Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Ereditare la Vita dell’Eterno
(Mc 10,17-27)
Cosa ci sfugge, malgrado la convinzione e il coinvolgimento? Per quale alto motivo abbiamo fatto alcune scelte comportamentali?
Anche se dedicassimo anni d’impegno al cammino spirituale in religione, ci accorgeremmo che infine non manca solo la ciliegina sulla torta, ma l’Uno globale.
Non è sufficiente accentuare o perfezionare le cose buone, bisogna fare un Balzo; non basta un passetto (anche alternativo) in più.
Paradossalmente si parte dalla percezione d’una ferita interiore che smuove (v.17) alla ricerca di quel Bene che unifica e dà senso alla vita.
Gesù fa riflettere su ciò che è da considerare «Insigne» (così il testo greco: vv.17-18).
Non è un magistero per i lontani, bensì per noi: «Uno ti manca!» - come se volesse sottolineare: «Ti manca il Tutto, non hai quasi niente!».
La vita normale procede, ma il cammino di fiducia difetta. Non c’è stupore.
Il nostro andare non si consolida né qualifica adeguandosi all’ambiente circostante, aggiungendo patrimonio a patrimonio e scansando peccatucci, o - soprattutto - le incognite.
Mancano troppe cose: la sfida del di più personale, la cura altrui, il confronto con la drammaticità del reale: non c’è unità, scarseggia la Presenza autentica che lancia l’amore nello spirito di avventura.
Non si tratta di avere uno spunto in aggiunta a quanto già possediamo, continuando a esserne schiavi (i titoli, il capitale o il soldo che ci danno ordini come padroni; promettono, garantiscono, lusingano).
Non basta migliorare situazioni di relazione che conosciamo a memoria, facendosi approvare fin dal primo passo - né limitarsi ad approfondire pie curiosità saziando la gola spirituale.
Il passaggio dalla religiosità alla Fede che porta il nostro destino vocazionale e piena realizzazione si gioca su una penuria di appoggi - in sistemi caotici di correlazione.
Per essere felici non vale “normalizzarsi” né rimanere persone perbene, devote, perché l’anima esige la sfida di cieli inesplorati; acque che non abbiamo sondato: lati di noi stessi, degli altri e della realtà che non abbiamo fatto emergere, e ancora forse non stiamo nemmeno scrutando.
Bisogna avventurarsi nei tratti basali e straordinari che oggi chiamano anche nel giorno dopo giorno; non attendere assicurazioni.
E il punto di partenza può anche essere l’accento del dubbio, una sana inquietudine dell’anima - il pericolo stesso... tipico dei testimoni critici.
Non tacitiamo il nostro essere malsicuro, né il senso d’insoddisfazione per una esistenza comune, senza scossoni: sono feconde sospensioni, che (quando pronti) ci attiveranno.
Sentirsi completo, realizzato, felice? Bisogna che sguardo e cuore cedano, non siano già occupati.
È assolutamente necessario lasciar andare le certezze dalla mente e dalla propria mano.
L’azzardo non è macerazione di sé o delle linee portanti della propria personalità - ma il temerario investire tutto per un altro regno, dove affiorano energie, si esplorano differenti rapporti, e si tenta di sublimare i beni in matrice di vita (anche altrui: v.21).
Dopo che un senso d’incompletezza o persino l’infermità spirituale ci hanno spinti a una ricca sintonia con i codici dell’anima e condotti a tu per tu con Gesù (v.17) da Lui comprendiamo il segreto della Gioia.
Il nostro Nucleo rimane inquieto se non infonde corrispondenze che sorvolino - appunto - l’antico dominatore: i possedimenti, che fanno ristagnare.
Malgrado le garanzie promesse, essi rimangono stitici, privi di senso. Anzi, bloccandoci nella dipendenza fanno regredire quasi nel pre-umano - scippando la delizia delle relazioni aperte, nel rispetto di sé.
Le Radici profonde vogliono modificare il vettore dell’io paludoso e situato - “come si deve”, ben inserito o autoreferenziale - affinché dilati comprendendo il Tu e il tutto reale (vv.28-30).
È la Nascita della donna e dell’uomo nuovi, padri e madri dell’umanizzazione (in una comunità viva, che accetta la convivialità delle differenze). Ciò che sfiora la condizione divina.
In grado persino di rovesciare le posizioni (v.31). Segno escatologico e della Chiesa genuina, Nido e Focolare vero.
È la Genesi nell’autenticità delle energie cosmiche e delle potenze interiori, che stanno preparando tappe di crescita - altrove.
Via via si crea il calore e la reciprocità d’un rapporto comprensivo, lo scopo d’Amore in ciò che intraprendiamo o rifacciamo; come il tepore amico d’una Presenza non frigida.
Viviamo un discrimine colmo d’ebbrezza da cui non si torna indietro, perché ci colloca nella Vita stessa dell’Eterno (v.17). L’Uno che manca (v.21).
Mentre mi adopero per rimettermi in discussione o in favore degli altri, affiorano le risorse prima celate e che neppure sapevo.
Con stupore faccio esperienza d’una realtà che passo passo si dischiude... nonché di un Padre che provvede a me (v.27).
In tale estensione, impariamo a riconoscere il (nuovo decisivo) Soggetto del cammino spirituale: il Disegno di Dio nell’essere stesso.
Sogno che conduce… e malgrado le traversie, le tempeste emotive, i nostri contorcimenti, si rivela via via somigliante, come innato: schietto, genuino, limpido; inconfutabile, smagliante, scorrevole.
Inseriti nella Comunità che ode l’appello a “uscire”, ci smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).
Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere Fratelli, sullo stesso piano. Non ci sarà nessun cento per uno di “padri” (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente da sfaccettature d’Ignoto.
Una vita di attaccamenti blocca la creatività. Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o pre-occupazioni è come creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità personale.
Chi si lascia inibire edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.
Congetturando di riuscire a prevedere le avventure globali ci rattrappiamo, spaventiamo; non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui: è quanto si palesa durante un processo - che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici».
Sono le nuove genesi (sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto) a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Cosa devo «fare» (v.17)? Accogliere il Dono del diverso e delle differenze - persino nei miei stessi volti interiori, anche opposti; che completano.
Trasaliremo dell’Uno che manca, ma che ci raggiunge. Non si fabbrica, ma si riceve, si «eredita» (v.17) gratuitamente dal reale che preme.
«Dov’è l’Insigne per me?». Per diventare ciò che autenticamente siamo nell’elezione della nostra sacra Sorgente bisogna abbandonarsi alle cose, alle situazioni, persino agli ospiti emotivi inusitati - trattandoli con dignità, così come sono.
Dentro questo nuova terra c’è il segreto di quell’elevatezza che si staglia sui dilemmi, per ciascuno.
Con tutto il suo carico di stimolanti sorprese e appelli a rifiorire in pienezza umanizzante, il Buono sta nell’accogliere qualcosa che non so già cos’è o sarà, ma Viene.
«L’Unico ti manca!» - e il modo migliore per stimarne il contatto è una scommessa, matrice di vita: trasformare i beni (di ogni genere) in vita e relazione.
Lasciare tutto e sperimentare il rovesciamento
(Mc 10,28-31)
Secondo mentalità corretta - tipica dell’ebraismo - per ricevere l’eredità divina bastava osservare i comandamenti (vv.17-20).
La proposta di Gesù non punta sullo scambio dei favori (automatismo farisaico): ha respiro, e poggia sul gratis; aiuta la libertà - è più ampia, senza zavorre.
Per questo... inclina verso la povertà ecclesiale. Sia il benestante che il convincimento degli apostoli vanno liberati dall’idolo dell’opulenza (forza paludosa).
Segno che la mentalità “interna” alle comunità andava raddrizzata, già d’allora: non è con la sicurezza a monte che si può fare esodo per incontrare l’Unico (v.21) nel cuore; né la Chiesa può starsene al sicuro col contributo materiale dei ricchi (v.26).
Il cammino dell’amore e il rischio educativo suppongono la via della sobrietà avventurosa, senza la quale non è possibile incidere sui compartimenti stagni del pensiero e della società.
Al contrario delle devozioni, la vita di Fede non richiede l’offerta a Dio di un sacrificio modesto o rassegnato, ma l’abbandono al futuro che viene.
Anche per una questione di sostanza, esso ci costringerà a spostare lo sguardo e riattiverà incessantemente.
Così facendo permanere i discepoli nell’energia d’intrapresa, finalmente non lascerà più nessuno a capo chino. Perché qui si scambiano le carte (v.31).
Egli non vuole scipparci di nulla: la sua Presenza amica è un fermento consistente, che vuole realizzare l’assoluto in ciascuno di noi.
Il distacco dalle cose per espandere e rallegrare la qualità del percorso è germe d’un nuovo sacro, d’un altro volto dell’umanità e del mondo.
L’esistenza concreta che scaturisce dalla proposta di Fede supera ogni modello religioso, ed estende perfino la comunità, creando una famiglia senza confini - tutti fratelli e sorelle, senza dirigenti a vita.
Non siamo più minorenni: abbiamo una Speranza piena - non moderata.
Solo la condivisione dei beni si ergerà: frutto di provvidenza e dono sistematico - e non vi saranno bisognosi, anzi avanzerà per altri ancora (ideale già di Dt 15 - senza più steccati culturali).
E nessun calcolo di contraccambio: perché non si parte dall’egoismo o dal tornaconto di club dalle belle maniere (e dall’avido possesso).
Ovvio, Cristo sarà la scelta dei poveri, che da sempre sognano un rovesciamento della piramide (v.31).
Al tempo di Gesù la vita della gente era infatti marcata - tratto a tratto - da una duplice sottomissione: la politica di Erode e la schiavitù religiosa.
Il sistema di sfruttamento e repressione era capillare e ben organizzato, e anche le autorità religiose avevano astutamente trovato un modus vivendi remunerativo ben introdotto nei gangli dell’impero.
Tutto ciò a prezzo della disgregazione della vita comunitaria e famigliare (sfaccettature dell’antica comunione di clan, ora vessata da problemi di sopravvivenza materiale e maggiore individualismo).
In un contesto di collasso sociale, moltissimi erano costretti a tirare avanti in una condizione di emarginati ed esclusi.
Ma nelle assemblee di Gesù l’atteggiamento d’inclusione verso gli emarginati, deboli e malfermi, le caratterizzava e faceva spiccare (via via preferire) nei confronti di tutti gli altri gruppi.
A quel tempo non mancavano diverse sette - anche ben motivate - che desideravano mostrare un modello di vita alternativo alla spietatezza della realtà corrente.
Però ad es. gli Esseni erano legalisti e puristi, e vivevano separati; così anche i Farisei, tradizionalisti che avevano abominio della gente “contaminata”.
Persino gli Zeloti mal sopportavano la folla debole e indecisa.
I considerati ignoranti, maledetti (per essere non in grado di adempiere le prescrizioni di legge) e in peccato, erano viceversa benvenuti nelle comunità cristiane.
Proprio i senza peso forzosamente esclusi perfino dal clan a motivo delle necessità economiche, trovavano lì finalmente rifugio, tepore, ascolto, comprensione, aiuto.
Il Maestro stesso aveva esplicitamente ordinato di scegliere l’anti-ambizione e l’esproprio personale in favore dei malati e deboli; di tutti coloro che erano rimasti indietro.
La semplicità di vita faceva il paio con la sobrietà nella missione.
Il Signore consigliava infatti agl’inviati di testimoniare fiducia radicale nell’ospitalità (offerta da tanti nuovi “famigliari”).
Senso di adattamento e misura nell’essenziale erano il carattere irrinunciabile dell’evangelizzazione.
I veri testimoni di Cristo, anche oggi e col passare del tempo, s’accontentano del provvisorio - tipico dei pellegrini - e non bramano migliori sistemazioni future, passando di casa in casa (Mc 6,10).
In tutto ciò i credenti dimostrano la Presenza del Regno fraterno e concreto, in mezzo - che rovescia i ruoli e le ottiche, come le posizioni abitudinarie fra donne e uomini, giovani e vecchi, o nuovi e veterani (v.31).
Inseriti nella Fraternità che ode l’appello a “uscire”, smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).
Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere sullo stesso piano. Non ci sarà nessun cento per uno di «padri» (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.
Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente dalle sfaccettature del Mistero che tocca, a partire da dentro.
Una vita di attaccamenti blocca la creatività. Appiccicarsi un idolo, lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o preoccupazioni è come creare una camera buia.
Sentirsi programmabili, già progettati senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità sconosciuta e tutta personale.
Chi si lascia inibire dall’etica esclusiva edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.
Congetturando di riuscire a prevedere le eccentricità feconde o addirittura le avventure globali, ci rattrappiamo, spaventiamo.
Nel timore non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui: quanto si palesa solo durante un processo, che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.
Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici» che bloccano la vita.
Sono le nuove genesi sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.
Spiritualità vuota, o dei beni-Relazione
Dalle usanze coi limiti alla Spiritualità dei beni-Relazione
(Mt 19,16-22)
Al tempo di Gesù si viveva un momento di collasso sociale e disgregazione della dimensione comunitaria della vita - nel passato più legata alla famiglia, al clan e alla comunità.
La politica di Erode garantiva all’Impero il controllo della situazione: una realtà di massimo sfruttamento e grave repressione economica e civile.
Le imposizioni religiose assicuravano persino l’asservimento delle coscienze - e le autorità spirituali si facevano volentieri garanti di questa più occulta forma di schiavitù.
La condizione di sottomissione totale (civile e religiosa) del popolo tendeva ovunque a sminuire il senso della fraternità interpersonale e di gruppo.
Non mancavano severe condizioni di esclusione sociale e cultuale, che accentuavano lo smarrimento della gente, emarginata, priva di dimora e di riferimenti - persino religiosi.
Alcuni movimenti tentavano di ritessere le lacerazioni e proporre forme di vita condivisa, certo - ma accomunate da un’idea di decontaminazione tormentosa [Esseni, Farisei, Zeloti].
Gesù sceglie la strada d’un riscatto vitale decisivo, rispetto alle ideologie della riscoperta del purismo ascetico e di costume, tradizionalista nazionalista fondamentalista.
Per un radicale compimento dello spirito della Legge bisognava andare oltre le dottrine. Esse eccitano alcuni, eppure non cancellano il nostro senso intimo di vuoto.
La comunità dei figli non si tiene nei ‘limiti’, e non vive separata; così non accentua i tormenti d’imperfezione, o la percezione d’incompiutezza, né le emarginazioni - bensì le accoglie.
Non si sente messa in pericolo dal contatto con le realtà che il legalismo esterno della devozione antica considerava pericolose e maledette o in peccato. Trepida per esse.
La Chiesa riconosce il valore delle povertà esistenziali: non gli basta cercare “cose buone” senza ‘fuoco’ dentro.
Confessa la ricchezza non di tutto ciò che risulta già riconoscibile e statico, bensì delle nuove posizioni e dei rapporti difformi, che aprono il presente e spalancano visioni creative di futuro.
La Fede insomma non è un credere popolaresco identificato e in grado di accreditare ruoli, mansioni e personaggi - e i loro vantaggi, da cui tutti dovrebbero dipendere [!].
Né la dimensione-ricchezza può fare ancora rima con differenziazione-sicurezza.
Ai vv.18-19 Gesù non enumera comandamenti che farebbero vivere l’interlocutore [come si diceva un tempo] ‘più da presso’ a ‘Dio solo’, ma i criteri che ci portano vicino e accanto a sorelle e fratelli.
L’onore riservato al Padre non è una delle tante forme di amore competitivo: la soglia è il prossimo.
Il Dio delle religioni è un ragazzino capriccioso che pretende il pezzo grande della torta, a merenda: ma il Figlio non c’inganna con le idee più infantili delle credenze diffuse.
Neppure cita i primi comandamenti, identificativi del Signore eccelso del suo popolo.
Le nostre mani abbracciano il senza-tempo nell’amore concreto.
Esse innescano i dinamismi che annientano i tormenti dei minimi, e così in modo impensabile aiutano a farci riscoprire il senso e la gioia di vivere - lasciando rinascere il mondo, assai più che con le solite forme assicurative (sacralizzanti titoli e livelli economici acquisiti).
La vita consapevole non ha a che fare con usanze e cliché [che producono alibi] ma con un’altra serenità e gioia: lo stupore dell’inconsueto e di nuovi gradi, posti, stati, relazioni, situazioni.
Non esiste altra ricchezza che possa riempire le nostre giornate, mentre non c’è che tristezza (v.22) nei vecchi legami senza umanità. Essi calano tutti noi in una realtà mentale ed emotiva artificiosa.
Distaccarsi dal calcolo immediato sembra una scelta assurda, campata per aria e destinata male, ma è viceversa la mossa vincente che apre le porte alla Vita nuova del Regno e alla Felicità, cui si accede appunto quando i beni materiali vengono trasformati in Relazione.
Non conosciamo disciplina religiosa che tenga [e che riesca a sfidare il tempo, le nostre emozioni].
Solo il rischio per la Vita completa - nostra, di tutti - fa da molla alla volontà e spinge a piena dedizione.
Dice il Tao (xiii): «A chi di sé fa pregio a pro del mondo, si può affidare il mondo; a chi di sé ha cura a pro del mondo, si può confidare il mondo».
E il maestro Ho-shang Kung commenta: «Se facessi sì da non tenere alla mia persona, avrei in me la spontaneità del Tao: mi solleverei con leggerezza innalzandomi fino alle nubi, entrerei e uscirei là dove non sono interstizi, porrei lo spirito in comunicazione col Tao. Allora quale sventura avrei?».
Liberiamoci dalla pletora di obbiettivi sbagliati, che schiacciano i nostri percorsi, rendendoli paludosi. Riflettiamo bene anche noi, dunque, su «ciò ch’è insigne» (v.17).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Grazie alle guide spirituali hai imparato a cogliere la tua vita a partire dalla Bontà di Dio, o a cullarti e accontentarti di quanto c’è?
Nella Chiesa hai trovato realizzato il criterio di Gesù, il forte desiderio di Bene anche altrui, in grado d’indicare un percorso? O più attenzione alle cose della terra?
Cari fratelli e sorelle!
Quattro nuovi Santi vengono oggi proposti alla venerazione della Chiesa universale: Rafael Guízar y Valencia, Filippo Smaldone, Rosa Venerini e Théodore Guérin. I loro nomi saranno ricordati per sempre. Per contrasto, viene subito da pensare al "giovane ricco", di cui parla il Vangelo appena proclamato. Questo giovane è rimasto anonimo; se avesse risposto positivamente all'invito di Gesù, sarebbe diventato suo discepolo e probabilmente gli Evangelisti avrebbero registrato il suo nome. Da questo fatto si intravede subito il tema della Liturgia della Parola di questa domenica: se l'uomo ripone la sua sicurezza nelle ricchezze di questo mondo non raggiunge il senso pieno della vita e la vera gioia; se invece, fidandosi della parola di Dio, rinuncia a se stesso e ai suoi beni per il Regno dei cieli, apparentemente perde molto, in realtà guadagna tutto. Il Santo è proprio quell'uomo, quella donna che, rispondendo con gioia e generosità alla chiamata di Cristo, lascia ogni cosa per seguirlo. Come Pietro e gli altri Apostoli, come Santa Teresa di Gesù che oggi ricordiamo, e innumerevoli altri amici di Dio, anche i nuovi Santi hanno percorso questo esigente, ma appagante itinerario evangelico ed hanno ricevuto "il centuplo" già nella vita terrena insieme con prove e persecuzioni, e poi la vita eterna.
Gesù, dunque, può veramente garantire un'esistenza felice e la vita eterna, ma per una via diversa da quella che immaginava il giovane ricco: non cioè mediante un'opera buona, una prestazione legale, bensì nella scelta del Regno di Dio quale "perla preziosa" per la quale vale la pena di vendere tutto ciò che si possiede (cfr Mt 13, 45-46). Il giovane ricco non riesce a fare questo passo. Malgrado sia stato raggiunto dallo sguardo pieno d'amore di Gesù (cfr Mc 10, 21), il suo cuore non è riuscito a distaccarsi dai molti beni che possedeva. Ecco allora l'insegnamento per i discepoli: "Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!" (Mc 10, 23). Le ricchezze terrene occupano e preoccupano la mente e il cuore. Gesù non dice che sono cattive, ma che allontanano da Dio se non vengono, per così dire, "investite" per il Regno dei cieli, spese cioè per venire in aiuto di chi è nella povertà.
Comprendere questo è frutto di quella sapienza di cui parla la prima Lettura. Essa - ci è stato detto - è più preziosa dell'argento e dell'oro, anzi della bellezza, della salute e della stessa luce, "perché non tramonta lo splendore che ne promana" (Sap 7, 10). Ovviamente, questa sapienza non è riducibile alla sola dimensione intellettuale. È molto di più; è "la Sapienza del cuore", come la chiama il Salmo 89. È un dono che viene dall'alto (cfr Gc 3, 17), da Dio, e si ottiene con la preghiera (cfr Sap 7, 7). Essa infatti non è rimasta lontana dall'uomo, si è fatta vicina al suo cuore (cfr Dt 30, 14), prendendo forma nella legge della Prima Alleanza stretta tra Dio e Israele mediante Mosè. Nel Decalogo è contenuta la Sapienza di Dio. Per questo Gesù afferma nel Vangelo che per "entrare nella vita" è necessario osservare i comandamenti (cfr Mc 10, 19). È necessario, ma non sufficiente! Infatti, come dice San Paolo, la salvezza non viene dalla legge, ma dalla Grazia. E San Giovanni ricorda che la legge l'ha data Mosè, mentre la Grazia e la Verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo (cfr Gv 1, 17). Per giungere alla salvezza bisogna dunque aprirsi nella fede alla grazia di Cristo, il quale però a chi gli si rivolge pone una condizione esigente: "Vieni e seguimi" (Mc 10, 21). I Santi hanno avuto l'umiltà e il coraggio di rispondergli "sì", e hanno rinunciato a tutto per essere suoi amici. Così hanno fatto i quattro nuovi Santi, che oggi particolarmente veneriamo. In essi ritroviamo attualizzata l'esperienza di Pietro: "Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito" (Mc 10, 28). Il loro unico tesoro è in cielo: è Dio.
Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci aiuta a comprendere la figura di San Rafael Guízar y Valencia, Vescovo di Veracruz nell'amata nazione messicana, come un esempio di colui che ha lasciato tutto per "seguire Gesù". Questo Santo fu fedele alla parola divina, "viva ed efficace", che penetra nel più profondo dello spirito (cfr Eb 4, 12). Imitando Cristo povero rinunciò ai suoi beni e non accettò mai i doni dei potenti, oppure li ridonava subito. Per questo ricevette "cento volte tanto" e poté così aiutare i poveri, anche nelle "persecuzioni" senza tregua (cfr Mc 10, 30). La sua carità vissuta in grado eroico fece sì che lo chiamassero il "Vescovo dei poveri". Nel suo ministero sacerdotale e poi episcopale, fu un instancabile predicatore di missioni popolari, il modo più adeguato a quel tempo per evangelizzare le genti, usando il suo Catechismo della dottrina cristiana. Essendo la formazione dei sacerdoti una delle sue priorità, riaprì il seminario, che considerava "la pupilla dei suoi occhi" e per questo era solito dire: "A un Vescovo possono mancare la mitra, il pastorale e persino la cattedrale, ma non può mancargli il seminario, poiché dal seminario dipende il futuro della sua Diocesi". Con questo profondo senso di paternità sacerdotale affrontò nuove persecuzioni ed esilî, ma garantendo sempre la preparazione degli studenti. Che l'esempio di San Rafael Guízar y Valencia sia una chiamata per i fratelli Vescovi e sacerdoti a considerare come fondamentale nei programmi pastorali, oltre allo spirito di povertà e dell'evangelizzazione, la promozione delle vocazioni sacerdotali e religiose, e la loro formazione secondo il cuore di Gesù!
San Filippo Smaldone, figlio del Meridione d'Italia, seppe trasfondere nella sua vita le migliori virtù proprie della sua terra. Sacerdote dal cuore grande, nutrito di costante preghiera e di adorazione eucaristica, fu soprattutto testimone e servo della carità, che manifestava in modo eminente nel servizio ai poveri, in particolare ai sordomuti, ai quali dedicò tutto se stesso. L'opera che egli iniziò prosegue grazie alla Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori da lui fondata, e che è diffusa in diverse parti d'Italia e del mondo. Nei sordomuti San Filippo Smaldone vedeva riflessa l'immagine di Gesù, ed era solito ripetere che, come ci si prostra davanti al Santissimo Sacramento, così bisogna inginocchiarsi dinanzi ad un sordomuto. Raccogliamo dal suo esempio l'invito a considerare sempre indissolubili l'amore per l'Eucaristia e l'amore per il prossimo. Anzi, la vera capacità di amare i fratelli ci può venire solo dall'incontro col Signore nel sacramento dell'Eucaristia.
Santa Rosa Venerini è un altro esempio di fedele discepola di Cristo, pronta ad abbandonare tutto per compiere la volontà di Dio. Amava ripetere: "Io mi trovo tanto inchiodata nella divina volontà, che non m'importa né morte, né vita: voglio vivere quanto egli vuole, e voglio servirlo quanto a lui piace e niente più" (Biografia Andreucci, p. 515). Da qui, dal suo abbandono in Dio, scaturiva la lungimirante attività che svolgeva con coraggio a favore dell'elevazione spirituale e dell'autentica emancipazione delle giovani donne del suo tempo. Santa Rosa non si accontentava di fornire alle ragazze un'adeguata istruzione, ma si preoccupava di assicurare loro una formazione completa, con saldi riferimenti all'insegnamento dottrinale della Chiesa. Il suo stesso stile apostolico continua a caratterizzare ancor oggi la vita della Congregazione delle Maestre Pie Venerini, da lei fondata. E quanto attuale ed importante è anche per l'odierna società il servizio che esse svolgono nel campo della scuola e specialmente della formazione della donna!
"Andate e vendete tutto ciò che avete e offrite il ricavato ai poveri... poi venite, seguitemi". Nel corso della storia della Chiesa queste parole hanno ispirato innumerevoli cristiani a seguire Cristo in una vita di povertà radicale, confidando nella Divina Misericordia. Fra questi generosi discepoli di Cristo c'è stata una donna francese che senza riserve ha risposto alla chiamata del divino Maestro. Madre Théodore Guérin entrò nella Congregazione delle Suore della Provvidenza nel 1823 e si dedicò all'opera di insegnamento nelle scuole. Poi, nel 1839, i suoi Superiori le chiesero di recarsi negli Stati Uniti per dirigere una comunità nell'Indiana. Dopo un lungo viaggio per terra e per mare, le sei suore arrivarono a St. Mary-of-the-Woods. In mezzo alla foresta trovarono un'umile cappella di legno. Si inginocchiarono di fronte al Santissimo Sacramento e resero grazie, chiedendo a Dio di guidarle nella nuova fondazione. Con grande fiducia nella Divina Provvidenza, Madre Théodore superò molte sfide e perseverò nell'opera che il Signore l'aveva chiamata a compiere. Quando morì, nel 1856, le suore gestivano scuole e orfanotrofi in tutto lo Stato dell'Indiana. Come ella stessa affermò: "Quanto bene è stato fatto dalle Suore di Saint Mary-of-the-Wood! Quanto bene ulteriore potranno fare se resteranno fedeli alla loro santa vocazione!".
Madre Théodore Guérin è una bella figura spirituale e un modello di vita cristiana. Fu sempre disponibile per le missioni che la Chiesa le affidava, e trovava la forza e l'audacia per metterle in pratica nell'Eucaristia, nella preghiera e in un'infinita fiducia nella Divina Provvidenza. La sua forza interiore la portava a rivolgere un'attenzione particolare ai poveri, e soprattutto ai bambini.
Cari fratelli e sorelle, rendiamo grazie al Signore per il dono della santità, che quest'oggi rifulge nella Chiesa con singolare bellezza. Gesù invita anche noi, come questi Santi, a seguirlo per avere in eredità la vita eterna. La loro esemplare testimonianza illumini e incoraggi specialmente i giovani, perché si lascino conquistare da Cristo, dal suo sguardo pieno d'amore. Maria, Regina dei Santi, susciti nel popolo cristiano uomini e donne come San Rafael Guízar y Valencia, San Filippo Smaldone, Santa Rosa Venerini e Santa Théodore Guérin, pronti ad abbandonare tutto per il Regno di Dio; disposti a far propria la logica del dono e del servizio, l'unica che salva il mondo. Amen!
[Papa Benedetto, Canonizzazione di Quattro Beati, 15 ottobre 2006]
«Un tale gli si avvicinò...» (Mt 19,16)
6. Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale: «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Egli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"«(Mt 19,16-21).
7. «Ed ecco un tale...». Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione illustri l'altissima vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo, unica risposta che appaga pienamente il desiderio del cuore umano.
Perché gli uomini possano realizzare questo «incontro» con Cristo, Dio ha voluto la sua Chiesa. Essa, infatti, «desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita».
«Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?» (Mt 19,16)
8. Dalla profondità del cuore sorge la domanda che il giovane ricco rivolge a Gesù di Nazaret, una domanda essenziale e ineludibile per la vita di ogni uomo: essa riguarda, infatti, il bene morale da praticare e la vita eterna. L'interlocutore di Gesù intuisce che esiste una connessione tra il bene morale e il pieno compimento del proprio destino. Egli è un pio israelita, cresciuto per così dire all'ombra della Legge del Signore. Se pone questa domanda a Gesù, possiamo immaginare che non lo faccia perché ignora la risposta contenuta nella Legge. È più probabile che il fascino della persona di Gesù abbia fatto sorgere in lui nuovi interrogativi intorno al bene morale. Egli sente l'esigenza di confrontarsi con Colui che aveva iniziato la sua predicazione con questo nuovo e decisivo annuncio: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).
Occorre che l'uomo di oggi si volga nuovamente verso Cristo per avere da Lui la risposta su ciò che è bene e ciò che è male. Egli è il Maestro, il Risorto che ha in sé la vita e che è sempre presente nella sua Chiesa e nel mondo. È Lui che schiude ai fedeli il libro delle Scritture e, rivelando pienamente la volontà del Padre, insegna la verità sull'agire morale. Alla sorgente e al vertice dell'economia della salvezza, Alfa e Omega della storia umana (cf Ap 1,8; 21,6; 22,13), Cristo rivela la condizione dell'uomo e la sua vocazione integrale. Per questo, «l'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso».
Se vogliamo dunque penetrare nel cuore della morale evangelica e coglierne il contenuto profondo e immutabile, dobbiamo ricercare accuratamente il senso dell'interrogativo posto dal giovane ricco del Vangelo e, più ancora, il senso della risposta di Gesù, lasciandoci guidare da Lui. Gesù, infatti, con delicata attenzione pedagogica, risponde conducendo il giovane quasi per mano, passo dopo passo, verso la verità piena.
«Uno solo è buono» (Mt 19,17)
9. Gesù dice: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17). Nella versione degli evangelisti Marco e Luca la domanda viene così formulata: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18; cf Lc 18,19).
Prima di rispondere alla domanda, Gesù vuole che il giovane chiarisca a se stesso il motivo per cui lo interroga. Il «Maestro buono» indica al suo interlocutore — e a tutti noi — che la risposta all'interrogativo: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?», può essere trovata soltanto rivolgendo la mente e il cuore a Colui che «solo è buono»: «Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18; cf Lc 18,19). Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene.
Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza della bontà. Gesù mostra che la domanda del giovane è in realtà una domanda religiosa e che la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l'uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso, Colui che solo è degno di essere amato «con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente» (Mt 22,37), Colui che è la sorgente della felicità dell'uomo. Gesù riporta la questione dell'azione moralmente buona alle sue radici religiose, al riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza della vita, termine ultimo dell'agire umano, felicità perfetta.
10. La Chiesa, istruita dalle parole del Maestro, crede che l'uomo, fatto a immagine del Creatore, redento con il sangue di Cristo e santificato dalla presenza dello Spirito Santo, ha come fine ultimo della sua vita l'essere «a lode della gloria» di Dio (cf Ef 1,12), facendo sì che ognuna delle sue azioni ne rifletta lo splendore. «Conosci dunque te stessa, o anima bella: tu sei l'immagine di Dio — scrive sant'Ambrogio —. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio (1 Cor 11,7). Ascolta in che modo ne sei la gloria. Dice il profeta: La tua scienza è divenuta mirabile provenendo da me (Sal 1381,6), cioè: nella mia opera la tua maestà è più ammirabile, la tua sapienza viene esaltata nella mente dell'uomo. Mentre considero me stesso, che tu scruti nei segreti pensieri e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri della tua scienza. Conosci dunque te stesso, o uomo, quanto grande tu sei e vigila su di te...».
Ciò che l'uomo è e deve fare si manifesta nel momento in cui Dio rivela se stesso. Il Decalogo, infatti, si fonda su queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2-3). Nelle «dieci parole» dell'Alleanza con Israele, e in tutta la Legge, Dio si fa conoscere e riconoscere come Colui che «solo è buono»; come Colui che, nonostante il peccato dell'uomo, continua a rimanere il «modello» dell'agire morale, secondo la sua stessa chiamata: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2); come Colui che, fedele al suo amore per l'uomo, gli dona la sua Legge (cf Es 19,9-24 e 20, 18-21), per ristabilire l'originaria armonia col Creatore e con tutto il creato, ed ancor più per introdurlo nel suo amore: «Camminerò in mezzo a voi, sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lv 26,12).
La vita morale si presenta come risposta dovuta alle iniziative gratuite che l'amore di Dio moltiplica nei confronti dell'uomo. È una risposta d'amore, secondo l'enunciato che del comandamento fondamentale fa il Deuteronomio: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli» (Dt 6,47). Così, la vita morale, coinvolta nella gratuità dell'amore di Dio, è chiamata a rifletterne la gloria: «Per chi ama Dio è sufficiente piacere a Colui che egli ama: poiché non deve ricercarsi nessun'altra ricompensa maggiore dello stesso amore; la carità, infatti, proviene da Dio in maniera tale che Dio stesso è carità».
11. L'affermazione che «uno solo è buono» ci rimanda così alla «prima tavola» dei comandamenti, che chiama a riconoscere Dio come Signore unico e assoluto e a rendere culto a Lui solo a motivo della sua infinita santità (cf Es 20,2-11). Il bene è appartenere a Dio, obbedire a Lui, camminare umilmente con Lui praticando la giustizia e amando la pietà (cf Mic 6,8). Riconoscere il Signore come Dio è il nucleo fondamentale, il cuore della Legge, da cui discendono e a cui sono ordinati i precetti particolari. Mediante la morale dei comandamenti si manifesta l'appartenenza del popolo di Israele al Signore, perché Dio solo è Colui che è buono. Questa è la testimonianza della Sacra Scrittura, in ogni sua pagina permeata dalla viva percezione dell'assoluta santità di Dio: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti» (Is 6,3).
Ma se Dio solo è il Bene, nessuno sforzo umano, neppure l'osservanza più rigorosa dei comandamenti, riesce a «compiere» la Legge, cioè a riconoscere il Signore come Dio e a rendergli l'adorazione che a Lui solo è dovuta (cf Mt 4,10). Il «compimento» può venire solo da un dono di Dio: è l'offerta di una partecipazione alla Bontà divina che si rivela e si comunica in Gesù, colui che il giovane ricco chiama con le parole «Maestro buono» (Mc 10,17; Lc 18,18). Ciò che ora il giovane riesce forse solo a intuire, verrà alla fine pienamente rivelato da Gesù stesso nell'invito: «Vieni e seguimi» (Mt 19,21).
«Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17)
12. Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già dato risposta a questa domanda: lo ha fatto creando l'uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore (cf Rm 2,15), la «legge naturale». Questa «altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione». Lo ha fatto poi nella storia di Israele, in particolare con le «dieci parole», ossia con i comandamenti del Sinai, mediante i quali Egli ha fondato l'esistenza del popolo dell'Alleanza (cf Es 24) e l'ha chiamato ad essere la sua «proprietà tra tutti i popoli», «una nazione santa» (Es 19,56), che facesse risplendere la sua santità tra tutte le genti (cf Sap 18,4; Ez 20,41). Il dono del Decalogo è promessa e segno dell'Alleanza Nuova, quando la legge sarà nuovamente e definitivamente scritta nel cuore dell'uomo (cf Ger 31, 31-34), sostituendosi alla legge del peccato, che quel cuore aveva deturpato (cf Ger 17,1). Allora verrà donato «un cuore nuovo» perché in esso abiterà «uno spirito nuovo», lo Spirito di Dio (cf Ez 36,24-28).
Per questo, dopo l'importante precisazione: «Uno solo è buono», Gesù risponde al giovane: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17). Viene in tal modo enunciato uno stretto legame tra la vita eterna e l'obbedienza ai comandamenti di Dio: sono i comandamenti di Dio che indicano all'uomo la via della vita e ad essa conducono. Dalla bocca stessa di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli uomini i comandamenti del Decalogo; egli stesso li conferma definitivamente e li propone a noi come via e condizione di salvezza. Il comandamento si lega a una promessa: nella Alleanza Antica oggetto della promessa era il possesso di una terra in cui il popolo avrebbe potuto condurre un'esistenza nella libertà e secondo giustizia (cf Dt 6,20-25); nella Alleanza Nuova oggetto della promessa è il «Regno dei cieli», come Gesù afferma all'inizio del «Discorso della Montagna» — discorso che contiene la formulazione più ampia e completa della Legge Nuova (cf Mt 5-7) —, in evidente connessione con il Decalogo affidato da Dio a Mosè sul monte Sinai. Alla medesima realtà del Regno fa riferimento l'espressione «vita eterna», che è partecipazione alla vita stessa di Dio: essa si realizza nella sua perfezione solo dopo la morte, ma nella fede è già fin d'ora luce di verità, sorgente di senso per la vita, incipiente partecipazione ad una pienezza nella sequela di Cristo. Dice, infatti, Gesù ai discepoli dopo l'incontro con il giovane ricco: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29).
13. La risposta di Gesù non basta al giovane, che insiste interrogando il Maestro circa i comandamenti da osservare: «Ed egli chiese: "Quali?"«(Mt 19,18). Chiede che cosa deve fare nella vita per rendere manifesto il riconoscimento della santità di Dio. Dopo aver orientato lo sguardo del giovane verso Dio, Gesù gli ricorda i comandamenti del Decalogo che riguardano il prossimo: «Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,18-19).
Dal contesto del colloquio e, specialmente, dal confronto del testo di Matteo con i passi paralleli di Marco e di Luca, risulta che Gesù non intende elencare tutti e singoli i comandamenti necessari per «entrare nella vita», ma, piuttosto, rimandare il giovane alla centralità del Decalogo rispetto ad ogni altro precetto, quale interpretazione di ciò che per l'uomo significa «Io sono il Signore, Dio tuo». Non può sfuggire, comunque, alla nostra attenzione quali comandamenti della Legge il Signore Gesù ricorda al giovane: sono alcuni comandamenti che appartengono alla cosiddetta «seconda tavola» del Decalogo, di cui compendio (cf Rm 13,8-10) e fondamento è il comandamento dell'amore del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,19; cf Mc 12,31). In questo comandamento si esprime precisamente la singolare dignità della persona umana, la quale è «la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa». I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la rifrazione dell'unico comandamento riguardante il bene della persona, a livello dei molteplici beni che connotano la sua identità di essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, col prossimo e col mondo delle cose. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «i dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana».
I comandamenti, ricordati da Gesù al giovane interlocutore, sono destinati a tutelare il bene della persona, immagine di Dio, mediante la protezione dei suoi beni. «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso» sono regole morali formulate in termini di divieto. I precetti negativi esprimono con particolare forza l'esigenza insopprimibile di proteggere la vita umana, la comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e la buona fama.
I comandamenti rappresentano, quindi, la condizione di base per l'amore del prossimo; essi ne sono al contempo la verifica. Sono la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà, il suo inizio: «La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta...».
14. Ciò non significa, certo, che Gesù intenda dare la precedenza all'amore del prossimo o addirittura separarlo dall'amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col dottore della Legge: questi, che pone una domanda molto simile a quella del giovane, si sente rimandato da Gesù ai due comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo (cf Lc 10, 25-27) e invitato a ricordare che solo la loro osservanza conduce alla vita eterna: «Fa' questo e vivrai» (Lc 10,28). È comunque significativo che sia proprio il secondo di questi comandamenti a suscitare la curiosità e l'interrogativo del dottore della Legge: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Il Maestro risponde con la parabola del buon Samaritano, la parabola-chiave per la piena comprensione del comandamento dell'amore del prossimo (cf Lc 10,30-37).
I due comandamenti, dai quali «dipende tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40), sono profondamente uniti tra loro e si compenetrano reciprocamente. La loro unità inscindibile è testimoniata da Gesù con le parole e con la vita: la sua missione culmina nella Croce che redime (cf Gv 3,14-15), segno del suo indivisibile amore al Padre e all'umanità (cf Gv 13,1).
Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono espliciti nell'affermare che senza l'amore per il prossimo, che si concretizza nell'osservanza dei comandamenti, non è possibile l'autentico amore per Dio. Lo scrive con vigore straordinario san Giovanni: «Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). L'evangelista fa eco alla predicazione morale di Cristo, espressa in modo mirabile e inequivocabile nella parabola del buon Samaritano (cf Lc 10, 19-37) e nel «discorso» sul giudizio finale (cf Mt 25,31-46).
15. Nel «Discorso della Montagna», che costituisce la magna charta della morale evangelica, Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Cristo è la chiave delle Scritture: «Voi scrutate le Scritture: esse parlano di me» (cf Gv 5,39); è il centro dell'economia della salvezza, la ricapitolazione dell'Antico e del Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro compimento nel Vangelo; è il legame vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova Alleanza. Commentando l'affermazione di Paolo «Il termine della legge è Cristo» (Rm 10,4), sant'Ambrogio scrive: «Fine non in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della legge: questa si compie in Cristo (plenitudo legis in Christo est), dal momento che Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma a portarla a compimento. Allo stesso modo in cui c'è un Testamento Antico, ma ogni verità sta all'interno del Nuovo Testamento, così avviene per la legge: quella che è stata data per mezzo di Mosè è figura della vera legge. Dunque, quella legge mosaica è copia della verità».
Gesù porta a compimento i comandamenti di Dio, in particolare il comandamento dell'amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze: l'amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l'amore (cf Col 3,14). Così il comandamento «Non uccidere» diventa l'appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che vieta l'adulterio diventa l'invito ad uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio... Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,21-22.27-28). È Gesù stesso il «compimento» vivo della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé: diventa Lui stesso Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il suo stesso amore e offre l'energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cf Gv 13,34-35).
«Se vuoi essere perfetto» (Mt 19,21)
16. La risposta sui comandamenti non soddisfa il giovane, che interroga Gesù: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che cosa mi manca ancora?» (Mt 19,20). Non è facile dire con buona coscienza: «ho sempre osservato tutte queste cose», se appena si comprende l'effettiva portata delle esigenze racchiuse nella Legge di Dio. E tuttavia, se anche gli è possibile dare una simile risposta, se anche ha seguito l'ideale morale con serietà e generosità fin dalla fanciullezza, il giovane ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti alla persona di Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. È alla consapevolezza di questa insufficienza che si rivolge Gesù nella sua ultima risposta: cogliendo la nostalgia per una pienezza che superi l'interpretazione legalistica dei comandamenti, il Maestro buono invita il giovane ad entrare nella strada della perfezione: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).
Come già il precedente passo della risposta di Gesù, così anche questo deve essere letto e interpretato nel contesto di tutto il messaggio morale del Vangelo e, specialmente, nel contesto del Discorso della Montagna, delle beatitudini (cf Mt 5,3-12), la prima delle quali è proprio la beatitudine dei poveri, dei «poveri in spirito», come precisa san Matteo (Mt 5,3), ossia degli umili. In tal senso si può dire che anche le beatitudini rientrano nello spazio aperto dalla risposta che Gesù dà all'interrogativo del giovane: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Infatti, ogni beatitudine promette, secondo una particolare prospettiva, proprio quel «bene» che apre l'uomo alla vita eterna, anzi che è la stessa vita eterna.
Le beatitudini non hanno propriamente come oggetto delle norme particolari di comportamento, ma parlano di atteggiamenti e di disposizioni di fondo dell'esistenza e quindi non coincidono esattamente con i comandamenti. D'altra parte, non c'è separazione o estraneità tra le beatitudini e i comandamenti: ambedue si riferiscono al bene, alla vita eterna. Il Discorso della Montagna inizia con l'annuncio delle beatitudini, ma contiene anche il riferimento ai comandamenti (cf Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale Discorso mostra l'apertura e l'orientamento dei comandamenti alla prospettiva della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono, anzitutto, promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni normative per la vita morale. Nella loro profondità originale sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con Lui.
17. Non sappiamo quanto il giovane del Vangelo abbia compreso il profondo ed esigente contenuto della prima risposta data da Gesù: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti»; è certo, però, che l'impegno manifestato dal giovane nel rispetto di tutte le esigenze morali dei comandamenti costituisce l'indispensabile terreno sul quale può germogliare e maturare il desiderio della perfezione, cioè della realizzazione del loro significato compiuto nella sequela di Cristo. Il colloquio di Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita morale dell'uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha osservato tutti i comandamenti, si dimostra incapace con le sole sue forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà umana matura: «Se vuoi», e il dono divino della grazia: «Vieni e seguimi».
La perfezione esige quella maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell'uomo. Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: «Se vuoi...». La parola di Gesù rivela la particolare dinamica della crescita della libertà verso la sua maturità e, nello stesso tempo, attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà dell'uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla libertà. «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5,13), proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito però precisa: «Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (ibid.). La fermezza con la quale l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla Legge, non ha nulla da spartire con la «liberazione» dell'uomo dai precetti, i quali al contrario sono al servizio della pratica dell'amore: «Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Rm 13,8-9). Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato dell'osservanza dei comandamenti come della prima imperfetta libertà, così prosegue: «Perché, domanderà qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia ragione"... Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà. Tutti i nostri peccati nel battesimo sono stati distrutti, ma è forse scomparsa la debolezza, dopo che è stata distrutta l'iniquità? Se essa fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza peccato. Chi oserà affermare questo se non chi è superbo, se non chi è indegno della misericordia del liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi qualche debolezza, oso dire che nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi, mentre nella misura in cui seguiamo la legge del peccato siamo schiavi».
18. Chi vive «secondo la carne» sente la legge di Dio come un peso, anzi come una negazione o comunque una restrizione della propria libertà. Chi, invece, è animato dall'amore e «cammi- na secondo lo Spirito» (Gal 5,16) e desidera servire gli altri trova nella legge di Dio la via fondamentale e necessaria per praticare l'amore liberamente scelto e vissuto. Anzi, egli avverte l'urgenza interiore — una vera e propria «necessità», e non già una costrizione — di non fermarsi alle esigenze minime della legge, ma di viverle nella loro «pienezza». È un cammino ancora incerto e fragile fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona di possedere la piena libertà dei figli di Dio (cf Rm 8, 21) e quindi di rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di essere «figli nel Figlio».
Questa vocazione all'amore perfetto non è riservata solo ad una cerchia di persone. L'invito «va', vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri» con la promessa «avrai un tesoro nel cielo»riguarda tutti, perché è una radicalizzazione del comandamento dell'amore del prossimo, come il successivo invito «vieni e seguimi» è la nuova forma concreta del comandamento dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito di Gesù al giovane ricco sono al servizio di un'unica e indivisibile carità, che spontaneamente tende alla perfezione, la cui misura è Dio solo: «Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Nel Vangelo di Luca Gesù precisa ulteriormente il senso di questa perfezione: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).
«Vieni e seguimi» (Mt 19,21)
19. La via e, nello stesso tempo, il contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e a se stessi. Proprio questa è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane: «Poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). È un invito la cui meravigliosa profondità sarà pienamente percepita dai discepoli dopo la risurrezione di Cristo, quando lo Spirito Santo li guiderà alla verità tutta intera (cf Gv 16,13).
È Gesù stesso che prende l'iniziativa e chiama a seguirlo. L'appello è rivolto innanzi tutto a coloro ai quali egli affida una particolare missione, a cominciare dai Dodici; ma appare anche chiaro che essere discepoli di Cristo è la condizione di ogni credente (cf At 6,1). Per questo, seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana: come il popolo d'Israele seguiva Dio che lo conduceva nel deserto verso la Terra promessa (cf Es 13,21), così il discepolo deve seguire Gesù, verso il quale il Padre stesso lo attira (cf Gv 6,44).
Non si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un insegnamento e di accogliere nell'obbedienza un comandamento. Si tratta, più radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo destino, di partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre. Seguendo, mediante la risposta della fede, colui che è la Sapienza incarnata, il discepolo di Gesù diventa veramente discepolo di Dio (cf Gv 6,45). Gesù, infatti, è la luce del mondo, la luce della vita (cf Gv 8,12); è il pastore che guida e nutre le pecore (cf Gv 10,11-16), è la via, la verità e la vita (cf Gv 14,6), è colui che conduce al Padre, al punto che vedere lui, il Figlio, è vedere il Padre (cf Gv 14,6-10). Pertanto imitare il Figlio, «l'immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), significa imitare il Padre.
20. Gesù chiede di seguirlo e di imitarlo sulla strada dell'amore, di un amore che si dona totalmente ai fratelli per amore di Dio: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo «come» esige l'imitazione di Gesù, del suo amore di cui la lavanda dei piedi è segno: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,14-15). L'agire di Gesù e la sua parola, le sue azioni e i suoi precetti costituiscono la regola morale della vita cristiana. Infatti, queste sue azioni e, in modo particolare, la passione e la morte in croce, sono la viva rivelazione del suo amore per il Padre e per gli uomini. Proprio questo amore Gesù chiede che sia imitato da quanti lo seguono. Esso è il comandamento «nuovo»: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).
Questo «come» indica anche la misura con la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro i suoi discepoli. Dopo aver detto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12), Gesù prosegue con le parole che indicano il dono sacrificale della sua vita sulla croce, quale testimonianza di un amore «sino alla fine» (Gv 13,1): «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Chiamando il giovane a seguirlo sulla strada della perfezione, Gesù gli chiede di essere perfetto nel comandamento dell'amore, nel «suo» comandamento: di inserirsi nel movimento della sua donazione totale, di imitare e di rivivere l'amore stesso del Maestro «buono», di colui che ha amato «sino alla fine». È quanto Gesù chiede ad ogni uomo che vuole mettersi alla sua sequela: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24).
21. Seguire Cristo non è una imitazione esteriore, perché tocca l'uomo nella sua profonda interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (cf Fil 2,5-8). Mediante la fede, Cristo abita nel cuore del credente (cf Ef 3,17), e così il discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto della grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi.
Inserito in Cristo, il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cf 1 Cor 12,13.27). Sotto l'impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo «riveste» di Cristo (cf Gal 3,27): «Rallegriamoci e ringraziamo — esclama sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati —: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!». Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (cf Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cf Gal 5,16-25). La partecipazione poi all'Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (cf 1 Cor 11,23-29), è vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte di «vita eterna» (cf Gv 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di cui Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11,26).
«A Dio tutto è possibile» (Mt 19,26)
22. Amara è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane ricco: «Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze» (Mt 19,22). Non solo l'uomo ricco, ma anche gli stessi discepoli sono spaventati dall'appello di Gesù alla sequela, le cui esigenze superano le aspirazioni e le forze umane: «A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: "Chi si potrà dunque salvare?"«(Mt 19,25). Ma il Maestro rimanda alla potenza di Dio: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Mt 19,26).
Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo (19,3-10), Gesù, interpretando la Legge mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando ad un «principio» più originario e più autorevole rispetto alla Legge di Mosè: il disegno nativo di Dio sull'uomo, un disegno al quale l'uomo dopo il peccato è diventato inadeguato: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19,8). Il richiamo al «principio» sgomenta i discepoli, che commentano con queste parole: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10). E Gesù, riferendosi in modo specifico al carisma del celibato «per il Regno dei cieli» (Mt 19,12), ma enunciando una regola generale, rimanda alla nuova e sorprendente possibilità aperta all'uomo dalla grazia di Dio: «Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso"«(Mt 19,11).
Imitare e rivivere l'amore di Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventa capace di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo comunica gratuitamente ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Il dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo «frutto» (cf Gal 5,22) è la carità: «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5). Sant'Agostino si chiede: «È l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore?». E risponde: «Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza? Chi infatti non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti».
23. «La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2). Con queste parole l'apostolo Paolo ci introduce a considerare nella prospettiva della storia della Salvezza che si compie in Cristo il rapporto tra la Legge (antica) e la grazia (Legge nuova). Egli riconosce il ruolo pedagogico della Legge, la quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la sua impotenza e togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre all'invocazione e all'accoglienza della «vita nello Spirito». Solo in questa vita nuova è possibile la pratica dei comandamenti di Dio. Infatti, è per la fede in Cristo che noi siamo resi giusti (cf Rm 3,28): la «giustizia» che la Legge esige, ma non può dare a nessuno, ogni credente la trova manifestata e concessa dal Signore Gesù. Così mirabilmente ancora sant'Agostino sintetizza la dialettica paolina di legge e grazia: «La legge, perciò, è stata data perché si invocasse la grazia; la grazia è stata data perché si osservasse la legge».
L'amore e la vita secondo il Vangelo non possono essere pensati prima di tutto nella forma del precetto, perché ciò che essi domandano va al di là delle forze dell'uomo: essi sono possibili solo come frutto di un dono di Dio, che risana e guarisce e trasforma il cuore dell'uomo per mezzo della sua grazia: «Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Per questo la promessa della vita eterna è legata al dono della grazia, e il dono dello Spirito che abbiamo ricevuto è già «caparra della nostra eredità» (Ef 1,14).
24. Si rivela così il volto autentico e originale del comandamento dell'amore e della perfezione alla quale esso è ordinato: si tratta di una possibilità aperta all'uomo esclusivamente dalla grazia, dal dono di Dio, dal suo amore. D'altra parte, proprio la coscienza di aver ricevuto il dono, di possedere in Gesù Cristo l'amore di Dio, genera e sostiene la risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i fratelli, come con insistenza ricorda l'apostolo Giovanni nella sua prima Lettera: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore... Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri... Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1 Gv 4,7-8.11.19).
Questa connessione inscindibile tra la grazia del Signore e la libertà dell'uomo, tra il dono e il compito, è stata espressa in termini semplici e profondi da sant'Agostino, che così prega: «Da quod iubes et iube quod vis» (dona ciò che comandi e comanda ciò che vuoi).
Il dono non diminuisce, ma rafforza l'esigenza morale dell'amore: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato» (1 Gv 3,23). Si può «rimanere» nell'amore solo a condizione di osservare i comandamenti, come afferma Gesù: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10).
Raccogliendo quanto è al cuore del messaggio morale di Gesù e della predicazione degli Apostoli, e riproponendo in una sintesi mirabile la grande tradizione dei Padri d'Oriente e d'Occidente — in particolare di sant'Agostino — san Tommaso ha potuto scrivere che la Legge Nuova è la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo. I precetti esterni, di cui pure il Vangelo parla, dispongono a questa grazia o ne dispiegano gli effetti nella vita. Infatti, la Legge Nuova non si contenta di dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di «fare la verità» (cf Gv 3,21). Nello stesso tempo san Giovanni Crisostomo ha osservato che la Legge Nuova fu promulgata proprio quando lo Spirito Santo discese dal cielo nel giorno di Pentecoste e che gli Apostoli «non discesero dal monte portando, come Mosè, delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano portando lo Spirito Santo nei loro cuori..., divenuti mediante la sua grazia una legge viva, un libro animato».
[Papa Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor]
Il Vangelo di oggi, tratto dal cap. 10 di Marco, è articolato in tre scene, scandite da tre sguardi di Gesù.
La prima scena presenta l’incontro tra il Maestro e un tale che – secondo il passo parallelo di Matteo – viene identificato come “giovane”. L’incontro di Gesù con un giovane. Costui corre verso Gesù, si inginocchia e lo chiama «Maestro buono». Quindi gli chiede: «Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?», cioè la felicità. (v. 17). “Vita eterna” non è solo la vita dell’aldilà, ma è la vita piena, compiuta, senza limiti. Che cosa dobbiamo fare per raggiungerla? La risposta di Gesù riassume i comandamenti che si riferiscono all’amore verso il prossimo. Al riguardo quel giovane non ha nulla da rimproverarsi; ma evidentemente l’osservanza dei precetti non gli basta, non soddisfa il suo desiderio di pienezza. E Gesù intuisce questo desiderio che il giovane porta nel cuore; perciò la sua risposta si traduce in uno sguardo intenso pieno di tenerezza e di affetto. Così dice il Vangelo: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò» (v. 21). Si accorse che era un bravo ragazzo… Ma Gesù capisce anche qual è il punto debole del suo interlocutore, e gli fa una proposta concreta: dare tutti i suoi beni ai poveri e seguirlo. Quel giovane però ha il cuore diviso tra due padroni: Dio e il denaro, e se ne va triste. Questo dimostra che non possono convivere la fede e l’attaccamento alle ricchezze. Così, alla fine, lo slancio iniziale del giovane si smorza nella infelicità di una sequela naufragata.
Nella seconda scena l’evangelista inquadra gli occhi di Gesù, e stavolta si tratta di uno sguardo pensoso, di avvertimento: «Volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» (v. 23). Allo stupore dei discepoli, che si domandano: «E chi può essere salvato?» (v. 26), Gesù risponde con uno sguardo di incoraggiamento – è il terzo sguardo – e dice: la salvezza è, sì, «impossibile agli uomini, ma non a Dio!» (v. 27). Se ci affidiamo al Signore, possiamo superare tutti gli ostacoli che ci impediscono di seguirlo nel cammino della fede. Affidarsi al Signore. Lui ci darà la forza, Lui ci dà la salvezza, Lui ci accompagna nel cammino.
E così siamo arrivati alla terza scena, quella della solenne dichiarazione di Gesù: In verità vi dico: chi lascia tutto per seguirmi avrà la vita eterna nel futuro e il centuplo già nel presente (cfr vv. 29-30). Questo “centuplo” è fatto dalle cose prima possedute e poi lasciate, ma che si ritrovano moltiplicate all’infinito. Ci si priva dei beni e si riceve in cambio il godimento del vero bene; ci si libera dalla schiavitù delle cose e si guadagna la libertà del servizio per amore; si rinuncia al possesso e si ricava la gioia del dono. Quello che Gesù diceva: “Si è più beati nel dare che nel ricevere” (cfr At 20,35).
Il giovane non si è lasciato conquistare dallo sguardo di amore di Gesù, e così non ha potuto cambiare. Solo accogliendo con umile gratitudine l’amore del Signore ci liberiamo dalla seduzione degli idoli e dalla cecità delle nostre illusioni. Il denaro, il piacere, il successo abbagliano, ma poi deludono: promettono vita, ma procurano morte. Il Signore ci chiede di distaccarci da queste false ricchezze per entrare nella vita vera, la vita piena, autentica, luminosa. E io domando a voi, giovani, ragazzi e ragazze, che siete adesso in piazza: “Avete sentito lo sguardo di Gesù su di voi? Che cosa volete rispondergli? Preferite lasciare questa piazza con la gioia che ci dà Gesù o con la tristezza nel cuore che la mondanità ci offre?”…
La Vergine Maria ci aiuti ad aprire il nostro cuore all’amore di Gesù, allo sguardo di Gesù, il solo che può appagare la nostra sete di felicità.
[Papa Francesco, Angelus 11 ottobre 2015]
XXVI Domenica del Tempo Ordinario B (29 settembre 2024)
1. La pagina evangelica odierna è alla fine del capitolo 9 del vangelo di Marco e chiude il discorso che Gesù tiene ai discepoli che li invita a ben riflettere sul loro modo di comportarsi nei confronti dei “piccoli che credono in me” usando toni molto decisi. Dice infatti che è preferibile restare senza una mano, un piede o cavarsi un occhio piuttosto che essere motivo di scandalo perché “è meglio entrare nel regno di Dio con un occhio solo anziché con due occhi essere gettati nella Geenna dove il loro verme non muore e il fuoco non lo estingue”. Qui si ferma il testo che questa domenica la liturgia propone alla nostra meditazione; se però continuiamo a leggere, troviamo negli ultimi due versetti del capitolo questa raccomandazione: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”. A me sembra che quest’invito conclusivo ci permette di dare capire il senso e il valore dei consigli e precetti di Gesù che san Marco ha raccolto e che ci tiene a precisare sono rivolti proprio ai Dodici. Ma procediamo con ordine.
2. La scorsa domenica ci siamo soffermati a contemplare Gesù, che giunto a Cafarnao con gli apostoli, discorre della missione che sta per affidare loro e, sentendoli discutere su chi sarà il più grande, non afferma che è male aspirare a essere il primo, ma indica la strada per giungervi: farsi l’ultimo e il servo di tutti. Musica sgradevole per le loro orecchie come appare subito dalla replica di Giovanni, che Gesù soprannomina insieme al fratello Giacomo “i figli del tuono”: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo perché non ci seguiva”. Nel capitolo terzo del suo vangelo Marco annota che “Gesù chiamò a sé quelli che egli volle… ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (3,13-19). Il gruppo degli apostoli è dunque ben consapevole dell’autorità loro concessa e del potere ricevuto di scacciare i demoni a causa del loro legame con Gesù. Comprensibile allora è la reazione davanti alla pretesa di coloro, che non fanno parte del gruppo ma osano scacciare i diavoli persino in suo nome. Giovanni reagisce come il giovane Giosuè che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Cresciuto dall’infanzia con Mosè era in buona confidenza con lui per permettersi di fargli notare che quando egli tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta anziani scelti come collaboratori, in verità mancavano due, Eldad e Medad, rimasti nell’accampamento e il problema, secondo lui, era che pure loro avevano cominciato a profetizzare. Non era giusto che quei due, nonostante non avessero risposto alla convocazione del capo, agissero ugualmente sotto l’azione dello spirito. Mosè invece se ne rallegra e lo rimprovera per la sua invidia. La stessa cosa fa Gesù che interdice agli apostoli di coltivare lo spirito dell’esclusione per cui a Giovanni, che lo informa di aver impedito a una persona che non era del gruppo di scacciare i demoni, risponde con fermezza: “Non glielo impedite”. Una pace straordinaria abita il cuore di Cristo: non pretende avere tutto sotto controllo e quando costata il bene che si fa, ammette che qualcuno possa compiere miracoli in suo nome anche se non fa parte di coloro che egli si è scelto come discepoli. Ed è come se riconoscesse che la sua stessa missione in qualche modo sfugge al suo controllo perché la condivide, a sua insaputa, con delle persone che nemmeno conosce. Invita così i Dodici a non tenere chiusa la porta del cuore: “Chi non è contro di noi è per noi”, un modo per sottolineare che ci sono persone “dei nostri” anche se non sono sulla nostra lista. Cogliamo qui un invito ad allargare la nostra visione di cristiani nel mondo: non abbiamo l’esclusiva; Dio opera come vuole ben oltre noi stessi e si serve, per i suoi piani di salvezza, di chiunque. Mi viene in mente il passo degli Atti degli Apostoli 18, 9-11 che narra come nella pagana e mondana Corinto, che era il cuore della Provincia romana dell’Acaia, san Paolo sperimenta una drammatica rottura con la comunità ebraica che rifiuta la sua testimonianza su Gesù Cristo. E’ triste e scoraggiato, ma nella notte, apparendogli in visione, il Signore gli dice: “Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso”. Non capita talvolta pure a noi di sentire l’inutilità del nostro ministero quando vediamo calare il numero dei fedeli e costatare che alcuni escono dal nostro ovile e ottengono un successo che pretendiamo dover essere soltanto della nostra comunità? Oppure ci dà fastidio notare che all’interno della comunità esistono persone o gruppi che pensano e fanno cose diverse da noi? Gesù continua a ripeterci di non tormentarci con troppe crisi mentali perché egli – assicura – ha un “popolo numeroso” dappertutto. La Corinto di Paolo è ben l’immagine dell’attuale società pluralista, secolarizzata, libertaria, cosmopolita, opulenta e spesso disperata perché fa fatica a trovare una risposta ai tanti ‘perché’ della vita. “Vivere alla corinzia” all’epoca significava coltivare la piena libertà dei costumi e oggi non è da meno. Potrebbe allora crescere la tentazione di scoraggiarsi oppure il rischio di coltivare una certa malcelata invidia e gelosia che crea divisioni nella comunità. Gesù non smette di incoraggiarci: “Continuate a parlare”. Dio ha ovunque il suo popolo, non visibile spesso all’occhio umano, e come Padre di tutti fa diffondere l’azione fecondatrice dello Spirito in tutte le direzioni. A noi non è chiesto di avere sotto controllo la situazione, ma semplicemente di annunciare/testimoniare il Vangelo sempre. Resta tuttavia l’esigenza di un sano discernimento.
3. Nel vangelo di Matteo Gesù afferma che si riconosce l’albero dai suoi frutti: l’albero buono produce frutti buoni, mentre quello malato dà frutti cattivi (12,33) e conclude: ogni albero che non dà un buon frutto lo si taglia e lo si getta nel fuoco. Quest’esempio manca nel vangelo di Marco, anche se il testo odierno vuol dire esattamente la stessa cosa. Appare allora chiaro il legame, talora non immediatamente percepibile, fra tutte le affermazioni contenute nel discorso di Gesù. Egli vuol dire in primo luogo che ci sono buoni frutti anche oltre le nostre comunità, il che significa che esistono alberi buoni ovunque e noi non abbiamo il copyright del bene e di Dio, ma è Gesù il cuore dell’annuncio dei cristiani. Marco l’esprime con quest’esempio: “chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo non perderà la sua ricompensa”. Al contrario, possono esserci frutti cattivi anche dentro la nostra comunità e Gesù tira questa conclusione: se bisogna eliminare l’albero malato che produce frutti che fanno male, occorre sopprimere in maniera risoluta tutto ciò che nella comunità semina lo scandalo della divisione. E offre questo paragone volutamente esagerato: “Se la tua mano ti è motivo di scandalo tagliala, è meglio per te entrare nella vita con una mano solamente, anziché con le due mani andare nella Geenna”, uguale terapia per il piede, e l’occhio. La Geenna, che Gesù evoca, è la ben nota voragine che circonda Gerusalemme da sud a ovest dove si bruciava l’immondizia e al tempo dei re Acaz e Manasse si sacrificavano i bambini, pratica così duramente stigmatizzata dai profeti al punto che la Geenna divenne il simbolo del più grande orrore possibile e il segno del castigo degli empi nel giorno del giudizio universale. Si capisce che Gesù non consiglia la mutilazione fisica pur utilizzando espressioni enfaticamente violente. Se a questo ricorre è perché nessuno sottovaluti la gravità di ciò che è in gioco e cioè la comunità. Ricordiamo che il discorso a Cafarnao parte proprio dall’ambizione degli apostoli nella discussione su chi doveva essere il più grande (9,34) e alla fine appare evidente che in ogni comunità cristiana l’unica preoccupazione dei suoi membri dev’essere lasciarsi consumare dalla passione per lui e per il suo vangelo: non altro! In questa luce diventa facile capire la raccomandazione che chiude il capitolo: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri”.
Buona domenica! +Giovanni D’Ercole
Fratelli tutti e noi stessi
(Lc 11,27-28)
Nella mentalità antica la gioia della madre era la grandezza conclamata del figlio.
Gesù contesta che l’autenticità della Beatitudine possa essere legata a rapporti di clan e parentela fisica, o di strepito sociale.
Il Signore smonta ogni esteriorità. Rifiuta questo modo rozzo di concepire la fortuna della vita.
La Felicità piena dipende dalla percezione delle proprie radici essenziali e della unicità preziosa che siamo - non viene a noi dal ricalco sociale, o per l’appartenenza da sempre.
Proprio qui la Parola di Dio introduce nella comprensione del motivo irripetibile per cui siamo nati, e trascina in modo energetico integrale; facendoci nuovi ogni giorno.
La Parola vive nel nostro lato Eterno; è oltre il tempo, e sembra faccia diventare stranieri. Eppure non è una rivale disarmonica.
Viaggiando verso la Mèta che non sappiamo, avanziamo assieme ad essa. Senza prima le definizioni.
Così i fratelli; ciascuno nel Verbo dispiegato e originale, per la crescita. Senza prima i giudizi.
La sacra Scrittura è chiave di lettura degli accadimenti; un evento che ci attraversa e insieme una sorta di codice genetico.
Fiuto il quale consente a ciascuno di rivivere Cristo in modo sereno e fiducioso, malgrado eventuali lati logori della personalità.
Ogni letizia dei rapporti umani nel focolare domestico diventa così piattaforma per il nostro balzo verso la più vasta Famiglia umana. Uno stupore.
In tale Esodo gli affetti particolari sono via via integrati dalla scoperta, da una impensata missione, dalla vita qualitativa di condivisione universale.
«Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e [la] custodiscono» (v.28).
Maria ha generato il Messia, ma ancor più ha fatto Persona non comune la Parola.
Il suo vero titolo di gloria - ciò che le vale - è aver saputo accogliere la proposta d’un cammino di crescita che ha riscritto le aspettative e la storia.
Nei loro processi, la vita segreta con Dio e i codici dell’anima acquistano respiro e godono del venir meno di vantaggi già riconosciuti.
In tal guisa, persino nella devozione alla Madre di Dio vogliamo riconoscere il valore d’un cammino in fieri.
La capacità di poter mettere in campo i lati insoliti, i caratteri distinti; fare spazio dentro, poi generarli, e nutrirli.
Spesso, infatti, costumi o convinzioni fisse non sbloccano le situazioni difficili, né consentono di attivare svolte di trasformazione.
Diventano lacci a nodo scorsoio.
Viceversa, la Via dell’Esodo nel Signore dona un’esperienza di scoperta e rilancio di virtù cui ancora non abbiamo dato fioritura completa.
Come per la Madre: nella Gioia integrale, non attraverso quietismi - né con rivincite che allontanino dai fratelli tutti e da noi stessi.
[Sabato 27.a sett. T.O. 12 ottobre 2024]
Fratelli tutti e noi stessi
(Lc 11,27-28)
«All’inizio l’attaccamento potrà sembrare amore, ma a mano a mano che si sviluppa diventa sempre più chiaramente l’opposto, caratterizzato dall’aggrapparsi, dal tenere sotto controllo, dalla paura» (Jack Kornfield).
Nella mentalità antica la gioia della madre era la grandezza conclamata del figlio.
Gesù contesta che l’autenticità della Beatitudine possa essere legata a rapporti di clan e parentela fisica, o di strepito sociale.
Il Signore smonta ogni esteriorità. Rifiuta questo modo rozzo di concepire la fortuna della vita.
Non si è felici per il cognome illustre o per il sangue. Anche essere nipote di cardinale o re non significherebbe nulla.
La Felicità piena dipende dalla percezione delle proprie radici essenziali e della unicità preziosa che siamo - non viene a noi da una tribù, dal ricalco sociale, o per l’appartenenza da sempre.
Proprio qui la Parola di Dio introduce nella comprensione del motivo irripetibile per cui siamo nati, e trascina in modo energetico integrale; facendoci nuovi ogni giorno.
La Parola vive nel nostro lato Eterno; è oltre il tempo, e sembra faccia diventare stranieri. Eppure non è una rivale disarmonica.
Viaggiando verso la Mèta che non sappiamo, avanziamo assieme ad essa. Senza prima le definizioni.
Così i fratelli; ciascuno nel Verbo dispiegato e originale, per la crescita. Senza prima i giudizi.
La sacra Scrittura è chiave di lettura degli accadimenti; un evento che ci attraversa e insieme una sorta di codice genetico.
Fiuto il quale consente a ciascuno di rivivere Cristo in modo sereno e fiducioso, malgrado eventuali lati logori della personalità.
Ogni letizia dei rapporti umani nel focolare domestico diventa così piattaforma per il nostro balzo verso la più vasta Famiglia umana. Uno stupore.
In tale esodo gli affetti particolari sono via via integrati dalla scoperta, da una impensata missione, dalla vita qualitativa e beata di condivisione universale.
Maria ha generato il Messia, ma ancor più ha fatto Persona non comune la Parola.
Il suo vero titolo di gloria - ciò che Le vale - è aver saputo accogliere la proposta d’un cammino di crescita che ha riscritto le aspettative e la storia.
Chi si attacca agli aspetti più ordinari dell’esistere materiale, o di consorteria - e alle sicurezze tutto sommato scadenti [cui però ci aggrappiamo volentieri] rischia di entrare in crisi terribile quando tante assicurazioni si sgretolano.
La differenza personale e sociale tra religiosità mediocre e traiettoria ideale di Fede?
Nei loro processi, la vita segreta con Dio e i codici dell’anima acquistano respiro e godono del venir meno di vantaggi già riconosciuti!
«Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e [la] custodiscono» (v.28).
La «Beatitudine», pienezza di essere e di umanizzazione, chiede un distacco da situazioni abitudinarie, anche di piccolo vincolo parentale - cui siamo aggrappati.
Talora anche i pregiudizi di ‘carisma’ istituzionale (o di “cordata”) non vengono a capo di nulla.
I modi usuali, le domesticazioni da routine, tante emozioni imprigionate, ma anche i codici di gruppo... possono essere di ostacolo allo sviluppo e fioritura della semenza interiore che più ci appartiene.
In tal guisa, persino nella devozione a Maria vogliamo riconoscere il valore d’un cammino in fieri.
Desideriamo cogliere come dare il benvenuto alla Vocazione - sia essa individuale, di relazione, comunitaria, e al Logos stesso di Dio.
E come cercare di comprenderli nel profondo, lasciando che ci plasmino la destinazione.
Cerchiamo allora in che modo fare spazio dentro, rispettando i caratteri distinti.
In aggiunta, proprio riallacciando i nodi dell’essere, potremmo intuire come ritessere l’identità-carattere personale con apporto creativo.
In quale maniera poi partorire l’altro al suo procedere. Come allattarlo e nutrirlo con cibo via via più solido, e accompagnarlo, sostenerlo.
Infine irradiarlo, affinché anche attorno a sé trabocchi e scateni lo Spirito della Vita che nobilita la dignità creaturale - esaltandone le aspirazioni.
La pietà antica rimandava a un progetto di convivenza unilaterale, che pur nutriva l’anima individuale in modo intimo.
Ma talora il troppo “saper stare al mondo” [attorno] non metteva in campo i lati insoliti, che pure chiedevano spazio.
Vale anche per noi; in specie nel tempo della crisi globale.
Evitare ciò che sorprende non costruisce comunione nella Novità epocale dello Spirito divino: ossia, convivialità delle differenze.
Ebbene, quantunque situati nell’era dell’emergenza, l’azzardo largo della Fede ci ripropone invece un ‘fuoco’ di vita, di passione.
Ecco un’ebbrezza alternativa, davvero appagante. Un brio che supera le tacite convinzioni di ripiego, soffocanti.
La vita di Fede vuole appunto rompere l’uniformità conformista e il suo tran tran di blocchi, linguaggi e lacciuoli (a nodo scorsoio).
Costumi o pareri che non sbloccano le situazioni difficili, né consentono di attivare svolte di trasformazione.
Diventano appunto [è bene ribadire] lacci a nodo scorsoio.
Viceversa, la Via dell’Esodo nel Signore dona un’esperienza di scoperta e rilancio di virtù cui ancora non abbiamo dato fioritura completa.
Come per la Madre: nella Gioia integrale, non attraverso quietismi - né con rivincite che allontanino dai ‘fratelli tutti’ e da noi stessi.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ritieni che la tua vicenda personale giaccia ancora nella morte, e non sia ancora riscattata da una vittoria di Pasqua?
Per quale motivo?
A quale Speranza piena o idea di fortuna - a cosa e Chi - sei legato?
O ti lasci sedurre da quietismi, da manipolatori, e mentalità vincenti?
Di più, quella Luce nell’intimo dei Pastorelli, che proviene dal futuro di Dio, è la stessa che si è manifestata nella pienezza dei tempi ed è venuta per tutti: il Figlio di Dio fatto uomo. Che Egli abbia il potere di infiammare i cuori più freddi e tristi, lo vediamo nei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,32). Perciò la nostra speranza ha fondamento reale, poggia su un evento che si colloca nella storia e al tempo stesso la supera: è Gesù di Nazaret. E l’entusiasmo suscitato dalla sua saggezza e dalla sua potenza salvifica nella gente di allora era tale che una donna in mezzo alla moltitudine – come abbiamo ascoltato nel Vangelo – esclama: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato». Tuttavia Gesù rispose: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11, 27.28). Ma chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi affascinare dal suo amore? Chi veglia, nella notte del dubbio e dell’incertezza, con il cuore desto in preghiera? Chi aspetta l’alba del nuovo giorno, tenendo accesa la fiamma della fede? La fede in Dio apre all’uomo l’orizzonte di una speranza certa che non delude; indica un solido fondamento sul quale poggiare, senza paura, la propria vita; richiede l’abbandono, pieno di fiducia, nelle mani dell’Amore che sostiene il mondo.
«Sarà famosa tra le genti la loro stirpe, […] essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (Is 61,9) con una speranza incrollabile e che fruttifica in un amore che si sacrifica per gli altri ma non sacrifica gli altri; anzi – come abbiamo ascoltato nella seconda lettura – «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). Di ciò sono esempio e stimolo i Pastorelli, che hanno fatto della loro vita un’offerta a Dio e una condivisione con gli altri per amore di Dio. La Madonna li ha aiutati ad aprire il cuore all’universalità dell’amore. In particolare, la beata Giacinta si mostrava instancabile nella condivisione con i poveri e nel sacrificio per la conversione dei peccatori. Soltanto con questo amore di fraternità e di condivisione riusciremo ad edificare la civiltà dell’Amore e della Pace.
[Papa Benedetto, omelia a Fatima 13 maggio 2010]
20. Il vangelo di Luca registra il momento in cui «una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse», rivolgendosi a Gesù: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!» (Lc 11,27). Queste parole costituivano una lode per Maria come Madre di Gesù secondo la carne. La Madre di Gesù non era forse conosciuta personalmente da questa donna; infatti, quando Gesù iniziò la sua attività messianica, Maria non lo accompagnava e continuava a rimanere a Nazareth. Si direbbe che le parole di quella donna sconosciuta l'abbiano fatta in qualche modo uscire dal suo nascondimento. Attraverso quelle parole è balenato in mezzo alla folla, almeno per un attimo, il vangelo dell'infanzia di Gesù. È il vangelo in cui Maria è presente come la madre che concepisce Gesù nel suo grembo, lo dà alla luce e lo allatta maternamente: la madre-nutrice, a cui allude quella donna del popolo. Grazie a questa maternità, Gesù - Figlio dell'Altissimo (Lc 1,32) - è un vero figlio dell'uomo. È «carne», come ogni uomo: è «il Verbo (che) si fece carne» (Gv 1,14). È carne e sangue di Maria!43 Ma alla benedizione, proclamata da quella donna nei confronti della sua genitrice secondo la carne, Gesù risponde in modo significativo: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28). Egli vuole distogliere l'attenzione dalla maternità intesa solo come un legame della carne, per orientarla verso quei misteriosi legami dello spirito, che si formano nell'ascolto e nell'osservanza della parola di Dio. Lo stesso trasferimento nella sfera dei valori spirituali si delinea ancor più chiaramente in un'altra risposta di Gesù, riportata da tutti i Sinottici. Quando viene annunciato a Gesù che «sua madre e i suoi fratelli sono fuori e desiderano vederlo», egli risponde: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,20). Questo disse «girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno», come leggiamo in Marco (Mc 3,34) o, secondo Matteo (Mt 12,49), «stendendo la mano verso i suoi discepoli». Queste espressioni sembrano collocarsi sulla scia quel che Gesù dodicenne rispose a Maria e a Giuseppe, quando fu ritrovato dopo tre giorni nel tempio di Gerusalemme. Ora, quando Gesù partì da Nazareth e diede inizio alla sua vita pubblica in tutta la Palestina, era ormai completamente ed esclusivamente «occupato nelle cose del Padre» (Lc 2,49). Egli annunciava il Regno: «Regno di Dio» e «cose del Padre», che danno anche un; nuova dimensione e un nuovo senso a tutto ciò che è umano e, quindi, ad ogni legame umano, in relazione ai fini e ai compiti assegnati a ogni uomo. In questa nuova dimensione anche un legame, come quello della «fratellanza», significa qualcosa di diverso dalla «fratellanza secondo la carne», derivante dalla comune origine dagli stessi genitori. E persino la «maternità», nella dimensione del Regno di Dio, nel raggio della paternità d Dio stesso, acquista un altro senso. Con le parole riportate da Luca Gesù insegna proprio questo nuovo senso della maternità. Si allontana per questo da colei che è stata la sua genitrice secondo la carne? Vuole forse lasciarla nel l'ombra del nascondimento, che ella stessa ha scelto' Se così può sembrare in base al suono di quelle parole si deve però rilevare che la nuova e diversa maternità di cui parla Gesù ai suoi discepoli, concerne proprio Maria in modo specialissimo. Non è forse Maria la prima tra «coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»? E dunque non riguarda soprattutto le quella benedizione pronunciata da Gesù in risposta alle parole della donna anonima? Senza dubbio, Maria è degna di benedizione per il fatto che è divenuta Madre di Gesù secondo la carne («Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte»), ma anche e soprattutto perché già al momento dell'annunciazione ha accolto la parola di Dio, perché vi ha creduto, perché fu obbediente a Dio, perché «serbava» la parola e «la meditava nel suo cuore» (Lc 1,45); (Lc 2,19) e con tutta la sua vita l'adempiva. Possiamo dunque affermare che la beatitudine proclamata da Gesù non si contrappone, nonostante le apparenze, a quella formulata dalla donna sconosciuta, ma con essa viene a coincidere nella persona di questa Madre-Vergine, che si è chiamata solo «serva del Signore» (Lc 1,38). Se è vero che «tutte le generazioni la chiameranno beata» (Lc 1,48), si può dire che quell'anonima donna sia stata la prima a confermare inconsapevolmente quel versetto profetico del Magnificat di Maria e a dare inizio al Magnificat dei secoli. Se mediante la fede Maria è divenuta la genitrice del Figlio datole dal Padre nella potenza dello Spirito Santo, conservando integra la sua verginità, nella stessa fede ella ha scoperto ed accolto l'altra dimensione della maternità, rivelata da Gesù durante la sua missione messianica. Si può dire che questa dimensione della maternità apparteneva a Maria sin dall'inizio, cioè dal momento del concepimento e della nascita del Figlio. Fin da allora era «colei che ha creduto». Ma a mano a mano che si chiariva ai suoi occhi e nel suo spirito la missione del Figlio, ella stessa come Madre si apriva sempre più a quella «novità» della maternità, che doveva costituire la sua «parte» accanto al Figlio. Non aveva dichiarato fin dall'inizio: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38)? Mediante la fede Maria continuava ad udire ed a meditare quella parola, nella quale si faceva sempre più trasparente, in un modo «che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3,19), l'autorivelazione del Dio vivo. Maria madre diventava così, in un certo senso, la prima «discepola» di suo Figlio, la prima alla quale egli sembrava dire: «Seguimi», ancor prima di rivolgere questa chiamata agli apostoli o a chiunque altro (Gv 1,43).
[Papa Giovanni Paolo II, Redemptoris Mater]
Le parole di Gesù suscitano un grande scandalo: Egli sta dicendo che Dio ha scelto di manifestare sé stesso e di attuare la salvezza nella debolezza della carne umana. È il mistero dell’incarnazione. E l’incarnazione di Dio è ciò che suscita scandalo e che rappresenta per quella gente – ma spesso anche per noi – un ostacolo. Infatti, Gesù afferma che il vero pane della salvezza, che trasmette la vita eterna, è la sua stessa carne; che per entrare in comunione con Dio, prima di osservare delle leggi o soddisfare dei precetti religiosi, occorre vivere una relazione reale e concreta con Lui. Perché la salvezza è venuta da Lui, nella sua incarnazione. Questo significa che non bisogna inseguire Dio in sogni e immagini di grandezza e di potenza, ma bisogna riconoscerlo nell’umanità di Gesù e, di conseguenza, in quella dei fratelli e delle sorelle che incontriamo sulla strada della vita. Dio si è fatto carne. E quando noi diciamo questo, nel Credo, il giorno del Natale, il giorno dell’annunciazione, ci inginocchiamo per adorare questo mistero dell’incarnazione. Dio si è fatto carne e sangue: si è abbassato fino a diventare uomo come noi, si è umiliato fino a caricarsi delle nostre sofferenze e del nostro peccato, e ci chiede di cercarlo, perciò, non fuori dalla vita e dalla storia, ma nella relazione con Cristo e con i fratelli. Cercarlo nella vita, nella storia, nella vita nostra quotidiana. E questa, fratelli e sorelle, è la strada per l’incontro con Dio: la relazione con Cristo e i fratelli.
[Papa Francesco, Angelus 22 agosto 2021]
The "widow" represents the soul of the People from whom God, the Bridegroom, has been stolen. The "poor" is such because she is the victim of a deviant teaching: a doctrine that arouses fear, more than humility or a spirit of totality. Jesus mourns the condition of she who should have been helped by the Temple instead of impoverished
La “vedova” raffigura l’anima del Popolo cui è stato sottratto Dio, lo Sposo. La “povera” è tale perché vittima di un insegnamento deviante: dottrina che suscita timore, più che umiltà o spirito di totalità. Gesù piange la condizione di colei che dal Tempio avrebbe dovuto essere aiutata, invece che impoverita
Jesus has forever interrupted the succession of ferocious empires. He turned the values upside down. And he proposes the singular work - truly priestly - of the journey of Faith: the invitation to question oneself. At the end of his earthly life, the Lord is Silent, because he waits for everyone to pronounce, and choose
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi degli imperi feroci. Ha capovolto i valori. E propone l’opera singolare - davvero sacerdotale - del cammino di Fede: l’invito a interrogarsi. Al termine della sua vicenda terrena il Signore è Silenzioso, perché attende che ciascuno si pronunci, e scelga
The Sadducees, addressing Jesus for a purely theoretical "case", at the same time attack the Pharisees' primitive conception of life after the resurrection of the bodies; they in fact insinuate that faith in the resurrection of the bodies leads to admitting polyandry, contrary to the law of God (Pope John Paul II)
I Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio (Papa Giovanni Paolo II)
Are we disposed to let ourselves be ceaselessly purified by the Lord, letting Him expel from us and the Church all that is contrary to Him? (Pope Benedict)
Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa tutto ciò che Gli è contrario? (Papa Benedetto)
Jesus makes memory and remembers the whole history of the people, of his people. And he recalls the rejection of his people to the love of the Father (Pope Francis)
Gesù fa memoria e ricorda tutta la storia del popolo, del suo popolo. E ricorda il rifiuto del suo popolo all’amore del Padre (Papa Francesco)
Today, as yesterday, the Church needs you and turns to you. The Church tells you with our voice: don’t let such a fruitful alliance break! Do not refuse to put your talents at the service of divine truth! Do not close your spirit to the breath of the Holy Spirit! (Pope Paul VI)
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo! (Papa Paolo VI)
Sometimes we try to correct or convert a sinner by scolding him, by pointing out his mistakes and wrongful behaviour. Jesus’ attitude toward Zacchaeus shows us another way: that of showing those who err their value, the value that God continues to see in spite of everything (Pope Francis)
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che continua a vedere malgrado tutto (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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