don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Oggi mediteremo su San Giuseppe come padre di Gesù. Gli Evangelisti Matteo e Luca lo presentano come padre putativo di Gesù e non come padre biologico. Matteo lo precisa, evitando la formula “generò”, usata nella genealogia per tutti gli antenati di Gesù; ma lo definisce «sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù detto il Cristo» (1,16). Mentre Luca lo afferma dicendo che era padre di Gesù «come si riteneva» (3,23), cioè appariva come padre.

Per comprendere la paternità putativa o legale di Giuseppe, occorre tener presente che anticamente in Oriente era molto frequente, più di quanto non sia ai nostri giorni, l’istituto dell’adozione. Si pensi al caso comune presso Israele del “levirato” così formulato nel Deuteronomio: «Quando uno dei fratelli morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà con uno di fuori, con un estraneo. Suo cognato si unirà a lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere di cognato. Il primogenito che ella metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele» (25,5-6). In altre parole, il genitore di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto, che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari. Lo scopo di questa legge era duplice: assicurare la discendenza al defunto e la conservazione del patrimonio.

Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome al figlio, riconoscendolo giuridicamente. Giuridicamente è il padre, ma non generativamente, non l’ha generato.

Anticamente il nome era il compendio dell’identità di una persona. Cambiare il nome significava cambiare sé stessi, come nel caso di Abramo, il cui nome Dio cambia in “Abraham”, che significa “padre di molti”, «perché – dice il Libro della Genesi – sarà padre di una moltitudine di nazioni» (17,5). Così per Giacobbe, che viene chiamato “Israele”, che significa “colui che lotta con Dio”, perché ha lottato con Dio per obbligarlo a dargli la benedizione (cfr Gen 32,29; 35,10).

Ma soprattutto dare il nome a qualcuno o a qualcosa significava affermare la propria autorità su ciò che veniva denominato, come fece Adamo quando conferì un nome a tutti gli animali (cfr Gen 2,19-20).

Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio – il nome a Gesù lo dà il vero padre di Gesù, Dio – il nome “Gesù”, che significa “Il Signore salva”, come gli spiega l’Angelo: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Questo particolare aspetto della figura di Giuseppe ci permette oggi di fare una riflessione sulla paternità e sulla maternità. E questo credo che sia molto importante: pensare alla paternità, oggi. Perché noi viviamo un’epoca di notoria orfanezza. È curioso: la nostra civiltà è un po’ orfana, e si sente, questa orfanezza. Ci aiuti la figura di San Giuseppe a capire come si risolve il senso di orfanezza che oggi ci fa tanto male.

Non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne anche padri o madri. «Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti» (Lett. ap. Patris corde). Penso in modo particolare a tutti coloro che si aprono ad accogliere la vita attraverso la via dell’adozione, che è un atteggiamento così generoso e bello. Giuseppe ci mostra che questo tipo di legame non è secondario, non è un ripiego. Questo tipo di scelta è tra le forme più alte di amore e di paternità e maternità. Quanti bambini nel mondo aspettano che qualcuno si prenda cura di loro! E quanti coniugi desiderano essere padri e madri ma non riescono per motivi biologici; o, pur avendo già dei figli, vogliono condividere l’affetto familiare con chi ne è rimasto privo. Non bisogna avere paura di scegliere la via dell’adozione, di assumere il “rischio” dell’accoglienza. E oggi, anche, con l’orfanezza, c’è un certo egoismo. L’altro giorno, parlavo sull’inverno demografico che c’è oggi: la gente non vuole avere figli, o soltanto uno e niente di più. E tante coppie non hanno figli perché non vogliono o ne hanno soltanto uno perché non ne vogliono altri, ma hanno due cani, due gatti … Eh sì, cani e gatti occupano il posto dei figli. Sì, fa ridere, capisco, ma è la realtà. E questo rinnegare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità. E così la civiltà diviene più vecchia e senza umanità, perché si perde la ricchezza della paternità e della maternità. E soffre la Patria, che non ha figli e – come diceva uno un po’ umoristicamente – “e adesso chi pagherà le tasse per la mia pensione, che non ci sono figli? Chi si farà carico di me?”: rideva, ma è la verità. Io chiedo a San Giuseppe la grazia di svegliare le coscienze e pensare a questo: ad avere figli. La paternità e la maternità sono la pienezza della vita di una persona. Pensate a questo. È vero, c’è la paternità spirituale per chi si consacra a Dio e la maternità spirituale; ma chi vive nel mondo e si sposa, deve pensare ad avere figli, a dare la vita, perché saranno loro che gli chiuderanno gli occhi, che penseranno al suo futuro. E anche, se non potete avere figli, pensate all’adozione. È un rischio, sì: avere un figlio sempre è un rischio, sia naturale sia d’adozione. Ma più rischioso è non averne. Più rischioso è negare la paternità, negare la maternità, sia la reale sia la spirituale. Un uomo e una donna che volontariamente non sviluppano il senso della paternità e della maternità, mancano qualcosa di principale, di importante. Pensate a questo, per favore. Auspico che le istituzioni siano sempre pronte ad aiutare in questo senso dell’adozione, vigilando con serietà ma anche semplificando l’iter necessario perché possa realizzarsi il sogno di tanti piccoli che hanno bisogno di una famiglia, e di tanti sposi che desiderano donarsi nell’amore. Tempo fa ho sentito la testimonianza di una persona, un dottore – importante il suo mestiere – non aveva figli e con la moglie hanno deciso di adottarne uno. E quando è arrivato il momento, ne hanno offerto loro uno e hanno detto: “Ma, non sappiamo come andrà la salute di questo. Forse può avere qualche malattia”. E lui disse – lo aveva visto – disse: “Se lei mi avesse domandato questo prima di entrare, forse avrei detto di no. Ma l’ho visto: me lo porto”. Questa è la voglia di essere padre, di essere madre anche nell’adozione. Non abbiate paura di questo.

Prego perché nessuno si senta privo di un legame di amore paterno. E coloro che sono ammalati di orfanezza vadano avanti senza questo sentimento così brutto. Possa San Giuseppe esercitare la sua protezione e il suo aiuto sugli orfani; e interceda per le coppie che desiderano avere un figlio. Per questo preghiamo insieme:

San Giuseppe,
tu che hai amato Gesù con amore di padre,
sii vicino a tanti bambini che non hanno famiglia
e desiderano un papà e una mamma.
Sostieni i coniugi che non riescono ad avere figli,
aiutali a scoprire, attraverso questa sofferenza, un progetto più grande.
Fa’ che a nessuno manchi una casa, un legame,
una persona che si prenda cura di lui o di lei;
e guarisci l’egoismo di chi si chiude alla vita,
perché spalanchi il cuore all’amore.

[Papa Francesco, Udienza Generale 5 gennaio 2022]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Ecco il commento ai testi di domenica prossima con l’assicurazione della preghiera per il Papa e per le grandi esigenze spiritual e sociali della nostra società.

2a Domenica di Quaresima anno C (16 Marzo 2025)

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza che venivano squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio che all’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta, nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Simile a riti analoghi è che Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e li scacciava considerandoli uccelli di male augurio (Abramo, pur avendo scoperto il vero Dio, conservava ancora una certa superstizione). Ciò che invece è diverso è che al tramonto Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda e in quel momento vede passare tra i pezzi degli animali un braciere fumante e una fiaccola ardente. Il testo parla di un sonno misterioso, ma usa una parola che non è di uso comune ma già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna. E’ dunque un modo per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione; inoltre mostra che l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre per l’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede nel Signore e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, discendenza e terra termini posti in inclusione nel racconto: all’inizio, Dio aveva detto: guarda il cielo e conta le stelle, se riesci… così sarà la tua discendenza, “Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra” e alla fine: «Alla tua discendenza io do questa terra”.  Sorprendente è questa promessa a un vecchio senza figli e non è la prima volta che Dio gliela fa anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione pur continuando a camminare sostenuto unicamente dalla promessa di un Dio a lui sconosciuto. Ricordiamo i precedenti della sua vocazione: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. Farò di te una grande nazione (Gn 12,1) e la Bibbia ha sempre sottolineato l’indomita fede di Abramo che “partì come il Signore gli aveva detto” (Gen 12,4). Qui, il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. È la prima apparizione della parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto e nella Bibbia il giusto è colui la cui volontà è secondo la volontà di Dio. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona e ci chiede una sola cosa… crederci, cioè fidarci di lui. 

Note d’approfondimento.

v.7: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei»; è lo stesso verbo usato per l’uscita dall’Egitto con Mosè, seicento anni dopo: l’opera di Dio è presentata fin dall’inizio come un’opera di liberazione.

• v.12: «sonno misterioso» = tardemah = stessa parola usata per Adamo, Abramo e Saul (1 Sam 26).

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo dell’orante che si sente autorizzato a dire tutto al Signore. E così la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo: serenità che nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita:di chi avrò paura?”, unita a un’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”.Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia in mezzo alle sue vicissitudini e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Infine, tra la prima e l’ultima strofa, c’è il passaggio dal presente al futuro: nella prima strofa, “Il Signore è mia luce e mia salvezza” che è il linguaggio della fede, cioè della fiducia incrollabile, mentre nell’ultima strofa, “Sono certo di contemplare la bontà del Signore… e spera nel Signore, sii forte” esprime speranza coniugata insieme a fede al futuro. C’è modo di commentare questo salmo spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Prima di tutto, “Il tuo volto, Signore, io cerco”: vedere il volto di Dio è il desiderio, la sete di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, nostro Creatore. Il desiderio di  cercare il suo volto si fa più intenso nel tempo di Quaresima. Come il Signore disse a Mosè, noi non possiamo vederlo e restare in vita (cf Es 33,18-23. In questo testo è presente insieme alla grandezza e alla inaccessibilità di Dio, anche tutta la tenera vicinanza di Dio, talmente immenso che non possiamo vederlo con i nostri occhi. Il fulgore della sua Presenza ineffabile, inaccessibile – ciò che i testi chiamano la sua gloria – è infatti troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: chi crede non ha più paura di niente, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Fiducia che troviamo ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Ma quale è la terra dei viventi? Di certo la terra donata al suo popolo e di cui il possesso è diventato per Israele un simbolo dei doni di Dio, ma c’è anche il richiamo alle esigenze dell’Alleanza: la terra santa è stata data al popolo eletto affinché vi viva santamente. E questo è è uno dei temi principali del libro del Deuteronomio (cf Dt 5,32-33), dove i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensa che il rito della circoncisione rimane anche ora indispensabile, agisce come se l’evento della “croce di Cristo” non è avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti, ma san Paolo li mette in guardia in maniera severa invitandoli a fare attenzione ai cani, ai cattivi operai e ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i circoncisi (veri) siamo noi, che rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio ponendo la nostra gloria in Gesù Cristo senza confidare in noi stessi. Usa persino un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza e la loro salvezza é in Gesù Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Falsi circoncisi sono invece quanti hanno ricevuto la circoncisione nella loro carne, secondo la legge di Mosè e attribuiscono a questo rito una importanza più grande del battesimo. E quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione. Inoltre Paolo intravede un’altra insidia nell’attitudine del credente: la salvezza si guadagna con le proprie pratiche oppure la riceviamo gratuitamente da Dio? Quando dice che il ventre è il loro dio vuol far capire che queste persone scommettono sulle pratiche rituali ebraiche e si sbagliano: “si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” per cui “la loro sorte finale sarà la perdizione”.  E continua indicando quale sia la scelta giusta: ricorda ai Filippesi che la nostra cittadinanza è nei cieli mentre attendiamo come salvatore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso, con la potenza attiva che lo rende perfino capace di sottomettere ogni cosa al suo dominio. Se lo attendiamo come salvatore significa riconoscere che tutta la nostra fiducia è posta in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i veri circoncisi e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Scrive infatti che se qualcun altro crede di poter confidare in sé stesso, io posso farlo ancor di più, io, circonciso l’ottavo giorno, della discendenza d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo, figlio di Ebrei; per la legge, fariseo; per lo zelo, persecutore della Chiesa; per la giustizia che si trova nella legge, divenuto irreprensibile. Ora tutte queste cose, che per me erano guadagni, le ho ritenute come una perdita a causa di Cristo (cf Fil 3,4-7). In sintesi,  prendere esempio da Paolo significa fare di Gesù Cristo – e non delle nostre pratiche – il centro della nostra vita e questo significa  essere “cittadini dei cieli”.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, pose ai discepoli questa domanda: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. Gesù annunciò allora la necessità  del sacrificio del Figlio dell’uomo respinto dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, messo a morte ma risorto il terzo giorno. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo. Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro ed è in tale contesto che Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che ci invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia visto che Mosè trascorse quaranta giorni sul Sinai in presenza di Dio e discese con il volto così raggiante da stupire tutti. Elia invece camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte dove Dio si rivelò in un modo totalmente inatteso: non nella potenza del vento, del fuoco, del terremoto, ma nel dolce sussurro di una brezza leggera. I due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio di vedere la gloria di Dio, sono presenti anche qui dove si manifesta la gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e dalla risurrezione, che chiama la Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Dalla nube una voce dice: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Queste tre parole: Figlio mio, Eletto, Ascoltatelo esprimevano al tempo di Cristo la diversità dei ritratti con cui si immaginava il Messia. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo, sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta: “Susciterò loro un profeta come te tra i loro fratelli; metterò le mie parole nella sua bocca” (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. “Ascoltatelo”, non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, contemplando il volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Il progetto di Dio non è per pochi eletti: Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri e lavorare perché nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. Paolo nella lettera ai Filippesi lo dice alla sua maniera: “noi siamo cittadini del cielo”.

+Giovanni D’Ercole

 

 

Ecco una sintesi per coloro che lo desiderano 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio. All’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Vediamo da vicino anzitutto ciò che è simile: Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e Abramo li scacciava considerandoli uccelli di male augurio. Ma c’è qualcosa d’insolito: al tramonto, Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda. Il testo parla di un sonno misterioso, una parola già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna e serve per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione. Inoltre l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre all’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, promessa già fatta a un vecchio senza figli anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione, ma continua a fidarsi di un Dio a lui sconosciuto. Per la prima appare la parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto. Il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è una questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona tutto e ci chiede una sola cosa: fidarci di lui. 

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo nei quali ci troviamo perché la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo. La serenità nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza… è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”, insieme all’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”. Nei momenti di gioia e in quelli di prova Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Questo salmo torna spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Vedere il volto di Dio è il desiderio di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, ma il fulgore della sua Presenza ineffabile, che la Bibbia chiama la sua gloria, è troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: il credente non ha più paura di nulla e di nessuno, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai più suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Troviamo la fiiducia ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. E i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensava che il rito della circoncisione era anche indispensabile, agiva come se l’evento della “croce di Cristo” non fosse avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti e san Paolo li invita a fare attenzione ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i veri circoncisi siamo noi, che poniamo tutta la nostra fiducia in Gesù Cristo. E arriva a usare un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza è in Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione e vuol far capire che queste persone scommettono sulle loro pratiche rituali. La scelta giusta è ricordare che siamo cittadini del cielo e attendiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso. Se attendiamo Cristo come salvatore vuol dire che riconosciamo che tutta la nostra fiducia è in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i circoncisi (i veri) e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Ponendosi come esempio c’incoraggia a fare di Cristo, e non delle pratiche rituali, il centro della nostra vita e se siamo in Cristo siamo già “cittadini dei cieli”, pur abitando ancora sulla terra. 

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, chiese ai discepoli: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. E Gesù disse: é necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto, sia respinto, messo a morte e, il terzo giorno, risorga. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo con Gesù che conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro e in tale contesto Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che fornisce la risposta e invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia, i due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio della rivelazione della gloria di Dio e ora sono testimoni della gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e la usa riferendosi alla Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Tutto s’incentra su tre parole che esprimevano al tempo di Cristo le diverse concezioni del Messia: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. Ascoltatelo! Non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, meravigliato dal volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che Pietro non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri perché il progetto di Dio non si limita a pochi eletti: nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. San Paolo nella lettera ai Filippesi diceva che “noi siamo cittadini del cielo”, perché con il battesimo siamo già nella vita eterna pur pellegrinando ancora sulla terra.

+Giovanni D’Ercole

Essere presenti a se stessi: non sostituire l’Amore coi fiocchi, l’osservanza, le deferenze

(Mt 23,1-12)

 

La Nuova Relazione fra Dio e l’uomo non poteva essere contenuta all’interno delle minuziose norme della Prima Alleanza e delle sue pesanti consuetudini.

Al tempo di Gesù, dominavano tali ossessioni malate di verticismo spocchioso, quindi solo epidermiche; incapaci di dare respiro, libertà, motivazioni propulsive.

 

La concezione piramidale del mondo e l’idea esteriore della trama della vita spirituale non corrispondono alla Rivelazione.

La nostra realtà è intessuta di stati contrapposti, che la innervano e completano; addirittura facendola avanzare. Anche trasformandola in un torrente in piena.

Un rifiuto, un abbandono, un’esperienza di fallimento, di limite, malattia o disistima altrui - persino una crisi - possono riportarci alle energie sopite della vita e far nascere la Persona nuova.

 

Come contattare i nostri nuovi modi di essere? Quali accorgimenti mettere in atto per introdursi in un dinamismo di rigenerazione che aiuti a sviluppare un clima vivo - e dove iniziare?

Gesù propone Fede: una Relazione fondante, ossia un nuovo modo di porsi dinanzi al Padre e al mondo… con attitudine fiduciosa, sponsale e creativa; nell’iniziativa di un Altro punto di vista.

Amore poliedrico, Eros che viene a noi in un dialogo palpabile - non privo di lotte interiori.

Ciò nel tempo d’un percorso (singolare, affatto ricalcato o esterno). Anche su due piedi fastidioso, perché controcorrente.

Le autorità religiose cercavano invece la loro sicurezza nell’osservanza rigorosa e appariscente della Legge scritta e orale.

Senza rischio, né personalizzazioni da capogiro.

 

Dinanzi a tale mentalità accomodante, priva di vertigini, il giovane Maestro insiste sulla pratica dell’Amicizia [assai più forte del volontarismo] la quale relativizza gli adempimenti.

Egli dà così alla Tradizione profonda il suo vero significato, riscoprendo il senso autentico della Torah e delle norme di comportamento.

Del resto, proprio le guide spirituali della religione ufficiale erano i primi a non credere a quel che predicavano agli altri... ovvero se ne sentivano esenti, perché abituati a pensare se stessi come modelli elettivi, riconosciuti, selezionati, prescelti - quasi calati dall’alto.

 

L’esagerato spirito di controllo è atteggiamento fasullo in sé - causa forzature eccessive, sorde al nucleo interiore. Ma deleterio anche per l’edificazione d’una atmosfera di famiglia, o cultura dell’Incontro, cammino sinodale; così via.

Insistendo viceversa sull’attitudine [questa sì infallibile] di servizio reciproco, non rimarrà più tempo per farsi prendere dalla vanità, dalla disputa sulle precedenze, dalle discussioni, dal divario fra dire e fare.

 

Da dove può ripartire invece il teatrino del disamore, che non vitalizza bensì deprime il popolo di Dio?

Dagli imperituri scribi e farisei (v.2). Sedicenti superiori, dal metro di giudizio limitato e riduttivo.

Ebbene, secondo i Vangeli chi assume compiti ecclesiali direttivi non ha diritto ad alcun “fiocco”: è semplicemente «diacono» (v.11) dei fratelli.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Ti piacciono i fiocchi? Cosa dice la tua anima dei pavoni?

 

 

[Martedì 2.a sett. Quaresima, 18 marzo 2025]

Essere presenti a se stessi: non sostituire l’Amore coi fiocchi, l’osservanza, le deferenze

(Mt 23,1-12)

 

La Nuova Relazione fra Dio e l’uomo non poteva essere contenuta all’interno delle minuziose norme della Prima Alleanza e delle sue pesanti consuetudini.

Al tempo di Gesù, dominavano tali ossessioni malate di verticismo spocchioso, quindi solo epidermiche; incapaci di dare respiro, libertà, motivazioni propulsive.

La concezione piramidale del mondo e l’idea esteriore della trama della vita spirituale mai corrispondono alla Rivelazione, né ai semplici criteri della sapienza naturale.

Dice infatti il Tao Tê Ching (iv): «Il Tao mitiga il suo splendore, si rende simile alla sua polvere. Quale Profondità! Sembra che da sempre esista».

Commenta il maestro Wang Pi: «[Quel che non ha origine] smussando le sue punte, non ferisce le creature; districando i suoi nodi, non le affatica; mitigando la sua luce, non svilisce il loro corpo; rendendosi simile alla sua polvere, non turba la loro genuinità».

Aggiunge il maestro Ho-shang Kung: «Pur avendo uno splendore straordinario, bisogna sapersi tenere nell’oscurità e nella tenebra [...], rendersi simile alla sporcizia e alla polvere, insieme alle folle: non bisogna differenziarsi da esse».

 

La nostra realtà è intessuta di stati contrapposti, che la innervano e completano; addirittura facendola avanzare. Anche trasformandola in un torrente in piena.

Un rifiuto, un abbandono, un’esperienza di fallimento, di limite, malattia o disistima altrui - persino un rovescio - possono riportarci alle energie sopite della vita e far nascere la Persona nuova.

In tal guisa:

Come contattare i nostri nuovi modi di essere? Quali accorgimenti mettere in atto per introdursi in un dinamismo di rigenerazione che aiuti a sviluppare un clima vivo - e dove iniziare?

 

Gesù propone Fede: una Relazione fondante, ossia un nuovo modo di porsi dinanzi al Padre e al mondo… con attitudine fiduciosa, sponsale e creativa; nell’iniziativa di un Altro punto di vista.

Amore poliedrico, Eros che viene a noi in un dialogo palpabile - non privo di lotte interiori.

Ciò nel tempo d’un percorso (singolare, affatto ricalcato o esterno). Anche su due piedi fastidioso, perché controcorrente.

Le autorità religiose cercavano invece la loro sicurezza nell’osservanza rigorosa e appariscente della Legge scritta e orale.

Senza rischio, né personalizzazioni da capogiro.

 

Dinanzi a tale mentalità accomodante, priva di vertigini, il giovane Maestro insiste sulla pratica dell’Amicizia [assai più forte del volontarismo] la quale relativizza gli adempimenti.

Egli dà così alla Tradizione profonda il suo vero significato, riscoprendo il senso autentico della Torah e delle norme di comportamento.

Del resto, proprio le guide spirituali della religione ufficiale erano i primi a non credere a quel che predicavano agli altri... ovvero se ne sentivano esenti, perché abituati a pensare se stessi come modelli elettivi, riconosciuti, selezionati, prescelti - quasi calati dall’alto.

Un vizio di ritorno che il Risorto sembra scorgere nei dirigenti spirituali del suo stesso popolo nuovo, dove i responsabili - pur annunciando il Cristo stesso - iniziavano a farsi amanti perfino dell’ossequiosità.

Proprio come gli antichi professionisti della religione, i quali spingevano al conformismo, legalismo e moralismo; abituati a fare mostra di sé, dettare sentenza, e condizionare lo stesso corso della Legge.

Poi da abili specialisti essi trovavano sempre qualsiasi scusa per dire e non fare - e passare da ‘fedeli impeccabili’:

«Legano insieme carichi pesanti e difficili a portare, e li impongono sulle spalle degli uomini; ma essi nemmeno con il loro dito vogliono smuoverli» (v.4).

 

Ancora oggi i veri esperti della comunicazione agiscono sempre in pubblico, per essere acclamati.

Ma nella condotta non hanno un principio intimo determinante e radicato, restando preda delle situazioni; leggeri come farfalle.

Guidati dall’ambizione, eccoli tutta appariscenza e vanità - anche per l’amor proprio suscitato dall’influsso sociale che volentieri desiderano ed esercitano.

Uno spirito di verticismo e innalzamento vacuo che Mt nota serpeggiare anche fra i suoi veterani di comunità in Galilea e Siria.

Piccole assemblee allora assediate dall’afflusso di pagani, ai quali gli anziani giudaizzanti chiedevano anzitutto il rispetto gerarchico.

Ipocritamente spodestando Cristo e il Padre, tali reduci della religiosità antica ambivano anche farsi chiamare rabbì, padri, precettori (vv.7-10). 

Sedicenti superiori, dal metro di giudizio limitato e riduttivo.

 

In ordine all’esperienza di Fede, il Signore ordina invece di essere tutti fratelli - ossia alla pari - nella certezza d’un unico Padre.

Vale anche per noi, in specie nel tempo della rinascita dalla crisi globale.

 

Nella Deus Caritas est (n.35):

«Questo giusto modo di servire rende l'operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all'altro, per quanto misera possa essere sul momento la sua situazione. Cristo ha preso l'ultimo posto nel mondo — la croce — e proprio con questa umiltà radicale ci ha redenti e costantemente ci aiuta. Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare. Questo compito è grazia. Quanto più uno s'adopera per gli altri, tanto più capirà e farà sua la parola di Cristo: “Siamo servi inutili” (Lc 17, 10). Egli riconosce infatti di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l'eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d'aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza. Fare, però, quanto ci è possibile con la forza di cui disponiamo, questo è il compito che mantiene il buon servo di Gesù Cristo sempre in movimento: “L'amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14) ».

 

Quanto servirebbe un bagno di umiltà, nell’anima di ciascuno che desideri farsi presente alle sue azioni!

Possiamo iniziare ad es. evitando di usare devozione e Chiesa quali mezzi di promozione, per apparire importanti e sottolineare un qualche rango “spirituale” più elevato di altri.

Atteggiamento fasullo in sé - causa forzature eccessive, sorde al nucleo interiore. Ma deleterio anche per l’edificazione d’una atmosfera di famiglia, o cultura dell’Incontro, cammino sinodale; così via.

Insistendo viceversa sull’attitudine [questa sì infallibile] di servizio reciproco, non rimarrà più tempo per farsi prendere dalla vanità, dalla disputa sulle precedenze, dalle discussioni, dal divario fra dire e fare.

 

Da dove può ripartire invece il teatrino del disamore, che non vitalizza bensì deprime il popolo di Dio?

Dagli imperituri scribi e farisei (v.2) sempre esagerati nello spirito di controllo.

Ebbene, secondo i Vangeli chi assume compiti ecclesiali direttivi non ha diritto ad alcun “fiocco”: è semplicemente «diacono» (v.11) dei fratelli.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Ti piacciono i fiocchi? Cosa dice la tua anima dei pavoni?

[…] L’apostolo Paolo ci invita ad accostare il Vangelo «non come parola di uomini, ma come è veramente, quale Parola di Dio» (1 Ts 2,13). In questo modo possiamo accogliere con fede gli ammonimenti che Gesù rivolge alla nostra coscienza, per assumere un comportamento conforme ad essi. Nel brano odierno, Egli rimprovera gli scribi e i farisei, che avevano nella comunità un ruolo di maestri, perché la loro condotta era apertamente in contrasto con l’insegnamento che proponevano agli altri con rigore. Gesù sottolinea che costoro «dicono e non fanno» (Mt 23,3); anzi, «legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4). La buona dottrina va accolta, ma rischia di essere smentita da una condotta incoerente. Per questo Gesù dice: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere» (Mt 23,3). L’atteggiamento di Gesù è esattamente l’opposto: Egli pratica per primo il comandamento dell’amore, che insegna a tutti, e può dire che esso è un peso leggero e soave proprio perché ci aiuta a portarlo insieme con Lui (cfr Mt 11,29-30).

Pensando ai maestri che opprimono la libertà altrui in nome della propria autorità, San Bonaventura indica chi è l’autentico Maestro, affermando: «Nessuno può insegnare e nemmeno operare, né raggiungere le verità conoscibili senza che sia presente il Figlio di Dio» (Sermo I de Tempore, Dom. XXII post Pentecosten, Opera omnia, IX, Quaracchi, 1901, 442). «Gesù siede sulla “cattedra” come il Mosè più grande, che estende l’Alleanza a tutti i popoli» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 89). È Lui il nostro vero e unico Maestro! Siamo, pertanto, chiamati a seguire il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, che esprime la verità del suo insegnamento attraverso la fedeltà alla volontà del Padre, attraverso il dono di se stesso. Scrive il beato Antonio Rosmini: «Il primo maestro forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli, perché [sia gli uni che gli altri] esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero» (Idea della Sapienza, 82, in: Introduzione alla filosofia, vol. II, Roma 1934, 143). Gesù condanna fermamente anche la vanagloria e osserva che operare «per essere ammirati dalla gente» (Mt 23,5) pone in balia dell’approvazione umana, insidiando i valori che fondano l’autenticità della persona.

Cari amici, il Signore Gesù si è presentato al mondo come servo, spogliando totalmente se stesso e abbassandosi fino a dare sulla croce la più eloquente lezione di umiltà e di amore. Dal suo esempio scaturisce la proposta di vita: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (Mt 23,11). Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima e preghiamo, in particolare, per quanti nella comunità cristiana sono chiamati al ministero dell’insegnamento, affinché possano sempre testimoniare con le opere le verità che trasmettono con la parola.

[Papa Benedetto, Angelus 30 ottobre 2011]

1. Con lo sguardo rivolto alla Sindone, desidero salutare cordialmente tutti voi, fedeli della Chiesa torinese. Saluto i pellegrini che durante il periodo di questa ostensione vengono da ogni parte del mondo per contemplare uno dei segni più sconvolgenti dell'amore sofferente del Redentore.

Entrando nel Duomo, che mostra ancora le ferite prodotte dal terribile incendio di un anno fa, mi sono fermato in adorazione davanti all'Eucaristia, il Sacramento che sta al centro delle attenzioni della Chiesa e che, sotto apparenze umili, custodisce la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo. Alla luce della presenza di Cristo in mezzo a noi, ho sostato poi davanti alla Sindone, il prezioso Lino che può esserci di aiuto per meglio capire il mistero dell'amore del Figlio di Dio per noi.

Davanti alla Sindone, immagine intensa e struggente di uno strazio inenarrabile, desidero rendere grazie al Signore per questo dono singolare, che domanda al credente attenzione amorosa e disponibilità piena alla sequela del Signore.

3. Ciò che soprattutto conta per il credente è che la Sindone è specchio del Vangelo. In effetti, se si riflette sul sacro Lino, non si può prescindere dalla considerazione che l'immagine in esso presente ha un rapporto così profondo con quanto i Vangeli raccontano della passione e morte di Gesù che ogni uomo sensibile si sente interiormente toccato e commosso nel contemplarla. Chi ad essa si avvicina è, altresì, consapevole che la Sindone non arresta in sé il cuore della gente, ma rimanda a Colui al cui servizio la Provvidenza amorosa del Padre l'ha posta. Pertanto, è giusto nutrire la consapevolezza della preziosità di questa immagine, che tutti vedono e nessuno per ora può spiegare. Per ogni persona pensosa essa è motivo di riflessioni profonde, che possono giungere a coinvolgere la vita.

La Sindone costituisce così un segno veramente singolare che rimanda a Gesù, la Parola vera del Padre, ed invita a modellare la propria esistenza su quella di Colui che ha dato se stesso per noi.

7. La Sindone è immagine del silenzio. C'è un silenzio tragico dell'incomunicabilità, che ha nella morte la sua massima espressione, e c'è il silenzio della fecondità, che è proprio di chi rinuncia a farsi sentire all'esterno per raggiungere nel profondo le radici della verità e della vita. La Sindone esprime non solo il silenzio della morte, ma anche il silenzio coraggioso e fecondo del superamento dell'effimero, grazie all'immersione totale nell'eterno presente di Dio. Essa offre così la commovente conferma del fatto che l'onnipotenza misericordiosa del nostro Dio non è arrestata da nessuna forza del male, ma sa anzi far concorrere al bene la stessa forza del male. Il nostro tempo ha bisogno di riscoprire la fecondità del silenzio, per superare la dissipazione dei suoni, delle immagini, delle chiacchiere che troppo spesso impediscono di sentire la voce di Dio.

[Papa Giovanni Paolo II, venerazione della Sindone, Torino 24 maggio 1998]

Il Vangelo di oggi (cfr Mt 23,1-12) è ambientato negli ultimi giorni della vita di Gesù, a Gerusalemme; giorni carichi di aspettative e anche di tensioni. Da una parte Gesù rivolge critiche severe agli scribi e ai farisei, dall’altra lascia importanti consegne ai cristiani di tutti i tempi, quindi anche a noi.

Egli dice alla folla: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che dicono». Questo sta a significare che essi hanno l’autorità di insegnare ciò che è conforme alla Legge di Dio. Tuttavia, subito dopo, Gesù aggiunge: «ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (v. 2-3). Fratelli e sorelle, un difetto frequente in quanti hanno un’autorità, sia autorità civile sia ecclesiastica, è quello di esigere dagli altri cose, anche giuste, che però loro non mettono in pratica in prima persona. Fanno la doppia vita. Dice Gesù: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4). Questo atteggiamento è un cattivo esercizio dell’autorità, che invece dovrebbe avere la sua prima forza proprio dal buon esempio. L’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso, sostenendoli nelle prove che si incontrano sulla via del bene. L’autorità è un aiuto, ma se viene esercitata male, diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità, e porta anche alla corruzione.

Gesù denuncia apertamente alcuni comportamenti negativi degli scribi e di alcuni farisei: «Si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze» (vv.6-7). Questa è una tentazione che corrisponde alla superbia umana e che non è sempre facile vincere. È l’atteggiamento di vivere solo per l’apparenza.

Poi Gesù dà le consegne ai suoi discepoli: «Non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. […] E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (vv. 8-11).

Noi discepoli di Gesù non dobbiamo cercare titoli di onore, di autorità o di supremazia. Io vi dico che a me personalmente addolora vedere persone che psicologicamente vivono correndo dietro alla vanità delle onorificenze. Noi, discepoli di Gesù non dobbiamo fare questo, poiché tra di noi ci dev’essere un atteggiamento semplice e fraterno. Siamo tutti fratelli e non dobbiamo in nessun modo sopraffare gli altri e guardarli dall’alto in basso. No. Siamo tutti fratelli. Se abbiamo ricevuto delle qualità dal Padre celeste, le dobbiamo mettere al servizio dei fratelli, e non approfittarne per la nostra soddisfazione e interesse personale. Non dobbiamo considerarci superiori agli altri; la modestia è essenziale per una esistenza che vuole essere conforme all’insegnamento di Gesù, il quale è mite e umile di cuore ed è venuto non per essere servito ma per servire.

La Vergine Maria, «umile e alta più che creatura» (Dante, Paradiso, XXXIII, 2), ci aiuti, con la sua materna intercessione, a rifuggire dall’orgoglio e dalla vanità, e ad essere miti e docili all’amore che viene da Dio, per il servizio dei nostri fratelli e per la loro gioia, che sarà anche la nostra.

[Papa Francesco, Angelus 5 novembre 2017]

Incontro esemplare e Vita al culmine sconosciuto

(Lc 6,36-38)

 

È possibile mettere il Vangelo sotto «Misura» esemplare - ad es. di Legge (retributiva) o di Primo Testamento e Tradizione?

No, non si costruirebbe Famiglia. E il culmine di questo genere di esperienza sarebbe appannaggio etnico o élitario.

Configurazione e proposta che partorirebbe ovunque un mondo grigio, pedissequo, fragile; incapace di dialogo e scoperte sconosciute.

 

Dopo essersi sentiti separati da una qualità di vita umanizzante e divina, solo la consapevolezza di riconciliazione può trasformare ambienti e persone.

Tale il Gesù vivo e attuato in comunità.

Egli immette i suoi intimi in un’esperienza nuova di comprensione fluida, senza orgoglio.

Senza appunto assumere atteggiamenti leziosi o ricalcati a fotocopia.

È allora che l'umiltà c’inonda senza sforzo, portando in vetta la Carità - nell'assetto celeste del Gratis che sposta lo sguardo.

 

Sopprimendo sopprimendo, gli artifici inesorabilmente chiudono la gioia di vivere.

La imbrigliano nei modi, nell’accentuazione senza fine degli sforzi - contro se stessi, e avversando il mondo altrui.

Convenzioni, doveri standard e reazioni, mai contengono le energie benevolenti, incisive, della crescita.

Nella vita dei Santi lo vediamo: ascoltarsi a fondo, lasciare che sia... e il perdono, centuplicano l’amore.

Esso diviene sorgente di gesti incredibili in favore del prossimo; nell’accorgersi accentuato, nella cura, nell'ospitalità gratuita, nel dono totale e a fondo perduto.

 

C’è sempre stato bisogno dell’apporto di energie e situazioni - anche intime - nuove, delle loro sorprese.

Non scartare le ingenuità altrui significa aver imparato ad accogliere le nostre stesse fragilità e opposizioni.

Il mondo inizia a cambiare quando ci si accetta, nell’esperienza della stima del Dio-con-noi.

Così impariamo a percepire Bellezza, invece che aridità e distacco: ciò che fa diventare la vita più intensa e insieme scorrevole.

 

Anche la conoscenza di Dio non è un bene di confisca o una scienza acquisita, già interiormente ed esteriormente pignorata.

Muove da un’azione e un’altra, incessantemente; si realizza in un Incontro sempre vivo, che non blocca né ci dissolve.

È inizio del mondo futuro; principio di un’avventura imprevedibile.

È Novità di Dio che crea un ambiente di Grazia - con possibilità enormi, che sprizzano da energie difformi.

Essa irrompe per sgretolare primati ed equilibri stagnanti.

Lo fa mediante un’impossibile apertura di credito - con una signoria di qualità e prospettive - le quali rigenerano e riattivano persone, famiglie, fraternità; il mondo intero.

Principio della Cattolicità, intesa come campo largo.

Perle della nuova Pastorale: che aiutano a non segnare confini.

 

Pasta lievitata. Non autoreferenziale.

 

 

[Lunedì 2.a sett. Quaresima, 17 marzo 2025]

Incontro esemplare e Vita al culmine sconosciuto

(Lc 6,36-38)

 

È possibile mettere il Vangelo sotto «Misura» esemplare - ad es. di Legge (retributiva) o di Primo Testamento e Tradizione?

No, non si costruirebbe Famiglia. E il culmine di questo genere di esperienza sarebbe appannaggio etnico o élitario.

Configurazione e proposta che partorirebbe ovunque un mondo grigio, pedissequo, fragile; incapace di dialogo e scoperte sconosciute.

 

Dopo essersi sentiti separati da una qualità di vita umanizzante e divina, solo la consapevolezza di riconciliazione può trasformare ambienti e persone.

Tale il Gesù vivo e attuato in comunità.

Egli immette i suoi intimi in un’esperienza nuova di comprensione fluida, priva di orgoglio - malgrado “devoto”.

Senza appunto assumere atteggiamenti leziosi o ricalcati a fotocopia.

È allora che l'umiltà c’inonda senza sforzo, portando in vetta la Carità: nell'assetto celeste del Gratis che sposta lo sguardo.

 

Sopprimendo sopprimendo, gli artifici chiudono inesorabilmente la gioia di vivere.

La imbrigliano nei modi, nell’accentuazione senza fine degli sforzi - contro se stessi, e avversando il mondo altrui.

Convenzioni, doveri standard e reazioni, mai contengono le energie benevolenti, incisive, della crescita.

Nella vita dei Santi lo vediamo: ascoltarsi a fondo, lasciare che sia... e il Perdono, centuplicano l’amore.

Esso diviene sorgente di gesti incredibili in favore del prossimo; nell’accorgersi accentuato, nella cura, nell'ospitalità gratuita, nel dono totale e a fondo perduto.

 

C’è sempre stato bisogno dell’apporto di energie e situazioni - anche intime - nuove, delle loro sorprese.

Non scartare le ingenuità altrui significa aver imparato ad accogliere le nostre stesse fragilità e opposizioni.

Il mondo inizia a cambiare quando ci si accetta, nell’esperienza della stima del Dio-Con-noi.

Così impariamo a percepire Bellezza, invece che aridità e distacco: ciò che fa diventare la vita più intensa e insieme scorrevole.

 

Anche la conoscenza di Dio non è un bene di confisca o una scienza acquisita, già interiormente ed esteriormente pignorata.

Muove da un’azione e un’altra, incessantemente; si realizza in un Incontro sempre vivo, che non blocca né dissolve la personalità di ciascuno.

 

Il criterio di accoglienza (pur di beni variegati per l'anima), il principio di remissione, coesistenza, comunione (anche di risorse molteplici, persino materiali) sono stati i principali catalizzatori della crescita.

Fin nelle prime chiese, il vettore della Misericordia anche sommaria, in cose spicciole, è stato la scaturigine e il senso di tutte le formule, di tutti i segni della stessa Liturgia nascente.

Il centro esistenziale e spirituale cui convergere.

 

Ecco la conciliazione degli attriti fra consuetudini e concezioni meno chiuse, fra campanili e tribù interne, tradizionalisti e avanguardisti; così via.

Nello Spirito di Provvidenza, ogni composizione non si configura come semplice opera di magnanimità propria di chi cerca di guardare sempre avanti.

È inizio del mondo futuro; principio di un’avventura imprevedibile e indicibile, anche da scapicollo.

E noi in tale Regno, d’improvviso, rifatti ex novo. Rinati; come scaturiti dall’umanità nuova, condizione dei figli autentici.

Generati ancora dal Padre, che accorda tutto e tutti: perché venuti a un franco contatto, nella Persona del Cristo.

 

Insomma, il Perdono cristiano non è il comune “guardare positivo”. Né ha a che fare con il cosiddetto “pensiero positivo”.

La tolleranza dei figli non è un semplicistico “andare oltre” in senso artificioso. Come facendo finta di nulla e chiudendo un occhio [in modo spicciolo, talora intimamente sprezzante].

Lo spirito di comprensione cui siamo chiamati non deriva da paternalismo buonista, che salva solo le maniere.

È Novità di Dio che crea un ambiente di Grazia - con possibilità enormi, che sprizzano da energie difformi.

Inedito che irrompe per sgretolare primati, equilibri stagnanti.

Lo fa mediante un’impossibile apertura di credito - con una signoria di qualità e prospettive.

Scenari che rigenerano e riattivano persone, famiglie, fraternità; il mondo intero.

Tutto affinché veniamo gratuitamente collocati nella posizione e reciprocità che mette in grado di rivelare il senso nascosto - sbalorditivo - dell’essere e della vocazione.

Il motivo stesso per cui siamo nati.

 

Per-dono è una restituzione in sovraggiunta di tutta la dignità perduta. Anzi, ben oltre.

Non solo ci rimette in piedi; non solo ricupera. Migliora e potenzia i lati spenti.

Trasforma i mediocri o coloro che si accostano pur avendo una differente sensibilità, un pesante bagaglio, e i senza voce... in battistrada e geniali inventori.

Perché ciò che ieri era impensato, domani sarà di chiarificazione e traino.

Sulla scia di visioni o attese differenti, le confusioni acquisteranno un senso.

Il diradarsi delle nebbie non si otterrà grazie ai cuori normali e arruolati, sempre indulgenti verso se stessi ma severissimi quando qualcuno tocca i loro interessi e automatismi abitudinari.

L’opera di guarigione, di recupero dell’essere disperso - la terapia dei problemi veri - scaturirà bensì per l’opera dei disprezzati e intrusi.

Scartati, disprezzati, eccentrici, malfermi - fuori d’ogni giro e prevedibilità.

Pasta lievitata. Non autoreferenziale.

 

Ecco gli autentici virtuosi. Principio della Cattolicità, intesa come campo largo.

Le Perle della nuova Pastorale: coloro che aiutano a non segnare troppi confini ideali.

 

«C’è una felice formula di San Vincenzo di Lérins che, mettendo a confronto l’essere umano in crescita e la Tradizione che si trasmette da una generazione all’altra, afferma che non si può conservare il “deposito della fede” senza farlo progredire: «consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età» (Commonitorium primum, 23,9) – “ut annis consolideturdilatetur temporesublimetur aetate”. Questo è lo stile del nostro cammino: le realtà, se non camminano, sono come le acque. Le realtà teologiche sono come l’acqua: se l’acqua non scorre ed è stantia è la prima a entrare in putrefazione. Una Chiesa stantia incomincia a essere putrefatta [...]

E qui vorrei precisare che anche sul concetto di “popolo di Dio” ci possono essere ermeneutiche rigide e antagoniste, rimanendo intrappolati nell’idea di una esclusività, di un privilegio, come accadde per l’interpretazione del concetto di “elezione” che i profeti hanno corretto, indicando come dovesse essere rettamente inteso. Non si tratta di un privilegio – essere popolo di Dio –, ma di un dono che qualcuno riceve … per sé? No: per tutti, il dono è per donarlo: questa è la vocazione […]

Perché vi dico queste cose? Perché nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace.

Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi – che saranno il 3, 4 o 5%, non di più. Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza».

[Papa Francesco, Discorso alla Diocesi di Roma 18 settembre 2021]

 

Dice il Tao Tê Ching (LIX):

«Quando nessuno conosce il suo culmine, egli può possedere il regno».

 

Vita di pura Fede nello Spirito.

È il “meccanismo” paradossale e inedito che fa valutare i crocevia della storia, scioglie i nodi delle vere questioni.

Non solo supera, piuttosto soppianta i momenti difficili - riportandoci al vero percorso.

E orienta la realtà al bene concreto; poliedrico, non unilaterale.

Facendo volare la stessa realtà nello stupore dello Spirito, che si scatena in modo più importante del solito - verso se stessa.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Nella tua comunità vedi che qualcuno pretende di requisire il dato di Fede, trasformandolo in dovere misurato, prevedibile?

Secondo te, quale descrizione dell’opera di Dio trasmette?

Viceversa, quale effetto inimmaginabile e fuori scala per normali propositi ha prodotto un tuo pur primo o minimo coinvolgimento nella vita di Fede-amore personale?

 

 

Perdono e Fede: Incontro vivo

 

Gratis eccentrico, in avanti: Sacramento dell’umanità come tale

(Lc 17,1-6)

 

La conoscenza di Dio non è un bene di confisca o una scienza acquisita e già pignorata: muove da un’azione e un’altra, incessantemente; si realizza in un Incontro sempre vivo, che non ci blocca né dissolve.

Tipica, l’esperienza dei «piccoli» [mikròi v.2]. Sin dalle prime comunità di fede, essi sono stati coloro cui mancavano sicurezze ed energie; instabili e senz’appoggio.

Da sempre, «Piccoli» sono gli incipienti; i nuovi, che hanno sentito parlare di fraternità cristiana, ma che talora sono costretti a mettersi in fila, da parte, o rinunciare al cammino.

Ma il criterio di accoglienza, tolleranza, comunione anche di beni materiali, è stato il primo e principale catalizzatore della crescita delle assemblee.

Addirittura la scaturigine e il senso di tutte le formule e segni della liturgia.

Il centro esistenziale e ideale cui convergere. Per una Fede proattiva e in se stessa trasformativa.

 

Nello Spirito del Maestro, anche per noi la conciliazione degli attriti non si configura come semplice opera di magnanimità.

È inizio del mondo futuro. Principio di un’avventura imprevedibile e indicibile. E noi con esso d’improvviso rinati: venuti a un franco contatto nel Cristo. Colui che non ci spegne affatto.

Di qui il Perdono cristiano dei figli, che non è… “guardare positivo”, e “chiudere un occhio”: piuttosto, Novità di Dio che crea un ambiente di Grazia, propulsivo, con possibilità enormi.

Forza che irrompe e lascia incontrare paradossalmente i poli oscuri, invece di scuoterli di dosso. Eliminando in modo genuino paragoni, parole e zavorre inutili, che bloccano l’Esodo trasparente.

Dinamica che guida all’indispensabile e imprescindibile: onde spostare lo sguardo. Insegnando ad accorgersi dei propri isterismi, conoscersi, affrontare l’ansia, il suo motivo; a gestire situazioni e momenti di crisi.

Virtù plasmabile che pone in ascolto intimo dell’essenza personale.

Quindi Empatia solida, larga, che introduce nuove energie; fa incontrare i propri stati profondi, perfino la vita standard… suscitando altri saperi, diverse prospettive, relazioni inattese.

Così senza troppa lotta ci rinnova, e argina la perdita di veracità [tipica, quella in favore delle maniere di circostanza]. Accentua capacità e gli orizzonti della Pace - sgretolando primati, equilibri paludosi.

La scoperta di nuovi versanti dell’essere che siamo, trasmette un senso di migliore completezza, quindi spontaneamente argina influssi esterni, scioglie pregiudizi, non fa agire su base emotiva, impulsiva.

Colloca piuttosto nella posizione che mette in grado di rivelare il senso nascosto e sbalorditivo dell’essere. Dispiegando l’orizzonte cruciale.

 

Attivare «Perdono» è gratuitamente una restituzione in sovraggiunta del proprio ventaglio caratteriale, di tutta la dignità perduta, e ben oltre.

Deponendo le sentenze, l’arte della tolleranza dilata lo sguardo [anche intimo]. Migliora e potenzia i lati spenti; quelli che noi stessi avevamo detestato.

In tal guisa eccentrica trasforma i considerati lontani o mediocri [mikroi] in battistrada, e geniali inventori. Perché ciò che ieri era impensato, domani sarà di chiarificazione e traino.

Le confusioni acquisteranno un senso - proprio grazie al pensiero delle menti in crisi, e per l’azione dei disprezzati, intrusi, fuori d’ogni giro e prevedibilità.

Vita di pura Fede nello Spirito: ossia, la fantasia dei “fiacchi”… al potere.

Perché è il meccanismo paradossale che fa valutare i crocevia della storia, attiva le passioni, crea condivisione, risolve i veri problemi.

E dunque soppianta in avanti i momenti difficili (riportandoci al vero percorso) orientando la realtà al bene concreto.

Facendola volare verso se stessa.

 

L’alternativa “vittoria-o-sconfitta” è falsa: bisogna uscirne. È in tale “vuoto” e Silenzio che Dio si fa strada.

Mistero della Presenza, che trabocca. Nuova Alleanza.

 

 

Accrescere la fede: vita noiosa, intimidita, o la porta della speranza

 

Forse anche a noi è stato inculcato che la fede bisogna chiederla, così Dio ce l’aumenta. Invece abbiamo voce in capitolo, ma non nel senso d’una avance da rivolgere al Cielo.

La Fede è dono, però nel senso di proposta e iniziativa relazionale, faccia a faccia; che chiede percezione accogliente. Quindi non cresce per caduta d’un pacchetto - come a precipizio, o per infusione dall’alto. Addirittura forzandola, e convincendo il Padre.

Non è neppure un semplice assenso legato al carattere bonario. Non è un bagaglio di nozioni che qualcuno ha e dimostra in modo giusto; altri meno, o affatto.

Nell’innamoramento si può essere più o meno coinvolti!

Fede non è credere che Dio esista, ma l’aderire a un suggerimento sorgivo che (senza imposizioni) ci guida a trascurare la reputazione.

La persona di Fede non bada a spese o rischi, anche per la vita altrui. Tiene in sospeso le costumanze particolari; non anteporre gli affetti di cerchia. Perdona senza limiti.

Spesso siamo d’accordo solo in parte e accettiamo qualcosina - magari fino a che l’amore non vada sino in fondo, o ci rimetta in discussione.

Così la testa, i vezzi, la concatenazione dei valori, e il piccolo mondo cui siamo legati.

 

Accrescere la Fede? Il Dono non è un regalo, ma un Appello.

Perciò Gesù neppure risponde a una richiesta tanto ridicola - ciononostante fa riflettere sui risultati dell’eventuale adesione.

Basterebbe un minimo coinvolgimento e nel mondo si produrrebbero risultati straordinari (v.6); in comunità, nelle famiglie e nella vita personale.

Realizzeremmo l’impossibile e importante. Si risolverebbero i veri problemi. Si trasformerebbero anche le azioni più semplici.

Ci sono poi grandi eventi piantati nel cuore di ogni uomo, che forse consideriamo irrealizzabili: ad es. la fratellanza universale, la vittoria sulla fame, una vita dignitosa e bella per tutti, un mondo e una Chiesa senza personaggi volatili, corrotti e vanitosi.

Siccome le consideriamo situazioni impossibili, neppure iniziamo a edificarle - subito ci lasciamo cadere le braccia.

Ma la maturazione è frutto contromano di lati segreti, non di armature mentali impermeabili.

Come diceva un premio Nobel: «Gli innocenti non sapevano che il loro progetto era impossibile, per questo lo realizzarono».

E non è che dopo una vita impiegata nel servizio - agli ordini del Principale - nell’aldilà finalmente comanderemo, sulla base del rango conquistato [sebbene anche questo forse ci sia stato trasmesso].

Uno dei prodigi che compie in noi la Fede in Cristo - qui e ora - è farci prendere coscienza della bellezza e della gioia di avere libertà di scendere dai piedistalli già identificati, per favorire la vita piena (di tutti).

E a “fine mese” - alla “resa dei conti” o alla “paga” - non diventeremo finalmente dei boss - almeno in cielo!

Perché Dio è Comunione, convivialità delle differenze; e non accetta lo schema servo-padrone, addirittura come premio.

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The school of faith is not a triumphal march but a journey marked daily by suffering and love, trials and faithfulness. Peter, who promised absolute fidelity, knew the bitterness and humiliation of denial:  the arrogant man learns the costly lesson of humility (Pope Benedict)
La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà (Papa Benedetto)
We are here touching the heart of the problem. In Holy Scripture and according to the evangelical categories, "alms" means in the first place an interior gift. It means the attitude of opening "to the other" (John Paul II)
Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro” (Giovanni Paolo II)
Jesus shows us how to face moments of difficulty and the most insidious of temptations by preserving in our hearts a peace that is neither detachment nor superhuman impassivity (Pope Francis)
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo (Papa Francesco)
If, in his prophecy about the shepherd, Ezekiel was aiming to restore unity among the dispersed tribes of Israel (cf. Ez 34: 22-24), here it is a question not only of the unification of a dispersed Israel but of the unification of all the children of God, of humanity - of the Church of Jews and of pagans [Pope Benedict]
Se Ezechiele nella sua profezia sul pastore aveva di mira il ripristino dell'unità tra le tribù disperse d'Israele (cfr Ez 34, 22-24), si tratta ora non solo più dell'unificazione dell'Israele disperso, ma dell'unificazione di tutti i figli di Dio, dell'umanità - della Chiesa di giudei e di pagani [Papa Benedetto]
St Teresa of Avila wrote: «the last thing we should do is to withdraw from our greatest good and blessing, which is the most sacred humanity of Our Lord Jesus Christ» (cf. The Interior Castle, 6, ch. 7). Therefore, only by believing in Christ, by remaining united to him, may the disciples, among whom we too are, continue their permanent action in history [Pope Benedict]
Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia [Papa Benedetto]
Just as he did during his earthly existence, so today the risen Jesus walks along the streets of our life and sees us immersed in our activities, with all our desires and our needs. In the midst of our everyday circumstances he continues to speak to us; he calls us to live our life with him, for only he is capable of satisfying our thirst for hope (Pope Benedict)
Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza (Papa Benedetto)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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