don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 02 Settembre 2024 13:00

Mirabile cosa: si è reso vulnerabile

Quale mirabile cosa è mai il possedere la Croce! Chi la possiede, possiede un tesoro! (Sant’Andrea di Creta, Omelia X per l’Esaltazione della Croce: PG 97, 1020). In questo giorno in cui la liturgia della Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della santa Croce, il Vangelo che avete appena inteso ci ricorda il significato di questo grande mistero: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché gli uomini siano salvati (cfr Gv 3,16). Il Figlio di Dio s’è reso vulnerabile, prendendo la condizione di servo, obbedendo fino alla morte e alla morte di croce (cfr Fil 2,8). E’ per la sua Croce che siamo salvati. Lo strumento di supplizio che, il Venerdì Santo, aveva manifestato il giudizio di Dio sul mondo, è divenuto sorgente di vita, di perdono, di misericordia, segno di riconciliazione e di pace. “Per essere guariti dal peccato, guardiamo il Cristo crocifisso!” diceva sant’Agostino (Tract. in Johan.,XII,11). Sollevando gli occhi verso il Crocifisso, adoriamo Colui che è venuto per prendere su di sé il peccato del mondo e donarci la vita eterna. E la Chiesa ci invita ad elevare con fierezza questa Croce gloriosa affinché il mondo possa vedere fin dove è arrivato l’amore del Crocifisso per gli uomini, per tutti gli uomini. Essa ci invita a rendere grazie a Dio, perché da un albero che aveva portato la morte è scaturita nuovamente la vita. È su questo legno che Gesù ci rivela la sua sovrana maestà, ci rivela che Egli è esaltato nella gloria. Sì, “Venite, adoriamolo!”. In mezzo a noi si trova Colui che ci ha amati fino a donare la sua vita per noi, Colui che invita ogni essere umano ad avvicinarsi a Lui con fiducia.

Il segno della Croce è in qualche modo la sintesi della nostra fede, perché ci dice quanto Dio ci ha amati; ci dice che, nel mondo, c’è un amore più forte della morte, più forte delle nostre debolezze e dei nostri peccati. La potenza dell’amore è più forte del male che ci minaccia. E’ questo mistero dell’universalità dell’amore di Dio per gli uomini che Maria è venuta a rivelare qui, a Lourdes. Essa invita tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che soffrono nel cuore o nel corpo, ad alzare gli occhi verso la Croce di Gesù per trovarvi la sorgente della vita, la sorgente della salvezza.

La Chiesa ha ricevuto la missione di mostrare a tutti questo viso di un Dio che ama, manifestato in Gesù Cristo. Sapremo noi comprendere che nel Crocifisso del Golgota è la nostra dignità di figli di Dio, offuscata dal peccato, che ci è resa? Volgiamo i nostri sguardi verso il Cristo. È Lui che ci renderà liberi per amare come Egli ci ama e per costruire un mondo riconciliato. Perché, su questa Croce, Gesù ha preso su di sé il peso di tutte le sofferenze e le ingiustizie della nostra umanità. Egli ha portato le umiliazioni e le discriminazioni, le torture subite in tante regioni del mondo da innumerevoli nostri fratelli e nostre sorelle per amore di Cristo. Noi li affidiamo a Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, presente ai piedi della Croce.

[Papa Benedetto, omelia 150° anniversario Lourdes, 14 settembre 2008]

1. "Gioisci, santa Chiesa, poiché Cristo, il re dei cieli, ti ha coronata oggi con la sua croce e ha ornato le tue mura con lo splendore della sua gloria".

La vostra liturgia recita queste parole in numerose circostanze, cari fratelli e care sorelle del popolo armeno, che siete venuti qui per celebrare il vostro Giubileo.

"Cristo ti ha coronato oggi con la sua croce". Vergogna suprema, supplizio ignobile, la croce dei condannati è divenuta corona di gloria. Noi esaltiamo e veneriamo ciò che fu per tutti il segno esecrabile dell'abbandono e della vergogna. Come è possibile questo paradosso? L'inno che voi canterete nell'Officio di questa sera lo spiega:  "Su questa Santa Croce, o Dio, tu sei stato fissato, e su di essa hai versato il tuo sangue prezioso". La nostra salvezza ha la sua origine nell'umiliazione totale di Cristo.

"Io, quando sarò elevato da terra - dice - attirerò tutti a me" (Gv 12, 32).

Dal dolore inesprimibile dell'Amore nasce la potenza che trionfa sulla morte, e lo Spirito, effuso dal crocifisso sul mondo, restituisce all'albero secco dell'umanità il ricco fogliame del paradiso terrestre. 

L'umanità è stupefatta di fronte a questo mistero; non le resta che inginocchiarsi e adorare il disegno divino della nostra liberazione.

2. Fratelli e sorelle, qualche mese fa sono cominciate le celebrazioni dei millesettecento anni trascorsi dal battesimo del popolo armeno. Con questo gesto, compiuto dai vostri Padri, le acque sante della Redenzione hanno suscitato numerosi semi di vita e di prosperità fra le spine e i cardi che la terra aveva prodotto come conseguenza del peccato dei primi genitori. Questo Giubileo della Chiesa universale apre il vostro Giubileo, in un'ammirevole continuità di spirito e di contenuto teologico:  dalla Croce, dal costato del Signore crocifisso è sgorgata l'acqua del vostro Battesimo. Che questo anniversario sia l'occasione di un prezioso rinnovamento, di una speranza ritrovata, di una profonda comunione fra tutti coloro che credono in Cristo!

Il popolo armeno conosce bene la Croce:  la porta incisa nel suo cuore. È il simbolo della sua identità, delle tragedie della sua storia e della gloria della sua rinascita dopo ogni evento avverso. In ogni tempo, il sangue dei vostri martiri si è unito a quello del Crocifisso. Intere generazioni di Armeni non hanno esitato ad offrire la propria vita per non rinnegare la propria fede che, come dice uno dei vostri storici, vi appartiene come il colore appartiene alla pelle.

Le croci, di cui la vostra terra è disseminata, sono di pietra nuda, come nudo è il dolore dell'uomo; allo stesso tempo vi sono incise eleganti volute, per mostrare che tutto l'universo è santificato dalla Croce, che il dolore è redento. Questa sera, con la Croce voi benedirete i quattro punti cardinali, per ricordare che questo povero strumento di supplizio è divenuto il metro di giudizio del mondo, un simbolo cosmico della benedizione di Dio, che santifica tutto e feconda tutto.

3. Possa questa benedizione raggiungere le vostre regioni e portarvi serenità e fiducia! Prego innanzitutto il Signore crocifisso per le vostre comunità d'Armenia:  là nuove e gravi forme di povertà mettono alla prova i vostri fratelli e le vostre sorelle, provocando la tentazione di nuovi esodi per andare a cercare altrove i mezzi per vivere e garantire la sicurezza delle famiglie. Il vostro popolo chiede pane e giustizia, chiede alla politica di essere ciò che essa deve essere per vocazione profonda:  il servizio onesto e disinteressato al bene comune, la lotta affinché il più povero e il più abbandonato, sempre rivestito malgrado tutto della dignità indelebile di figlio di Dio, possa vivere un'esistenza degna e umana. Non abbandonate i vostri fratelli che soffrono:  oggi più che mai, che gli Armeni che vivono in tutto il mondo, i quali mediante il loro duro lavoro hanno conquistato una sicurezza economica e sociale, si prendano cura dei loro concittadini, in uno sforzo comune di rinascita!

Il Papa vuole portare oggi con voi la croce di quanti soffrono. Vi ricorda che, nelle privazioni e nelle sofferenze quotidiane, il vostro sguardo deve levarsi verso la Croce, da dove la salvezza continua a venire. Il Vangelo non è soltanto una consolazione, è anche un incitamento a vivere fino in fondo i valori che ridanno alla vita civile la sua dignità, eliminando alla radice, nel più profondo del cuore umano, la tentazione della violenza e dell'ingiustizia, dello sfruttamento dei piccoli e dei poveri da parte dei potenti e dei ricchi. È solo rimettendo Cristo Signore al centro della vita che la società sarà giusta e che l'egoismo di un esiguo numero di persone lascerà il posto al bene di tutti.

Oltre che ai cattolici, il mio ricordo e il mio saluto vanno ai figli della Chiesa armena apostolica:  che siano certi che il Papa di Roma segue con sollecitudine i loro sforzi per essere "il sale della terra e la luce del mondo", affinché il mondo creda e ritrovi la forza di sperare e di lottare. La Chiesa cattolica intende sostenere tale sforzo, come se fosse il suo, nell'amore che ci unisce tutti in Cristo.

4. Cari amici, su tutti voi qui presenti, su tutte le persone che vi sono care, su tutto il popolo armeno, invoco i benefici del Signore, in particolare per i malati, le persone anziane e tutti coloro che soffrono nel corpo e nell'anima.

Oggi sarò spiritualmente con voi nel vostro pellegrinaggio di fede, che è una dimensione fondamentale del Giubileo. Il pellegrinaggio ci ricorda che il nostro essere è in cammino verso la pienezza del Regno, che ci verrà donato quando, con riconoscente ammirazione, vedremo il Signore dei secoli ritornare nella gloria, recando sempre sul suo Corpo i segni della passione:  "per Crucem ad gloriam"

Non dimenticate di pregare anche per me, affinché il Signore guidi i miei passi lungo il cammino della pace!

A tutti imparto di cuore la mia Benedizione!

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Patriarcato Armeno 14 settembre 2000]

Lunedì, 02 Settembre 2024 11:45

Perché esaltare la Croce, segno di fallimento?

Il 14 settembre la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce. Qualche persona non cristiana potrebbe domandarci: perché “esaltare” la croce? Possiamo rispondere che noi non esaltiamo una croce qualsiasi, o tutte le croci: esaltiamo la Croce di Gesù, perché in essa si è rivelato al massimo l’amore di Dio per l’umanità. È quello che ci ricorda il Vangelo di Giovanni nella liturgia odierna: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Unigenito» (3,16). Il Padre ha “dato” il Figlio per salvarci, e questo ha comportato la morte di Gesù, e la morte in croce. Perché? Perché è stata necessaria la Croce? A causa della gravità del male che ci teneva schiavi. La Croce di Gesù esprime tutt’e due le cose: tutta la forza negativa del male, e tutta la mite onnipotenza della misericordia di Dio. La Croce sembra decretare il fallimento di Gesù, ma in realtà segna la sua vittoria. Sul Calvario, quelli che lo deridevano gli dicevano: “Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce” (cfr Mt 27,40). Ma era vero il contrario: proprio perché era il Figlio di Dio Gesù stava lì, sulla croce, fedele fino alla fine al disegno d’amore del Padre. E proprio per questo Dio ha «esaltato» Gesù (Fil 2,9), conferendogli una regalità universale.

E quando volgiamo lo sguardo alla Croce dove Gesù è stato inchiodato, contempliamo il segno dell’amore, dell’amore infinito di Dio per ciascuno di noi e la radice della nostra salvezza. Da quella Croce scaturisce la misericordia del Padre che abbraccia il mondo intero. Per mezzo della Croce di Cristo è vinto il maligno, è sconfitta la morte, ci è donata la vita, restituita la speranza. Questo è importante: per mezzo della Croce di Cristo ci è restituita la speranza. La Croce di Gesù è la nostra unica vera speranza! Ecco perché la Chiesa “esalta” la santa Croce, ed ecco perché noi cristiani benediciamo con il segno della croce. Cioè, noi non esaltiamo le croci, ma la Croce gloriosa di Gesù, segno dell’amore immenso di Dio, segno della nostra salvezza e cammino verso la Risurrezione. E questa è la nostra speranza.

Mentre contempliamo e celebriamo la santa Croce, pensiamo con commozione a tanti nostri fratelli e sorelle che sono perseguitati e uccisi a causa della loro fedeltà a Cristo. Questo accade specialmente là dove la libertà religiosa non è ancora garantita o pienamente realizzata. Accade però anche in Paesi e ambienti che in linea di principio tutelano la libertà e i diritti umani, ma dove concretamente i credenti, e specialmente i cristiani, incontrano limitazioni e discriminazioni. Perciò oggi li ricordiamo e preghiamo in modo particolare per loro.

Sul Calvario, ai piedi della croce, c’era la Vergine Maria (cfr Gv 19,25-27). E’ la Vergine Addolorata, che domani celebreremo nella liturgia. A Lei affido il presente e il futuro della Chiesa, perché tutti sappiamo sempre scoprire ed accogliere il messaggio di amore e di salvezza della Croce di Gesù.

[Papa Francesco, Angelus 14 settembre 2014]

XXII Domenica del Tempo Ordinario B (1 settembre 2024)

1. “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. L’affermazione si trova nella prima lettura tratta dal libro del Deuteronomio e si riferisce a ciò che tutti potrebbero dire di Israele, quando resta fedele all’Alleanza. Il progetto del Creatore è che, attratti dall’esempio di questo piccolo popolo che si è scelto come nucleo trascinante dell’umanità, venga il giorno in cui da ogni continente la gente chieda di far parte del popolo della nuova alleanza e possa gridare con gioia di aver trovato finalmente la gioia di vivere e di viver insieme con l’unico Dio, Dio di tutti i popoli.  I testi biblici di questa XXII Domenica del tempo ordinario ci aiutano a scoprire qual è l’inghippo, meglio l’ostacolo alla realizzazione di tale sogno divino.  La prima lettura tratta dal Deuteronomio (redatto tra l’VIII e VI secolo A.C.) attribuisce il discorso a Mosè, anche se in verità risale a molti anni dopo la sua morte, ma è come se si volesse ripetere quanto egli avrebbe detto in quel momento se fosse vivo. Qui si insiste che nulla si aggiunga e nulla si tolga alla Legge da Dio donata a Mosè sul Sinai perché purtroppo il popolo con il tempo si era allontanato ed urgeva ribadire l’essenziale della fede ebraica, l’osservanza cioè della Torah che tiene viva nei secoli l’Alleanza. L’Alleanza tra Yahweh e il suo popolo reca in sé due aspetti inscindibili. Da una parte Dio ha compiuto fedelmente quanto aveva promesso (una terra al suo popolo), mentre non si può dire altrettanto della risposta di Israele. Da quando infatti è entrato nella terra promessa, la terra di Canaan, non ha resistito alla tentazione di abbandonare l’unico Dio e i suoi precetti (mitzvot) per rivolgersi agli idoli di quelle popolazioni. Il Signore gli aveva donato la terra perché vi vivesse in modo santo e il termine “santo” (Kadosh) indica qualcuno o qualcosa che è distinto dal resto, nel bene o nel male, e potrebbe tradursi con “separato”. Parliamo di Terra santa, ma meglio sarebbe dire “Terra separata”, territorio donato a Israele perché vi viva in maniera diversa e questo significa almeno tre cose. In primo luogo, è una terra destinata ad essere la patria d’un popolo felice perché fedele al proprio Dio; in secondo luogo è una terra chiamata a diventare terra di giustizia e di pace perché il popolo ha appreso dalla bocca del suo Dio che non è il solo popolo al mondo e che quindi deve imparare a coabitare con altri. Da questo punto di vista la lunga storia biblica d’Israele può leggersi come un cammino di difficile conversione dalla violenza alla fraterna apertura agli altri. In terzo luogo, la Terra santa costituisce nel progetto divino lo spazio per imparare a vivere interamente secondo la Torah. Comprendiamo allora il comando del Signore: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi”. Se questo testo risale all’epoca dell’esilio a Babilonia, si potrebbe interpretare così: Israele non avrebbe mai perso questa Terra se avesse seguito la Torah e i comandi del suo Dio, ma ora che sta per rientrarvi, cerchi almeno questa volta di essere fedele a quanto garantisce la sua felicità. Essere fedele per Israele però non appariva facile ed è per questo che l’autore sacro, per incoraggiarlo, inventa un nuovo argomento: “udendo parlare di tutte queste leggi”, cioè vedendo la vita e lo stile che lo anima, le altre popolazioni diranno : “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Qui si avverte l’eco del libro dei Proverbi che considera l’accoglienza della Sapienza (Pr 9, 1-6 che abbiamo ascoltato nella scorsa XX domenica del tempo ordinario) il modo migliore di imparare a vivere. Infine, un ultimo argomento: la dolcezza della vita secondo l’Alleanza è l’esperienza spirituale unica al mondo di cui Israele ha avuto il privilegio: .“Quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?”.

2. A nostra volta, noi popolo di battezzati possiamo parafrasare e ripetere: “Quale grande nazione ha gli dei tanto vicino come il Signore lo è verso di noi ogni volta che lo invochiamo?”. Questa domanda ci provoca e per tentare una risposta occorre partire da un’altra parola di Gesù che troviamo oggi nel vangelo: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Siamo nel cuore di una controversia con i farisei che rimproverano i suoi discepoli di non osservare la Torah. Si fa cenno qui alla “tradizione degli antichi”: la parola tradizione ripetuta nel versetto 3 e  5 non va intesa in senso dispregiativo. Essa anzi costituisce la ricchezza di quanto gli antenati hanno cercato di insegnare circa la Legge divina e hanno codificato, sotto forma di precetti, i comportamenti graditi a Dio, che concernono ogni più piccolo dettaglio della vita quotidiana. Per tale motivo i farisei ritenevano l’osservanza di tale disciplina indispensabile per preservare l’identità del popolo ebreo. Israele si sentiva una nazione “separata” per appartenere a Dio e quindi ogni contatto con i pagani costitutiva un impedimento alla propria fedeltà all’Alleanza. Ecco perché i farisei s’indignano contro i discepoli di Cristo per il fatto che vanno contro la Legge mangiando senza essersi lavate le mani.  Citando il profeta Isaia Gesù li definisce “ipocriti” e questa sua severità sottintende un problema di fondo, che interpella la nostra vita. In verità anche Gesù cita le Scritture che sono per tutti il riferimento supremo d’ogni scelta e dice: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” . Qui sta il problema: l’osservanza fedele d’ogni norma della Legge diventa un culto inutile se le dottrine che s’insegnano si riducono a  precetti umani, come già i profeti avevano più volte dichiarato (Cf Is 29,13). Gesù afferma: Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Quale sia il comandamento di Dio a cui faccia riferimento, che farisei e scribi calpestano, Gesù non lo dice, ma rimprovera loro di “avere il cuore lontano da Dio”. Torna spesso nel Vangelo questo rimprovero del Signore - lottando contro ogni esclusione compiuta in nome di Dio e questa è la tela di fondo delle sue controversie con le autorità religiose. Si comprende in modo errato la legge divina se si crede che per avvicinarsi a Dio bisogna separarsi dagli altri uomini. Al contrario i profeti hanno dispiegato ogni energia per far scoprire che il vero culto gradito al Cielo comincia con il rispetto di ogni persona umana. Se nel Levitico leggiamo: “Siate santi, perché io, il SIGNORE vostro Dio, sono santo” (19,2), non dimentichiamo che lo stesso Dio è annunciato da Isaia come il Dio del perdono (Is 43) che non può mai condurre al disprezzo degli altri. E Gesù spiega poi in cosa consiste la vera “purità”, cioè il culto autentico reso a Dio. Se in senso biblico “purità” indica la maniera di avvicinarsi a Dio, la vera purità del cuore, come molti profeti hanno ripetuto,  è l’amore e il perdono, la tenerezza e l’accoglienza: in una parola la misericordia, mentre l’impurità che condanna nei suoi avversari è l’indurimento del cuore perché è ciò che fuoriesce dal cuore umano a renderci impuri.

3. Gesù infatti si rivolge poi ai discepoli e completa così il suo insegnamento: Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo. Bisogna riconoscere che si tratta di un insegnamento difficile da comprendere non solo per i farisei, ma anche per noi. E’ però una lezione di vita che riusciamo a comprendere ed accettare appieno solamente grazie al fatto che Dio è venuto ad abitare fra noi mostrando con il suo esempio di non aver paura del contatto con gli esseri impuri che noi siamo. E per incoraggiare i discepoli subito dopo Gesù se ne va in una regione abitata da pagani.  Come ai tempi di Cristo, esiste il rischio dei farisei che era il movimento religioso nato verso il 135 a.C. dal desiderio di sincera conversione. Il termine fariseo significa “separato” e si traduce nel rifiuto di ogni compromesso politico e di ogni lassismo nella pratica religiosa. Si tratta di due problemi molto sentiti e Gesù non attacca mai i farisei e non rifiuta di parlare con loro, come fa con Nicodemo (Gv 3) e con Simone ( Lc 7). Ma la pretesa di ogni più alto ideale spirituale e religioso può avere la sua trappola: il rigore dell’osservanza può generare una coscienza talmente centrata sulla ricerca dell’ottimo, da disprezzare chi non arriva a farlo. Più in profondità, quando si concepisce la perfezione nel vivere in maniera esclusiva e “separati” si dimentica che il progetto di Dio è di vedere tutti gli uomini riuniti nell’amore. Se Gesù usa talora parole dure non è contro la pratica dei farisei, ma condanna quelle deviazioni che riguardano ciò che si definisce “fariseismo” e di questo rischio non è esente nessun movimento religioso, compreso il cristianesimo.

Buona domenica e buon mese di settembre 

+Giovanni D’Ercole 

Sabato, 31 Agosto 2024 12:36

Travi e pagliuzze, mole e Frutto

Per una convivenza trasparente

(Lc 6,39-42 )

 

Nelle assemblee dei primi secoli i battezzati erano detti «illuminati», persone in grado di orientarsi, scegliere e farsi autonomi.

Il Signore non consentiva ai suoi di fregiarsi del ruolo di “guide” della vita altrui (v.39).

Gli apostoli di tutti i tempi devono solo annunciare e restare discepoli, ossia alunni dello Spirito - non fare gli esperti.

La via di Dio è il Cristo stesso. Non può essere comunicata da docenti: non è un’informazione che va a colmare teste vuote e vicende inutili, da riempire di esteriorità.

Il contesto del brano di oggi abolisce il giudizio, nell’ideale d’una esistenza personale trasformata in ricchezza e dono - che ridicolizza ogni tendenza di dominio.

Nessuno è padrone della sorte e della personalità di chi non si orienta, altrimenti tutti vanno fuori strada (v.39) - pur coi migliori propositi.

Gesù stesso non comandava né dirigeva, ma educava e aiutava. I rabbini si facevano pagare: Lui offriva tutto, vivendo coi suoi per una reciproca identificazione (però a maglie larghe).

Atteggiamento trasparente e creativo: questa la vera e unica norma di condotta per gli apostoli di tutti i tempi, spesso non in grado di cogliere la loro stessa cecità - perché ancora unilaterali.

Poi, d’una pianta non conta la mole e l’apparenza, ma il frutto (vv.43-45). Motivo in più per risottolineare che gli animatori di chiesa non sono superiori agli altri, né i depositari di verità assolute.

Infatti Gesù è imparagonabile: Maestro sui generis (v.40).

Non ha un’aula arredata con cattedra e banchi. E ancora insegna lungo la strada: lì c’introduce a incontrare noi stessi, i fratelli e la realtà circostante (in un processo, in un cammino).

Non tiene tranquille lezioni di chiosa, compilatorie o moralistiche: stupisce.

Non reinterpreta il ginepraio di saperi, costumanze e disposizioni arcaiche - autentiche «travi» (vv.41-42) ficcate nell’occhio libero dell’anima, che ne deformano lo sguardo.

Propone la sua Persona e la sua Vita. Nonché i suoi rimproveri - ma proprio quelli e non altri (scontati) volatili come «pagliuzze» (vv.41-42).

Ciò mentre i falsi maestri si ritenevano amici di Dio e destinatari di ovvio riconoscimento.

Da come si atteggiavano, sembrava si sentissero nettamente superiori non solo alla gente, ma allo stesso Maestro (v.40).

Ma Egli li bolla per quello che sono: «ipocriti» (v.42). In lingua greca significa teatranti, gente che recita.

Gesù mette in guardia i suoi [che a parole lo chiamano volentieri Signore: v.46] dalla presunzione di fare i capitani della truppa.

C’è un solo Maestro che dirige e sa dove andare; e unica ogni persona - forse inesperta e ritenuta cieca, ma che vede meglio dei grandi nomi. 

Questi, dal loro cattivo tesoro tireranno fuori - appena dietro l’angolo - il brutto e corrotto anche per gli altri [vv.43-45; testo greco].

Invece l’uomo di Fede prova ancora una nuova Beltà dentro, che vuole esprimersi e restare di prima mano - non accontentarsi di strappare un “pareggio mediocre”.

Peggiore dei fossi (v.39) in cui si cade insieme.

 

 

[Venerdì 23.a sett. T.O.  13 settembre 2024]

Sabato, 31 Agosto 2024 12:32

Per una convivenza trasparente

Gesù e la mania di governare

Lc 6,39-42 (39-45)

 

 

«Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» (Papa Francesco FT n.100).

 

Per vivere in modo fraterno e sapiente non basta stare insieme in due, tre, dieci o più: potremmo essere come tanti ciechi che non sanno dimorare con se stessi.

In tal caso, la vita di relazione si fa esteriore e può diventare vuota - solo colma di giudizi: fiscale, ostinata e pedestre.

Allora sorge dentro il risentimento, per essere costretti in uno spazio maniacale che non ci corrisponde.

L’inevitabile malessere inizia a declinare se e quando proprio chi coordina la comitiva o la compagnia vive il suo esser vicino con estrema modestia, con senso dei suoi stessi confini.

La Via dello Spirito è infatti iniziativa-risposta vocazionale al bisogno di una Guida autentica.

I pastori autentici aiutano solo quando si mettono in discussione prima degli altri, quando non restano impigliati in un esercizio di vacuo indottrinamento e moralismo che esacerba gli animi, indispettisce.

Così l’Amico interiore che conduce infallibilmente le anime vuole sì riflettersi nei “maestri” - ma nella misura in cui essi c’introducono a incontrare noi stessi e la saggezza della Scrittura (più volentieri che a trastullarsi in propri ambiti megalomani).

Commentando il Tao xxix, il maestro Ho-shang Kung puntualizza (di chi vuol essere signore del mondo):

«Vuole governare le creature con l’azione. A mio parere non vi riuscirà, poiché la Via del Cielo e il cuore degli uomini sono chiari.

La Via del Cielo [Perfezione dell’armonia] detesta la confusione [riguardo la propria natura, spontaneamente espressa] e l’impurità [artifizio], il cuore umano detesta le troppe brame».

 

L’antico popolo eletto s’è ritrovato duro di cuore, smarrito e privo di orizzonte, perché malguidato da capi religiosi fiscali e terra terra.

La loro cecità ottenebrante e artificiosa è stata la rovina concreta del destino e della qualità di vita di tutta la nazione.

Gesù si rivolge agli apostoli affinché le sue assemblee d’ingenui, umili e disorientati non facciano la medesima fine - a motivo d’una mancanza di rettitudine proprio dei responsabili di comunità.

Questi ultimi - se inebriati da autocompiacimento - talora invece di umanizzare, promuovere e rallegrare l’esistenza della gente comune, volentieri la soffocano di minuzie e deviano verso nullaggini.

Il Signore non vuole assolutamente che gli animatori delle sue fraternità si permettano il lusso di farsi superiori agli altri e padroni della verità. La Verità evangelica non è qualcosa che si ha, ma che si fa.

 

Il Maestro non è colui che impartisce lezioni: accompagna gli allievi e vive con loro; non si limita alle maniere.

Non insegna materie varie, etichetta, manierismi, buona creanza: trasmette piuttosto la Persona viva e globale del Cristo - anche quella senza galateo - non spersonalizzando il discepolo.

Insomma, il Risorto non è solo un esempio da imitare, un modello che fa assumere impegni e minuzie, un fondatore d’istituto, d’ideologia mirata, o di religione (grammatica, dottrina, stile e disciplina).

In Gesù siamo chiamati a identificarci - non “a orecchio”, né copiando. La Fede stessa è relazione poliedrica.

Essa ci spinge a reinterpretare Cristo in modo inedito; ciascuno di noi in correlazione alla storia di vita, alle nuove situazioni, accadimenti, emergenze culturali, sensibilità, genio del tempo.

È l’esperienza diretta e personale del Padre come propugnata dal Figlio. Conquista che sconvolge le misure puerili, mondane o consuetudinarie.

Scaturigine e appropriazione che consente di coglierci temerariamente già redenti, per passare dalle tenebre alla luce senza condizioni né trafile martellanti.

 

Quella del Signore è Luce frutto d’Azione inedita e forte dello Spirito.

Intuizione dei segni e Virtù che vince il disorientamento d’ogni sviato, se prigioniero di opinioni, piccinerie, egoismo solitario e non.

Energia inattesa che tuttavia scende in campo anche grazie alle situazioni paludose cui sente di reagire; e si fa potenza rigenerante, vita inaspettata (dei salvati già qui e ora).

Cristo chiede un atteggiamento inventivo anche nel porgersi al fratello - senza schemi e codicilli preconcetti, asfissianti, morbosi o cerebrali; senza forse, solo per accogliere. 

Apertura quasi impossibile, se i ministri di comunità restano distratti o sono già tarati - quindi verso gli altri inutilmente rigidi.

In tal guisa essi resterebbero puntigliosi, più impazienti del Dio pagano che hanno ancora in corpo e in testa.

 

Tutti noi, gratuitamente risanati, siamo appunto stati chiamati per Nome: in modo speciale - e ad orientare i fratelli su opzioni fondamentali. Quali guide esperte dell’anima e della intensità di relazione.

Non comandanti e reggitori senza possibilità di ricambio: bensì pane, sostegno, alimento, segno luminoso del Signore, pungolo in favore della vita altrui.

I responsabili di chiesa devono essere particolarissimi punti di riferimento e cardini di comunione estrosa, rigenerante - dai quali traspare la persistenza e tolleranza d’una superiore forza di reciprocità.

L’occhio del fedele in Cristo rimane limpido e luminoso perché trova Amici geniali che lo introducono a confrontarsi e rispecchiarsi non con modelli esterni e indotti (da opinioni o propositi), ma con la Parola.

 

Condizionati dal bombardamento della “società dell’esterno” o da banali interessi di parte, la stessa guida spirituale può viceversa smarrire il discernimento creativo.

Così si riattacca all’uomo vecchio, legato a corte speranze; tanti piccini e trascurabili nonnulla - infine ridiventa «cieco».

Nel regno delle tenebre s’annoverano purtroppo non solo miopi, ipermetropi o astigmatici, ma soprattutto coloro che vedono “lontano” (come si dice) ma non le persone sotto gli occhi.

Più svelti e organizzati di altri, prendono in pugno la situazione.

A lungo le cose in loro compagnia sembrano piacevoli, ma non avendo radice profonda, infine proprio costoro rovinano il destino dei malfermi.

Allestiscono eventi o festival, invece di riqualificare da dentro, e intonare il canto autentico della vita completa, lieta per tutti.

 

Oltre i difetti di vista, attenzione anche alla «misura»: non siamo chiamati a diventare gentiluomini buonisti e impeccabili, né rinunciatari un pochino più avveduti e “concreti”.

Tutti questi sono già vecchi fallimenti, che non guardano in faccia il presente e non aprono futuro.

Abbiamo ricevuto in Dono la Missione di edificare il mondo nel Risorto, che sprigiona forza e scintilla divina: cieli e terra radicalmente nuovi, anche nelle nostre ricerche.

Figuriamoci soffermarsi sulle «pagliuzze».

Insomma, per grazia, guida, orientamento propulsivo e azione, l’Azione genuina della Provvidenza vitale ci allontana dal signoreggiare di antiche sovrastrutture [«travi» nell’occhio].

Con tale bagaglio personale ci si può anche fare accompagnatori di un’umanità non più alienata, bensì messa in grado di respirare oltre i soliti fervorini… che incitano bazzecole.

Malgrado i difetti, guidati e benedetti dal Maestro grande e dalla sua Parola nello Spirito, sarà il nostro desiderio di pienezza di vita ampia e completa, a non farci perdere di vista la nostra sacra Unicità nel mondo.

 

 

 

Travi e pagliuzze, mole e Frutto

 

L’enciclica Fratelli Tutti invita a uno sguardo prospettico, che suscita la decisione e l’azione: un occhio nuovo, colmo di Speranza.

Essa «ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. [...] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa» (n.55; da un Saluto ai giovani de L’Avana, settembre 2015).

 

Nelle assemblee dei primi secoli i battezzati erano detti illuminati, persone in grado di orientarsi, scegliere e farsi autonomi.

Il Signore non consentiva ai suoi di fregiarsi del ruolo di guide della vita altrui, che facilmente potevano viceversa affossare (v.39).

Pertanto non abilitava alcuno a insegnare (cf. testo greco dei Vangeli, passim) in comunità o fuori di essa.

Gli apostoli di tutti i tempi devono solo annunciare e restare discepoli, ossia alunni dello Spirito - non fare i dittatori e gli esperti.

La via di Dio è il Cristo stesso. Non può essere comunicata da docenti: non è un’informazione che va a colmare teste vuote e vicende inutili, da riempire di esteriorità targate.

Il contesto del brano di oggi abolisce il giudizio, nell’ideale d’una esistenza personale trasformata in ricchezza e dono - che ridicolizza ogni tendenza al dominio.

Nessuno è padrone della sorte e della personalità di chi non si orienta, altrimenti - pur coi migliori propositi - tutti vanno fuori strada (v.39).

Gesù stesso non comandava né dirigeva, ma educava e aiutava. I rabbini si facevano pagare: Lui offriva tutto, vivendo coi suoi (per una reciproca identificazione, però a maglie larghe).

Atteggiamento trasparente e creativo: questa la vera e unica norma di condotta per gli apostoli di tutti i tempi - spesso non in grado di cogliere la loro stessa grande cecità (perché ancora unilaterali).

Poi, d’una pianta non conta la mole e l’apparenza, ma il frutto (vv.43-45). Motivo in più per risottolineare che gli animatori di chiesa non sono superiori agli altri, né depositari di verità assolute.

Infatti Gesù è imparagonabile: Maestro sui generis (v.40).

Non ha un’aula arredata con cattedra e banchi. E ancora insegna lungo la strada: lì c’introduce a incontrare noi stessi, i fratelli e la realtà circostante (in un processo, in un cammino).

Non tiene tranquille lezioni di chiosa, compilatorie o moralistiche: stupisce.

Non reinterpreta il ginepraio di saperi, costumanze e disposizioni arcaiche - autentiche travi (vv.41-42) ficcate nell’occhio libero dell’anima, che ne deformano lo sguardo.

Propone la sua Persona e la sua Vita. Nonché i suoi rimproveri - ma proprio quelli e non altri (scontati) volatili come pagliuzze (vv.41-42).

 

Per il Signore, la buona indole non è questione di carattere (remissivo, come per secoli si è inteso): essa è solo nell’apertura alla missione, che via via dilata la vita di tutti, e le prospettive.

In tal guisa Gesù non dava lezioni saccenti o a pillole, né proponeva modelli cui attenersi; a seguire però qualcuno ha preteso farlo in nome suo. Il risultato è oggi un bel garbuglio.

L’insegnamento autentico del Signore fa spazio, sconvolge i cattedratici, ribalta le aspettative normali.

Quindi sono proprio i suoi “esperti” che rischiano di comportarsi da sbandati e guide cieche. Purtroppo, rischiando di rovinare la vita altrui.

Vediamo in questi tempi come sia pericoloso smarrire la luce del Vangelo.

Dopo una prima scelta, sono proprio coloro che si ritengono eletti a degradare l’atmosfera ecclesiale.

Il senso di supremazia e spocchia, nonché il giro di cordate “dollaro e lingotto”, recano con sé ogni vizio.

Ciò mentre i falsi maestri si ritengono amici di Dio e destinatari di ovvio riconoscimento.

Da come si atteggiano, sembra si sentano ancora nettamente superiori non solo alla gente, ma allo stesso Maestro (v.40).

Per non mettere in discussione se stessi, essi proiettano i propri squilibri inespressi e condannano gli altri - tutti coloro che non vogliono tacitare le grandi domande di senso - “nemici”.

Cercano con ogni mezzo anche illecito d’imporre le proprie convinzioni: idee e modi di vivere che per primi contestano e nemmeno credono. Un diritto che neppure Gesù si è mai arrogato.

Figuriamoci i pedissequi «piccoli mostri» (come dice Papa Francesco) che derivano da questi vanitosi, evidentemente sognando di ereditarne la popolarità, le benemerenze; agi, servitù, trine, ori e palazzi.

Ancora oggi il Risorto li bolla per quello che sono: «ipocriti» (v.42). In lingua greca significa teatranti, gente che recita - di belle maniere e pessime abitudini.

Commedianti profondamente offesi di doversi adattare agli altri - e persino sentirsi “loro” inviati a chiamare tutti alle Nozze (Mt 22,8-9).

 

Il continuo chiedere dazio dei marpioni pieni di pretese, esclusivisti da fiction, ha gravi risvolti spirituali e pastorali.

Presunzione, boria e senso di superiorità chiudono la percezione delle inclinazioni e risorse di credenti e famiglie - motore dell’entusiasmo della vita e principio d’incisività, esuberanza e ricambio pastorale.

Gesù mette in guardia i suoi (che a parole lo chiamano volentieri «Signore»: v.46) dalla tronfiezza di fare i capitani della truppa.

Col pericolo che mentre Dio mette in campo Doni, i suoi direttori li stronchino uno ad uno.

C’è un solo Maestro che guida e sa dove andare; e unica ogni persona - forse inesperta e ritenuta cieca, ma che vede meglio dei super-titolati e dei grandi nomi (superApostoli con tutto il codazzo).

L’uomo calcolatore e tarato dalla religione [consuetudini dottrina-disciplina] può facilmente restare fermo sui seggiolini, coi bei paraventi dietro cui immagina di proteggersi, alimentarsi e sentenziare.

Ma dal suo cattivo tesoro riciclato tirerà fuori - appena dietro l’angolo - il «brutto e corrotto» anche per gli altri (vv.43-45; testo greco).

Invece l’uomo di Fede prova ancora una nuova Beltà dentro, che vuole esprimersi e restare di prima mano - quindi non sarà mai un attore di parti altrui, né regista o protagonista di ogni piega.

Neppure qualcuno che - senza rispetto di sé e della Chiamata per Nome - s’accontenta di sottomettere l’anima a recitanti di agenzie alla moda o di plagio, cui strappare elemosine o un “pareggio mediocre”.

Peggiore dei fossi (v.39) in cui si cade insieme.

 

 

Parallelo di Mt:

 

Travi e pagliuzze: eliminare preconcetti

 

Per una convivenza trasparente

(Mt 7,1-5)

 

Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.

Non mancavano episodi di disprezzo (anche reciproco) acceso in specie da veterani abituati a mettere sotto inchiesta i nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.

Ma non siamo giudici, bensì famigliari. E certo, in ultima analisi è proprio la malizia che aguzza l’occhio sui minimi difetti altrui: in genere, pagliuzze e mancanze esterne.

Ciò mentre la medesima scaltrezza sorvola enormità proprie - pesantissima trave che ci separa non solo da Dio e da tutti, ma perfino da noi stessi, accostandoci all’io egoista e arrogante.

«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.

Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del di più che ci circonda e chiama.

Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).

Ben sappiamo quant’è dura metterci in discussione, o educare proprio i religiosi perfezionisti a successivi distacchi da loro convincimenti accidentali, diventati per abitudine sclerotici come totem.

Insomma, negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.

Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di Giustizia maggiore che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni  spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.

L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.

I preconcetti devoti parevano un macigno insuperabile per la vita personalizzante e di condivisione reciproca secondo la nuova logica delle Beatitudini [Mt 5,1-12: Autoritratto di Cristo come “libro aperto” (a colpi di lancia)].

Il bagaglio culturale legato agli adempimenti, al senso di dovere e gerarchia, allo stile di vita assuefatto e alle vecchie credenze (che facevano fatica a essere deposte) moltiplicava giudizi severi reciproci fra generazioni e tra variegate impostazioni culturali.

Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.

Egli infatti sapeva recuperare e desiderava valorizzare tutte le singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.

Solo la sua forte radice nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.

Ciò per una trasparenza ricca e globale, da proporre anche ai discepoli.

In tal guisa, non si configurava l’adesione a credenze particolari, né la ripetizione delle solite discipline di perfezione.

Neppure dovevano prediligersi le pie osservanze di massa, talora primo impedimento al dialogo e all’Esodo - nelle sue differenti opulenze.

Poi la vita stessa avrebbe in modo provvidente guidato ciascuno verso una specifica testimonianza, che potesse essa stessa creare un’altra apertura (attinente il proprio carattere e vocazione d’anima).

 

In Palestina il Signore non si era mostrato ossessivo e unilaterale, né ridotto a schemi normali e verosimili - sulla base di codici culturali, prudenze valutative, o paradigmi morali e religiosi.

La fiducia nel Padre e nella vita che viene donava al Maestro Gesù la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.

Un’apertura conviviale alle differenze, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità nello Spirito delle Beatitudini.

Il senza-condizioni dell’Amore vale sempre in primis per il discepolo, i membri della medesima comunità, e il prossimo.

Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla di preconcetti-a-monte e convincimenti relativi.

Creati per amare la verità eccezionale della donna e dell’uomo, non per spegnere le unicità e sentenziare sui nonnulla.

Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino di novità e un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi volti intimi (sostenuti dal Padre), o nel fratello pur eccentrico.

 

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» (Tradizione orale africana Peul).

«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare Individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima, appunto perché non è universale» (Tagore).

«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» (Sobonfu Somé).

«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» (Gandhi).

 

 

Travi e pagliuzze: situazione paradossale, dove talora c’è un eccesso di “credo” - eppure manca la Fede.

Fratelli e sorelle,

la Quaresima ci offre ancora una volta l'opportunità di riflettere sul cuore della vita cristiana: la carità. Infatti questo è un tempo propizio affinché, con l'aiuto della Parola di Dio e dei Sacramenti, rinnoviamo il nostro cammino di fede, sia personale che comunitario. E' un percorso segnato dalla preghiera e dalla condivisione, dal silenzio e dal digiuno, in attesa di vivere la gioia pasquale.

Quest’anno desidero proporre alcuni pensieri alla luce di un breve testo biblico tratto dalla Lettera agli Ebrei: «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (10,24). E’ una frase inserita in una pericope dove lo scrittore sacro esorta a confidare in Gesù Cristo come sommo sacerdote, che ci ha ottenuto il perdono e l'accesso a Dio. Il frutto dell'accoglienza di Cristo è una vita dispiegata secondo le tre virtù teologali: si tratta di accostarsi al Signore «con cuore sincero nella pienezza della fede» (v. 22), di mantenere salda «la professione della nostra speranza» (v. 23) nell'attenzione costante ad esercitare insieme ai fratelli «la carità e le opere buone» (v. 24). Si afferma pure che per sostenere questa condotta evangelica è importante partecipare agli incontri liturgici e di preghiera della comunità, guardando alla meta escatologica: la comunione piena in Dio (v. 25). Mi soffermo sul versetto 24, che, in poche battute, offre un insegnamento prezioso e sempre attuale su tre aspetti della vita cristiana: l'attenzione all'altro, la reciprocità e la santità personale.

1. “Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

L’attenzione all’altro comporta desiderare per lui o per lei il bene, sotto tutti gli aspetti: fisico, morale e spirituale. La cultura contemporanea sembra aver smarrito il senso del bene e del male, mentre occorre ribadire con forza che il bene esiste e vince, perché Dio è «buono e fa il bene» (Sal 119,68). Il bene è ciò che suscita, protegge e promuove la vita, la fraternità e la comunione. La responsabilità verso il prossimo significa allora volere e fare il bene dell'altro, desiderando che anch'egli si apra alla logica del bene; interessarsi al fratello vuol dire aprire gli occhi sulle sue necessità. La Sacra Scrittura mette in guardia dal pericolo di avere il cuore indurito da una sorta di «anestesia spirituale» che rende ciechi alle sofferenze altrui. L’evangelista Luca riporta due parabole di Gesù in cui vengono indicati due esempi di questa situazione che può crearsi nel cuore dell’uomo. In quella del buon Samaritano, il sacerdote e il levita «passano oltre», con indifferenza, davanti all’uomo derubato e percosso dai briganti (cfr Lc 10,30-32), e in quella del ricco epulone, quest’uomo sazio di beni non si avvede della condizione del povero Lazzaro che muore di fame davanti alla sua porta (cfr Lc 16,19). In entrambi i casi abbiamo a che fare con il contrario del «prestare attenzione», del guardare con amore e compassione. Che cosa impedisce questo sguardo umano e amorevole verso il fratello? Sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di «avere misericordia» verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero. Invece proprio l’umiltà di cuore e l'esperienza personale della sofferenza possono rivelarsi fonte di risveglio interiore alla compassione e all'empatia: «Il giusto riconosce il diritto dei miseri, il malvagio invece non intende ragione» (Pr 29,7). Si comprende così la beatitudine di «coloro che sono nel pianto» (Mt 5,4), cioè di quanti sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. L'incontro con l'altro e l'aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine.

Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo. Nella Sacra Scrittura leggiamo: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s). Cristo stesso comanda di riprendere il fratello che sta commettendo un peccato (cfr Mt 18,15). Il verbo usato per definire la correzione fraterna - elenchein - è il medesimo che indica la missione profetica di denuncia propria dei cristiani verso una generazione che indulge al male (cfr Ef 5,11). La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recrimina-zione; è mosso sempre dall’amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello. L’apostolo Paolo afferma: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi.

2. “Gli uni agli altri”: il dono della reciprocità.

Tale «custodia» verso gli altri contrasta con una mentalità che, riducendo la vita alla sola dimensione terrena, non la considera in prospettiva escatologica e accetta qualsiasi scelta morale in nome della libertà individuale. Una società come quella attuale può diventare sorda sia alle sofferenze fisiche, sia alle esigenze spirituali e morali della vita. Non così deve essere nella comunità cristiana! L’apostolo Paolo invita a cercare ciò che porta «alla pace e alla edificazione vicendevole» (Rm 14,19), giovando al «prossimo nel bene, per edificarlo» (ibid. 15,2), senza cercare l'utile proprio «ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1 Cor 10,33). Questa reciproca correzione ed esortazione, in spirito di umiltà e di carità, deve essere parte della vita della comunità cristiana.

I discepoli del Signore, uniti a Cristo mediante l’Eucaristia, vivono in una comunione che li lega gli uni agli altri come membra di un solo corpo. Ciò significa che l'altro mi appartiene, la sua vita, la sua salvezza riguardano la mia vita e la mia salvezza. Tocchiamo qui un elemento molto profondo della comunione:la nostra esistenza è correlata con quella degli altri, sia nel bene che nel male; sia il peccato, sia le opere di amore hanno anche una dimensione sociale. Nella Chiesa, corpo mistico di Cristo, si verifica tale reciprocità: la comunità non cessa di fare penitenza e di invocare perdono per i peccati dei suoi figli, ma si rallegra anche di continuo e con giubilo per le testimonianze di virtù e di carità che in essa si dispiegano. «Le varie membra abbiano cura le une delle altre»(1 Cor 12,25), afferma San Paolo, perché siamo uno stesso corpo. La carità verso i fratelli, di cui è un’espressione l'elemosina - tipica pratica quaresimale insieme con la preghiera e il digiuno - si radica in questa comune appartenenza. Anche nella preoccupazione concreta verso i più poveri ogni cristiano può esprimere la sua partecipazione all'unico corpo che è la Chiesa. Attenzione agli altri nella reciprocità è anche riconoscere il bene che il Signore compie in essi e ringraziare con loro per i prodigi di grazia che il Dio buono e onnipotente continua a operare nei suoi figli. Quando un cristiano scorge nell'altro l'azione dello Spirito Santo, non può che gioirne e dare gloria al Padre celeste (cfr Mt 5,16).

3. “Per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”: camminare insieme nella santità.

Questa espressione della Lettera agli Ebrei (10,24) ci spinge a considerare la chiamata universale alla santità, il cammino costante nella vita spirituale, ad aspirare ai carismi più grandi e a una carità sempre più alta e più feconda (cfr 1 Cor 12,31-13,13). L'attenzione reciproca ha come scopo il mutuo spronarsi ad un amore effettivo sempre maggiore, «come la luce dell'alba, che aumenta lo splendore fino al meriggio» (Pr 4,18), in attesa di vivere il giorno senza tramonto in Dio. Il tempo che ci è dato nella nostra vita è prezioso per scoprire e compiere le opere di bene, nell’amore di Dio. Così la Chiesa stessa cresce e si sviluppa per giungere alla piena maturità di Cristo (cfr Ef 4,13). In tale prospettiva dinamica di crescita si situa la nostra esortazione a stimolarci reciprocamente per giungere alla pienezza dell'amore e delle buone opere.

Purtroppo è sempre presente la tentazione della tiepidezza, del soffocare lo Spirito, del rifiuto di «trafficare i talenti» che ci sono donati per il bene nostro e altrui (cfr Mt 25,25s). Tutti abbiamo ricevuto ricchezze spirituali o materiali utili per il compimento del piano divino, per il bene della Chiesa e per la salvezza personale (cfr Lc 12,21b; 1 Tm 6,18). I maestri spirituali ricordano che nella vita di fede chi non avanza retrocede. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l'invito sempre attuale a tendere alla «misura alta della vita cristiana» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte [6 gennaio 2001], n. 31). La sapienza della Chiesa nel riconoscere e proclamare la beatitudine e la santità di taluni cristiani esemplari, ha come scopo anche di suscitare il desiderio di imitarne le virtù. San Paolo esorta: «gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rm 12,10).

Di fronte ad un mondo che esige dai cristiani una testimonianza rinnovata di amore e di fedeltà al Signore, tutti sentano l’urgenza di adoperarsi per gareggiare nella carità, nel servizio e nelle opere buone (cfr Eb 6,10). Questo richiamo è particolarmente forte nel tempo santo di preparazione alla Pasqua. Con l’augurio di una santa e feconda Quaresima, vi affido all’intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 3 novembre 2011

[Papa Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2012]

Sabato, 31 Agosto 2024 12:21

Fonte infallibile

"O inconcepibile ed insondabile Misericordia di Dio,
Chi Ti può adorare ed esaltare in modo degno?
O massimo attributo di Dio Onnipotente,
Tu sei la dolce speranza dei peccatori"

(Diario, 951 - ed. it. 2001, p. 341).

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Ripeto oggi queste semplici e sincere parole di Santa Faustina, per adorare assieme a lei e a tutti voi il mistero inconcepibile ed insondabile della misericordia di Dio. Come lei, vogliamo professare che non esiste per l’uomo altra fonte di speranza, al di fuori della misericordia di Dio. Desideriamo ripetere con fede: Gesù, confido in Te!

Di questo annuncio, che esprime la fiducia nell’amore onnipotente di Dio, abbiamo particolarmente bisogno nei nostri tempi, in cui l’uomo prova smarrimento di fronte alle molteplici manifestazioni del male. Bisogna che l’invocazione della misericordia di Dio scaturisca dal profondo dei cuori pieni di sofferenza, di apprensione e di incertezza, ma nel contempo in cerca di una fonte infallibile di speranza. Perciò veniamo oggi qui, nel Santuario di Łagiewniki, per riscoprire in Cristo il volto del Padre: di Colui che è "Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione" (2 Cor 1, 3). Con gli occhi dell’anima desideriamo fissare gli occhi di Gesù misericordioso per trovare nella profondità di questo sguardo il riflesso della sua vita, nonché la luce della grazia che già tante volte abbiamo ricevuto, e che Dio ci riserva per tutti i giorni e per l’ultimo giorno.

[Papa Giovanni Paolo II, Kraków-Łagiewniki, 17 agosto 2002]

Sabato, 31 Agosto 2024 12:14

Il mucchio e la vicinanza

Ecco che, ha affermato il Papa, costoro «arrivano a un mucchio di prescrizioni e per loro questa è la salvezza: hanno perso la chiave dell’intelligenza che, in questo caso, è la gratuità della salvezza». In realtà «la legge è una risposta all’amore gratuito di Dio: è Lui che ha preso l’iniziativa di salvarci e perché tu mi hai amato tanto, io cerco di andare per la tua strada, quella che tu mi hai indicato», in una parola «io compio la legge». Ma «è una risposta» perché «la legge, sempre, è una risposta e quando si dimentica la gratuità della salvezza si cade, si perde la chiave dell’intelligenza della storia della salvezza».

E, ancora, ha rilanciato il Pontefice, quelle persone «hanno perso la chiave dell’intelligenza perché hanno perso il senso della vicinanza di Dio: per loro Dio è quello che ha fatto la legge» ma «questo non è il Dio della rivelazione». In realtà «il Dio della rivelazione è Dio che ha incominciato a camminare con noi da Abramo fino a Gesù Cristo: Dio che cammina con il suo popolo». Perciò «quando si perde questo rapporto vicino con il Signore, si cade in questa mentalità ottusa che crede nell’autosufficienza della salvezza con il compimento della legge».

Ecco, allora, «la vicinanza di Dio» ha rimarcato Francesco, facendo riferimento a «un passo tanto bello, quasi alla fine del Deuteronomio, nel capitolo 31; quando Mosè finisce di scrivere la legge, la consegna ai leviti, quelli che custodivano l’arca, e dice loro “prendete questo libro della legge e mettetelo a fianco all’Arca, vicino a Dio, perché io conosco la tua ribellione — parla al popolo — e la durezza della tua cervice”».

«Invece vicino al Signore — ha fatto presente il Papa — la legge è rivelazione del Signore ma si stacca, la legge diventa autonoma e diventa dittatoriale, quando manca la vicinanza di Dio».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 19 ottobre 2017]

Sabato, 31 Agosto 2024 05:06

Situazioni e Sbilanciamento

Passare avanti e Perdono avanti

(Lc 6,27-38)

 

L’avventura della Fede estrema è per una Bellezza che ferisce e una Felicità anormale, prominente. Ma solo chi sa attendere trova la sua Via.

Non opporsi al malvagio consente di sperimentare le Beatitudini (Lc 6,20-26) - antidoto ai rapporti unilaterali; però tollerare diventa impossibile, se non lasciamo si sviluppi una Energia innata.

Il testo greco di Lc non parla di “meriti” (cf. traduzione CEI 1974) e neppure di “gratitudine” (traduzione CEI 2008), bensì di «Gratuità» (vv.31.33-34)! Certo, non è semplice capire il senso del Dono, del Gratis.

Eppure qui la fioritura sarà senza forzature, perché nel contraccambio infinitamente ripetuto non c’è saggezza che legge dentro; nel rovesciamento, sì.

La nuova esperienza di Dio è quella d’un Amore creativo genuino, che senza posa butta all’aria, introduce nuove potenze, e incredibilmente capovolge tutto.

Non sarà lo sforzo che ci farà stare dove la Vocazione perfetta vuole che dimoriamo, bensì una lenta corrispondenza - anche nelle altalene.

 

Fuori e dentro di noi esiste un altro territorio, dove l’affinità dell’Attesa incontra il Disegno di Dio.

La spirale del restituire l’offesa può occupare tutto il nostro spazio. Così smorza la capacità di corrispondere al tintinnio nuovo della Chiamata.

Ci toglie percezione, tutto l’ascolto della Novità di Dio che è agli albori.

Generando confusioni tutte nostre, impallidisce la Storia di Salvezza che sta viceversa creando un inedito: la si taglia in radice.

Per cogliere il ritmo stesso di Dio (che sapientemente crea) le anime devono prendere il passo delle cose, le quali maturano in termini lineari sino a che rovesciano o moltiplicano - in modo esclusivo e inedito.

 

Gli accadimenti stessi rigenerano in modo spontaneo, fuori e persino dentro di noi; inutile forzare. La crescita e destinazione permane anche grazie alla molla di beffe e costrizioni esterne.

Allora, la fermezza nell’accettazione diventa scaturigine di un nuovo figlio - d’una Genesi impensata che sta appena intrecciando le sue prime radici con quel terreno paludoso.

 

La sospensione vissuta nel Mistero apre il nostro destino di stoltezze già decretate alla fiducia in un nuovo Atto d’Essere, irripetibile.

Spalanca il Senso che non t’aspetti, in un clima d’inventiva che sorvola l’istinto azione-reazione. Ciò affinché la catena delle normalità non prenda il sopravvento sul prodigio.

La non-violenza non è dunque una norma di sola squisitezza d’animo, bensì una Freccia superiore, che indica una direzione di Ricerca non meccanica, la quale avanza di scoperta in scoperta.

Lasciare che tutti passino avanti, crea il giusto distacco perché quando saremo pronti giunga il tempo in cui ci accorgeremo che la nostra mortificazione era un crocevia: ha aperto il destino a una speranza meno corta, dilatando la vita.

Se gli altri non sono come abbiamo sognato, è una fortuna: le porte sbattute in faccia e il loro pungolo ci mettono in contatto con le nostre virtù profonde, e con le risorse cui non abbiamo ancora dato spazio.

Tradimenti, soprusi, dispetti, vendette, oltraggi, mortificazioni… che vorrebbero renderci inquieti e avvilirci… stanno preparando il nostro sviluppo, e ben altre gioie.

 

L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne.

 

 

[Giovedì 23.a sett. T.O.  12 Settembre 2024]

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The family in the modern world, as much as and perhaps more than any other institution, has been beset by the many profound and rapid changes that have affected society and culture. Many families are living this situation in fidelity to those values that constitute the foundation of the institution of the family. Others have become uncertain and bewildered over their role or even doubtful and almost unaware of the ultimate meaning and truth of conjugal and family life. Finally, there are others who are hindered by various situations of injustice in the realization of their fundamental rights [Familiaris Consortio n.1]
La famiglia nei tempi odierni è stata, come e forse più di altre istituzioni, investita dalle ampie, profonde e rapide trasformazioni della società e della cultura. Molte famiglie vivono questa situazione nella fedeltà a quei valori che costituiscono il fondamento dell'istituto familiare. Altre sono divenute incerte e smarrite di fronte ai loro compiti o, addirittura, dubbiose e quasi ignare del significato ultimo e della verità della vita coniugale e familiare. Altre, infine, sono impedite da svariate situazioni di ingiustizia nella realizzazione dei loro fondamentali diritti [Familiaris Consortio n.1]
"His" in a very literal sense: the One whom only the Son knows as Father, and by whom alone He is mutually known. We are now on the same ground, from which the prologue of the Gospel of John will later arise (Pope John Paul II)
“Suo” in senso quanto mai letterale: Colui che solo il Figlio conosce come Padre, e dal quale soltanto è reciprocamente conosciuto. Ci troviamo ormai sullo stesso terreno, dal quale più tardi sorgerà il prologo del Vangelo di Giovanni (Papa Giovanni Paolo II)
We come to bless him because of what he revealed, eight centuries ago, to a "Little", to the Poor Man of Assisi; - things in heaven and on earth, that philosophers "had not even dreamed"; - things hidden to those who are "wise" only humanly, and only humanly "intelligent"; - these "things" the Father, the Lord of heaven and earth, revealed to Francis and through Francis (Pope John Paul II)
Veniamo per benedirlo a motivo di ciò che egli ha rivelato, otto secoli fa, a un “Piccolo”, al Poverello d’Assisi; – le cose in cielo e sulla terra, che i filosofi “non avevano nemmeno sognato”; – le cose nascoste a coloro che sono “sapienti” soltanto umanamente, e soltanto umanamente “intelligenti”; – queste “cose” il Padre, il Signore del cielo e della terra, ha rivelato a Francesco e mediante Francesco (Papa Giovanni Paolo II)
But what moves me even more strongly to proclaim the urgency of missionary evangelization is the fact that it is the primary service which the Church can render to every individual and to all humanity [Redemptoris Missio n.2]
Ma ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità [Redemptoris Missio n.2]
That 'always seeing the face of the Father' is the highest manifestation of the worship of God. It can be said to constitute that 'heavenly liturgy', performed on behalf of the whole universe [John Paul II]
Quel “vedere sempre la faccia del Padre” è la manifestazione più alta dell’adorazione di Dio. Si può dire che essa costituisce quella “liturgia celeste”, compiuta a nome di tutto l’universo [Giovanni Paolo II]

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