Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi.
*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)
Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Quando Isaia dice: io vidi, ci comunica una visione e poiché i libri profetici sono costellati di visioni occorre riuscire a decodificare questo linguaggio. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che tutto ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”: in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Nella visione d’Isaia Dio è seduto su un trono elevato, il fumo si diffonde e riempie tutto lo spazio, una voce tuona così forte che i luoghi tremano: “Tutta la terra è piena della tua gloria”. Il profeta pensa a ciò che accadde a Mosè sul monte Sinai, quando Dio fece alleanza con il suo popolo e gli diede le Tavole della Legge. Il libro dell’Esodo racconta: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché il Signore vi era disceso nel fuoco; il fumo saliva come quello di una fornace e tutto il monte tremava molto…” (Es 19,18-19). Isaia, nella sua piccolezza, prova un reverenziale timore: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono… eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”. Il timore d’Isaia è anzitutto consapevolezza del nostro essere piccoli e del divario incolmabile che ci separa da Dio. Dio però non si ferma e dice: “Non temere”. Nella visione di Isaia la parola è sostituita dal gesto: “Uno dei serafini volò verso di me, teneva in mano un carbone ardente… mi toccò la bocca”. Lo purifica perché il profeta viene purificato dalla Parola che gli permette di entrare in relazione con Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio. In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi.
Tre note integrative:
1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.
2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione.
3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio.
*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)
Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Le quattro lettere ebraiche sono: yod, he, vav, he e la pronuncia esatta si è persa nel tempo, poiché le vocali originali non sono indicate nel testo ebraico. Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Quasi sempre viene sostituito da Adonai (“Signore”) o HaShem (“Il Nome”) durante la lettura. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia, preziosa scoperta di Israele, grazie allo Spirito di Dio: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). Non è un caso che la rivelazione della tenerezza di Dio avvenga dopo l’episodio del vitello d’oro, cioè in un momento di grave infedeltà del popolo perché è nelle sue ripetute infedeltà che Israele ha sperimentato la misericordia di Dio. Fedeltà di Dio cantata incessantemente nel tempio di Gerusalemme: «Mi prostro verso il tuo tempio santo» (v.2) e il salmo prosegue: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Come appare nella vita del profeta Isaia, il divario che ci separa da Dio, incolmabile con azioni meritorie, è colmato da Dio stesso invitandoci nella sua intimità. E in questo salmo scopriamo in cosa consiste la santità di Dio: Amore e fedeltà. Alla fine del salmo leggiamo “il tuo amore” è per sempre e “la tua destra mi salva”, un ulteriore richiamo all’Esodo dove si dice che Egli ci ha liberati “con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34). Israele sa di essere il destinatario della Rivelazione, il confidente di Dio, ma si rende anche conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Questo è il senso del versetto: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra… quando ascolteranno le parole della tua bocca» (v.4). Soltanto quando Israele avrà compiuto la sua missione di testimone di Dio, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. Il salmo si conclude con una preghiera: “Non abbandonare l’opera delle tue mani”, che vuol dire: Continua nonostante le nostre infedeltà. Vanno lette insieme le due frasi: “Signore, il tuo amore è per sempre…non abbandonare l’opera delle tue mani”. Il suo amore eterno ci dà certezza che non abbandonerà mai l’opera delle sue mani e per questo non smettiamo di rendere grazie: “Il Signore farà tutto per me” (v.8).
Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.
*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)
Se oggi rileggiamo quanto scrive san Paolo è grazie al fatto che in questi millenni, di generazione in generazione, è stato trasmesso il vangelo come in una ininterrotta staffetta dove, lungo il percorso, si consegna il “testimone” a chi viene dopo che a sua volta lo consegnerà al seguente. La Chiesa è chiamata a trasmettere fedelmente il vangelo. Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e per lui, in particolare, Anania, Barnaba e la comunità cristiana di Antiochia di Siria. Grazie a loro, egli ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è universale: il trionfo della vita e la salvezza sono per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Innestati in lui siamo già parte della nuova umanità resa viva dallo Spirito Santo. Paolo racconta che ha personalmente sperimentato questa salvezza essendo un persecutore perdonato, convertito e trasformato in colonna della Chiesa e mai lo dimenticherà testimoniando la meraviglia dell’amore di Dio per l’umanità: un amore senza condizioni e continuamente offerto. Paolo, come Isaia, come Pietro, è profondamente consapevole del proprio peccato; ma lascia agire la grazia di Dio in lui: “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è me” (v.10). Da persecutore Dio l’ha fatto apostolo, il più ardente, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. Il vangelo da gridare sui tetti dell’umanità è proprio l’Amore e la Misericordia di Dio per tutti.
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*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)
La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti. Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”. Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità. Soltanto però, quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Pietro e Isaia sono presi da un timore reverenziale davanti alla sua presenza: Isaia vede un carbone ardente toccargli la bocca, Pietro sente le parole di Gesù: “Non temere” e alla fine entrambi vengono chiamati al servizio dello stesso progetto di Dio, la salvezza degli uomini. Isaia come profeta, Pietro diventerà pescatore di uomini per la loro salvezza. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. Come dice Paolo nella seconda lettura, è la sua grazia che fa tutto: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana”. A ben vedere l’unica collaborazione che ci viene chiesta è una fiduciosa disponibilità come fa Pietro che con coraggio rischia un nuovo tentativo di pesca. E dopo il miracolo non chiama più Gesù Maestro, ma Signore, il nome riservato a Dio: si prostra ai suoi piedi pronto ormai a fare tutto ciò che dirà. In definitiva è grazie al sì di Isaia, di Pietro e dei suoi compagni e di Paolo, che oggi anche noi siamo qui. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. Per una pesca miracolosa il segreto è fidarsi sempre di Cristo, cosa non facile ma possibile a tutti.
Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” è συνεκλεισαν (synekleisan), derivato dal verbo συγκλείω (synkleió), che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Nelle sue opere, Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Così annota nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2): “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.
+Giovanni D’Ercole
*Sintesi 9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi.
*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)
Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”: in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio. In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi.
Tre note integrative:
1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.
2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione.
3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio.
*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)
Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). In questo salmo scopriamo che la santità di Dio consiste in Amore e fedeltà. Israele si rende conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Soltanto quando Israele avrà compiuto questa sua missione, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”.
Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.
*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)
Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e grazie a loro, ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Da persecutore Dio ha fatto san Paolo apostolo, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa.
*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)
La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti. Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”. Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità e quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti.
Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” deriva dal verbo greco synkleió, che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2) scrive: “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.
+Giovanni D’Ercole
Purezza, impudicizie e santità travisate
(Mc 7,14-23)
Il Signore è per una umanizzazione a tutto campo. Ma nelle culture antiche la visione mitica del mondo portava la gente ad apprezzare qualsiasi realtà partendo dalla categoria della ‘santità’ come ‘distacco’.
Le leggi sulla purezza indicavano le condizioni necessarie per mettersi davanti a Dio e sentirsi bene alla sua presenza - ma di fatto sempre sgomenti, perché [ovvio] non totalmente ottemperanti.
All’epoca di Mc alcuni giudei convertiti ritenevano di poter abbandonare gli antichi costumi e avvicinarsi ai pagani; altri erano di opinione opposta: sarebbe stato come rigettare parti consistenti della Torah.
Infatti l’evangelista sottolinea che il problema è «in Casa» (v.17) ossia nella Chiesa. Fraternità dove ancora non si capiva il Maestro, venuto per liberare da ossessioni artificiose.
Cristo deve insistere nel suo insegnamento, ora non rivolto a degli estranei ma proprio ai discepoli [appunto] incapaci di «comprendere» (vv.14.18).
In tal guisa, il Vangelo rigetta la distinzione tra la sfera religiosa della vita e un assetto quotidiano “contaminato”; fonte di corruzione. Ma normale, spicciolo, sommario - per questo valutato distante dal ‘divino’.
Quintessenza che viceversa non intende soggiogare nessuno.
La presenza attiva di un Ordine nuovo abolisce le prescrizioni legali e sposta il centro della moralità dei nostri atti.
Qui si richiama l’insegnamento di Gesù: l’impurità non viene dall’esterno [ossia da fuori a dentro]. Non è quella la minaccia.
Le realtà del mondo non sono mai scellerate e inadatte - neanche al culto.
Diventano obbrobrio solo passando attraverso decisioni queste sì sacrileghe, perché bloccano la vita. E distacchi che imbarbariscono.
Non vi è sacro e profano in sé.
Mistero e Beatitudine vengono al mondo esclusivamente attraverso il canale del dialogo e dell’incontro nel rispetto dell’intelligenza, dell’anima personale, e delle culture difformi. Non percorrendo entità di meriti, né strettoie travisate.
Qui il legalismo formale uccide il dilatarsi della vita e degli ideali: “impuro” è ciò che avvelena l'esistenza e la realizzazione spontanea delle persone, le loro relazioni, e la creazione stessa.
Gesù libera la folla dei senza voce e smarriti dall’ossessione di tormenti e timori, dallo stare sempre sulla difensiva.
Siamo chiamati a voler bene ai limiti: sono il terreno di energie preparatorie della reale fioritura - impulsi e segni del nostro ‘compito nel mondo’ secondo la Novità di Dio.
Ogni Esodo valorizza le alternative.
E troviamo la realizzazione, il senso della vita, nonché via via maggiore completezza, incontrando appunto i nostri lati opposti.
Non siamo chiamati a fissarci in una direzione. Ce ne sono altre.
Chiunque intimorisce il fratello “inadeguato” minaccia la vita del cosmo e rende sfiduciate proprio le persone più sensibili e attente.
Sono le imperfezioni a renderci nuovi, eccezionali, unici!
Impariamo dunque a non provare sgomento per il fatto che ‘non siamo’ religiosamente “riusciti” - bensì Primizia!
[Mercoledì 5.a sett. T.O. 12 febbraio 2025]
Purezza, impudicizie e santità travisate
(Mc 7,14-23)
La Chiesa ha conservato la fede nella bontà del creato; non vede di malocchio la natura, la società, e l’opera concreta del Padre, come purtroppo si propugna in certe mentalità schizzinose (in chiave devota).
Neppure ritiene che per sentirsi salvi esistano strumenti o zone di rifugio che basterebbe usare, fruire o raggiungere, e rifrequentare. Il Signore è per una umanizzazione a tutto campo.
Nelle culture antiche la visione religiosa e mitica del mondo portava la gente ad apprezzare qualsiasi realtà partendo dalla categoria della santità come distacco e separatezza - persino inaccessibilità.
Le leggi sulla purezza indicavano le condizioni necessarie per mettersi davanti a Dio e sentirsi bene alla sua presenza - ma di fatto sempre sgomenti, perché (ovvio) non totalmente ottemperanti.
Non ci si poteva presentare nel punto in cui la persona era, o in qualsiasi occasione e modo - bensì secondo norme legate al cibo, al contatto, al vestito, ai tempi raccomandati di preghiera; così via.
Nel contesto della dominazione achemenide, per valorizzare l’identità, ricostruire il Tempio di Gerusalemme e mantenere la propria classe, i sacerdoti accentuarono le norme di purità e gli obblighi sacrificali, manipolando più volte il senso, i contesti, e le postille della Scrittura.
Ovviamente, parte consistente delle offerte così gonfiate rimanevano al ceto che si occupava dei riti.
Tutto ciò, a spese d’una concezione appiattita sullo stile cultuale propiziatorio e (supposto) taumaturgico, il quale investiva ogni aspetto della vita ordinaria della gente.
Moltitudine resa schiava dalla visione imposta - in sé infantile - algida forse, ma paludosa e irritante.
All’epoca di Mc alcuni giudei convertiti ritenevano di poter abbandonare gli antichi costumi e avvicinarsi ai pagani; altri erano di opinione opposta: sarebbe stato come rigettare parti consistenti della Torah [es: Lv 11-16 e 17ss].
Infatti Mc sottolinea che il problema è «in Casa» (v.17 testo greco: dentro casa) ossia nella Chiesa e fra i suoi intimi [la traduzione CEI recita in “una” casa].
Un posto dove paradossalmente ancora non si capisce il Maestro [!] venuto per liberarci dalle ossessioni inventate e artificiose.
Cristo deve insistere nel suo insegnamento, ora non rivolto a degli estranei, ma proprio agli habitué, incapaci - al contrario delle folle - di «comprendere» (v.14) perfino i rudimenti delle cose spirituali.
Per educare i testardi ancora «privi d’intelletto» (v.18) che si ritengono maestri, non si dirige in una dimora qualsiasi, ma esattamente nel posto dove purtroppo si coltivano aspettative talora ben lontane dal popolo (vv.14.17).
L’evangelista rigetta la distinzione tra la sfera religiosa della vita e un assetto quotidiano “contaminato”; fonte di corruzione. Ma normale, spicciolo, sommario - per questo valutato distante dal “divino”.
Quintessenza che viceversa non intende soggiogare nessuno.
Le prescrizioni restano insufficienti a darci accesso a Dio: esse non sono che simboli, traiettorie, e immagini.
La presenza attiva di un Ordine nuovo abolisce le prescrizioni legali, e sposta il centro della moralità dei nostri atti.
Qui si richiama l’insegnamento di Gesù: l’impurità non viene dall’esterno [ossia da fuori a dentro].
Non è quella la minaccia per la vita della donna, dell’uomo, e della comunità, secondo il disegno senza trucchi di Dio.
Le realtà del mondo non sono mai scellerate e inadatte - neanche al culto.
Diventano obbrobrio solo passando attraverso decisioni queste sì sacrileghe, perché bloccano la vita. E distacchi che imbarbariscono.
La canonicità del bigotto e talare non c’entra nulla con la divinizzazione, la quale viceversa fa rima con ciò che è concretamente umanizzante.
Il dibattito sul puro e impuro non va collocato sul piano delle cose [ad es. dei cibi che vanno fino allo stomaco] bensì del comportamento, che parte e va fino al cuore. Luogo non sempre sereno e ben “ordinato”.
Non vi sono apriorismi sacri: non basta che un luogo, una casa, degli oggetti, una persona... siano stati legittimati da cerimonie o addirittura scambi, perché diventino intoccabili, onesti ed eminenti.
In tal guisa, non vi è sacro e profano in sé.
Mistero e Beatitudine vengono al mondo esclusivamente attraverso il canale del dialogo e dell’incontro nel rispetto dell’intelligenza, dell’anima personale, e delle culture difformi. Non percorrendo entità di meriti, né strettoie travisate.
La santificazione è legata alla condotta. E nei casi di coerenza, persino all’insuccesso, all’angoscia, alle frustrazioni, che derivano da scelte di campo impegnative.
Sono decisioni le quali mettono a repentaglio, e talora ci ridicolizzano nel paragone con il costume delle autenticazioni obbligate - ove talora sembra che sia necessario eludere la vita. O non sei “nessuno”.
Qui il legalismo formale purtroppo uccide qualsivoglia dilatarsi delle risorse e degli ideali.
Insomma, impuro è ciò che avvelena l'esistenza e la realizzazione spontanea delle persone, le loro relazioni, e la creazione stessa.
Eppure sono le imperfezioni a renderci nuovi, eccezionali, unici!
Gesù apre una nuova Via per far avvicinare tutti noi malfermi a Dio, agli altri persino lontani, e a se stessi - senza esclusioni puritane.
Quando ad es. non ci accettiamo così come siamo - dentro, o in campo, non accogliendo il diverso e l’opposto - perché nell’opinione comune “non va bene”, rischiamo di trasformare l’insoddisfazione in un clima d’intimo assillo.
Perfino il religioso senso d’impurezza ci porterà dall’agitazione al disastro.
Ma fuori dall’impegno per l’amicizia con noi stessi, con le cose create, e lo spirito di fraternità, di convivialità dei contrari, la paura di contaminarsi è infondata.
Anzi, siamo chiamati a voler bene ai limiti: sono il terreno anche scomposto e impudico di energie preparatorie della reale fioritura.
Sono impulsi e segni primordiali del nostro compito nel mondo secondo la Novità di Dio.
Ogni Esodo valorizza le alternative.
E troviamo la realizzazione, il senso della vita, nonché via via maggiore completezza, incontrando appunto i nostri lati opposti.
Chiunque intimorisce il fratello “inadeguato” minaccia la vita del cosmo e rende sfiduciate proprio le persone più sensibili e attente.
Gesù libera la folla dei senza voce, degli smarriti, dall’ossessione di apprensioni e timori, dallo stare sempre sulla difensiva.
Non siamo chiamati a fissarci in una direzione. Ce ne sono altre.
Impariamo dunque a non provare sgomento per il fatto che non siamo religiosamente “riusciti” - bensì Primizia!
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ritieni ti renda presentabile in società? In che senso sei impeccabile - perché imbellettato e conforme all’opinione?
Essere “figlio” e “primizia” ti fa stare sulla difensiva o restituisce voglia di vivere in pienezza?
L’evangelista Marco riporta le seguenti parole di Gesù, che si inseriscono nel dibattito di allora circa ciò che è puro e ciò che è impuro: “Non c'è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro... Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male” (Mc 7,14-15.20-21). Al di là della questione immediata relativa al cibo, possiamo scorgere nella reazione dei farisei una tentazione permanente dell’uomo: quella di individuare l’origine del male in una causa esteriore. Molte delle moderne ideologie hanno, a ben vedere, questo presupposto: poiché l’ingiustizia viene “da fuori”, affinché regni la giustizia è sufficiente rimuovere le cause esteriori che ne impediscono l’attuazione. Questo modo di pensare - ammonisce Gesù - è ingenuo e miope. L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51,7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr Gen 3,1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore?
[Papa Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2010]
Tradizione anticotestamentaria e nuovo significato di “purezza”
1. Un indispensabile completamento delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna sulle quali abbiamo centrato il ciclo delle nostre presenti riflessioni, dovrà essere l’analisi della purezza. Quando Cristo, spiegando il giusto significato del comandamento "Non commettere adulterio", fece richiamo all’uomo interiore, specificò al tempo stesso la dimensione fondamentale della purezza, con cui vanno contrassegnati i reciproci rapporti tra l’uomo e la donna nel matrimonio e fuori del matrimonio. Le parole: "Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28) esprimono ciò che contrasta con la purezza. Ad un tempo, queste parole esigono la purezza che nel Discorso della montagna è compresa nell’enunciato delle beatitudini: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8). In tal modo Cristo rivolge al cuore umano un appello: lo invita, non lo accusa, come già abbiamo precedentemente chiarito.
2. Cristo vede nel cuore, nell’intimo dell’uomo la sorgente della purezza - ma anche dell’impurità morale - nel significato fondamentale e più generico della parola. Ciò è confermato, ad esempio, dalla risposta data ai farisei, scandalizzati per il fatto che i suoi discepoli "trasgrediscono la tradizione degli antichi, poiché non si lavano le mani quando prendono cibo" (Mt 15,2). Gesù disse allora ai presenti: "Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo" (Mt 15,11). Ai suoi discepoli, invece, rispondendo alla domanda di Pietro, così spiegò queste parole: "...ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l’uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l’uomo" (cf. Mt 15,18-20; cf. Mc 7,20-23).
Quando diciamo "purezza", "puro", nel significato primo di questi termini, indichiamo ciò che contrasta con lo sporco. "Sporcare" significa "rendete immondo", "inquinare". Ciò si riferisce ai diversi ambiti del mondo fisico. Si parla, ad esempio, di una "strada sporca", di una "stanza sporca", si parla anche dell’"aria inquinata". È così pure, anche l’uomo può essere "immondo", quando il suo corpo non è pulito. Per togliere le lordure del corpo, bisogna lavarlo. Nella tradizione dell’Antico Testamento si attribuiva una grande importanza alle abluzioni rituali, ad esempio il lavarsi le mani prima di mangiare, di cui parla il testo citato. Numerose e particolareggiate prescrizioni riguardavano le abluzioni del corpo in rapporto all’impurità sessuale, intesa in senso esclusivamente fisiologico, a cui abbiamo accennato in precedenza (cf. Lv 15 ). Secondo lo stato della scienza medica del tempo, le varie abluzioni potevano corrispondere a prescrizioni igieniche. In quanto erano imposte in nome di Dio e contenute nei Libri Sacri della legislazione anticotestamentaria, l’osservanza di esse acquistava, indirettamente, un significato religioso; erano abluzioni rituali e, nella vita dell’uomo dell’Antica Alleanza, servivano alla "purezza" rituale.
3. In rapporto alla suddetta tradizione giuridico-religiosa dell’Antica Alleanza si è formato un modo erroneo di intendere la purezza morale(1). La si capiva spesso in modo esclusivamente esteriore e "materiale". In ogni caso, si diffuse una tendenza esplicita ad una tale interpretazione. Cristo vi si oppone in modo radicale: nulla rende l’uomo immondo "dall’esterno", nessuna sporcizia "materiale" rende l’uomo impuro in senso morale, ossia interiore. Nessuna abluzione, neppure rituale, è idonea di per sé a produrre la purezza morale. Questa ha la sua sorgente esclusiva nell’interno dell’uomo: essa proviene dal cuore. È probabile che le rispettive prescrizioni dell’Antico Testamento (quelle, ad esempio, che si trovano nel Levitico) ( Lv 15,16-24 ; 18,1ss ; 12,1-5 ) servissero, oltre che a fini igienici, anche ad attribuire una certa dimensione di interiorità a ciò che nella persona umana è corporeo e sessuale. In ogni caso Cristo si è ben guardato dal collegare la purezza in senso morale (etico) con la fisiologia e con i relativi processi organici. Alla luce delle parole di Matteo 15,18-20, sopra citate, nessuno degli aspetti dell’"immondezza" sessuale, nel senso strettamente somatico, biofisiologico, entra di per sé nella definizione della purezza o della impurità in senso morale (etico).
4. Il suddetto enunciato ( Mt 15,18-20 ) è soprattutto importante per ragioni semantiche. Parlando della purezza in senso morale, cioè della virtù della purezza, ci serviamo di un’analogia, secondo la quale il male morale viene paragonato appunto alla immondezza. Certamente tale analogia è entrata a far parte, fin dai tempi più remoti, dell’ambito dei concetti etici. Cristo la riprende e la conferma in tutta la sua estensione: "Ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo". Qui Cristo parla di ogni male morale, di ogni peccato, cioè di trasgressioni dei vari comandamenti, ed enumera "i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie", senza limitarsi ad uno specifico genere di peccato. Ne deriva che il concetto di "purezza" e di "impurità" in senso morale è anzitutto un concetto generale, non specifico: per cui ogni bene morale è manifestazione di purezza, ed ogni male morale è manifestazione di impurità. L’enunciato di Matteo 15,18-20 non restringe la purezza ad un unico settore della morale, ossia a quello connesso al comandamento "Non commettere adulterio" e "Non desiderare la moglie del tuo prossimo", cioè a quello che riguarda i rapporti reciproci tra l’uomo e la donna, legati al corpo e alla relativa concupiscenza. Analogamente possiamo anche intendere la beatitudine del Discorso della montagna, rivolta agli uomini "puri di cuore", sia in senso generico, sia in quello più specifico. Soltanto gli eventuali contesti permetteranno di delimitare e di precisare tale significato.
5. Il significato più ampio e generale della purezza è presente anche nelle lettere di San Paolo, in cui gradualmente individueremo i contesti che, in modo esplicito, restringono il significato della purezza all’ambito "somatico" e "sessuale", cioè a quel significato che possiamo cogliere dalle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna sulla concupiscenza, che si esprime già nel "guardare la donna", e viene equiparata ad un "adulterio commesso nel cuore" (cf. Mt 5,27-28 ).
Non è San Paolo l’autore delle parole sulla triplice concupiscenza. Esse, come sappiamo, si trovano nella prima lettera di Giovanni. Si può, tuttavia, dire che analogamente a quella che per Giovanni ( 1Gv 2,16-17 ) è contrapposizione all’interno dell’uomo tra Dio e il mondo (tra ciò che viene "dal Padre" e ciò che viene "dal mondo") - contrapposizione che nasce nel cuore e penetra nelle azioni dell’uomo come"concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita" - San Paolo rileva nel cristiano un’altra contraddizione: l’opposizione e insieme la tensione tra la "carne" e lo "Spirito" (scritto con la maiuscola, cioè lo Spirito Santo): "Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste" ( Gal 5,16-17 ). Ne consegue che la vita "secondo la carne" è in opposizione alla vita "secondo lo Spirito". "Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito" ( Rm 8,5 ).
Nelle successive analisi cercheremo di mostrare che la purezza - la purezza di cuore, di cui ha parlato Cristo nel Discorso della montagna - si realizza propriamente nella vita "secondo lo Spirito".
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 10 dicembre 1980]
Il Vangelo della Liturgia di oggi mostra alcuni scribi e farisei stupiti dall’atteggiamento di Gesù. Sono scandalizzati perché i suoi discepoli prendono cibo senza compiere prima le tradizionali abluzioni rituali. Pensano tra sé: “Questo modo di fare è contrario alla pratica religiosa” (cfr Mc 7,2-5).
Anche noi potremmo chiederci: perché Gesù e i suoi discepoli trascurano queste tradizioni? In fondo non sono cose cattive, ma buone abitudini rituali, semplici lavaggi prima di prendere cibo. Perché Gesù non ci bada? Perché per Lui è importante riportare la fede al suo centro. Nel Vangelo lo vediamo continuamente: questo riportare la fede al centro. Ed evitare un rischio, che vale per quegli scribi come per noi: osservare formalità esterne mettendo in secondo piano il cuore della fede. Anche noi tante volte ci “trucchiamo” l’anima. La formalità esterna e non il cuore della fede: questo è un rischio. È il rischio di una religiosità dell’apparenza: apparire per bene fuori, trascurando di purificare il cuore. C’è sempre la tentazione di “sistemare Dio” con qualche devozione esteriore, ma Gesù non si accontenta di questo culto. Gesù non vuole esteriorità, vuole una fede che arrivi al cuore.
Infatti, subito dopo, richiama la folla per dire una grande verità: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro» (v. 15). Invece, è «dal di dentro, dal cuore» (v. 21) che nascono le cose cattive. Queste parole sono rivoluzionarie, perché nella mentalità di allora si pensava che certi cibi o contatti esterni rendessero impuri. Gesù ribalta la prospettiva: non fa male quello che viene da fuori, ma quello che nasce da dentro.
Cari fratelli e sorelle, questo riguarda anche noi. Spesso pensiamo che il male provenga soprattutto da fuori: dai comportamenti altrui, da chi pensa male di noi, dalla società. Quante volte incolpiamo gli altri, la società, il mondo, per tutto quello che ci accade! È sempre colpa degli “altri”: è colpa della gente, di chi governa, della sfortuna, e così via. Sembra che i problemi arrivino sempre da fuori. E passiamo il tempo a distribuire colpe; ma passare il tempo a incolpare gli altri è perdere tempo. Si diventa arrabbiati, acidi e si tiene Dio lontano dal cuore. Come quelle persone del Vangelo, che si lamentano, si scandalizzano, fanno polemica e non accolgono Gesù. Non si può essere veramente religiosi nella lamentela: la lamentela avvelena, ti porta alla rabbia, al risentimento e alla tristezza, quella del cuore, che chiude le porte a Dio.
Chiediamo oggi al Signore che ci liberi dal colpevolizzare gli altri – come i bambini: “No, io non sono stato! È l’altro, è l’altro…” –. Domandiamo nella preghiera la grazia di non sprecare tempo a inquinare il mondo di lamentele, perché questo non è cristiano. Gesù ci invita piuttosto a guardare la vita e il mondo a partire dal nostro cuore. Se ci guardiamo dentro, troveremo quasi tutto quello che detestiamo fuori. E se, con sincerità, chiederemo a Dio di purificarci il cuore, allora sì che cominceremo a rendere più pulito il mondo. Perché c’è un modo infallibile per vincere il male: iniziare a sconfiggerlo dentro di sé. I primi Padri della Chiesa, i monaci, quando si domandava loro: “Qual è la strada della santità? Come devo incominciare?”, il primo passo, dicevano, era accusare sé stessi: accusa te stesso. L’accusa di noi stessi. Quanti di noi, nella giornata, in un momento della giornata o in un momento della settimana, sono capaci di accusare sé stessi dentro? “Sì, questo mi ha fatto questo, quell’altro… quello una barbarità…”. Ma io? Io faccio lo stesso, o io lo faccio così... È una saggezza: imparare ad accusare sé stessi. Provate a farlo, vi farà bene. A me fa bene, quando riesco a farlo, ma fa bene, a tutti farà bene.
La Vergine Maria, che ha cambiato la storia attraverso la purezza del suo cuore, ci aiuti a purificare il nostro, superando anzitutto il vizio di colpevolizzare gli altri e di lamentarci di tutto.
[Papa Francesco, Angelus 29 agosto 2021]
Tradizioni o idee ipocrite, e ordine ideale
(Mc 7,1-13)
La religiosità può ingannare l’ordine ideale; la vita di Fede lo promuove, facendo leva su una perfezione e purezza derivate dalla dimensione umana - del buon senso e dell’accorgersi.
È così che si migliora e si redime il mondo: unendosi con la Shekhinah del Padre; non arroccandosi in un fortino, come fossimo in una tana.
E l’avventura piena, oltre i confini, nello Spirito, ci fa sentire belli dentro, invece che malati da curare; anzi, capaci di dare spazio alla magia del Divino in noi stessi e nelle relazioni.
Senza mai sentirsi assediati, i ‘figli’ reagiscono spontaneamente agli accadimenti - con innumerevoli iniziative benefiche personalizzanti, estranee a qualsiasi abitudine, concatenazione, nomenclatura.
Sotto la dinastia degli Erode il senso del clan e della comunità si stavano sgretolando.
Causa problemi di sopravvivenza, le famiglie erano costrette a chiudersi in se stesse, allentare i legami, pensare a proprie necessità.
Tale chiusura era rafforzata dalla devozione dell’epoca sotto ogni aspetto. Ai vv.10-12 ne vediamo un esempio incredibile: chi dedicava la propria eredità al Tempio poteva lasciare i genitori privi d’aiuto!
Offesa e offerta: ingiustizia e comportamento normativo - strano legame, nell’apparente forma dall’accento esemplare.
L’osservanza delle norme di purità era fattore di ordinaria emarginazione per molte persone.
Proprio i miseri venivano considerati in specie ignoranti e maledetti, perché impossibilitati all’adempimento globale; di conseguenza manchevoli a ricevere la consolante benedizione promessa ad Abramo.
Uno stillicidio quotidiano che minava il significato profondo dell’esistere assieme.
In particolare, le abluzioni erano una sorta di rito durante il quale si celebrava un’appagante divaricazione tra sacro e profano - nel distacco da persone e situazioni considerate impure.
Stando fuori dalle supposte sozzure, mai nessuno dei malfermi poteva essere risollevato.
Quindi le norme non erano fonte di pace, bensì di schiavitù. Porgere una mano caritatevole sarebbe stato perfino sacrilego.
Insomma, si anteponevano inezie disumane alla stessa Legge, vanificandone lo spirito comprensivo [fraternità che avrebbe accentuato l’entusiasmo di esistere].
Calate in quel contesto, le persone abbracciavano solo percorsi che già conoscevano.
La donna e l’uomo smarrivano il senso del loro esistere poliedrico. E la vita senza i “contrari” affievoliva l’Esodo del popolo tutto.
«Bellamente annullate il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9).
Gesù non sopporta che il mondo chiuso della religiosità conformista venga piegato e usato per annientare i rapporti.
Per questo al controllo dei farisei si oppone la libertà dei discepoli (v.2), che rifiutano di obbedire a ciò che non ha senso per la vita concreta - dove passa l’amore visibile che alimenta l’amore ideale.
Il Maestro e Signore insegna che il vero culto è Vicinanza. In tal guisa, nel solco della Parola c’è una tappa e un intero ordine nuovo, che conquista all’interiorità tutti i nessi esterni.
Autentica ‘estasi’ è la ‘purezza dell’avvantaggiare tutti’ - non l’autocompiacimento del modello di perfezione.
[Martedì 5.a sett. T.O. 11 febbraio 2025]
Tradizioni o idee ipocrite, e ordine ideale
(Mc 7,1-13)
«Non è troppo piccolo il cuore del credente per Colui al quale non bastò il tempio di Salomone. Noi infatti siamo il tempio del Dio vivo. Come è scritto: “Abiterò in mezzo a loro”.
Se un personaggio importante ti dicesse: “Verrò ad abitare da te”, che cosa faresti? Se la tua casa è piccola, non c’è dubbio che rimarresti sconcertato, ti spaventeresti, preferiresti che la cosa non avvenisse. Ma tu non temere la venuta di Dio, non temere il desiderio del tuo Dio. Non ti riduce lo spazio, quando viene. Al contrario, venendo sarà lui a dilatarti» (S. Agostino, Discorso 23,7).
La religiosità può ingannare l’ordine ideale; la vita di Fede lo promuove, facendo leva su una perfezione e purezza derivate semplicemente dalla dimensione umana - del buon senso e dell’accorgersi.
È così che si migliora e si redime il mondo: unendosi con la Shekhinah del Padre; non arroccandosi in un fortino, come fossimo in una tana.
E l’avventura piena, oltre i confini, nello Spirito, ci fa sentire belli dentro, invece che malati da curare; anzi, capaci di dare spazio alla magia del Divino in noi stessi e nelle relazioni.
Senza mai sentirsi assediati, i figli reagiscono spontaneamente agli accadimenti - con innumerevoli iniziative benefiche personalizzanti, estranee a qualsiasi abitudine, concatenazione, nomenclatura.
Sotto la dinastia degli Erode il senso del clan e della comunità si stavano sgretolando.
Pur sentendo il costante richiamo del Tempio, a motivo delle necessità impellenti non si era più aperti alla comunione.
Troppe le tasse da pagare, sia al governo che alla Casa di Dio.
Così i debiti aumentavano, accentuando problemi di sopravvivenza e sfilacciando la fraternità di parentela e la solidarietà di stirpe.
Le famiglie erano costrette a chiudersi in se stesse, allentare i legami, diradare la partecipazione alle riunioni e pensare alle proprie necessità.
Tale chiusura era rafforzata dalla devozione dell’epoca sotto ogni aspetto, e qui (vv.9-13) ne vediamo un esempio incredibile: chi dedicava la propria eredità al Tempio poteva lasciare i propri genitori privi d’aiuto!
Foto di un credo che rinnegava il comandamento di Dio in nome di Dio: korbàn [offerta fatta a Dio] senza pietà.
Spietatezza rituale priva di qualsiasi barlume di cordialità - però religiosamente connesse.
Offesa e offerta: ingiustizia e comportamento normativo.
Strano legame reciproco, tra due bussole poco affini - nell’apparente forma dall’accento esemplare, devoto, perbenista, longanime, confidente e pio.
«Bellamente annullate il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,9).
L’osservanza delle norme di purità era fattore di ordinaria emarginazione per molte persone: donne, bambini, malati, stranieri, poveri.
Era la situazione reale più sgradevole per la (vera) sacralità della vita, per il suo incanto - sottoposto a una specie di scuola dell’obbligo, tutta distante dai malfermi.
Proprio i miseri venivano considerati in specie ignoranti e maledetti, perché impossibilitati all’adempimento globale. Di conseguenza, manchevoli a ricevere la consolante benedizione promessa ad Abramo.
Uno stillicidio quotidiano che minava il significato profondo dell’esistere assieme.
In particolare, le abluzioni erano una sorta di rito durante il quale si celebrava un’appagante divaricazione tra sacro e profano - la Santità - nel distacco da persone e situazioni considerate impure.
Stando fuori dalle supposte sozzure, mai nessuno poteva essere risollevato.
Quindi le norme non erano fonte di pace, bensì di schiavitù: come sopra accennato, coloro che non potevano osservarle venivano considerati ignobili, non-persone.
Porgere una mano caritatevole sarebbe stato perfino sacrilego.
Insomma, si anteponevano inezie disumane alla stessa Legge, vanificandone lo spirito comprensivo [fraternità che avrebbe accentuato l’entusiasmo di esistere].
Poi, sia i limiti stretti che le posizioni estreme portavano all’incoerenza di chi svuotava il contenuto della Parola e impediva di attivare un percorso diverso per raggiungere l’autenticità della purezza.
“Perfezione” doveva essere: immersione nel dialogo, invece che quel precipitare in una ideologia eticista esterna. E in tal guisa lasciarsi sprofondare da lacciuoli sacrali che accentuassero stati esclusivi, di autocompiacimento, esaltazione - o assuefazione.
Calati in quel contesto sterilizzato e umiliante ogni iniziativa, l’identificazione prevaleva su qualsivoglia vocazione o destino missionario.
Ingannate e ingabbiate da cappe unidirezionali, le persone abbracciavano solo percorsi che già conoscevano.
La donna e l’uomo smarrivano il senso del loro esistere poliedrico. E la vita senza i “contrari” affievoliva l’Esodo del popolo tutto.
Gesù non sopportava che il mondo chiuso della religiosità potesse esser piegato e usato per controllare, dividere e discriminare - annientare il cammino e i rapporti.
I soddisfatti in tal senso diventavano fonte di mediocrità, ovunque - mentre come anche noi sappiamo, la Gioia è frutto di Liberazione; non di percorsi unilaterali.
Il senso di completezza è legato alla valorizzazione delle differenze. Ciò riguarda sia le vicende personali che sociali.
Lo sappiamo infallibilmente, per sapienza di Natura.
Dice infatti il Tao Tê Ching (LXXXI): «La Via del Cielo è di avvantaggiare, e di non danneggiare».
Dappertutto incontriamo i nostri allarmi personali, o crucci materiali; mille occupazioni che distraggono. Anche progetti per la qualità delle relazioni - forse ancora mescolate con l’imparaticcio di usi venerandi o la page [espedienti senza correlazione] che ci debilitano.
Per questo, al controllo dei farisei si oppone la libertà dei discepoli (v.2), che rifiutano di obbedire a ciò che non ha senso per la vita reale - dove passa l’amore visibile che alimenta l’amore ideale.
Gesù insegna che il vero culto è vicinanza e autenticità pratica, non osservanza letterale ai modelli o alle dottrine cerebrali.
Nel solco della Parola c’è una tappa e un intero ordine nuovo, che conquista all’interiorità tutti i nessi esterni.
Egli collega rito e azione, fede e amore, prescrizione consuetudinaria e obbligo intimo.
Unico comando in grado di purificare e farci immagine e somiglianza di Persona che sa incontrare il suo opposto, secondo l’unità in Spirito del culto.
Quando accogliamo l’appello dei Vangeli riconoscendolo quale stimolo che corrisponde e costruisce convivialità delle differenze, ci sentiamo meno duri e orgogliosi.
Se viceversa restiamo distanti, andremo in chiesa inciampando con le tradizioni o con idee nuove pur grandi, ma senza rapportarci col disegno di salvezza del Padre.
L’Eterno non vuole scippare le nostre capacità, ma spalancare al bene e all’autentica estasi.
Purezza dell’avvantaggiare - non del modello di perfezione.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Qual è il senso della purezza insegnata da Gesù?
La tua fede è vicina o lontana dalla vita?
Ed ecco il problema
Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo. E così la religione smarrisce il suo senso autentico che è vivere in ascolto di Dio per fare la sua volontà - che è la verità del nostro essere - e così vivere bene, nella vera libertà, e si riduce a pratica di usanze secondarie, che soddisfano piuttosto il bisogno umano di sentirsi a posto con Dio. Ed è questo un grave rischio di ogni religione, che Gesù ha riscontrato nel suo tempo, ma che si può verificare, purtroppo, anche nella cristianità. Perciò le parole di Gesù nel Vangelo di oggi contro gli scribi e i farisei devono far pensare anche noi.
[Papa Benedetto, Angelus 2 settembre 2012]
Due carte d’identità
Per conoscere la nostra vera identità non possiamo essere «cristiani seduti» ma dobbiamo avere il «coraggio di metterci sempre in cammino per cercare il volto del Signore», perché noi siamo «immagine di Dio». Nella messa celebrata a Santa Marta martedì 10 febbraio, Papa Francesco, commentando la prima lettura liturgica — il racconto della creazione nel libro della Genesi (1, 20 - 2, 4) — ha riflettuto su una domanda essenziale per ogni persona: «Chi sono io?».
La nostra «carta d’identità», ha detto il Papa, si ritrova nel fatto che gli uomini sono stati creati «all’immagine, secondo la somiglianza di Dio». Ma allora, ha aggiunto, «la domanda che noi possiamo farci è: Come conosco, io, l’immagine di Dio? Come so com’è lui per sapere come sono io? Dove trovo l’immagine di Dio?». La risposta si trova «certamente non sul computer, non nelle enciclopedie, non nei libri», perché «non c’è un catalogo dove c’è l’immagine di Dio». C’è solo un modo «per trovare l’immagine di Dio, che è la mia identità» ed è quello di mettersi in cammino: «Se non ci mettiamo in cammino, mai potremo conoscere il volto di Dio».
Questo desiderio di conoscenza si ritrova anche nell’Antico testamento. I salmisti, ha fatto notare Francesco, «tante volte dicono: io voglio conoscere il tuo volto»; e «anche Mosè una volta l’ha detto al Signore». Ma in realtà «non è facile, perché mettersi in cammino significa lasciare tante sicurezze, tante opinioni di come è l’immagine di Dio, e cercarlo». Significa, in altri termini, «lasciare che Dio, la vita, ci metta alla prova», significa «rischiare», perché «soltanto così si può arrivare a conoscere il volto di Dio, l’immagine di Dio: mettendosi in cammino».
Il Papa ha attinto ancora all’Antico testamento per ricordare che «così ha fatto il popolo di Dio, così hanno fatto i profeti». Per esempio «il grande Elia: dopo aver vinto e purificato la fede di Israele, lui sente la minaccia di quella regina e ha paura e non sa cosa fare. Si mette in cammino. E a un certo punto, preferisce morire». Ma Dio «lo chiama, gli dà da mangiare, da bere e dice: continua a camminare». Così Elia «arriva al monte e lì trova Dio». Il suo è stato dunque «un lungo cammino, un cammino penoso, un cammino difficile», ma ci insegna che «chi non si mette in cammino, mai conoscerà l’immagine di Dio, mai troverà il volto di Dio». È una lezione per tutti noi: «i cristiani seduti, i cristiani quieti — ha affermato il Pontefice — non conosceranno il volto di Dio». Hanno la presunzione di dire: «Dio è così, così...», ma in realtà «non lo conoscono».
Per camminare, invece, «è necessaria quella inquietudine che lo stesso Dio ha messo nel nostro cuore e che ti porta avanti a cercarlo». La stessa cosa, ha spiegato il Pontefice, è successa «a Giobbe che, con la sua prova, ha incominciato a pensare: ma come è Dio, che permette questo a me?». Anche i suoi amici «dopo un grande silenzio di giorni, hanno incominciato a parlare, a discutere con lui». Ma tutto ciò non è stato utile: «con questi argomenti, Giobbe non ha conosciuto Dio». Invece «quando lui si è lasciato interpellare dal Signore nella prova, ha incontrato Dio». E proprio da Giobbe si può ascoltare «quella parola che ci aiuterà tanto in questo cammino di ricerca della nostra identità: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto”». È questo il cuore della questione secondo Francesco: «l’incontro con Dio» che può avvenire «soltanto mettendosi in cammino».
Certo, ha continuato, «Giobbe si è messo in cammino con una maledizione», addirittura «ha avuto il coraggio di maledire la vita e la sua storia: “Maledetto il giorno che sono nato...”». In effetti, ha riflettuto il Papa, «a volte, nel cammino della vita, non troviamo un senso alle cose». La stessa esperienza è stata vissuta dal profeta Geremia, il quale «dopo essere stato sedotto dal Signore, sente quella maledizione: “Ma perché a me?”». Egli voleva «restarsene seduto tranquillo» e invece «il Signore voleva fargli vedere il suo volto».
Questo vale per ognuno di noi: «per conoscere la nostra identità, conoscere l’immagine di Dio, bisogna mettersi in cammino», essere «inquieti, non quieti». Proprio questo «è cercare il volto di Dio».
Papa Francesco si è quindi riferito anche al passo del Vangelo di Marco (7, 1-13), nel quale «Gesù incontra gente che ha paura di mettersi in cammino» e che costruisce una sorta di «caricatura di Dio». Ma quella «è una falsa carta d’identità» perché, ha spiegato il Pontefice, «questi non-inquieti hanno fatto tacere l’inquietudine del cuore: dipingono Dio con i comandamenti» ma così facendo «si dimenticano di Dio» per osservare solo «la tradizione degli uomini». E «quando hanno un’insicurezza, inventano o fanno un altro comandamento». Gesù dice a scribi e farisei che accumulano comandamenti: «Così voi annullate la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi, e di cose simili ne fate molte». Proprio questa «è la falsa carta d’identità, quella che possiamo avere senza metterci in cammino, quieti, senza l’inquietudine del cuore».
In proposito il Papa ha messo in evidenza un particolare «curioso»: il Signore infatti «li loda ma li rimprovera dove c’è il punto più dolente. Li loda: “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione”», ma poi «li rimprovera lì dove è il punto più forte dei comandamenti con il prossimo». Gesù ricorda infatti che Mosè disse: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte». E prosegue: «Voi invece dite: se uno dichiara al padre o alla madre che “ciò con cui dovrei aiutarti, cioè darti da mangiare, darti da vestire, darti per comprare le medicine, è Korbàn, offerta a Dio”, non consentite loro di fare più nulla per il padre e la madre». Così facendo «si lavano le mani con il comandamento più tenero, più forte, l’unico che ha una promessa di benedizione». E così «sono tranquilli, sono quieti, non si mettono in cammino». Questa dunque «è l’immagine di Dio che loro hanno». In realtà il loro è un cammino «fra virgolette»: ossia «un cammino che non cammina, un cammino quieto. Rinnegano i genitori, ma compiono le leggi della tradizione che loro hanno fatto».
Concludendo la sua riflessione il vescovo di Roma ha riproposto il senso dei due testi liturgici come «due carte d’identità». La prima è «quella che tutti noi abbiamo, perché il Signore ci ha fatto così», ed è «quella che ci dice: mettiti in cammino e tu avrai conoscenza della tua identità, perché tu sei immagine di Dio, sei fatto a somiglianza di Dio. Mettiti in cammino e cerca Dio». L’altra invece ci rassicura: «No, stai tranquillo: compi tutti questi comandamenti e questo è Dio. Questo è il volto di Dio». Da qui l’auspicio che il Signore «dia a tutti la grazia del coraggio di metterci sempre in cammino, per cercare il volto del Signore, quel volto che un giorno vedremo ma che qui, sulla terra, dobbiamo cercare».
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 11/02/2015]
Cari fratelli e sorelle!
Nella Liturgia della Parola […] emerge il tema della Legge di Dio, del suo comandamento: un elemento essenziale della religione ebraica e anche di quella cristiana, dove trova il suo pieno compimento nell’amore (cfr Rm 13,10). La Legge di Dio è la sua Parola che guida l’uomo nel cammino della vita, lo fa uscire dalla schiavitù dell’egoismo e lo introduce nella «terra» della vera libertà e della vita. Per questo nella Bibbia la Legge non è vista come un peso, una limitazione opprimente, ma come il dono più prezioso del Signore, la testimonianza del suo amore paterno, della sua volontà di stare vicino al suo popolo, di essere il suo Alleato e scrivere con esso una storia di amore. Così prega il pio israelita: «Nei tuoi decreti è la mia delizia, / non dimenticherò la tua parola. (…) Guidami sul sentiero dei tuoi comandi, / perché in essi è la mia felicità» (Sal 119,16.35). Nell’Antico Testamento, colui che a nome di Dio trasmette la Legge al popolo è Mosè. Egli, dopo il lungo cammino nel deserto, sulla soglia della terra promessa, così proclama: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi» (Dt 4,1).
Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo. E così la religione smarrisce il suo senso autentico che è vivere in ascolto di Dio per fare la sua volontà - che è la verità del nostro essere - e così vivere bene, nella vera libertà, e si riduce a pratica di usanze secondarie, che soddisfano piuttosto il bisogno umano di sentirsi a posto con Dio. Ed è questo un grave rischio di ogni religione, che Gesù ha riscontrato nel suo tempo, ma che si può verificare, purtroppo, anche nella cristianità. Perciò le parole di Gesù nel Vangelo di oggi contro gli scribi e i farisei devono far pensare anche noi. Gesù fa proprie le parole del profeta Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,6-7; cfr Is 29,13). E poi conclude: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,8).
Anche l’apostolo Giacomo, nella sua Lettera, mette in guardia dal pericolo di una falsa religiosità. Egli scrive ai cristiani: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Vergine Maria, alla quale ora ci rivolgiamo in preghiera, ci aiuti ad ascoltare con cuore aperto e sincero la Parola di Dio, perché orienti i nostri pensieri, le nostre scelte e le nostre azioni, ogni giorno.
[Papa Benedetto, Angelus 2 settembre 2012]
Because of this unique understanding, Jesus can present himself as the One who reveals the Father with a knowledge that is the fruit of an intimate and mysterious reciprocity (John Paul II)
In forza di questa singolare intesa, Gesù può presentarsi come il rivelatore del Padre, con una conoscenza che è frutto di un'intima e misteriosa reciprocità (Giovanni Paolo II)
Yes, all the "miracles, wonders and signs" of Christ are in function of the revelation of him as Messiah, of him as the Son of God: of him who alone has the power to free man from sin and death. Of him who is truly the Savior of the world (John Paul II)
Sì, tutti i “miracoli, prodigi e segni” di Cristo sono in funzione della rivelazione di lui come Messia, di lui come Figlio di Dio: di lui che, solo, ha il potere di liberare l’uomo dal peccato e dalla morte. Di lui che veramente è il Salvatore del mondo (Giovanni Paolo II)
It is known that faith is man's response to the word of divine revelation. The miracle takes place in organic connection with this revealing word of God. It is a "sign" of his presence and of his work, a particularly intense sign (John Paul II)
È noto che la fede è una risposta dell’uomo alla parola della rivelazione divina. Il miracolo avviene in legame organico con questa parola di Dio rivelante. È un “segno” della sua presenza e del suo operare, un segno, si può dire, particolarmente intenso (Giovanni Paolo II)
That was not the only time the father ran. His joy would not be complete without the presence of his other son. He then sets out to find him and invites him to join in the festivities (cf. v. 28). But the older son appeared upset by the homecoming celebration. He found his father’s joy hard to take; he did not acknowledge the return of his brother: “that son of yours”, he calls him (v. 30). For him, his brother was still lost, because he had already lost him in his heart (Pope Francis)
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore (Papa Francesco)
Doing a good deed almost instinctively gives rise to the desire to be esteemed and admired for the good action, in other words to gain a reward. And on the one hand this closes us in on ourselves and on the other, it brings us out of ourselves because we live oriented to what others think of us or admire in us (Pope Benedict)
Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi (Papa Benedetto)
Since God has first loved us (cf. 1 Jn 4:10), love is now no longer a mere “command”; it is the response to the gift of love with which God draws near to us [Pope Benedict]
Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un « comandamento », ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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