divino è impulso che chiede un lasciarsi portare. Esso trascina; ci prende e si fa linfa nutriente. C’investe purificando.
Non è dimensione da intendersi quale sforzo (sostanzialmente nostro) bensì come un... essere afferrati e farsi coinvolgere nel moto della vita di Grazia.
A paragone con le allusioni del Primo Testamento, si nota una sostituzione: sebbene il vignaiolo continui a rappresentare il Padre, la vite non è più figura del popolo, ma di Gesù.
E «portare frutto» è espressione frequente che indica solo Amore: il risultato vero che Dio si attende, l’opera unica da realizzare in tutte le nostre opere.
Il permanere di Cristo nei discepoli, la sua unione con ciascuno, è essenziale per vivere sulla terra la stessa vita divina.
La Fede-amore incorpora ed è contagiosa. Laddove incontrasse resistenza, sarà proprio tale ostacolo a incitarla a maggiore purezza, dunque a più vigore (v.2).
L’uomo invece abbandonato a se stesso non prolunga l’influsso di Cristo; non supera le barriere della nomenclatura e del normale.
Chi s’immagina autosufficiente - spezzando l’unione - incrina il Mistero che lo avvolge, e sarà preda dei suoi stessi affastellamenti infecondi.
Ma è anche vero che una vigna di razza è invadente per sua natura: dimostra in modo palese una piena disponibilità a esprimere… amore (frutto, gusto, vita).
Insomma, se oggi la missione segna il passo è perché ha già perso la sua vitalità dinamica: non basteranno i piani di adattamento o le narrazioni e una riforma esterna a risuscitarla.
È l’Incontro vitale che fa emergere le onde della forza e della più amichevole franchezza.
Negli anni, la Vocazione ci ha guidati e portati ad avere un modo di essere personale e un ambito di relazioni caratterizzante.
Ancora il Signore continua a chiamare, affinché entrando nel suo linguaggio [irripetibile, commisurato a ciascuna vicenda e sensibilità] veniamo sottratti a condizionamenti che non ci appartengono.
Gesù invita ad avere cura dei codici dell’interiorità, e da essi assumere l’impulso risoluto cui affidare le scelte e che già ci ha guidati a crescere.
Dagli albori della nostra storia e della nostra personalità, Lui solo continua ad essere Fonte intima e zampillante dello sviluppo - anche delle impronte che avevamo trattenuto.
Se ci fossimo affidati all’esteriorità, l’anima avrebbe disperso la sua linfa, smarrendo l’essenza che le apparteneva e specificava.
Così non avremmo incontrato noi stessi e non ci saremmo mai alimentati delle risorse costitutive più efficienti, che ora donano insieme equilibrio, maggiore completezza, capacità di giudizio in situazione, amabile trasparenza.
Si diventa se stessi, si diventa persona a tutto tondo, si diventa missionari, allo stesso modo: capendo che nelle vene scorre una Linfa, uno stimolo, che viene da Chi la sa più lunga di noi e delle opinioni.
Ci sono piante di sottobosco, altre che svettano; altre ancora, intrufolandosi nelle zone vuote e misteriosamente lasciate alla luce piena stanno crescendo a ritmo assai sostenuto rispetto a quelle da molto tempo piantate e installate - habitué da sembrare omologate.
La magia del creato - vite, tralci - parla di un altro regno, di un Logos che si correla a noi e dirige sapientemente i suoi flussi e le forze vitali.
In tal guisa accade nello Spirito, che interiorizza, chiama, nutre, trasmette equilibrio o profezia, e genera lo stupore del tutto e dell’unicità.
Come hanno fatto quei semi (nell’esempio che ho davanti casa, un doppio pino e un pino singolo) a radicare proprio nei punti caratteristici, intermedi e giusti - sia dal punto di vista estetico che dell’utilità, densità e ampiezza? Neanche avrei saputo pensarli così nitidamente disposti; tanto allineati in perfetta proporzione, misura, volume e scala.
Solo l’Alleato nascosto vede bene l’insieme, la struttura, la funzionalità e i dettagli delle nostre fibre.
Egli sa dove condurre, e come nutrirci per ritrovare l’Io, l'unità qualitativa dell’essere.
Lo fa seminando, immettendo, rigenerando, calibrando l’energia del suo e nostro Sogno. A ritmo conveniente, e curando la banalità razionale utilitarista dei nostri progetti.
Incessantemente ricentrando il portato personale, la consapevolezza di sé, l’inclinazione spontanea.
Nonché distaccando l’anima da chi in mille modi vuole lasciarci nell’ignoranza della Via creaturale, per trattenere i luoghi comuni ed i totem del suo mondo abitudinario, snervante.
Ciò mentre lo Spirito separa il nostro pensiero poliedrico da false guide unilaterali [antiquate e grette, o isteriche e sofisticate, ma disincarnate].
I primi della classe magari pedinano, incalzano, e plagiano, distraendoci dal Dialogo non conformista con l’irripetibile compito della vita personale.
Nel brano di Vangelo il Creatore-contadino taglia e purifica, per riallacciare l’intesa.
Gesù parla di «Vite quella vera» (v.1): è solo Lui il germe autentico del Popolo piantato dal Padre.
Vuol dire che in giro venivano inculcati insegnamenti devianti, e interrate o esposte false viti - come quella favolosa ricolma di pampini d’oro sulla porta del Santuario interno del Tempio di Gerusalemme.
La linfa vitale non scorre dalle ricchezze, né da dottrine e discipline - neppure dalle grandi, impressionanti magnificenze del vecchio culto.
Neppure da fantasie à la page e senza spina dorsale.
L’interesse dell’Agricoltore è che la Vigna porti sempre più Frutto ossia Amore, null’altro.
In tale traiettoria, il Contadino che sa cosa fare, «taglia» (v.2) [anche affinché non ci siano cordate, marpioni organizzati. Essi che assorbono le energie del suo popolo [munto e tosato] senza minimamente porsi il problema di comunicare - a loro volta - vita autentica agli altri.
Prima «Taglia» ciò ch’è stato rigoglioso nel passato ma non darebbe più nulla.
Ce ne accorgiamo nel tempo della crisi, che smaschera e rovescia posizioni assillanti e importune, mortificanti lo sviluppo.
Poi «purifica» (v.2: testo greco) ossia procede come fa il bravo villico, a una seconda sfrondatura leggera dei germogli della vite; staccando quelli che assorbono linfa ma si addensano troppo e non hanno giusta vitalità [onde non togliere nutrimento ai punti propulsivi].
Questo brano è stato spesso interpretato come invito per eccellenza ad abbracciare una spiritualità delle “potature” [il termine nei Vangeli non esiste] che non ha senso in ottica di Fede, ossia d’Amore.
Nelle religioni antiche è il soggetto - «tralcio» - a doversi centrare su se stesso, individuare le mancanze, difetti e vizi, e “potarli”.
Invece solo il Padre-agricoltore sa individuare gli elementi nocivi, quelli parassiti e senza futuro, che non vale la pena continuare a sorreggere.
Egli agisce nella realtà del nostro cammino, come si farebbe con un’antiquata e intimamente corrotta costruzione di cartapesta [nonché, con le fantasie alla moda, che portano al vuoto].
La vita in Cristo non si preoccupa dei limiti esterni, anzi evita di rendere protagonisti i difetti [rinnegati!] della vita spirituale.
Tale configurazione risulterebbe ossessiva, inconcludente, perché insediata su un’immagine di sterile “perfezione” che a Dio non interessa.
Piuttosto, sarà uno stupore osservare come nel cammino di Fede proprio le anime incerte, i loro passi malfermi e lati considerati oscuri possano nascondere le vere Perle del mondo.
Una Potenza spontanea, il mistero delle immagini che sgorgano dal profondo delle radici vocazionali e riattivano energie; l’opera a più livelli di un’essenza radicale, innata, che ci accompagna [immanente l’essere e che ne sa più di noi] sono energie tutte in grado di alimentare e correggere ogni geometria a tavolino.
Come non produrre danni irreparabili? Cedendo il dirigismo esterno.
Agli impedimenti pensa il Padre, non il singolo tralcio, né altri tralci - reduci, esperti, veterani che siano.
Sebbene più in alto, più grossi... eletti a vita, costoro non fornirebbero giusto umore vitale, né legame organico: ci presenterebbero solo contenuti sepolti, e il conto.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale Linfa ti sazia, quella esterna?
Quale geometria mondana e normale segui?
Qual è la tua idea di miglioramento nella Fede?
L’immagine della vigna, con le sue implicazioni morali, dottrinali e spirituali, ritornerà nel discorso dell’Ultima Cena, quando, congedandosi dagli Apostoli, il Signore dirà: "Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto" (Gv 15,1-2). A partire dall’evento pasquale la storia della salvezza conoscerà dunque una svolta decisiva, e ne saranno protagonisti quegli "altri contadini" che, innestati come scelti germogli in Cristo, vera vite, porteranno frutti abbondanti di vita eterna (cfr Orazione colletta). Tra questi "contadini" ci siamo anche noi, innestati in Cristo, che volle divenire Egli stesso la "vera vite". Preghiamo che il Signore che ci dà il suo sangue, Se stesso, nell’Eucaristia, ci aiuti a "portare frutto" per la vita eterna e per questo nostro tempo.
[Papa Benedetto, omelia XII Sinodo 5 ottobre 2008]
La parabola della vite e dei tralci mette in evidenza, in modo particolare, quel legame, in un certo senso “organico”, che esiste tra Cristo e la Chiesa: tra Cristo e tutti coloro che da lui traggono la vita, così come il tralcio trae la vita dalla vite.
Ciò si riferisce ad ogni singolo uomo, e al tempo stesso si riferisce all’intera comunità del popolo di Dio: alla Chiesa.
La Chiesa intera - come un ricco “complesso” di tralci rimane in Cristo: nella vite. Da lui trae la vita. “Senza di lui essa non può far nulla”: nulla di veramente salvifico.
L’intera salvezza, la grazia tutta, si trova in lui: in Cristo. E in noi: negli uomini, da lui, e solo da lui e per mezzo di lui.
2. Vogliamo oggi ringraziare il Padre eterno, “il Padre infatti è il vignaiolo”, per questa vita che ci è stata rivelata e che è stata data a noi, uomini, in Gesù Cristo crocifisso e risorto.
Ringraziamo per il mistero pasquale, nel quale Cristo si è rivelato una volta per sempre come la vite, e in pari tempo ha rivelato il Padre suo come colui che coltiva.
Desideriamo che ogni uomo, ogni cristiano maturi in qualità di “divina coltura” del Padre - nel Figlio - nel Cristo risorto.
Desideriamo che ognuno, mediante tale legame “organico” con lui, porti molto frutto.
3. E proprio questa nostra preghiera desideriamo presentare alla Madre di Cristo, invitandola - laetare! - alla gioia pasquale della Chiesa.
Che ella ci aiuti a rimanere nel suo Figlio: in Cristo vite, perché costituiamo con lui un solo corpo, vivificato dallo Spirito della Pentecoste pasquale.
[Papa Giovanni Paolo II, Regina Coeli del 5 maggio 1985]
Il Signore si presenta come la vera vite e parla di noi come i tralci che non possono vivere senza rimanere uniti a Lui. Dice così: «Io sono la vite, voi i tralci» (v. 5). Non c’è vite senza tralci, e viceversa. I tralci non sono autosufficienti, ma dipendono totalmente dalla vite, che è la sorgente della loro esistenza.
Gesù insiste sul verbo “rimanere”. Lo ripete ben sette volte nel brano evangelico odierno. Prima di lasciare questo mondo e andare al Padre, Gesù vuole rassicurare i suoi discepoli che possono continuare ad essere uniti a Lui. Dice: «Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita. No, non è questo. Il rimanere in Lui, il rimanere in Gesù che Lui ci propone è un rimanere attivo, e anche reciproco. Perché? Perché i tralci senza la vite non possono fare nulla, hanno bisogno della linfa per crescere e per dare frutto; ma anche la vite ha bisogno dei tralci, perché i frutti non spuntano sul tronco dell’albero. È un bisogno reciproco, è un rimanere reciproco per dare frutto. Noi rimaniamo in Gesù e Gesù rimane in noi.
Prima di tutto noi abbiamo bisogno di Lui. Il Signore ci vuole dire che prima dell’osservanza dei suoi comandamenti, prima delle beatitudini, prima delle opere di misericordia, è necessario essere uniti a Lui, rimanere in Lui. Non possiamo essere buoni cristiani se non rimaniamo in Gesù. E invece con Lui possiamo tutto (cfr Fil 4,13). Con Lui possiamo tutto.
Ma anche Gesù, come la vite con i tralci, ha bisogno di noi. Forse ci sembra audace dire questo, e allora domandiamoci: in che senso Gesù ha bisogno di noi? Egli ha bisogno della nostra testimonianza. Il frutto che, come tralci, dobbiamo dare è la testimonianza della nostra vita cristiana. Dopo che Gesù è salito al Padre, è compito dei discepoli – è compito nostro – continuare ad annunciare il Vangelo, con la parola e con le opere. E i discepoli – noi, discepoli di Gesù – lo fanno testimoniando il suo amore: il frutto da portare è l’amore. Attaccati a Cristo, riceviamo i doni dello Spirito Santo, e così possiamo fare del bene al prossimo, fare del bene alla società, alla Chiesa. Dai frutti si riconosce l’albero. Una vita veramente cristiana dà testimonianza a Cristo.
E come possiamo riuscirci? Gesù ci dice: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (v. 7). Anche questo è audace: la sicurezza che quello che noi chiediamo ci sarà dato. La fecondità della nostra vita dipende dalla preghiera. Possiamo chiedere di pensare come Lui, agire come Lui, vedere il mondo e le cose con gli occhi di Gesù. E così amare i nostri fratelli e sorelle, a cominciare dai più poveri e sofferenti, come ha fatto Lui, e amarli con il suo cuore e portare nel mondo frutti di bontà, frutti di carità, frutti di pace.
Affidiamoci all’intercessione della Vergine Maria. Lei è rimasta sempre pienamente unita a Gesù e ha portato molto frutto. Ci aiuti lei a rimanere in Cristo, nel suo amore, nella sua parola, per testimoniare nel mondo il Signore Risorto.
[Papa Francesco, Angelus 2 maggio 2021]
(Gv 14,27-31)
Nei Vangeli la Pace-Shalôm di Cristo è un cenno di emancipazione dalle umiliazioni e dai rifiuti; assunto e reinterpretato in ordine all’imperativo dell’Annuncio apostolico.
Esso crea una nuova situazione.
E appunto, il «Vado e Vengo da voi» (v.28) è una endiadi semitica: due affermazioni unite, che si riferiscono al medesimo accadimento [generativo, vitale] di morte e vita completa.
L’espressione-evento non è tale da farsi soggetta a condizioni.
Termina l’arco del ministero terreno del Signore; si accende un’Alleanza.
Tempo della Parola e dell’azione diffuse, con risultati complessivi; di nuovi padri e madri, nuova Creazione.
Insomma, la Pace di Gesù non è uno stato, bensì un rapporto.
Piena attuazione dell’umano - condizione non più equilibrista, secondo convenzioni.
Piuttosto, adempimento ricalibrato sulla misura del Cristo in Persona, nell’Ora della Nascita.
Sulla bocca di Gesù, «Shalôm» [eccellenza e superamento delle benedizioni antiche] assume i lineamenti del significato proprio, messianico.
Presenza di ‘unzione’. Discrimine dei Vangeli e Annuncio essenziale (cf. Lc 10,5).
Ampiezza di ben-essere: senza questo prezioso codice di lettura la Parola del Signore resta incomprensibile, e la Missione cui siamo inviati diventa preda di ossessioni, le più sciatte, inautentiche.
Nei territori dell’impero la Pax Romana aveva tratti trionfalistici - era sinonimo di violenza, competizione, repressione di ribelli.
Come tregua armata, si faceva garante d’una economia prospera, ma assicurata nella sua dimensione sociale solo dalle disuguaglianze, in specie da una vasta base di schiavi.
La Pace che Gesù introduce non è un augurio qualunque di migliorie normali attese, ma la trasmissione della sua stessa Persona.
Tale propensione, vicenda, e Amicizia senza prezzo, ci stimola a un riordinamento, riconfigurazione, riorganizzazione completa di tutta la vita.
E spesso la butta all’aria, onde speronarne il quietismo di circostanza.
Nel nostro linguaggio, parleremmo forse di Felicità e nuovo ordine o assetto pubblico.
Essendo il desiderio segreto di ciascuno, nessuna difficoltà potrà spegnerne la promessa e potenza di realizzazione (v.30).
Shalôm è pienezza di esistenza salvata, “successo” nel nostro cammino di fioritura attraverso mille imprese.
Shalôm è perfezione e gioia completa, compimento dei desideri.
Vittoria del Patto fra Dio e il popolo. Sintonia e comunione senza fine tra impulso innato della nostra essenza particolare e compimento delle speranze.
Successo dell’Alleanza fra spinta dell’anima e conquiste evolutive sperimentate nella vita reale.
Shalôm - attuazione piena dell’umanità che ritrova se stessa - indica totalità vitale e compiuta di ogni aspirazione.
Qualità di rapporti nuovi che ne scaturiscono: il bene supremo d’una Presenza in atto, affidata a noi.
[Martedì 5.a sett. di Pasqua, 20 maggio 2025]
Even after seeing his people's repeated unfaithfulness to the covenant, this God is still willing to offer his love, creating in man a new heart (John Paul II)
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo (Giovanni Paolo II)
«Abide in me, and I in you» (v. 4). This abiding is not a question of abiding passively, of “slumbering” in the Lord, letting oneself be lulled by life [Pope Francis]
«Rimanete in me e io in voi» (v. 4). Questo rimanere non è un rimanere passivo, un “addormentarsi” nel Signore, lasciandosi cullare dalla vita [Papa Francesco]
سَلامي أُعطيكُم – My peace I give to you! (Jn 14:27). This is the true revolution brought by Christ: that of love […] You will come to know inconceivable joy and fulfilment! To answer Christ’s call to each of us: that is the secret of true peace (Pope Benedict)
سَلامي أُعطيكُم [Vi do la mia pace!]. Qui è la vera rivoluzione portata da Cristo, quella dell'amore [...] Conoscerete una gioia ed una pienezza insospettate! Rispondere alla vocazione di Cristo su di sé: qui sta il segreto della vera pace (Papa Benedetto)
Spirit, defined as "another Paraclete" (Jn 14: 16), a Greek word that is equivalent to the Latin "ad-vocatus", an advocate-defender. The first Paraclete is in fact the Incarnate Son who came to defend man (Pope Benedict)
Spirito, definito "un altro Paraclito" (Gv 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo (Papa Benedetto)
The Lord gives his disciples a new commandment, as it were a Testament, so that they might continue his presence among them in a new way: […] If we love each other, Jesus will continue to be present in our midst, to be glorified in this world (Pope Benedict)
Quasi come Testamento ai suoi discepoli per continuare in modo nuovo la sua presenza in mezzo a loro, dà ad essi un comandamento: […] Se ci amiamo gli uni gli altri, Gesù continua ad essere presente in mezzo a noi, ad essere glorificato nel mondo (Papa Benedetto)
St Teresa of Avila wrote: “the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ” (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7) [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6) [Papa Benedetto]
Dear friends, the mission of the Church bears fruit because Christ is truly present among us in a quite special way in the Holy Eucharist. His is a dynamic presence which grasps us in order to make us his, to liken us to him. Christ draws us to himself, he brings us out of ourselves to make us all one with him. In this way he also inserts us into the community of brothers and sisters: communion with the Lord is always also communion with others (Pope Benedict)
Cari amici, la missione della Chiesa porta frutto perché Cristo è realmente presente tra noi, in modo del tutto particolare nella Santa Eucaristia. La sua è una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a Sé. Cristo ci attira a Sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli: la comunione con il Signore è sempre anche comunione con gli altri (Papa Benedetto)
don Giuseppe Nespeca
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